Ex oriente lux, ma sarà poi vero? Quindicesima parte

Può sembrare strano riprendere ora il discorso della presunta “luce da oriente”, soprattutto dopo
aver deciso di raccogliere tutte le tematiche archeologiche sotto il titolo della “Ahnenerbe
casalinga”, ma in realtà affronteremo la questione della “luce da oriente” sotto un’angolatura nuova
che non ha a che fare con la ricerca delle origini. La “luce” di cui parliamo stavolta, è quella
dell’intelletto. In sostanza, è vero che gli asiatici sono più intelligenti degli europei? Ed è vero che
nell’ambito dei bianchi caucasici gli ebrei sono il popolo più intelligente? O tutto questo non fa parte
piuttosto di quella serie di concezioni che ci sono state inoculate come delle tossine a partire dalla
sconfitta militare di settant’anni fa per far sì che l’uomo europeo avesse quanta meno stima possibile
di se stesso, accettasse senza troppe ribellioni il destino che gli è stato imposto, ieri di dipendenza e
servaggio, oggi di sparizione, sommerso dalle turbe allogene provenienti dal Terzo mondo?
Vediamo come nasce tutta la questione. Agli inizi del XX secolo, il ministero della pubblica istruzione
francese commissionò allo psicologo Alfred Binet la ricerca di un metodo per individuare gli studenti
con uno sviluppo intellettivo al disotto della media e che necessitavano di speciali programmi di
recupero. Binet elaborò una serie di test e una scala per la misurazione dell’intelligenza.
Successivamente, le ricerche di Binet furono studiate e riviste dagli psicologi americani
dell’università di Stanford, che svilupparono nuovi test e una scala modificata, la scala StanfordBinet, in modo da poterla applicare anche alla misurazione dell’intelligenza degli adulti.
In seguito a ciò e all’uso sistematico dei test d’intelligenza, sono saltate fuori parecchie cose. Gli
Stati Uniti, lo sappiamo, hanno una popolazione razzialmente mista; questo ha però almeno il
vantaggio di renderli un “laboratorio” ideale per misurare le differenze razziali.
Si vide che, relativamente al quoziente d’intelligenza, c’è una forte disomogeneità riguardo alla
razza. Considerato 100 il valore medio dell’intelligenza della popolazione bianca caucasica, gli
afroamericani si attestano a 85, mentre gli americani di origine asiatica (cinese e giapponese)
salgono a 105.
Per quanto riguarda gli ebrei, invece, la presunzione di una loro superiorità intellettiva rispetto alla
popolazione indoeuropea non si basa su ricerche statistiche quantitative, ma sul fatto che questa
etnia ha avuto nella cultura “occidentale” (prescindiamo ora da quanto sia scorretto parlare di
“Occidente”) un peso incomparabilmente superiore alla sua consistenza demografica: creazioni
ebraiche sono il cristianesimo, il marxismo, la psicanalisi, l’antropologia culturale, la teoria della
relatività, l’arte moderna e via dicendo, senza contare il fatto che attraverso Hollywood e il sistema
mediatico americano, oggi gli ebrei hanno un controllo larghissimo sulla visione del mondo e le
emozioni della gente, sembra proprio che l’uomo “occidentale” non possa fare altro che “pensare
ebraico”, ne sia consapevole o no, e soprattutto se non ne è consapevole.
Non è obiettivamente possibile sottoporre a test d’intelligenza tutti i sette miliardi di individui
zoologicamente collocati nella specie homo sapiens che attualmente abitano questo pianeta, e
dobbiamo ricorrere a un procedimento indiretto, il confronto fra le diverse culture cui hanno dato
vita, partendo dal principio che persone intelligenti fanno cose intelligenti e persone stupide fanno
cose stupide.
C’è un’obiezione importante che va presa in considerazione: tutto ciò potrebbe essere il prodotto di
fattori non biologici e genetici (quindi “razziali”) ma culturali e ambientali; i neri americani nella
Fabio Calabrese
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media (con possibili eccezioni che sono arrivate fino alla presidenza degli Stati Uniti) occupano
posizioni socialmente inferiori a quelle della popolazione bianca.
Il problema non è di facile soluzione, infatti, se è vero che i ragazzi afroamericani hanno minori
opportunità educative dei loro coetanei bianchi, è anche vero che queste ultime possono essere una
conseguenza della maggiore intelligenza dei genitori bianchi, e i loro figli ne beneficeranno sia per
via genetica (ereditandone i cromosomi) sia per via culturale-ambientale.
