novembre-dicembre - Parola alla difesa

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2 DUEMILASEDICI novembre-dicembre
PAROLA alla DIFESA
PAROLA
alla DIFESA
rivista bimestrale diretta da
Beniamino Migliucci, Giorgio Spangher, Giovanni Flora
2
www.parolaalladifesa.it
DUEMILASEDICI
novembre-dicembre
Comitato scientifico:
A. De Caro, F. Dinacci, O. Dominioni, G. Fiandaca, L. Filippi, A. Gaito,
M. Gallo, A. Gargani, G. Garuti, A. Giarda, F. Giunta, G. Insolera,
A. Lanzi, V. Maiello, V. Manes, A. Marandola, N. Mazzacuva,
G. Pecorella, D. Siracusano, L. Stortoni
Pacini
Indice
Editoriale
Andrea Mascherin, L’avvocato e la verità................................................................p.203
Opinioni
Giovanni Flora, Contro-riflessioni sul “caso Taricco”...............................................»207
Piero Gualtieri, Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo..... »213
Fabio Alonzi, La relazione governativa sull’applicazione delle misure cautelari:
un documento dai toni troppo entusiastici, basato su dati poco attendibili............»231
Giorgio Spangher, I tempi delle indagini preliminari: i “no” della Procura..............»243
Dal Parlamento / Al Parlamento
Roberto Acquaroli, La proposta di legge sul cyberbullismo: la censura corre sul web.... »247
Ottavia Murro, “Nuove” ipotesi di estinzione del reato: le condotte riparatorie
nel d.d.l. Orlando...................................................................................................»255
Carlotta Cassani, Riflessioni sulle nuove norme in tema di “caporalato”
e sfruttamento del lavoro........................................................................................»263
Dalle Corti
Cass., Sez. Un., 21 luglio 2016, n. 38670 con nota di Luigi Ludovici - Le Sezioni
Unite riconoscono la cognizione del giudice del riesame sulle questioni inerenti la
pignorabilità del bene sottoposto a sequestro conservativo......................................»273
Cass., Sez. IV, 11 maggio 2016, n. 23283, con nota di Federico Emiliani, La Cassazione
detta alcune “linee guida” in tema di responsabilità medica..................................»277
Cass. pen., Sez. VI, 7 luglio 2016, n. 28299, con nota di Valeria Raimondo, Responsabilità “231”: quando è ignoto l’autore del reato presupposto................................»285
Cass. pen., Sez. III, 22 giugno 2016, n. 25815, con nota di Antonella Ciraulo,
Omesso versamento iva e divieto di bis in idem: la Cassazione esclude la diretta
applicazione della Cedu.........................................................................................»291
Cass. pen., sez. III, 29 settembre 2016, n. 40650, con nota di Gabriele AronicA, La
“particolare tenuità del fatto” tra reato abituale, abitualità nel reato e “medesima
indole”...................................................................................................................»299
Cass. pen., Sez. Unite, 28 aprile 2016, n. 40517, con nota di Luana granozio, Un
principio che travalica il quesito e offre soluzioni de iure condendo......................»311
Focus / Dibattiti
Omicidio stradale e lesioni personali stradali
Luci (poche) e ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
a cura di Marco Maria Monaco
Breve commento all’introduzione delle nuove fattispecie di omicidio stradale e lesioni personali stradali, di Alì Abukar Ayo – Le criticità dei profili probatori della
legge n. 41 del 2016, di Filippo Giunchedi – L’arresto in flagranza in ordine ai
nuovi reati di omicidio stradale e lesioni stradali gravi o gravissime, di Katia La
Regina – Le linee guida sull’applicazione delle norme relative all’omicidio stradale
nelle circolari adottate dagli uffici di Procura, di Eugenio Albamonte – Prime perplessità in tema di omicidio stradale, di Gregorio Equizi – Le misure cautelari in
caso di omicidio e lesioni stradali, di Costantino De Robbio – L’omicidio stradale e
prova dello stato di ebbrezza, di Luigi Ludovici – Omicidio stradale, aspetti tecnici
e criticità. Il punto di vista di una tossicologa forense, di Valeria Ottaviano – L’identificazione genetica e il reato di omicidio stradale, di Emiliano Giardina – Omicidio
stradale e lesioni personali stradali. Le riflessioni del consulente tecnico, di Marco
Marcon...................................................................................................................»315
Stanza di Gaetano................................................................................................»353
di Gaetano Pecorella
L’avvocato
e la verità
Editoriale
Andrea Mascherin
La verità “assoluta” non è di questo mondo.
Potremmo partire da questa affermazione, sicuramente scontata, per puntare l’obiettivo
su quello che è il tema in oggetto.
Di certo non può trattarsi del concetto trascendente della verità, e dunque non può che
trattarsi di quella verità che, attraverso il rito processuale penale, declinandosi progressivamente in regole, doveri, diritti delle parti, giunge all’approdo finale della sentenza.
Ad avviso di chi scrive, infatti, la verità del processo non è solo quella che risulterà
essere la ricostruzione finale del fatto, ma è essa stessa progressione di regole, di cui la
sentenza è il segmento di chiusura.
È questo un ragionamento di partenza che porta ad affrontare una tematica spesso dibattuta anche in giurisprudenza, ovvero quale sia il rapporto tra verità storica da accertarsi
ed il peso delle regole processuali.
Dalla risposta che si finirà con il dare al quesito, ne deriverà una miglior descrizione del
rapporto tra verità e ruolo dell’avvocato.
Mi è gradito, al proposito, richiamare una esperienza professionale di molti anni fa, era
infatti entrato da poco in vigore il “nuovo” rito penale di stampo accusatorio.
Un giovane cliente, appena maggiorenne, era imputato di danneggiamento per aver rigato con un puntello l’autovettura di un amico “concorrente in amore”, con il quale aveva
peraltro litigato la sera prima del fatto reato.
In sede di indagini preliminari la polizia giudiziaria aveva raccolto le sommarie informazioni della parte offesa e di altri tre ragazzi, tutti affermavano di aver visto con i loro
occhi l’imputato rigare la vettura e darsi alla fuga.
L’imputato “confessò” al proprio avvocato di essere effettivamente responsabile dell’addebito, ma aggiunse di essere assolutamente certo di non essere stato visto, e che dunque
i soggetti sentiti dalla polizia giudiziaria in realtà avevano mentito affermando di averlo
visto “all’opera”, nella certezza che fosse stato lui.
L’avvocato si trovò dunque di fronte ad una verità storica riconosciuta dal proprio cliente, sicuramente responsabile del fatto, che avrebbe trovato però la propria affermazione
processuale per mezzo di testimonianze certamente false, dunque in violazione di fondamentali regole del processo.
Andrea Mascherin
204
Il difensore scelse di celebrare il dibattimento, e dal controesame dei testi d’accusa
emersero inevitabili e tra di loro non sanabili contraddizioni nella ricostruzione particolareggiata del fatto.
Un caso, quello illustrato, che ci pone davanti al quesito se la, inevitabile, sentenza di
assoluzione che ne seguì fosse “giusta”, perché rispettosa delle regole del processo, od
“ingiusta” perché contraria alla verità “storica”.
La risposta passa attraverso un altro quesito, ovvero quale sia stato il principio salvaguardato dall’avvocato con la propria scelta difensiva, e quanto valga questo principio.
Il valore salvaguardato dal difensore è di tutta evidenza, anche per i non addetti ai lavori, quello della primazia della regola sul fine, ovvero nel giusto processo il fine (verità
storica), non deve mai giustificare i mezzi (violazione dei diritto alla difesa).
Diversamente ragionando, bisognerebbe affermare che, ad esempio, ben può farsi uso
nel processo di falsi testimoni per giungere ad una condanna “giusta”, il che a seguire
vorrebbe dire che qualsiasi cittadino verrebbe privato della relativa tutela processuale, e a
quel punto bisognerebbe anche riconoscere che il difensore, convinto della innocenza del
proprio cliente ed alla ricerca della sentenza di assoluzione, secondo lui “giusta”, dovrebbe
poter utilizzare false prove.
E se così fosse, perchè non ricorrere a carcerazioni ingiuste per spingere l’indagato a
confessioni secondo “verità”, o perchè, da parte dell’imputato, non far giungere ai testimoni messaggi minacciosi, dunque ingiusti, ma aventi il fine di “favorire” una deposizione
comunque ”secondo verità”.
Nel medio evo, e non solo, la tortura era un mezzo istruttorio lecito per giungere ad
una confessione “giusta”, il fine, appunto, giustificava il mezzo.
Nelle righe che precedono si è voluto esasperare il concetto, ma la deduzione che ne consegue è che sia certamente preferibile, in una democrazia avanzata, che il processo goda di regole a tutela del cittadino, regole che devono servire, prima d’altro, ad alzare l’asticella dell’errore giudiziario, a rendere tecnicamente più difficile che un giudice condanni un innocente.
Semplificando si usa dire, meglio un colpevole fuori che un innocente dentro, è forse
una banalizzazione, che però non può che essere condivisa.
Il rispetto delle regole ovviamente è anche a tutela della parte offesa, ed anche di colui
che viene condannato, anche la condanna infatti, attraverso il rispetto dei principi processuali, deve essere “giusta”.
Se così è, va rifiutata quella visione dell’avvocato che intralcia lo svolgersi del processo
con cavilli vari, allontanando così il giudice da quello che altrimenti sarebbe un poco faticoso approdo alla verità.
Va spiegato cioè, che il difensore, assistendo l’imputato o la parte civile, difende il processo e deve farsi per primo garante delle regole dello stesso.
Garante delle regole significa che il difensore dovrà attenersi a importanti principi deontologici, quali ad esempio il divieto di introdurre prove false, dovrà mantenere assoluta
autonomia tecnica dal proprio cliente, dovrà essere indipendente dal pubblico ministero
e dal giudice, non dovrà mai compromettere la difesa utilizzando percorsi mediatici alla
ricerca di notorietà.
L’avvocato e la verità
In fondo potrebbe ritenersi che il rapporto tra la verità e l’avvocato si fondi nel rapporto
tra avvocato e giusto processo.
Realizzare il giusto processo ed essere corretti esecutori e custodi dello stesso, significa
in qualche modo rispettare il dovere di verità.
Questo vale anche con riferimento alla c.d. ragionevole durata del processo, troppo
spesso si dimentica che la stessa Corte Costituzionale si è espressa non nel senso della ragionevole durata del processo, ma nel senso della ragionevole durata del giusto processo.
Ancora una volta torna il termine di giusto processo, quindi di processo nel rispetto
delle regole, non come mezzo fine a se stesso, ma come miglior strumento per giungere
a quel convincimento del giudice parametrato dal nostro codice di procedura penale sul
metro del ragionevole dubbio.
Il tema della durata del processo ci porta ad analizzare l’altro polo di equilibrio nel
rapporto tra l’avvocato e la verità, il primo, come abbiamo visto è la difesa delle regole del
giusto processo, l’altro è il dovere di fedeltà al cliente.
Evidente che il dovere di fedeltà non potrà mai sconfinare nella violazione della legge
e del codice deontologico, ma è anche da dirsi che tutti gli strumenti difensivi legittimi
vanno usati nell’interesse del difeso.
Esempio fra tutti, la prescrizione.
Troppo spesso si dimentica come la prescrizione sia uno strumento di civiltà che vuole
sottrarre il cittadino, fino a prova contraria non colpevole, alla pendenza “infinita” a suo
carico di un procedimento penale, il che vuol dire evitare un pericolo di abuso dello Stato
sul cittadino.
Ebbene, l’avvocato adempirà al proprio dovere di fedeltà, senza violare il dovere di
verità, se utilizzerà, secondo le regole, anche questo istituto, dimostrandosi indipendente
da qualsiasi eventuale pressione del giudice.
La “breve” durata del processo non può mai andare a scapito dell’assistito e del suo
diritto ad essere difeso.
Alla fine emerge chiaramente come la difesa del giusto processo da parte dell’avvocato,
e dunque la difesa dello strumento scelto dalla nostra Costituzione per garantire un giudizio il più “giusto” possibile, passi attraverso la qualità tecnica e deontologica dell’avvocato
stesso.
Il nostro sistema penale richiede un’avvocatura formata, di qualità e consapevole dei
propri diritti e dei propri doveri.