Per i democratici, vincolati dal DOGMA dell’uguaglianza degli uomini e dell’inesistenza delle razze,
la spiegazione si riduce ai soli fattori culturali-ambientali; beninteso, nei rari casi in cui ammettono
che questa differenza esiste e non cercano di negare semplicemente la realtà dei fatti e di impedire
alla gente di conoscerla, ed è questa la strategia “democratica” più frequente.
Un modo realmente geniale di risolvere la questione è stato trovato dallo psicologo Arthur Jensen.
Come è noto, gli afroamericani non sono dei neri “puri” ma hanno all’incirca un 25% di geni
“bianchi” frutto di vari rimescolamenti razziali avvenuti dall’epoca della schiavitù fino a oggi. Lui
lavorò con ragazzi afroamericani che suddivise in tre gruppi, a seconda che si avvicinassero di più al
nero africano puro, fossero in una situazione intermedia o avessero caratteristiche maggiormente
“bianche”. Costoro provenivano tutti dal medesimo ambiente sociale ed erano tutti considerati
“neri”; in questo modo, i fattori ambientali venivano, come si dice nel gergo scientifico,
“randomizzati” ed eventuali differenze sarebbero state riconducibili solo alla base genetica. I
risultati furono chiarissimi: tanto maggiore era la proporzione di geni “bianchi”, tanto più il gruppo
si rivelava intelligente.
Bisogna notare che Arthur Jensen non era per nulla un razzista tipo Ku Kux Klan; al contrario, aveva
iniziato le sue ricerche allo scopo di dimostrare che l’inferiorità intellettiva dei neri era riducibile
interamente a fattori ambientali e sociali, ma le evidenze sperimentali gli hanno fatto cambiare idea.
Non solo, ma egli pubblicò i risultati delle sue ricerche nella convinzione di rendere un servizio alla
comunità nera, evidenziando che i suoi ragazzi avevano bisogno di piani educativi speciali per
competere coi loro coetanei bianchi su un piano di parità. Nulla da fare, l’aver infranto il dogma
democratico dell’uguaglianza degli uomini, l’averne dimostrato la falsità, era una colpa inespiabile.
Non soltanto la sua carriera accademica è stata spazzata via, ma nel corso degli anni ha subito vari
attentati coi quali si è cercato di eliminarlo, e si è dovuto pagare guardie del corpo per proteggersi
(intendo pagare DI SUA TASCA, che volete? Non è mica Saviano!).
Un altro tipo di verifica viene dallo studio dei ragazzi di colore adottati da famiglie bianche, anche in
questo caso il responso è chiarissimo: costoro hanno un livello intellettivo vicino a quello dei genitori
naturali, non di quelli adottivi. Ciò è stato recentemente evidenziato anche da un drammatico fatto di
cronaca: un ragazzo afroamericano adottato da una famiglia bianca che avrebbe ucciso i genitori
adottivi per motivi futili, ha ottenuto l’infermità mentale, perché con un quoziente intellettivo troppo
basso per rendersi conto della gravità del suo gesto. Prepariamoci: è il tipo di situazione che le
adozioni internazionali provocheranno sempre più spesso anche da noi, e sappiamo che la giustizia
italiana è molto più permissiva di quella statunitense, tranne che verso chi esercita il diritto di
autodifesa o veste una divisa.
Gli afroamericani, l’abbiamo visto, non sono dei neri “puri”, nell’Africa subsahariana il livello
intellettivo medio scende a un misero 70. 70, per la cronaca, è considerato lo spartiacque tra
normalità e ritardo mentale. Dal momento che esso è il valore medio del Q. I. della popolazione,
metà di essa sarà più o meno al disopra e metà al disotto di tale valore. Almeno rispetto al nostri
standard, metà di loro rientrano nel ritardo mentale. Questa è la vera realtà delle “risorse” che
piacciono tanto alla sinistra e che l’immigrazione ci porta in casa.
Fabio Calabrese
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In questo caso, vediamo che i conti tornano perfettamente: il basso livello intellettivo dei neri
africani coincide pienamente con il fatto che l’Africa sotto il Sahara, l’Africa nera non ha prodotto
alcuna civiltà, è rimasta al livello del paleolitico fino all’arrivo dei coloni bianchi nel XIX secolo, ma,
per quanto riguarda ebrei e asiatici, la loro presunta superiorità intellettiva rispetto all’indoeuropeo,
i conti non tornano.