Un’avvocatura che deve sempre più essere considerata per quella che è la sua funzione,
di custode del diritto alla difesa, e dunque non ostacolo, ma garanzia di verità.
205
Contro-riflessioni sul
“caso Taricco”
Opinioni
Giovanni Flora
Sommario : 1. “La posta in gioco”. – 2. Ma davvero l’iva è giuridicamente un tributo europeo? – 3. Ma
davvero la (presunta) ineffettività della tutela dipende dai termini (ritenuti troppo brevi) di prescrizione?
– 4. L’art. 325, comma 1 TFUE non è una norma immediatamente precettiva e non può costituire fonte
di obblighi per il Giudice nazionale. – 5. La scelta delle disposizioni sulla prescrizione del delitto di associazione contrabbandiera per valutare la pari intensità di tutela di interessi omologhi (art. 325, comma
2 TFUE: una scelta palesemente arbitraria. – 6. La sicura applicabilità delle garanzie dell’art. 25, comma
2 Cost. alle norme sulla prescrizione. – 7. Considerazioni conclusive.
1. “La posta in gioco”.
Nell’attesa della pronuncia della Corte Costituzionale che il 23 novembre sarà chiamata a decidere la questione di costituzionalità sollevata dalla Seconda Sezione Penale della Corte d’Appello di Milano (ord. 18.09.2015) e dalla Terza Sezione Penale della Corte
di Cassazione (ord. 30.03.2016), è forse necessario chiarire qualche nodo fondamentale
della questione; anche per rispondere ad alcune considerazioni, recentemente svolte, in
particolare dal Prof. Lorenzo Picotti (www.penalecontemporaneo.it, 24 Ottobre u.s.) che
invita ad effettuare “riflessioni giuridiche pacate” e a non lasciarsi andare a “virtuose indignazioni”. Rispondo subito che le mie saranno “riflessioni giuridiche” che mi inducono
ad una “pacata indignazione”. Infatti, ciò che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea
(per formazione culturale e istituzionale lontana dalla benché minima, rudimentale cognizione delle basi del diritto penale liberal democratico)1 vorrebbe imporre al Giudice
nazionale (la disapplicazione delle disposizioni sul tetto massimo di durata della prescrizione dei reati in materia di iva per l’intervento di un atto interruttivo, quando egli
1
Intendo dire che, mentre le norme eurounitarie si preoccupano di garantire la massima tutela possibile degli interessi propri
dell’Unione, le norme penali hanno una preoccupazione opposta: quella di limitare la tutela degli interessi ritenuti meritevoli di
protezione a tipologie ben circoscritte di condotte. Si tratta quindi di prospettive destinate fatalmente ad andare in rotta di collisione. La Corte di Lussemburgo è per sua naturale vocazione insensibile a cogliere la peculiarità delle forme di tutela proprie del
diritto penale.
Giovanni Flora
ritenga che ne conseguirebbe l’impossibilità di punire “in un numero considerevole di
casi” gravi frodi in materia di una imposta che costituisce una risorsa anche per l’U.E.)
provocherebbe una attribuzione al singolo Giudice di poteri che, nel nostro assetto
istituzionale, spettano unicamente al legislatore: tipiche valutazioni di politica criminale.
Dunque ciò comporterebbe una vera e propria sovversione degli equilibri costituzionali
fondativi del sistema.
Come autorevolmente afferma uno studioso dello spessore di Domenico Pulitanò
(www.penalecontemporaneo.it, 5 Ottobre 2016, p.5) “ le scelte relative ai tempi di prescrizione sottendono bilanciamenti fra contrapposte esigenze di funzionalità repressiva e
di garanzia”. Insomma non pare davvero consentito che si rimettano al Giudice del caso
concreto competenze tipiche della valutazione legislativa, di politica criminale. Da qui la
necessità di attivare i controlimiti rappresentati da principi fondativi del sistema. Questo il
punto cruciale che conduce ad una “serena indignazione”.
2. Ma davvero l’iva è giuridicamente un tributo europeo?
Ma la sentenza Taricco, che tanto piace agli irriducibili “passionari” del diritto penale
di fonte giurisprudenziale europea, in particolare di quella dei Giudici che, tradendo la
plurisecolare funzione del Giudice custode delle garanzie di libertà del cittadino, si sono
trasformati in “disapplicatori delle garanzie”, contiene altre affermazioni che ne fanno un
“manifesto politico”, che di “giuridico” ha solo la veste formale.
In primo luogo, bisognerebbe forse che la Corte di Giustizia avesse speso qualche
parola per fornire idonea dimostrazione che il gettito iva è destinato anche (e non sarebbe male che avesse esplicitato pure in che misura) ad alimentare le finanze dell’Unione.
Che sia un tributo “armonizzato” significa solo che l’Unione, nei rapporti con gli Stati
membri, pone vincoli di obiettivo e di modello di disciplina niente di più. Anzi, se si va
un po’ più a fondo si scopre che l’aliquota che l’Italia deve versare quale mantenimento
dell’equilibrio finanziario dell’Unione è dello 0,3%, calcolato – si badi – non sul gettito riscosso dai cittadini, ma su base convenzionale macroeconomica. Quindi – diciamo
così – è giuridicamente discutibile, se non erroneo affermare che l’iva, intesa quale
gettito riscosso dai singoli Stati, costituisca in senso propriamente giuridico un “tributo
europeo”2. Cosicché la preoccupazione di garantire, con sanzioni penali efficacemente
dissuasive, la cui applicazione potrebbe essere frustrata da termini di prescrizione giudicati eccessivamente brevi, la riscossione dell’iva domestica potrebbe sembrare forse fuori
luogo, se non mistificatoria.
2
208
Lo stesso Parlamento Europeo ( Risoluzione del 29 marzo 2007 ) ha affermato che “ la risorsa IVA si è trasformata da una vera e propria risorsa propria, con un collegamento diretto ai cittadini europei, ad uno strumento puramente statistico per calcolare il contributo
di uno Stato Membro “
Contro-riflessioni sul “caso Taricco”
3. Ma davvero la (presunta) ineffettività della tutela dipende
dai termini (ritenuti troppo brevi) di prescrizione?
In secondo luogo, addebitare alla (ritenuta) brevità dei termini di prescrizione la
frustrazione degli scopi preventivi e repressivi delle norme penali in materia, non è
solo ingeneroso, ma privo di fondamento scientifico nelle indagini statistiche disponibili che dimostrano che la lunghezza dei processi è innanzi tutto dovuta a disfunzioni
organizzative ed alla eccessiva durata delle indagini preliminari . Dunque la sentenza
Taricco sembra animata, più che da motivazioni giuridiche, da pregiudizi di natura
politica che “orecchiano” stantie polemiche tese a “demonizzare l’istituto della prescrizione.
4. L’art. 325, comma 1 TFUE non è una norma
immediatamente precettiva e non può costituire fonte di
obblighi per il Giudice nazionale.
Sempre a proposito di valutazioni giuridiche, muovere dall’assunto che l’art. 325, comma 1 TFUE abbia immediata efficacia precettiva e sia rivolto (anche) al Giudice, quando
la sua formulazione testuale ne rende palese a chi voglia “serenamente” leggerla, la natura
programmatica di disposizione indirizzata al legislatore domestico, significa effettuarne
una distorta interpretazione in chiave tutta “politica”.
Ma non basta ancora. Quando la Corte di Giustizia si interroga se la legge italiana
tuteli con la stessa intensità gli interessi finanziari interni, rispetto a quella che assicura
ai (supposti) interessi finanziari dell’Unione, compie una scelta ancora una volta del
tutto arbitraria e finalizzata a raggiungere uno scopo pre determinato: anziché, come
sarebbe stato naturale, far riferimento alle disposizioni in materia di prescrizione dei
reati in materia di imposte dirette (che non avrebbe consentito di pervenire allo scopo
che aveva in animo di conseguire perché in tutto identiche a quelle dei reati in materia
di iva), effettua il confronto con quelle concernenti il reato di associazione a fine di
contrabbando di tabacchi lavorati esteri che, notoriamente, non conoscono tetto massimo in caso di interruzione, appartenendo al lotto dei reati di criminalità organizzata
(art. 51, comma 3 bis e 3 quater c.p.p.). Scelta aggravata dalla mancata considerazione
che il “disvalore penale” del delitto di associazione contrabbandiera va ben oltre a
quello inerente alla mancata corresponsione delle accise. Ne esce confermata la assoluta ignoranza delle valutazioni politico criminali sottese alle opzioni del legislatore in
Opinioni
5. La scelta delle disposizioni sulla prescrizione del delitto
di associazione contrabbandiera per valutare la pari
intensità di tutela di interessi omologhi (art. 325, comma 2
TFUE): una scelta palesemente arbitraria.
209
Giovanni Flora
materia di prescrizione che paradossalmente la Corte di Giustizia vorrebbe affidare al
singolo Giudice nazionale .
6. La sicura applicabilità delle garanzie dell’art. 25, comma
2 Cost. alle norme sulla prescrizione.
Quanto poi alla asserita natura processuale della prescrizione (che la sottrarrebbe a
tutte le garanzie della legalità), forse bisognerebbe effettuare qualche ponderata riflessione
sull’architettura dell’art. 25, comma 2 Cost. La norma sancisce una riserva di legge non di
campo di materia (come, ad es., l’art. 97 Cost.), ma di modo di disciplina, cosicché tutte
le disposizioni in base alle quali alla commissione di un determinato fatto è riconnessa
in concreto l’inflizione di una pena, rientrano nella garanzia della riserva di legge, della
determinatezza/tassatività, della irretroattività sfavorevole (e, ormai, anche della retroattività favorevole). Dunque, anche a non voler considerare che da sempre anche la nostra
Corte Costituzionale riconosce natura sostanziale alle norme sulla prescrizione, esse sono
certamente coperte dalla garanzia del principio di legalità in tutti i sottoprincipi nei quali
si articola.
7. Considerazioni conclusive.
210
In conclusione, la sentenza Taricco, figlia di una formazione culturale e di una attitudine funzionale della Corte di Giustizia antitetiche a quelle che caratterizzano l’essenza
stessa del diritto penale e le forme della tutela penale, figlia della demonizzazione dell’istituto della prescrizione, contiene in sé una carica potenzialmente distruttiva degli assetti
fondamentali degli equilibri costituzionali.
Il controlimite più potente da attivare è quello che trova riconoscimento negli artt. 25,
comma 2 e 101 comma 2 Cost., nella loro funzione fondativa dell’architettura del sistema
politico istituzionale della nostra Repubblica: al Giudice non possono essere attribuiti
compiti, da esercitare volta per volta, nei singoli casi che è chiamato a decidere, che costituiscono competenza inderogabile del legislatore.
Ma non possono nemmeno essere trascurati quelli desumibili dagli art. 2 e 111 Cost.:
l’istituto della prescrizione trova fondamento nella necessità di tutelare diritti inviolabili
dell’essere umano (indagato, imputato) che non può rimanere per una frazione troppo
lunga della sua esistenza nella camicia di forza delle indagini e del processo, né può rimanervi la vittima, né la collettività che hanno diritto di sapere in tempi ragionevoli se
una persona è colpevole o innocente; ma trova fondamento anche nel principio della
ragionevole durata del processo che rafforza le esigenze già desumibili dall’art. 2 Cost.,
richiedendo che si pervenga ad una sentenza definitiva nei tempi più rapidi compatibili
con le esigenze di garanzia dettate dai canoni del giusto processo e con la complessità
delle vicende processuali.
Già l’attuale disciplina della prescrizione, in base alla quale tutti i reati di una certa gra-
Contro-riflessioni sul “caso Taricco”
Opinioni
vità hanno tempi di estinzione biblici, consente ad un sistema ben organizzato di concludere i processi in tempi adeguati. Ma in ogni caso non si può consentire che sia il giudice
del singolo caso concreto a stabilirne le cadenze.
211
Dissonanze normative
e giurisprudenziali nel
sequestro preventivo
Opinioni
Piero Gualtieri
Sommario : 1. Le tipologie di sequestro preventivo. – 2. Il sequestro preventivo impeditivo. – 3. Il sequestro finalizzato alla confisca – 4. La motivazione del provvedimento dispositivo della misura. – 5. Il
termine di trasmissione degli atti al tribunale del riesame. – 6. Il rinvio dell’udienza di riesame. – 7. Il
ricorso per cassazione. – 8. La partecipazione (negata) alla discussione davanti alla corte di cassazione.