Cominciamo con gli ebrei. La cristianizzazione dell’Europa ha prodotto un’oggettiva
sopravvalutazione del “popolo eletto”, del “popolo di Gesù”. Non esiste un libro di storia antica che
non dedichi almeno un capitolo agli ebrei, ma fate una prova molto semplice: andate a vedere la
parte iconografica; a parte le ricostruzioni più o meno fantasiose dell’arca dell’alleanza (che nessuno
in concreto ha mai visto), vi accorgete che qualsiasi oggetto di cui sono riportate le foto, non una
ricostruzione immaginosa: vasi, statuette, bassorilievi, qualunque cosa, sono cananei, filistei, fenici e
via dicendo, di realmente ebreo non c’è neppure un coccio di vaso. D’altra parte, la loro sterilità
creativa la ammettono loro stessi, è la bibbia a raccontarci che il tempio di Gerusalemme, il centro
della loro religione, Salomone lo fece costruire dai Fenici.
Non è tutto, perché la bibbia ci descrive l’Israele dell’epoca di Salomone come almeno una media
potenza dell’area mediorientale. Ebbene noi troviamo su una stele egizia un ambiguo riferimento che
forse parla di Israele e forse di tutt’altro; in compenso, non troviamo nessun riferimento a Israele nei
testi fenici, ittiti, assiri, babilonesi, persiani. Come è possibile che dei vicini dell’antico regno
ebraico, nessuno si sia accorto che esso esistesse? O forse quel che la bibbia ci racconta in
proposito, non è che una fanfaronata.
A proposito, sapete cosa significa “bibbia”? Questa parola viene dal greco, ed è un neutro plurale “ta
biblia”, “i libri”. La bibbia non è “il libro sacro” degli antichi ebrei, è TUTTA LA LORO
LETTERATURA, una cosa che francamente scompare se la confrontiamo con quanto ci hanno
tramandato la letteratura greca, quella latina, ma anche ad esempio, quella mesopotamica resa
accessibile dalla traduzione delle tavolette cuneiformi.
Francamente è difficile non condividere quanto dice Rudolf Steiner in Principi di formazione del
carattere, là dove depreca “La fantasia che esista un popolo scelto da un dio, superiore a ogni altro,
e che ad esso ci si debba inchinare con deferenza. Questa idea è falsa ed offende le grandi civiltà che
dimostrarono la loro grandezza con i frutti e con gli effetti, non con l’arroganza di una pretesa”.
La storia dell’ebraismo antico, dunque, non ci dà alcun modo di scorgere la benché minima traccia di
questa presunta intelligenza superiore, ma cosa possiamo dire di quello moderno?
Durante il medioevo, il fatto che gli Europei cristiani abbiano lasciato nelle mani degli ebrei la
pratica del prestito a interesse, li ha messi nelle condizioni di acquisire un potere spropositato
quando, con la rivoluzione industriale, ha acquisito un’enorme importanza il controllo dei flussi di
denaro. A ciò si aggiungono il sentimento di rivalsa contro i “gentili”, la mancanza di scrupoli e lo
spirito di complicità reciproca tra correligionari. Intelligenza, o piuttosto la furbizia di un mercante
di tappeti?
Se noi andiamo a esaminare da vicino i contributi che costoro hanno dato alla cultura europea, non
si può fare a meno di ridimensionarli considerevolmente, oppure mettere in luce il fatto che questi
ultimi sono andati sistematicamente nella direzione della sua disgregazione, piuttosto che
rappresentare acquisizioni positive.
Di Marx e del marxismo, quasi non varrebbe la pena di parlarne, tanto è evidente che l’utopia
“socialista” dell’uomo di Treviri si è concretizzata in una mostruosità sanguinaria che è riuscita a
dare a milioni di uomini solo terrore, miseria, oppressione e morte, a togliere loro sia il benessere sia
Fabio Calabrese
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la libertà, sostituendo il capitalismo con una casta di feroci autocrati, spietati quanto inefficienti. Il
rapido crollo nel 1989-91 dell’impero sovietico, non per un’aggressione esterna ma per implosione
interna, di questo colosso deforme schiacciato sotto il suo stesso peso, rappresenta un evento inedito
nella storia umana. Io ho dedicato un saggio diviso in due articoli pubblicati sulle pagine di
“Ereticamente”, La mutazione genetica, ad analizzare sia questo fenomeno senza precedenti storici,
sia il progressivo allontanamento della sinistra “rossa” dalle classi lavoratrici, e il tradimento delle
stesse, mettendo in evidenza che ciò, in definitiva, non ha rappresentato altro che l’attuazione delle
ingannevoli idee di Marx.