– 9. Le conclusioni.
1. Le tipologie di sequestro preventivo.
Nella Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale è stato evidenziato come la potenzialità lesiva di diritti costituzionali che si ricollegano all’uso della cosa
sequestrata avesse reso “necessaria una previsione normativa tale da obbligare il giudice
ad enunciare le finalità della misura al momento della sua applicazione, in modo da consentire sempre, alla persona che ne è colpita, di provocare un controllo sul merito e sulla
legittimità della stessa, anche per quanto attiene alla ragione d’essere della sua persistenza.
Si è ritenuto infine di sottolineare che fondamento dell’istituto in questione resta l’esigenza
cautelare: precisamente quella di tutela della collettività con riferimento al protrarsi dell’attività criminosa e dei suoi effetti”.
L’intenzione dichiarata era quindi quella di creare un quadro normativo dai contorni
precisi, onde limitare il rischio di abusi e ottenere un “equilibrio fra difesa sociale e garantismo”, attraverso una riserva di giurisdizione e un principio di tassatività, assegnando al
solo giudice il potere di disporre la misura e determinandone i casi.
Ma questi lodevoli obbiettivi sono stati traditi dalla imprecisa formulazione delle norme
e da poco garantiste applicazioni giurisprudenziali e sostanzialmente vanificati con l’introduzione del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente.
Bisogna anche precisare preliminarmente che in realtà esiste una molteplicità di sequestri preventivi, ciascuno con proprie peculiari caratteristiche.
Nell’art. 321, comma 1, c.p.p. trova la sua disciplina il sequestro preventivo c.d. impe-
Piero Gualtieri
ditivo, ispirato all’esigenza di evitare che la libera disponibilità di una cosa pertinente al
reato possa aggravarne o protrarne le conseguenze o agevolare la commissione di altri
reati, mentre il comma 2 regola quello finalizzato alla confisca, facoltativa o obbligatoria,
delle stesse cose.
È stata più recentemente introdotta con il d.l. 3.12.2012, n. 207, una nuova forma di
sequestro preventivo relativa agli stabilimenti di interesse nazionale (almeno 200 lavoratori
occupati da almeno un anno), ove la misura non ha, singolarmente, la finalità di inibire
un’attività, bensì di consentire una facoltà d’uso controllata dei beni aziendali.
Ha altresì avuto una espansione esponenziale il sequestro finalizzato alla confisca per
equivalente, nel quale è stato reciso il nesso di pertinenza tra reato e res: e in questa categoria assume una notevolissima importanza il sequestro disciplinato dall’art. 12 sexies d.l.
306/1992, la cui applicazione è stata nel tempo continuamente estesa e che ha la caratteristica di portare all’applicazione della misura in caso di condanna per uno dei numerosi
reati previsti dalla norma allorquando l’indagato non giustifichi la provenienza dei beni
dei quali egli abbia a qualsiasi titolo la disponibilità, anche per interposta persona, con
alcune analogie con il sequestro di prevenzione, specie in materia di esecuzione e amministrazione.
Vi è, infine, il sequestro preventivo introdotto con il d. lg. 8.6.2001 n. 231, che riguarda
la responsabilità per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato degli enti forniti di personalità giuridica, società e associazioni anche prive di personalità giuridica (artt. 19 e 53),
per determinate tipologie di reato (tra i quali mancano incredibilmente quelli tributari).
Va anche segnalata l’esistenza di una serie di profili problematici, di carattere generale o riferito alla singola tipologia di sequestro, in materia di individuazione del giudice
competente alla sua applicazione (vi è in particolare un vuoto normativo relativamente
al giudice dell’udienza preliminare), di esecuzione della misura e di amministrazione dei
beni ad essa assoggettati (specie in relazione ai rapporti con il sequestro di prevenzione),
di tutela dei terzi in buona fede, di garanzie difensive anche in tema di gravami (la cui labilità normativa è aggravata da indirizzi giurisprudenziali molto restrittivi) e recentemente
di ammissibilità della confisca senza condanna.
Nell’impossibilità di trattare questa pluralità di argomenti, soffermeremo la nostra attenzione sui punti più incerti e delicati.
2. Il sequestro preventivo impeditivo.
214
In tema di presupposti, l’art. 321 è avaro di indicazioni, limitandosi ad un sintetico e
molto generico riferimento alla esigenza di evitare che la libera disponibilità di una cosa
pertinente al reato possa aggravarne o protrarne le conseguenze o agevolare la commissione di nuovi reati.
Tali carenze nella disciplina dei presupposti applicativi dell’istituto hanno comportato
serie conseguenze negative in termini di garanzie.
Per lunghi anni la corte di cassazione, riprendendo acriticamente i principi affermati
in una pronuncia delle sezioni unite [C SU 23.4.1993, n. 4, Gifuni], ha sostenuto (salvo
qualche sporadica decisione di segno contrario) che in sede di applicazione di una misura
cautelare reale, ai fini della doverosa verifica della legittimità del provvedimento è preclusa
ogni valutazione sulla sussistenza degli indizi di colpevolezza e sulla gravità degli stessi e
che il controllo del giudice non può investire la concreta fondatezza dell’accusa, ma deve
limitarsi all’astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato.
D’altro canto, tale interpretazione è stata avallata dalla corte costituzionale, la quale ha
affermato in proposito che, pur essendo stati tracciati marcati parallelismi tra le cautele
reali e quelle personali, il codice non si è spinto al punto da aver assimilato in toto le
condizioni che devono assistere le due specie di misure. La scelta di non richiamare per
le misure cautelari reali i presupposti sanciti dall’art. 273 per le misure cautelari personali
non contrasterebbe con l’art. 24 Cost. poiché il diritto di difesa ammette diversità di disciplina in rapporto alla varietà delle sedi e degli istituti processuali in cui lo stesso è esercitato, e i valori che l’ordinamento prende in considerazione sono graduabili fra loro: da
un lato, l’inviolabilità della libertà personale, e, dall’altro, la libera disponibilità dei beni,
che la legge ben può contemperare in funzione degli interessi collettivi che vengono ad
essere coinvolti. Il giudice delle leggi ha aggiunto che il sequestro preventivo attiene, del
resto, a “cose” che presentano un tasso di “pericolosità” tale da giustificare l’imposizione
della cautela, e, pur raccordandosi ontologicamente ad un reato, può prescindere totalmente da qualsiasi profilo di “colpevolezza”: ma, potendo essere oggetto della misura “le
cose pertinenti al reato” è evidente che al giudice sia fatto carico di verificare che esista
un reato, quanto meno nella sua astratta configurabilità e con il corrispondente obbligo di
motivazione. E anche in sede di gravame non va riconosciuto un potere di controllo sul
merito della regiudicanda, dal quale scaturirebbe una specie di “processo nel processo”
che sposterebbe, allargandolo, il tema del decidere da quello suo proprio della verifica del
pericolo della libera disponibilità di taluni beni, all’oggetto del procedimento principale
[Corte Cost. 48/1994 e 153/2007].
Solo recentemente si sta finalmente assistendo al consolidamento di indirizzi per cui,
ai fini dell’emissione del sequestro preventivo, il giudice deve valutare la sussistenza del
fumus delicti in concreto, indicando nella motivazione in modo puntuale e coerente gli
elementi in base ai quali desumere l’integrazione del reato configurato, tenendo conto sia
degli elementi forniti dall’accusa, sia delle argomentazioni difensive, in quanto la serietà
degli indizi costituisce presupposto per l’applicazione delle misure.
Il percorso verso una sostanziale equiparazione tra i presupposti applicativi delle misure cautelari personali e reali ha tuttavia e finalmente trovato un solido, ancorché non
ancora limpido, supporto normativo nella modifica (introdotta dall’art. 11 l. 26.4.2015, n.
47) dell’art. 309, comma 9, richiamato dall’art, 324, comma 7, secondo il quale il tribunale
del riesame annulla l’impugnato provvedimento dispositivo della misura cautelare “se la
motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle
esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”. Ed ovviamente tali
regole valgono pure per il provvedimento dispositivo del sequestro.
Sollecitate ad intervenire sulla corretta interpretazione della norma, le sezioni unite
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hanno riconosciuto la compatibilità con le misure cautelari reali della parte appena citata
del comma 9, osservando tuttavia che queste previsioni devono essere coordinate - nei
limiti dell’adattamento possibile - con la materia delle misure cautelari reali e del sequestro probatorio, e giungendo alla conclusione di escludere come parametro di riferimento
quanto statuito dall’art. 292, ritenuto norma declinata per le misure cautelari personali,
correlata com’è, in modo stretto, al paradigma degli elementi disciplinati degli artt. 273
e 274 c.p.p. Al contrario, le nozioni di “indizio”, “esigenze cautelari” (ad eccezione della
materia dei sequestri probatori) e di “elementi forniti dalla difesa”, possono entrare a pieno
titolo nella esposizione ed autonoma valutazione dei presupposti fondanti il titolo ablativo
e quindi nel giudizio di controllo demandato, nella sua duplice modulazione, al tribunale
del riesame, con alcune limitazioni. In particolare, relativamente agli indizi, si dovrà tenere
conto del fatto che il requisito in parola non entra esplicitamente nella composizione della
nozione di fumus commissi delicti per dare corpo al collaudo della esistenza di un nesso
di pertinenzialità fra il bene sequestrato e la fattispecie concreta di reato che ne costituisce
il riferimento, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza costituzionale (C Cost 48/94
e 153/2007): tuttavia, è altrettanto incontestabile che il sequestro preventivo e quello probatorio, nel presupporre l’esplicitazione della sussistenza di un reato in concreto mediante
la esposizione e la valutazione degli elementi in tal senso significativi, comportino, per
l’autorità giudiziaria che li dispone, un percorso motivazionale che si discosta da quello
sugli indizi, proprio delle misure personali, essenzialmente, e in taluni casi, sul punto della
responsabilità dell’indagato, potendo essere, il sequestro, disposto anche nei confronti di
terzi. Mentre quel percorso non può che essere affine per quanto concerne il dovere di
verifica - non più concepibile in termini solo astratti - della compatibilità e congruità degli
elementi addotti dall’accusa (e della parte privata ove esistenti) con la fattispecie penale
oggetto di contestazione anche relativamente alle esigenze cautelari (salvo ipotesi particolari di sequestri finalizzati alla confisca, previsti dagli artt. 321, comma 2, e 12-sexies d.l.
306/1992) [C SU 6.5.2016, n. 18954, Capasso].
Le argomentazioni svolte nella decisione appaiono peraltro timide e riduttive nella parte
in cui sostengono in tema di indizi, che, almeno in alcuni casi, si può prescindere dalla
valutazione della responsabilità dell’indagato, in quanto il sequestro preventivo può essere
disposto nei confronti di terzi e il richiamo dell’art. 292 non può comprendere l’applicazione degli artt. 273 e 274, peculiari delle misure cautelari personali. In senso contrario va
infatti osservato come il legislatore del 2015, modificando il comma 7 dell’art. 324, attraverso il ribadito richiamo dell’art. 309, commi 9, 9-bis e 10, abbia chiaramente voluto una
applicazione per quanto possibile integrale dell’art. 292, cui fa espresso rinvio, appunto,
l’art. 309, comma 9. Ad una attenta analisi risultano realmente incompatibili con il sequestro
preventivo soltanto le previsioni del comma 2, lett.) c-bis, ultima parte (custodia cautelare
in carcere), e d) (data di scadenza della misura) del menzionato art. 292, mentre per tutte le
altre non emergono problemi applicativi di sorta, poiché in effetti in esse vengono declinati
i requisiti del provvedimento dispositivo della misura (non enunciati nell’art. 321 e del quale suona come completamento), a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio, ed esattamente:
le generalità dell’imputato (lett. a), la descrizione sommaria del fatto e delle norme violate
(lett. b), l’esposizione e l’autonoma valutazione delle esigenze cautelari e degli indizi (lett.
c) nonché delle ragioni per le quali non sono stati ritenuti rilevanti gli elementi addotti dalla
difesa (lett. e-bis) novellata). Per evidente connessione logica deve essere osservato anche
l’art. 273, che stabilisce al comma 1 la regola generale per cui le misure cautelari possono
essere applicate soltanto in presenza di gravi indizi di colpevolezza, al comma 1-bis i criteri
sulla loro valutazione (richiamando a tal fine gli artt. 192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203
e 271, comma 1) e al comma 2 prescrive la inapplicabilità della misura qualora sussistano
cause di giustificazione o di non punibilità, o la estinzione del reato o della pena.
Il richiamo alla pregressa giurisprudenza costituzionale per introdurre limitazioni non
è condivisibile, in quanto il quadro normativo è, appunto, mutato e la sempre più ampia
diffusione dei casi di sequestro per equivalente rende ormai superate le argomentazioni
ivi utilizzate per “salvare” gli artt. 321 e 324 (vale a dire la sufficienza del requisito della
pertinenza a consentire una efficace difesa).
E se è vero che la misura reale può colpire anche terzi, è comunque necessaria un’indagine in ordine alla buona fede di costoro e soprattutto alla effettiva disponibilità da
parte dell’indagato dei beni nonché, nei casi disciplinati dall’art. 321, del loro rapporto di
pertinenza con la sua attività criminosa.
Non va dimenticato che al centro di ogni processo penale e dei suoi particolari istituti,
vi è sempre una vicenda umana, per cui non è possibile prescindere dalla valutazione dei
profili soggettivi degli indizi attraverso un’approfondita disamina della (eventuale) condotta illecita del soggetto inquisito, che è preliminare all’accertamento della pericolosità della
cosa di cui si vuole impedire l’utilizzazione.
D’altro canto, le stesse sezioni unite, nell’effettuare in altra decisione una ricostruzione
storico-sistematica del sequestro preventivo, hanno affermato, in riferimento alle ipotesi
regolate dall’art. 321, che la finalità di prevenzione perseguita dalla misura “è mediata dalla
cosa, considerata nel rapporto con la persona che ne ha la disponibilità, il che legittima
il sequestro nei casi in cui lo stretto legame tra la persona e la cosa sia la causa di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di reiterazione dell’attività
criminosa” [C SU 17.7.2015, n. 31022, Fazzo].
Va ancora considerato che le misure cautelari reali vanno ad incidere su interessi protetti dalla Costituzione e dalla C.e.d.u. e in particolare il sequestro preventivo può presentare
un contenuto afflittivo addirittura maggiore rispetto ad alcune misure cautelari personali
(si pensi all’ablazione di tutte le proprietà di un indagato lavoratore autonomo, che fa
venir meno a lui e alla sua famiglia i mezzi di sostentamento, o alla perdita di lavoro da
parte dei dipendenti in caso di sequestro di un’azienda).
Ed infine, tra le due specie di misure esistono indubbiamente stretti parallelismi, sia
per la collocazione sistematica, sia per i rimedi approntati (appello, riesame, ricorso per
cassazione), sia, ancora, per la dichiarata intenzione di costruire nei c. 3-bis e 3-ter dell’art.
321 una figura precautelare modellata sull’art. 384.
Alla stregua di questi rilievi, riteniamo che si dovrebbe pervenire ad una interpretazione
costituzionalmente orientata della normativa in materia, che tenga conto della necessità
di un ragionevole bilanciamento tra esigenze di repressione e tutela del diritto di difesa e
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della proprietà, e renda applicabile il sequestro preventivo soltanto in caso di sussistenza
di gravi indizi di reità a carico di colui che dispone effettivamente della cosa ritenuta pericolosa, da valutare, in forza di quanto dispone l’art. 273, comma 1-bis, ai sensi degli artt.
192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203, 271, comma 1, e tali da consentire una prognosi in
ordine alla possibilità di pervenire ad una sentenza di condanna nonché quando ricorra un
vincolo chiaro ed univoco tra la stessa cosa e il reato per cui si procede e, in applicazione
dei principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, risulti impossibile conseguire
il medesimo risultato con altre misure meno invasive: e in attuazione di quanto stabilito
dall’art. 273, c. 2, applicabile per le ragioni avanti esposte, l’analisi dovrebbe essere estesa
anche all’elemento psicologico del reato, atteso che la sua mancanza impedisce la stessa
astratta configurabilità dell’illecito penale, alla presenza di una causa di giustificazione o
di non punibilità e alla prescrizione del reato.
L’approfondita valutazione dei profili soggettivi degli indizi è ancor più importante in
materia di sequestro per equivalente, ove, come si vedrà più avanti, assumono rilievo assorbente proprio e soltanto tali profili, mancando il rapporto pertinenziale tra cosa e reato
ed essendo evanescente il periculum, in ragione della obbligatorietà della misura, che può
essere applicata unicamente in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta
delle parti per alcuno dei reati tassativamente elencati.
3. Il sequestro finalizzato alla confisca.
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L’art. 321 c. 2 prevede la possibilità di disporre il sequestro preventivo delle cose di
cui è consentita la confisca. Si tratta di una figura specifica ed autonoma rispetto a quella
regolata nel c. 1, disciplinata secondo schemi suoi propri, come è confermato dal fatto
che la possibilità di chiedere la revoca del sequestro, quando vengono meno o risultano
mancanti le condizioni di applicabilità della misura, è limitata alle ipotesi cui al comma 1.
Ma l’istituto più rilevante, anche a causa della sua crescente applicazione, è certamente
il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, considerata uno strumento
strategico di politica criminale, teso a contrastare fenomeni sistematici di criminalità economica ed organizzata, e diretta a privare il reo di un qualunque beneficio sul versante
economico, sotto la forma di prelievo pubblico a compensazione di utilità illecite: essaè
rivolta a superare gli ostacoli e le difficoltà per la individuazione dei beni in cui si incorpora il profitto del reato nonché ad ovviare ai limiti che incontra la confisca dei beni di
scambio o di quelli che ne costituiscono il reimpiego.
Colpisce, quindi, in difetto del reperimento del bene specifico provento del reato e per
un valore ad esso corrispondente, gli altri beni di cui il soggetto abbia la disponibilità, i
quali non hanno alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo e neppure alcun
nesso di pertinenza con il singolo reato, a differenza di quanto avviene per le ipotesi disciplinate dall’art. 240 c.p. E’ altresì caratterizzata dalla obbligatorietà e ha trovato la sua
massima espansione nelle previsioni dell’art. 12-sexies, d.l. 8.6.1992, n. 306, la cui applicazione è stata più volte estesa nel tempo.
A nostro parere deve ritenersi ormai assodata la natura sanzionatoria della confisca
nelle sue varie forme (e non più quindi, di misura di sicurezza patrimoniale). Un espresso
riconoscimento in tal senso è venuto dalle pronunce della Corte e.d.u., nelle quali è stato
affermato che la confisca deve qualificarsi come una pena ai sensi dell’art. 7 C.e.d.u. poiché si collega ad un illecito penale, non tende alla riparazione pecuniaria di un danno, ma
ad impedire la reiterazione della inosservanza delle prescrizioni: i giudici di Strasburgo
hanno altresì specificato che la natura penale della disposizione deve essere accertata sulla
base di tre criteri (la qualificazione giuridica della misura nel diritto nazionale, la natura
stessa di quest’ultima e la natura e il grado di severità della «sanzione»), che sono alternativi e non cumulativi [Corte e.d.u. 20.1.2009, Sud Fondi c. Italia; Id. 29.10.2013, Varvara c.
Italia; Id. 4.3.2014, Grande Stevens c. Italia; 20.5.2014, Nykanenc. Finlandia; Id. 27.11.2014,
Den c. Svezia; Id. 9.6.2016, Sismanidis c. Grecia].
Da ciò consegue la necessità di una formale declaratoria di responsabilità penale attraverso una sentenza di condanna, in difetto della quale la applicazione della confisca è
arbitraria.
E anche la Corte costituzionale ha a sua volta attribuito alla confisca per equivalente
una natura “eminentemente sanzionatoria”, che impedisce la sua applicazione retroattiva
[sentenze 97/2009 e 196/2010; in senso parzialmente diverso in tema di confisca susseguente a prescrizione del reato v. la decisione 49/2015].
Con una recente e non condivisibile decisione, le sezioni unite hanno tuttavia sostenuto che il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione,
può disporre, a norma dell’art. 240, comma 2, n. 1, c. p., la confisca del prezzo e, ai sensi
dell’art. 322-ter c. p., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato (la quale non
presenta connotazioni di tipo punitivo, dal momento che il patrimonio dell’imputato non
viene intaccato in misura eccedente il pretium sceleris), qualora vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale
responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o
profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio: non può applicare,
invece, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle
cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto [SU 26.6.2015, n. 31617, Lucci].
Non è questa la sede per una critica articolata alle argomentazioni svolte dal collegio
esteso. Ci si limita quindi a rilevare che la richiamata decisione del giudice delle leggi
49/2015 ha fornito una lettura erronea e tendenziosa della sentenza Varvara c. Italia, che
non autorizza affatto una interpretazione per cui per disporre la confisca sarebbe sufficiente l’accertamento in fatto della responsabilità dell’imputato, ed anzi dalla sua motivazione
si evince esattamente il contrario, come emerge evidente dall’espressa affermazione che la
confisca è arbitraria quando il reato è estinto.
D’altro canto, l’applicazione della misura ablativa in difetto di una formale condanna
contrasterebbe anche con la presunzione di innocenza e non è comunque pertinente il
riferimento all’art. 578 a sostegno della criticata tesi, poiché l’art. 573, comma 2, c.p.p. prevede il passaggio in giudicato e l’esecuzione dei capi penali, comprensivi della confisca:
ed è manifestamente ingiustificata e strumentale la distinzione tra confisca diretta e per
equivalente, diretta ad attribuire solo alla seconda natura sanzionatoria.
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Va altresì rimarcato come dovrebbe essere consentito soltanto eccezionalmente lo spostamento della cautela dal bene collegato da nesso pertinenziale con il reato ad altro bene
nella disponibilità dell’indagato, indipendentemente dalla sua provenienza legittima: la
confisca per equivalente, e il sequestro preventivo che la garantisce e le è funzionale, possono trovare applicazione unicamente in via residuale, allorquando non sia stato possibile
aggredire il prezzo del reato, e nell’osservanza dei principi di proporzionalità, adeguatezza
e gradualità, con conseguente obbligo del giudice di motivare adeguatamente sull’impossibilità di conseguire il medesimo risultato con altre misure meno invasive.
D’altro canto, derogare a questi più rigorosi criteri comporterebbe seri profili di legittimità costituzionale delle norme in materia per violazione degli artt. 24, 42 e 117, comma
1, Cost, in riferimento agli’artt. 6 e 7 C.e.d.u. e 1 Protocollo aggiuntivo, in quanto, essendo
stato eliso il requisito del rapporto di pertinenza tra bene e reato: non sono quindi applicabili i principi enunciati nella decisione della corte costituzionale 48/1994, nella quale è
stata esclusa la lesione del diritto di difesa sull’assunto che il soggetto colpito dalla misura
poteva volgersi a contestare proprio l’esistenza di tale nesso di pertinenza.
Merita una menzione particolare il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente
prevista dall’art. 12-sexies d.l. 306/1992, la cui applicazione è stata continuamente estesa
nel tempo e stabilisce ai commi 1 e 2 che è sempre disposta la confisca del denaro, dei
beni o delle altre utilità dei quali il condannato non può giustificare la provenienza e, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a
qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte
sul reddito, o alla propria attività economica, in caso di condanna o di applicazione della
pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p., per un amplissimo novero di reati: dispone,
altresì, che, quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni e delle
altre utilità avanti citati, il giudice ordina la confisca di altre somme di denaro, di beni e
altre utilità per un valore equivalente, delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona.
Secondo l’indirizzo largamente prevalente, le condizioni necessarie e sufficienti per
disporre in questi casi il sequestro preventivo consistono, quanto al fumus commissi delicti, nell’astratta configurabilità nel fatto attribuito all’indagato e in relazione alle concrete
circostanze indicate dal p.m., di una delle ipotesi criminose previste dalle norme citate,
senza che rilevino né la sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità e, quanto al periculum in mora, coincidendo quest’ultimo con la confiscabilità del bene, nella
presenza di seri indizi di esistenza delle medesime condizioni che legittimano la confisca,
sia per ciò che riguarda la sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito o alle attività
economiche del soggetto, sia per ciò che attiene alla mancata giustificazione della lecita
provenienza dei beni stessi.