Parliamo dell’altro illustre “rabbino” le cui idee hanno influenzato profondamente la cultura
contemporanea, Sigmund Freud. Qualcuno ha detto che le tre grandi rivoluzioni scientifiche che
hanno caratterizzato la nostra epoca sono state tre grandi richiami alla modestia, e sono state quella
di Copernico che avrebbe tolto all’uomo l’illusione di essere il centro dell’universo, quella di Darwin
che gli avrebbe tolto l’illusione di essere il frutto di una creazione speciale, e infine quella di Freud
che gli avrebbe tolto anche l’illusione di essere un essere razionale. Questa affermazione è notissima
e si trova citata spesso. Quello che è meno noto, e che le toglie parecchio valore, però, è il fatto che
a farla sia stato lo stesso Freud che, evidentemente, mettendosi su di un piedistallo accanto a
Copernico e a Darwin, ha dimostrato che il richiamo alla modestia non intendeva certo applicarlo a
se stesso.
La presunzione, il più delle volte, è un tratto caratteristico delle personalità mediocri, che in fondo
sono consapevoli che se non fossero esse stesse a incensarsi, non lo farebbe nessun altro. La
biografia di Freud rivela un uomo dal carattere incredibilmente arrogante e dispotico: aveva
organizzato il movimento psicanalitico come un partito o una setta all’interno della quale vigeva la
più rigida ortodossia: sono noti gli scontri, culminati con espulsioni e scomuniche, che Freud ebbe
con quei suoi discepoli che osavano mostrare una sia pur minima originalità di pensiero, tra questi,
Alfred Adler e soprattutto Carl Gustav Jung, che inizialmente Freud aveva designato come suo
delfino.
Tuttavia, questo è ancora nulla. Qualche anno fa, è stato pubblicato un libro che io penso tutti
dovrebbero leggere, Il crepuscolo di un idolo, smantellare le favole freudiane di Michel Onfray:
L’autore, laureato in filosofia alla Sorbona, ha avuto “un’educazione” a base di marxismo,
psicanalisi, antropologia culturale, Freud, Lacan, scuola di Francoforte, noveaux philosopes, e ha
avuto modo di constatarne tutti i limiti. Il suo libro inchiesta sulla psicanalisi non ne lascia in piedi
nulla. Freud era un ciarlatano privo di qualsiasi deontologia professionale il cui scopo dichiarato era
solo quello di arricchirsi a spese dei pazienti, nella sua concezione non c’è nulla di originale, ma idee
rubate ai colleghi Pierre Janet (che formulò prima di lui il concetto di inconscio) e Josef Breuer a cui
scippò oltre alla pratica delle sedute sul lettino, il termine stesso di psicanalisi con cui la sua opera
sarebbe stata identificata.
La psicanalisi freudiana non risponde neppure ai criteri minimi della metodologia scientifica, la
verificabilità e ripetibilità degli esperimenti. Come i maghi, i ciarlatani, i santoni, i truffatori di ogni
epoca, Freud vuole che gli si creda semplicemente sulla parola. E’ un peccato che Onfray non lo citi,
ma non si può fare a meno di ricordare Karl Popper che in Congetture e confutazioni ha indicato
proprio la psicanalisi fra le dottrine pseudo-scientifiche che non rispondono ai criteri minimi di
scientificità, assieme all’astrologia E AL MARXISMO.
Non basta, perché Onfray ci rivela che Freud ha falsificato i protocolli delle sedute con i suoi
pazienti, inventandosi guarigioni mai avvenute. In realtà, non risulta che la psicanalisi abbia mai
guarito nessuno. In compenso, pare che Freud sia stato responsabile della morte di almeno quattro
dei suoi pazienti, attribuendo a isteria quelli che erano invece i sintomi di malattie fisiche, e
sconsigliando o non permettendo loro di ricorrere a cure efficaci.
Fabio Calabrese
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Sicuramente meno noto di Marx e Freud, è Claude Levi Strauss fondatore dell’antropologia
culturale, perché ha lavorato in un campo molto più specialistico, si tratta tuttavia di un altro ebreo
“di genio” il cui lavoro come quello dei suoi due illustri predecessori, esaminato da vicino si rivela
solo fuffa, inganno. Diciamo subito che l’antropologia culturale non è una scienza, non certo più di
quanto lo sia la psicanalisi, ma un’ideologia che si basa su due presupposti che non possono essere
messi in discussione per quanto l’esperienza li contraddica.