Si viene così a configurare, ai fini dell’adozione della misura cautelare, una presunzione
di illecita accumulazione patrimoniale, che può essere superata dall’interessato sulla base
di specifiche e verificate allegazioni, dalle quali si possa desumere la legittima provenienza
del bene sequestrato in quanto acquistato con proventi proporzionati alla propria capacità
reddituale lecita e anche attingendo al patrimonio lecitamente accumulato, senza distin-
Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo
guere, quindi, se tali beni siano o meno derivati dal reato per il quale si procede o è stata
inflitta la condanna.
Appaiono pertanto consistenti i dubbi di legittimità costituzionale di questa normativa
e del c.d. diritto vivente formatosi su di essa, in quanto risulta evidente la esigenza di una
indagine che va ben oltre la mera astratta configurazione dell’esistenza di un reato, peraltro superata anche dalla più recente giurisprudenza e dal nuovo testo dell’art. 324, comma
7, tanto più in presenza della menzionata presunzione di illegittima appartenenza dei beni
e della espressa previsione che la misura ablativa può essere disposta soltanto in caso di
condanna, con conseguente necessità di una valutazione prognostica al riguardo.
L’esercizio del diritto di difesa e di tutela della proprietà è dunque estremamente difficile, se non inconsistente, e non pare proprio che questa situazione sia rispondente ai
principi dettati dagli artt. 24, 27, comma 2, 42 e 117, comma 1, Cost.
Il provvedimento applicativo del sequestro preventivo esige, ai sensi dell’art. 321, comma 1, il decreto motivato e deve pertanto contenere la doverosa enunciazione, con funzione endoprocessuale, delle argomentazioni poste a base della decisione, al fine di assicurare la possibilità di un loro controllo di merito e di legittimità: e il tribunale del riesame
è chiamato a svolgere un imprescindibile ruolo di garanzia, così da rendere effettivo il
doveroso controllo giurisdizionale preteso dalla Costituzione prima che dalla legge ordinaria [cfr. da ultimo, SU 6.5.2016, n. 18954, Capasso].
Il perimetro entro il quale inserire tale obbligo è stato condizionato da un assetto normativo molto lacunoso specie in riferimento al fumus delicti, che, come già osservato,
lascia ampi margini di discrezionalità, ancora più estesi nel sequestro finalizzato alla confisca per equivalente. La ripetutamente segnalata modifica dell’art. 309, comma 9, richiamato dall’art, 324, comma 7, ovviamente valida pure per il provvedimento dispositivo del
sequestro, impone oggi un percorso motivazionale più rigoroso, in quanto il decreto deve
contenere, a pena di nullità rilevabile d’ufficio, l’esposizione e l’autonoma valutazione
delle esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta. La
finalità della norma è evitare il ripetersi, specialmente in presenza di fascicoli voluminosi,
degli imbarazzanti episodi di trascrizioni integrali delle richieste del p.m., senza un minimo di analisi critica, che hanno provocato clamore e conseguenti polemiche.
Sembrava, pertanto, che queste deprecabili prassi dovessero cessare, ma poco dopo
l’entrata in vigore delle nuove disposizioni, la Corte Suprema ha ritenuto che in realtà esse
non vietano tout court la motivazione per relationem, in quanto si pongono al contrario
in continuità con i principi da tempo costantemente affermati dalla giurisprudenza di legittimità e sostenendo che, ove meccanicamente inteso, l’obbligo di autonoma valutazione
si risolverebbe in inutile parafrasi delle valutazioni del primo giudice, laddove coscientemente condivise [Cass. pen. sez. VI 11.11.2015, n. 45166, E.G., in Giur. it. 2016, 211, con
commento critico di Spangher, il quale mette esattamente e opportunamente in evidenza
come i vizi e le vecchie abitudini siano duri a morire e come, se fosse vera la tesi per cui il
Opinioni
4. La motivazione del provvedimento dispositivo della misura.
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problema era già stato definito dalle sezioni unite, risulterebbe inutile la nuova normativa,
invece introdotta proprio per superare quell’insufficiente dictum: cfr. anche ex multis, le
successive sentenze 45934/2015, 48962/2015, 11922/2015 e 5497/2016].
Al riguardo, la ripetutamente citata sentenza Capasso [18954/2016] ha affermato che la
parte novellata dell’art. 309, comma 9, contenente l’obbligo di autonoma valutazione dei
presupposti della misura, si inserisce in un quadro in cui, attraverso interventi paralleli su
più norme, il legislatore ha chiaramente mostrato di considerare fra gli obiettivi connotanti
la riforma quello di sanzionare qualsiasi prassi di automatico recepimento, ad opera del
giudice, delle tesi dell’Ufficio richiedente, così da rendere effettivo il doveroso controllo
giurisdizionale preteso dalla Costituzione prima che dalla legge ordinaria, e da rafforzare
la dimostrazione della specifica valutazione dell’organo giudiziario di prima istanza sui
requisiti fondanti la misura, precludendone la sanatoria che potrebbe derivare dall’intervento surrogatorio pieno del giudice della impugnazione, pure rimasto previsto nello
stesso comma 9.
Ma queste puntuali argomentazioni sono state presto disattese. E’ stato infatti ribadito
che l’introduzione del requisito dell’autonoma valutazione non deve essere inteso quale
mero attributo estetico o stilistico, che si risolverebbe in una mera e dispendiosa parafrasi
del testo altrui, ma in senso epistemologico, come autonomia della decisione, per cui non
implica una riscrittura originale degli elementi indizianti: in altri termini, il provvedimento
che riproduca più o meno fedelmente o richiami la richiesta del p.m. assume una propria oggettiva consistenza e, in assenza di affidabili criteri di classificazione del pensiero
autopnomo, non può ritenersi per ciò solo indiziante di una valutazione, e quindi di una
decisione, priva di autonomia o di una cessione di imparzialità [sentenze 41089/2016 e
30459/2016].
Insomma, si persiste ostinatamente nel rifiuto di applicazione del dato normativo, in
spregio anche all’insegnamento delle sezioni unite.
5. Il termine di trasmissione degli atti al tribunale del riesame.
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Un altro caso emblematico dello scollamento tra codice legale e codice reale è rappresentato dalla interpretazione che la corte di legittimità ha dato del richiamo dell’art. 309,
comma 10, da parte dell’art. 324, comma 7.
Le Sezioni Unite hanno affermato al riguardo che l’originario parallelismo della disciplina della impugnazione cautelare delle misure personali rispetto a quelle reali è più funzionale che strutturale, e quindi non vincolante, e che i due istituti del riesame hanno una
diversa collocazione sistematica e “pur in origine ispirati, per ragioni di simmetria, a un
unico modello procedimentale, tuttavia possono divaricarsi nella pratica applicazione”. Il
collegio esteso ha poi sostenuto che il rinvio che l’art. 324, comma 7, effettua ai commi 9 e
10 del precedente art. 309 è riconoscibilmente recettizio, vale a dire statico, e non formale
(o dinamico) essendo effettuato alla mera veste letterale dei predetti commi, per cui da tale
modalità di incorporazione per relationem discende, inevitabilmente, la cristallizzazione
della disposizione normativa recepita, che dunque, una volta inglobata nella norma che
la richiama, ne entra a far parte integrante e non segue le eventuali “sorti evolutive” della
norma richiamata. E poiché la riforma dell’art. 309, operata dalla l. n. 332/1995, non ha
inciso sull’art. 324 ed il rinvio che tale ultimo articolo fa all’art. 309 deve inevitabilmente
essere inteso al testo previgente, ne deriva che unico termine perentorio nella procedura
di riesame delle misure cautelari reali rimane quello originario di 10 giorni entro i quali la
decisione deve essere assunta, decorrente, ovviamente, dal momento in cui la richiesta perviene al tribunale del riesame [SU 17.6.2013, n. 26268, Cavalli; 29.5.2008, n. 25932, Ivanov].
Entrata in vigore la l. 47/2015, le sezioni unite hanno (inaspettatamente) ritenuto di
confermare questo orientamento, asserendo che la rimodulazione dell’art. 324, comma 7, è
avvenuta non con la tecnica della sostituzione di una intera parte del precetto contenente
il rinvio ai commi dell’art. 309, ma sostituendo alle parole “art. 309, commi 9”, le parole
“art. 309, commi 9 e 9-bis”, senza intervenire sul richiamo del comma 10, rimasto invariato:
da ciò si dedurrebbe che il detto comma 10, nella formulazione risultante dall’intervento
del legislatore nell’ultima riforma, non riguarda la modalità di funzionamento del riesame
reale. Con la ulteriore conseguenza che, sia pure attraverso tale specifico percorso interpretativo, le conclusioni della sentenza Cavalli sarebbero da confermare, anche alla luce
di altre considerazioni di carattere sistematico, riferibili alla stessa struttura del precetto
in questione e alla ontologica incompatibilità di questo col comma 3 dell’art. 324, senza
che siano ravvisabili incoerenze nell’affermare la non operatività di quello stesso comma
10 in relazione a tutte le innovazioni in esso introdotte dalla l. n. 47 del 2015: emergerebbe, infatti,”una scelta risalente e collaudata dal legislatore” di lasciare la procedura del
riesame reale non assoggettata, nella sua integralità, al rigidissimo regime proprio delle
impugnazioni in materia di coercizione personale, come reso lampante, tra l’altro, dalla
assoluta divergenza dei due istituti anche in punto di sospensione dei termini procedurali
nel periodo feriale, di ampiezza del sindacato di legittimità sui provvedimenti conclusivi e
di diversità del rito camerale da riservare ai due diversi tipi di impugnazione (partecipato
ai sensi dell’art. 127 c.p.p. per la trattazione dei ricorsi per cassazione in tema di misure
cautelari personali e non partecipato ai sensi dell’art. 611 c.p.p. per i ricorsi in tema di
misure reali) nonché dal mancato richiamo in materia di cautele reali del comma 5-bis
dell’art. 311 [SU 6.5.2016, n.18954, Capasso; cfr. anche SU 17.12.2015, n. 51207, Maresca e
sez. III 22.8.2016, n. 35244].
Orbene, questa opinione lascia a dir poco sconcertati, poiché da essa discende che, in
un procedimento come quello di riesame, caratterizzato da esigenze di celerità imposte
dalla lesione di diritti costituzionalmente protetti, da un lato è fissato, a pena di inefficacia
della misura, il rigido rispetto da parte del tribunale del termine di dieci giorni per decidere e dall’altro si lascerebbe sprovvisto di conseguenze il ritardo (teoricamente illimitato)
dell’ufficio del p.m. nell’invio degli atti, così cancellando di fatto ogni certezza in ordine
alla iniziale decorrenza del successivo termine di dieci giorni, che invece ha un solido
fondamento costituzionale.
Era già frutto di una irrazionale alchimia giuridica l’artificioso mantenimento in vita a
fini sostanzialmente antigarantisti di una norma abrogata effettuata dalla sentenza Cavalli:
ma è davvero sorprendente (e inaccettabile) che la tesi sia stata confermata nella sentenza
Opinioni
Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo
223
Piero Gualtieri
Capasso nonostante le innovazioni introdotte dalla l. 16.4.2015, n. 47, la quale, diversamente da quanto aveva fatto la l. 332/1992, è intervenuta con l’art. 11, comma 6, sull’art.
324, comma 7, che prescrive l’applicazione delle disposizioni dell’art. 309, commi 9, 9-bis,
e 10, senza riserve o condizioni, e dunque nella loro interezza; e in questo quadro appare
davvero debole l’argomentazione per cui il silenzio della legge di riforma sul comma 10
comporterebbe la sua applicabilità soltanto nel testo originario, che, oltre ad essere irrazionale per le ragioni appena evidenziate, contrasta con la chiara lettera della norma, non
superabile con (insussistenti) motivi di ordine sistematico.
Appare dunque privo di fondamento logico e giuridico negare che il rinvio oggi ribadito debba essere necessariamente riferito alla versione attuale delle norme e non (astrusamente) a quella originaria, poiché esso si inserisce in un quadro complessivo e coordinato
di modifiche, come dimostra anche l’espressa estensione al procedimento di riesame delle
misure cautelari reali della possibilità di differimento dell’udienza e della decisione, prevista nel comma 9-bis.
Sicché, a nostro avviso, deve concludersi che il più volte menzionato comma 10 debba essere applicato integralmente e che anche la mancata trasmissione degli atti entro il
termine di cinque giorni previsto dal comma 5 dell’art. 309 provochi la perdita di efficacia
della misura ablativa e impedisca la sua reiterazione, salva l’eccezionalità delle esigenze
cautelari.
6. Il rinvio dell’udienza di riesame.
224
Ai sensi del novellato art. 309, comma 9-bis, richiamato dall’art. 324, comma 7, su istanza formulata personalmente dall’imputato (ma il potere è certamente esteso alla persona
sottoposta alle indagini, ai sensi dell’art. 61) entro due giorni dalla notificazione dell’avviso, il tribunale differisce l’udienza da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni,
se vi siano giustificati motivi, con conseguente proroga nella stessa misura del termine per
la decisione.
La ratio della disposizione scaturisce dalla esigenza di consentire alla difesa di prepararsi meglio [v. la Nota breve del Servizio Studi del Senato in occasione dell’esame in prima
lettura del disegno di legge] e risolvere così i gravi problemi insorti in occasione della
trattazione di procedure con fascicoli particolarmente voluminosi e rilevante numero di
soggetti coinvolti.
La subordinazione del rinvio alla manifestazione di volontà direttamente riconducibile
all’indagato trova la sua spiegazione nella circostanza che la decisione di prorogare lo
stato di limitazione di libertà deve trovare il suo consenso: ma assume pure rilievo la esigenza dello stesso collegio giudicante di un effettivo approfondimento e analisi del caso,
ponendosi così fine ai deprecabili recepimenti senza un serio vaglio critico delle opinioni
del p.m.
La formulazione della norma, dettata in palese riferimento alle misure cautelari personali, provoca tuttavia problemi applicativi relativamente alle cautele reali. Un primo
profilo riguarda l’eventuale discordanza di richieste sul punto allorquando siano presenti
più indagati: in questa ipotesi il presupposto dei giustificati motivi lascia al tribunale un
ampio potere discrezionale, che può spaziare tra il rigetto del differimento, l’accoglimento nonostante il dissenso o uno stralcio che, pur foriero di difficoltà pratiche, appare
la conclusione preferibile e più rispondente alla logica della previsione. Un secondo
rilevante aspetto concerne la legittimazione alla richiesta da parte del difensore, che la
lettera della legge non sembra consentire, poiché l’art. 99 comma 1, esclude l’estensione
in suo favore dei diritti e delle facoltà riconosciuti all’imputato, che siano riservati personalmente a quest’ultimo: né risulta applicabile l’art. 122, in quanto manca ogni riferimento al compimento dell’atto attraverso un procuratore speciale; e l’anomalia è aggravata
dal fatto che lo stesso difensore può impugnare il provvedimento davanti al tribunale
del riesame. La terza questione è la disparità di trattamento che si viene a creare tra l’imputato e gli altri soggetti legittimati a proporre la richiesta di riesame (persone alle quali
le cose sono state sequestrate o hanno diritto alla loro restituzione), che non hanno il
potere di avanzare l’istanza di differimento e si trovano così a dover subire ritardi nella
decisione: versandosi in materia di cautele reali, non appare invocabile la preminenza
del valore della libertà personale per giustificare la posizione di privilegio riconosciuta
all’indagato, per cui, nella difficoltà di delineare una interpretazione costituzionalmente
orientata, è ipotizzabile una violazione degli artt. 3 e 111, comma 2, Cost., attesa la natura del procedimento di riesame.
Altro interessante problema è costituito dalle richieste di rinvio avanzate dal difensore.
L’astensione dalle udienze è ormai pacificamente considerata esercizio di un diritto costituzionalmente rilevante [cfr. Corte Cost. 121/1996 e i codici di autodisciplina approvati
con Deliberazioni della Commissione di Garanzia 4.7.2002, art. 2, comma 4, e 13.12.2007,
art. 3, comma 1] e le disposizioni che la regolano sono considerate speciali rispetto a
quelle del codice.
Pertanto, in caso di istanza del difensore che vi abbia aderito, qualsiasi procedimento in
camera di consiglio, obbligatoriamente partecipato o no, ivi compresi quelli davanti al tribunale del riesame, deve essere rinviato, in quanto, se così non fosse, tale diritto subirebbe
un pesante condizionamento, trovandosi il difensore costretto a scegliere tra l’esercizio del
proprio diritto e l’esigenza di non lasciare privo di assistenza tecnica il proprio assistito:
e la mancata concessione da parte del giudice del differimento della trattazione dell’udienza camerale determina una nullità per la mancata assistenza dell’imputato, ai sensi
dell’art. 178, comma 1, lett. c), di natura assoluta ove si tratti di udienza camerale a partecipazione necessaria del difensore, ovvero natura intermedia negli altri casi [cfr. da ultimo
SU 14.4.2015, n. 15232, Guerrieri, riguardante un giudizio di opposizione a richiesta di
archiviazione, ove si legge una pregevole e approfondita ricostruzione storico-sistematica
dell’istituto; SU 27.3.2014, n. 40187, Lattanzio; SU 30.5.2013, n. 26711, Ucciero].
Viceversa, l’astensione del difensore della parte civile o della persona offesa (pur
espressamente menzionato nell’art. 3, comma 2, del codice di autoregolamentazione), non
dà diritto al rinvio, qualora il difensore dell’imputato o dell’indagato non abbia espressamente o implicitamente manifestato analoga dichiarazione di astensione, così mostrando
un proprio interesse alla celere definizione del procedimento.
Opinioni
Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo
225
Piero Gualtieri
Secondo noi, la modifica dell’art. 309, comma 9 bis, ha rilevanza pure in tema di legittimo impedimento del difensore. poiché essa ha fatto appunto cadere il dogma della
indifferibilità della udienza al fine di assicurare una effettiva assistenza tecnica informata.
Le sezioni unite, componendo il contrasto tra i divergenti indirizzi ermeneutici in ordine
all’applicabilità dell’art. 420-ter ai procedimenti in camera di consiglio tenuti nelle forme
previste dall’art. 127 (e superando l’assunto ostativo asseritamente rappresentato dalle
esigenze di speditezza e di concentrazione, intrinseche alla natura di tali procedimenti,
nemmeno qualora la presenza del difensore sia prevista come necessaria, soccorrendo,
in questa ipotesi, la regola dettata dall’art. 97 comma 4), hanno affermato che l’impegno professionale del difensore in altro procedimento costituisce legittimo impedimento
che dà luogo ad assoluta impossibilità a comparire ai sensi dell’art. 420-ter, comma 5, a
condizione che lo stesso difensore prospetti appena conosciuta la contemporaneità dei
diversi impegni, indichi specificamente le ragioni che rendono essenziale l’espletamento
della sua funzione nel diverso processo e rappresenti l’assenza in detto procedimento di
altro codifensore che possa validamente difendere l’imputato, nonché l’impossibilità di
avvalersi di un sostituto ai sensi dell’art. 102 c.p.p., sia nel processo a cui intende partecipare sia in quello di cui chiede il rinvio: hanno ulteriormente precisato che, ove l’onere
di documentazione dell’impedimento non sia osservato, il giudice può eventualmente,
contemperando le esigenze della difesa con quelle della giurisdizione, concedere il rinvio
secondo il suo prudente apprezzamento, tenendo conto dei problemi organizzativi dell’ufficio giudiziario, dei diritti e delle facoltà per le altre parti coinvolte nel processo e, dei
principi costituzionali di ragionevole durata ed efficienza della giurisdizione [SU 2.2.2015,
n. 4909, Torchia].
Successivamente la Corte Suprema ha osservato che, sebbene il codice di rito non preveda al riguardo nessuna sanzione processuale, al deposito tempestivo di una istanza di
rinvio dovrebbe corrispondere un correlativo onere del decidente di dare una tempestiva
risposta, in un quadro di collaborazione fra i diversi soggetti processuali volto a garantire il
miglior funzionamento della macchina giudiziaria [sez. VI 16.6.2015, n. 25262, Cordovado]:
e questo sembra il minimo dovuto a fronte delle deprecabili prassi per cui sul rinvio “si
decide in udienza”, che pongono il difensore in una grave situazione di disagio.
E’ stato altresì affermato, all’esito di una approfondita esegesi comparativa tra le norme
costituzionali e pattizie in materia di effettività del diritto di difesa, che la formulazione
dell’art. 127 comma 3, secondo cui i difensori sono sentiti “se compaiono”, non preclude
certamente, ed anzi favorisce, l’interpretazione secondo la quale la partecipazione all’udienza del difensore è sì facoltativa, ma egli ha comunque il diritto di comparire: per cui,
ove rappresenti tempestivamente tale proprio intendimento e documenti a sostegno della
richiesta di rinvio, un legittimo impedimento, che assume rilevanza anche nei procedimenti in camera di consiglio, il giudice è tenuto, in presenza di tutte le condizioni di legge, a
disporre in tal senso [sez. VI 11.3.2016, n. 10157, C.C.].
Insomma, qualche maggiore spiraglio si sta finalmente aprendo.
226
Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo
7. Il ricorso per cassazione.
Il ricorso per cassazione, nella forma diretta od indiretta, può essere proposto esclusivamente per il vizio di violazione di legge.
Sotto il profilo strettamente letterale sembrerebbe esclusa l’applicazione della lett. e
(mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione) dell’art. 606, ma correttamente le Sezioni Unite hanno invece esteso il controllo anche ai casi di motivazione
mancante o apparente [SU 29.5.2008, n. 25932, Ivanov, e successivamente ex plurimis,
da ultimo sez. III 28.4.2016, n. 31004, De.Pa.; sez. III 28.4.2016, n. 23736, Ba.Gi; sez. V
25.2.2016, n. 12536, L.B.].
La soluzione prospettata, peraltro, non è del tutto appagante.
Va infatti rammentato come l’art. 125 sanzioni con la nullità l’omessa motivazione delle
sentenze, delle ordinanze e dei decreti (per questi ultimi ove sia espressamente prevista) e
a sua volta l’art. 111 Cost. stabilisce che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati, il che presuppone la doverosa enunciazione, con funzione endoprocessuale,
delle argomentazioni poste a base della decisione e idonee a rivelarne la ratio, al fine di
assicurare la possibilità di una verifica di merito e di legittimità su di essi.
E allora sembrerebbe logico concludere, attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata, che il termine “violazione di legge” contenuto nell’art. 325 comma 1 sia
comprensivo anche del vizio di contraddittorietà o di manifesta illogicità della motivazione
(art. 606, comma 1, lett. e): diversamente resterebbe frustrato quell’inderogabile fine di
controllo dell’attività giurisdizionale, specie se possano profilarsi lesioni di interessi costituzionalmente protetti, come in tema di misure cautelari reali.
Ma indubbiamente la restrittiva previsione normativa e la ritrosia della giurisprudenza
ad aprire varchi garantisti rendono difficile l’accoglimento della soluzione prospettata.
In alcune pronunce, le Sezioni Unite avevano affermato che il procedimento camerale di cassazione in materia di sequestro deve svolgersi nelle forme dell’art. 127 e non in
quelle dell’art. 611, in quanto la trattazione scritta è resa impossibile dal rinvio operato
dall’art. 325 comma 3 all’art. 311 comma 4, che, prevedendo la possibilità di enunciare
motivi nuovi prima del suo inizio, delinea un modulo procedimentale incompatibile con
quello dell’art. 611 [SU 22.2.1993, n. 14, Lucchetta; SU 9.6.1990, n. 4, Serio].
Recentemente il collegio esteso ha però modificato il proprio orientamento, sostenendo
che le argomentazioni sviluppate nelle richiamate pronunce Serio e Lucchetta, entrambe
ormai risalenti nel tempo, debbano essere oggi riviste, pur in presenza di un quadro normativo immutato. In proposito rileverebbe, in primo luogo, la specialità della procedura
camerale non partecipata nel giudizio di cassazione, che opera “se non è diversamente stabilito”, come precisa l’art. 611, mentre l’art. 325, comma 3, e l’art. 311, commi 3 e 4, in esso
Opinioni
8. La partecipazione (negata) alla discussione davanti alla
corte di cassazione.