Il primo di essi è che non esistono popoli ma “culture”, nel senso che ciò che fonda le comunità
umane non sono i legami di sangue, ma unicamente ciò che è appreso, le usanze, le tradizioni, i
rituali, la lingua. Da questo lato, Levi Strauss, pur essendosi occupato di “culture extraoccidentali”
di cui a ogni modo ha inteso negare la primitività, è assieme a Marx responsabile di aver dato vita a
quella malattia tipicamente occidentale che Alessandro Mezzano ha così definito in un suo scritto
recente che ho avuto già il piacere di citare in Una Ahnenerbe casalinga, ventesima parte:
“Un razzismo inespresso la cui base non è la difesa del corpo fisico di una stirpe, ma quella
intellettuale di una civilizzazione esteriore in cui gli occidentali hanno fatto risiedere il significato
della loro esistenza”.
L’altro presupposto, l’altro DOGMA dell’antropologia culturale è la non distinguibilità tra
conoscenze e usi. In altre parole: se uno di noi si ammala e si rivolge a un medico, mentre nelle
stesse circostanze un africano o un isolano della Nuova Guinea si rivolge a uno stregone e gli
commissiona un esorcismo, questo non significa che noi abbiamo accesso a terapie efficaci derivate
da ormai secoli di ricerca e indagine dei fenomeni naturali, e l’altro no, può ricevere soltanto il
temporaneo sollievo dell’effetto placebo, dell’illusione di essere curato, no, significa solo che noi
abbiamo certe usanze e lui ne ha altre.
Ora, si vede bene che “le idee” dell’antropologia culturale sono una panoplia di armi puntate contro
quello che si chiama eurocentrismo, contro la percezione dell’uomo europeo di appartenere a una
civiltà superiore.
Si può ricordare una recente intervista rilasciata da Luigi Luca Cavalli-Sforza, nella quale il
ricercatore italiano ha detto quasi di sfuggita la verità ovvia: “Etnia e razza sono praticamente la
stessa cosa”:
Ma come? Levi Strauss e discepoli hanno impiegato decenni a persuaderci che quello di etnia è un
concetto culturale, che attiene al dominio dell’ambiente e dell’apprendimento e non ha nulla a che
fare con la razza, e ora costui con una semplice frasetta, con un colpo di scopa, spazza via decenni di
elaborate ragnatele?
Parlando di Levi Strauss, ne viene subito in mente un altro (in questo caso Levi era il nome e Strauss
il cognome), un imprenditore che, avendo notato che i cercatori d’oro negli USA, che stavano tutto il
giorno inginocchiati ad grattare il suolo, consumavano i pantaloni molto in fretta, pensò di
confezionarglieli con una robusta tela che si usava per le vele o la copertura dei carri conestoga, e
su questa trovata fondò un impero commerciale. Non si trattava ovviamente di genialità, ma di una
furbata da mercante, tuttavia è innegabile che inventando i jeans, costui diede all’umanità un
contributo molto maggiore di quello del suo quasi omonimo Claude.
In realtà però anche l’invenzione dei jeans non si è rivelata per nulla così innocente come potrebbe
sembrare a prima vista, perché questi pantaloni hanno finito per diventare un simbolo di eversione,
di ribellione giovanile della “gioventù bruciata”, e la loro diffusione planetaria è andata di pari passo
con l’americanizzazione del mondo intero. Sembrerebbe una metafora perfetta del tocco dei nuovi re
Mida circoncisi che hanno il potere di trasformare in oro, cioè di monetizzare tutto ciò che toccano,
Fabio Calabrese
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un oro da cui spande un sottile (e a volte nemmeno tanto sottile) miasma di corruzione.
Siamo a metà del guado, forse nemmeno a metà, perché non abbiamo ancora finito di analizzare i
contributi dati dall’ “intelligenza” ebraica alla nostra cultura per capirne il reale significato, resta
quanto meno da parlare di Einstein e della teoria della relatività, nonché del contributo ebraico
all’arte moderna e poiché, lo sapete, io sono anche un appassionato e un autore di fantascienza,
vorrei dirvi pure due parole riguardo a Isaac Asimov e alla centralità che questo autore sembra aver
assunto in questo genere letterario.
E resta naturalmente aperto il discorso su quei cinque punti in più di quoziente d’intelligenza che gli
asiatici estremo-orientali sembrerebbero avere rispetto agli occidentali di origine europea, ma per
non rendere questo articolo eccessivamente chilometrico, rimandiamo il discorso alla prossima volta.
Fabio Calabrese
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