227
Piero Gualtieri
228
richiamati, non stabiliscono alcunché di diverso rispetto a quanto indicato dallo stesso art.
611, diversamente da quanto stabilito nell’art. 311, comma 5 (non richiamato dall’art. 325),
ove l’osservanza delle forme previste dall’art. 127 è invece specificatamente effettuata: e
ciò trova giustificazione nella sostanziale differenza tra il regime cautelare personale e
quello reale, che legittima opzioni procedurali diversificate. Per altro verso, il ricorso al rito
camerale non partecipato non determina rilevanti conseguenze sulla celere definizione dei
processi ed è pienamente compatibile con i principi della C.e.d.u., in quanto la garanzia
del contraddittorio orale è riferita, dalla Corte e.d.u. al giudizio di merito e non sarebbe
determinante il riferimento alla “discussione” contenuto nel comma 4 dell’art. 309. Il rito
da seguire in caso di ricorso per cassazione proposto a norma dell’art. 325 è quindi quello
previsto dall’art. 611 e non dall’art. 127 [SU 17.12.2015, n. 51207, M.G., GI 2016, 992].
Questa decisione ci vede recisamente dissenzienti, poiché l’art. 311, comma 4, richiamato dall’art. 325, riconosce espressamente il diritto di enunciare “nuovi motivi davanti alla
Corte di cassa-zione, prima dell’inizio della discussione” e non si comprende come questo
precetto possa venire attuato in una procedura alla quale il difensore non è ammesso.
Inoltre, non è accettabile teorizzare una bipartizione tra udienze camerali partecipate,
riservate alle tematiche di maggior valenza, e non partecipate, riguardanti problematiche
meno significative, e la riconduzione nel secondo ambito dei ricorsi relativi alle misure
cautelari reali, non potendo certamente essere considerata di natura secondaria la limitazione alla sfera patrimoniale di un soggetto derivante dall’adozione di misure cautelari
reali, lesive di diritti costituzionalmente tutelati.
D’altro canto, la stessa Corte e.d.u. ha ripetutamente rappresentato la necessità di tenere udienze pubbliche, in applicazione dell’art. 6 C.e.d.u. (“ogni persona ha diritto che la
sua causa sia esaminata....pubblicamente”) in caso di rilevanza della posta in gioco [sentenze 13.11.2007, Bocellari c. Italia; 26.7.2011, Paleari c. Italia; 17.5.2011, Capitani c. Italia;
10.4.2012, Lorenzetti c. Italia]: e la stessa corte costituzionale ha aderito a questa impostazione in numerose pronunce [cfr. le sentenze 93/2010; 135/2014; 109/2015; v. tuttavia per
la non indispensabilità dell’udienza pubblica davanti alla corte di cassazione in tema di
misure di prevenzione, C Cost. 80/2011].
E stante il disposto degli artt. 24 e 111, comma 2, Cost e 6 C.e.d.u., che non ammettono eccezioni, il principio non può essere limitato ai soli giudizi di merito, ma deve valere
anche per quelli di legittimità, avuto riguardo appunto all’importanza della posta in gioco,
particolarmente elevata in tema di sequestro preventivo, che, come ripetutamente rilevato, colpisce beni protetti dagli artt. 41 e 42 Cost. e 1 Prot. Add. C.e.d.u. ha un contenuto
fortemente afflittivo.
La sconsolata constatazione è che le Sezioni Unite abbiano gravemente compresso i
diritti di difesa e al contraddittorio attraverso una interpretazione costituzionalmente “disorientata” e una forzatura del dato normativo, per dare prevalenza ad esigenze di (presunta)
tenuta del sistema e di funzionalità degli uffici e consentire, così, la decisione congiunta
di decine di ricorsi nei c.d. cameroni, caratterizzati da scarsa (per non dire inesistente)
collegialità e soprattutto dall’assenza degli avvocati, i quali sono evidentemente ritenuti un
fastidioso orpello e non soggetti garanti della legalità del processo.
Dissonanze normative e giurisprudenziali nel sequestro preventivo
9. Le conclusioni.
Opinioni
Il pur sommario quadro delineato induce a conclusioni sconfortanti.
Appare evidente la insufficienza delle previsioni normative e desta sconcerto la assoluta
mancanza di interventi correttivi nel progetto di legge di modifiche al processo penale
attualmente all’esame del Parlamento (con diktat impeditivi dell’ANM), trattandosi di una
materia nella quale sono coinvolti interessi costituzionalmente e convenzionalmente protetti, che meriterebbero più pregnanti tutele, avuto riguardo al contenuto afflittivo e spesso
economicamente devastante dell’ablazione dei beni.
Questa esigenza dovrebbe ancor più valere in materia di sequestro finalizzato alla
confisca per equivalente, ove è stato reciso qualunque nesso di pertinenza tra il reato e
la cosa sottoposta alla misura ed è quindi del tutto evaporato il presupposto principale
posto a fondamento delle decisioni del giudice delle leggi di rispondenza alla costituzione dell’istituto: e la situazione è particolarmente critica nelle ipotesi disciplinate dall’art.
12 sexies, d.l.306/1992, ove prevede addirittura la rammentata presunzione di illegittima
appartenenza dei beni.
Parimenti, la limitazione del ricorso per cassazione alla sola violazione di legge rende
praticamente impossibile un effettivo controllo della decisione del tribunale del riesame.
Per altro verso va rilevato come la giurisprudenza di legittimità segua itinerari poco
rispettosi dei diritti individuali e abbia eluso anche l’applicazione della pur minimale riforma dell’art. 324, comma 7, c.p.p., vanificando nella sostanza la giurisdizionalizzazione
della procedura, attraverso automatismi applicativi e forzatura degli scarni dati normativi.
Non resta da sperare che qualche giudice sensibile provochi un nuovo esame dei sopra
evidenziati profili di violazione degli artt. 24, 27, comma 2, 42 e 117, comma 1, Cost.: con
la consapevolezza, peraltro che la corte costituzionale pare poco incline alla estensione
delle garanzie individuali.
229
La relazione governatica sull’applicazione delle misure cautelari
La relazione governativa sull’applicazione
delle misure cautelari: un documento
dai toni troppo entusiastici, basato su dati
poco attendibili
Fabio Alonzi
Sommario : 1. I risultati raggiunti dall’analisi governativa sull’applicazione delle misure cautelari. – 2.
L’effettivo impatto della modifica normativa in tema dei pericula libertatis sulle prassi giudiziarie. – 3. Il
ricorso alla misura carceraria. – 4. L’applicazione della misura degli arresti domiciliari.
1. I risultati raggiunti dall’analisi governativa
sull’applicazione delle misure cautelari.
1
La Relazione è stata presentata il 30 giugno 2016 ed è consultabile in www.camera.it, XVII legislatura, Relazione sulle misure cautelari personali, in Documenti parlamentari, Doc. CCXXXIX, n. 1.
2
In particolare la relazione è stata redatta dalla Direzione Generale della Giustizia Penale, Uffici I – Reparto Dati Statistici e Monitoraggio.
3
Decisamente critico è stato il Commento alla relazione ministeriale da parte dell’Unione delle camere penale italiane che ha ritenuto
la stessa assolutamente «deludente». Il documento è pubblicato in www.camerepenali.it.
Opinioni
Nell’estate scorsa1 è stata trasmessa da parte del Governo alla Presidenza della Camera
dei Deputati la prima relazione sull’applicazione delle misure cautelari personali.
Il documento, predisposto dal Ministero della Giustizia2, intende assolvere a quanto
richiesto dall’art. 15 della legge n. 47 del 2015 che impone all’esecutivo di presentare alle Camere entro il 31 gennaio di ogni anno una «relazione contenente dati, rilevazioni e
statistiche relativi all’applicazione, nell’anno precedente, delle misure cautelari personali,
distinte per tipologie, con l’indicazione dell’esito dei relativi procedimenti, ove conclusi», e
fornire così quelle informazioni necessarie per verificare l’effettivo uso che si fa, nel nostro
Paese, dello strumento cautelare3.
L’importanza del tema sollecita una attenta analisi dei contenuti della relazione e delle
231
Fabio Alonzi
conclusioni alle quali la stessa è pervenuta. La valutazione di questo lavoro consente anche di appurare quale sia stato l’impatto delle recenti modifiche normative della disciplina
delle cautele sulla prassi giudiziaria, avendo sotto mano, per la prima volta, delle cifre
sulle quali poter riflettere.
Il documento governativo si compone di fatto di tre parti. La prima dedicata all’illustrazione della metodologia seguita, la seconda all’analisi dei dati che si sono raccolti, l’ultima
alle valutazioni conclusive.
Iniziamo dalla verifica del metodo al quale si è fatto ricorso, per poi passare all’analisi
delle ulteriori parti dell’elaborato.
Per portare a termine il proprio lavoro il Ministero ha coinvolto nella rilevazione dei dati
tutti i centotrentasei tribunali presenti sul territorio nazionale inviandogli un prospetto nel
quale gli uffici interessati dovevano sostanzialmente indicare il numero di misure cautelari
emesse nell’anno di osservazione – il 2015 - ed il numero di procedimenti nel cui ambito
erano state emesse le misure cautelari, precisando se il procedimento fosse stato iscritto
nell’anno o in quelli precedenti. Questa specificazione, come si precisa nell’atto ministeriale, risponde «alla finalità di offrire un indicatore (orientativo) circa la concreta valorizzazione da parte dei giudici di merito del requisito di attualità che deve oggi connotare
tutte le esigenze cautelari». Ognuna di queste due categorie è poi ulteriormente suddivisa
in ulteriori tabelle dirette a far risaltare le diverse tipologie di misure cautelari adottabili.
Nonostante il coinvolgimento di tutte le autorità giudiziarie nazionali, hanno fatto pervenire i dati richiesti solamente 48 uffici su 136 pari al 35 % dei tribunali interessati, per
lo più di medie o piccole dimensioni, ad eccezione del Tribunale di Napoli, al quale, in
ragione della sua importanza, viene dedicato un apposito capitolo della relazione.
Dai dati messi a disposizione del Ministero risulta che nell’anno 2015 in relazione ai 3.894
procedimenti pendenti4 sono state disposte 12.959 misure cautelari personali di cui il 46 %
per custodia in carcere (6.016), il 29% per arresti domiciliari (3.704), il rimanente diviso tra
obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria pari all’11% (1.430), una quota leggermente
inferiore per il divieto e l’obbligo di dimora 10 % (1.288) ed a seguire le altre misure.
Ad avviso dei redattori del documento, già questi primi dati appaiono incoraggianti in
quanto gli stessi dimostrano che la misura carceraria è stata utilizzata meno della metà
delle volte in cui è stata disposta una ordinanza cautelare e che comunque si è fatto un
buon ricorso alla detenzione domiciliare.
Incrociando i dati dei procedimenti iscritti nell’anno oggetto di osservazione, con quello delle cautele adottate, si ritiene altresì che al requisito dell’attualità delle esigenze cautelari è «stato dato adeguato rilievo da parte dell’autorità giudiziaria» in quanto la quasi
totalità delle misure sono state emesse nello stesso anno di iscrizione dei procedimenti.
Un’ulteriore ragione di ottimismo sul buon uso delle cautele viene poi individuato nella
232
4
Il dato viene ulteriormente suddiviso tra i procedimenti iscritti nel 2015, pari a 3.743, e quelli iscritti negli anni precedenti, pari a 151.
La relazione governatica sull’applicazione delle misure cautelari
5
Nella relazione si legge che i procedimenti definiti nel corso del 2015 sono stati 321, cifra che però non corrisponde alla somma delle
singole cifre che compaiono nella tabella ossia 259 (sentenza condanna), 23 (sentenza di condanna con sospensione), 25 (sentenze
di assoluzione), 5 (sentenze per altro), che è pari a 309.
6
Alla luce dei calcoli indicati nella nota precedente la percentuale dovrebbe scendere a quota 88, mentre per la relazione la cifra
indicata è quella del 91 %.
Opinioni
circostanza che per 2.406 procedimenti per i quali è stata disposta una cautela ed è intervenuta una sentenza non definitiva, la custodia in carcere è stata disposta “solo” nel 42 %
dei casi. In questi procedimenti, occorre sottolineare, sono ricomprese anche le ipotesi in
cui sia stata disposta la sospensione condizionale della pena. Ad avviso del ministero l’emersione di questa circostanza non deve preoccupare in quanto la successiva concessione
del beneficio previsto dall’art. 163 c.p. non costituisce un sintomo di disattenzione dei
giudici delle misure, per quanto previsto dall’art. 275 comma 2-bis c.p.p., ma con buona
probabilità è il riflesso della «differente piattaforma conoscitiva (e base prognostica) della
quale dispone il giudice della cautela rispetto al giudice del merito».
Dall’analisi dello stesso dato – i 2.406 procedimenti iscritti – emerge altresì che in 830
casi siano stati utilizzati gli arresti domiciliari il che dimostrerebbe «l’impatto delle disposizioni recentemente introdotte dal legislatore in tema di controllo elettronico e … di
inasprimento delle misure in caso di trasgressione (art. 276 c. 1 e art. 284 c. 5 c.p.p.)». Le
altre misure quali l’obbligo di presentazione ed il divieto e l’obbligo di dimora sono state
applicate rispettivamente nel 13% e nel 9% circa del totale.
Per i procedimenti iscritti nel 2015 e che nello stesso anno sono divenuti definitivi – pari
ad 845 – sono emersi dati simili a quelli rilevati nelle ipotesi in cui non è invece intervenuta l’irrevocabilità della decisione. Anche in questi casi la custodia cautelare è stata disposta
in 361 casi pari a circa il 42%. Di poco inferiore il numero degli arresti domiciliari, disposti
in 248 procedimenti, pari a quasi il 30% del totale.
Nella stessa relazione si dà poi atto dell’esistenza di una ridotta percentuale di esiti assolutori in procedimenti nei quali è stata disposta una misura cautelare, che si riduce ulteriormente per quelli in cui sia stata disposta la custodia intramuraria. Dei 3.743 procedimenti, iscritti
nel 2015, nei quali è stata disposta una cautela, “soltanto” in 198 ipotesi è poi intervenuta una
assoluzione. Per 83 di questi casi è stato disposto il carcere ed in 67 gli arresti domiciliari.
Una parte della relazione ministeriale, come anticipato, è poi dedicata all’analisi nel
dettaglio dei dati forniti dal Tribunale di Napoli, ritenuto degno di particolare attenzione
in quanto relativo a una «delle nostre quattro grandi metropoli sopra il milione di abitanti».
Nel capoluogo partenopeo sono state disposte, sempre nel 2015, 2.275 misure cautelari
di cui 1.227 di tipo custodiale (pari a circa il 54 %), 661 per arresti domiciliari (pari a circa
il 29 %) e 263 per obbligo di presentazione alla polizia, per citare i dati di maggior rilievo.
Il primo elemento che viene messo in evidenza nella relazione è che su 3215 procedimenti definiti nel corso del 2015 in cui è stata disposta la misura custodiale in circa il 90
%6 dei casi è poi intervenuta una decisione di condanna.
233
Fabio Alonzi
Ad avviso dello stesso documento i dati napoletani sembrerebbero confermare quanto
emerso a livello nazionale circa l’incidenza che assume, sull’adozione dei provvedimenti
de libertate, la necessità che le esigenze cautelari siano connotate dal carattere dell’attualità, in quanto su un totale di 797 procedimenti in cui è stata applicata una misura cautelare,
761 (pari al 95 %) sono stati scritti nello stesso anno.
Anche per quel che concerne il ricorso alla custodia in carcere il Tribunale napoletano sembrerebbe in linea con la tendenza nazionale essendosi riscontrato un ricorso alla
misura più afflittiva nel 41 % dei casi, ed un 40 % per la misura degli arresti domiciliari,
relegando invece al 14 % l’utilizzo della misura dell’allontanamento dalla casa familiare.
Molto pochi sono invece, nel caso di Napoli, i procedimenti in cui è stata disposta una
misura cautelare e sia intervenuta nello stesso anno la definitività, sebbene anche per essi
sembrerebbero emergere gli stessi risultati già rilevati in sede nazionale, con un ricorso al
carcere nel 37 % dei casi analizzati.
All’esito dell’illustrazione dei dati raccolti, il Ministero della giustizia ritiene che gli stessi
possano essere ritenuti «confortanti per quanto attiene al rispetto del canone dell’attualità
delle esigenze di cautela, al ricorso non totalizzante alla misura carceraria, all’applicazione della misura degli arresti domiciliari», sebbene non si manchi di osservare che
queste prime conclusioni dovrebbero essere misurate su un campione molto più esteso.
Guardando ancora al futuro, e profittando del consolidamento dell’utilizzo del sistema
S.I.C.P., l’organo redattore della relazione ritiene opportuno: a) estendere il rilevamento
dei dati alle decisioni del tribunale per la libertà per verificare l’impatto che ha avuto sul
giudizio di gravame il canone della autonoma valutazione, ritenuto «una delle più rilevanti
novità introdotte dalla riforma»; b) analizzare l’incidenza delle sentenze “liberatorie” pronunciate in anni successivi a quello dell’applicazione della misura; c) rilevare la durata
media dei procedimenti in cui intervenga una misura cautelare; d) valutare diacronicamente l’attuazione «dei principi ispiratori delle recenti riforme del settore».
L’ottimismo sul limitato uso delle cautele nel nostro Paese che traspare dalla lettura
dell’intero documento e che viene poi direttamente espresso nelle conclusioni dello stesso atto non sembra possa essere condiviso per una serie di ragioni che ci accingiamo ad
illustrare, non senza aver prima evidenziato un dato.
Grava sui risultati dell’indagine condotta dal Governo italiano un duplice peccato di
origine in grado di condizionarla: l’estrema scarsità degli elementi conoscitivi raccolti ed il
fatto che le valutazioni statistiche siano state fatte non in relazione agli indagati/imputati,
ma al numero di procedimenti iscritti.
Come detto in precedenza solamente – ed inspiegabilmente si deve aggiungere7 - un’esigua minoranza dei tribunali interpellati ha fornito i dati richiesti, pari a poco più di un
7
234
Nulla viene detto ed osservato all’interno della relazione su questo mancato invio di informazioni da parte di chi le doveva trasmettere, omettendo così di portare a conoscenza del Parlamento quali siano state le ragioni che hanno impedito alla maggior parte delle
Autorità giudiziarie italiane di non adempiere a quanto loro imposto normativamente.
La relazione governatica sull’applicazione delle misure cautelari
terzo di quelli che vi sono sull’intero territorio nazionale. Se già questo elemento ipoteca i
risultati dell’indagine condotta si deve poi considerare che, come emerge dalla stessa relazione, gli elementi conoscitivi comunque raccolti provengono da realtà giudiziarie di non
primaria importanza. Le informazioni sono, difatti, state fornite da “uffici che non sono sede
di Direzione distrettuale antimafia o non sono ubicati in territori parimenti insidiati da
organizzazioni di tipo mafioso»8, motivo più che sufficiente per ritenere non pienamente
attendibile la descrizione che si è voluta dare della realtà custodiale del Paese.
Per quanto riguarda invece la metodologia seguita, la stessa non è capace di mostrare,
come ha evidenziato l’Unione delle camere penali, l’esatto numero delle persone raggiunte da misure cautelari, ma esclusivamente il numero dei procedimenti nelle quali le
misure sono state adottate, alterando così ogni successiva lettura ed interpretazione del
dato statistico9. Il limite appena messo in evidenza non appare di poco momento ed oltretutto di difficile giustificazione se si pensa che, contestualmente all’adozione del sistema
di rilevazione S.I.C.P.10, a quanto è dato sapere, è stato adottato, a livello di registrazione
informatica, anche il sistema del fascicolo personale delle misure cautelari (B.D.M.C.) che
forse si sarebbe dovuto utilizzare per la raccolta dei dati.
2. L’effettivo impatto della modifica normativa in tema dei
pericula libertatis sulle prassi giudiziarie.
Come già anticipato diverse sono le ragioni che non ci consentono di condividere i
giudizi del Ministero sulla gestione delle cautele nel nostro Paese.
Innanzitutto non si può accogliere la prima conclusione della relazione per la quale
l’analisi dei dati raccolti consente di affermare che si sia fatto un buon uso del “nuovo” canone dell’attualità delle esigenze cautelari, frutto della recente riforma11, in quanto la quasi
totalità delle misure emesse nell’anno oggetto di osservazione è stata adottata nell’ambito
di procedimenti iscritti nello stesso anno. L’equazione proposta appare assolutamente
semplicistica e soprattutto inidonea a giustificare la conclusione che vorrebbe proporre.
Il concetto di attualità di una esigenza cautelare ha poco o nulla da condividere con il
8
Cfr. pag. 17 della Relazione.
Cfr. Commento UCPI, cit., nel quale si legge che non si comprende come si sia potuto operare «se non accedendo ad una inammissibile approssimazione, un calcolo statistico sulla base di un dato disomogeneo quale è quello che riguarda il rapporto non costante
fra numero di indagati/imputati e numero di procedimenti, per cui a fronte di procedimenti nei quali figura un solo imputato ve ne
sono molti … nei quali, anche a prescindere dalla natura plurisoggettiva della fattispecie di reato, compaiono molti indagati».
10
In verità non ci si può esimere dall’osservare che implicitamente questo limite è ammesso dalla stessa relazione nel quale si pone in
luce che in futuro occorrerà «sfruttare meglio le potenzialità del sistema di registrazione per isolare dati riflettenti, anziché il numero
di procedimenti, il numero delle persone»
11
Con l’art. 2 della l. 47 del 2015, il legislatore è intervenuto sulla disciplina delle esigenze cautelari richiedendo che anche il pericolo
di fuga e la “reiterazione del reato” debbano essere connotati dal carattere dell’attualità. In argomento si vedano V. Aiuti, Esigenze
cautelari e discrezionalità giudiziale, in www.lalegislazionepenale.eu, 1.12.2015; A. Ciavola, La valutazione delle esigenze cautelari,
in La riforma delle misure cautelari personali, a cura di L. Giuliani, Torino, 2015, 59 ss.; G. Spangher, Un restyling per le misure cautelari, in Dir. pen. proc., 2015, 535.
Opinioni
9
235
Fabio Alonzi
dato relativo alla iscrizione del procedimento che indica esclusivamente il momento in cui
l’autorità giudiziaria è venuta a conoscenza di una notizia di reato. Le ragioni sono diverse
ed anche abbastanza evidenti.
In primo luogo perché conoscenza e commissione del reato sono due momenti che
non necessariamente coincidono. Anzi si può dire proprio l’esatto contrario, poiché fatta
eccezione per le ipotesi di flagranza e quelle di reati commessi in udienza, esiste sempre
un divario temporale tra il momento in cui l’autorità viene a conoscenza di un fatto di
reato e quello della sua reale consumazione. L’intervallo che le separa può anche essere
significativo con la ovvia conseguenza che il dato dell’iscrizione ci dice assai poco circa
il momento di consumazione dell’ipotizzato reato, per cui appare innanzitutto azzardato,
o forse meglio errato, sostenere, come di fatto fa la relazione, che dall’avvenuta iscrizione
possiamo certamente inferire che il reato sia stato commesso poco prima.
Peraltro l’esistenza di questo divario non sfugge ai redattori del documento in esame i
quali quando si trovano a commentare il dato relativo ai provvedimenti cautelari emessi
in relazione a procedimenti iscritti prima del 2015, sono costretti ad osservare, per non
smentire l’assunto sostenuto, che «i fatti-reato dedotti nei titoli cautelari o quelli che hanno
acutizzato i pericula libertatis potrebbero essersi verificati in epoca successiva all’iscrizione dei procedimenti, senza dar luogo, per ragioni di connessione soggettiva e/o oggettiva
… a nuove iscrizione»12.
Ma quand’anche si potesse giungere ad affermare che via sia coincidenza tra commissione del reato e sua conoscenza da parte dell’autorità giudiziaria, la stessa non appare
assolutamente idonea a far ipotizzare la sussistenza del bisogno cautelare per come predicato attualmente dal legislatore.
Detto in altri termini il carattere dell’attualità non può essere affatto desunto dalla
circostanza che un reato sia stato commesso poco prima. Per accertare un tale modo di
essere delle esigenze cautelari occorre sì guardare alla dimensione temporale, ma solo per
verificare se, con gli elementi conoscitivi che si hanno a disposizione, sia possibile, per il
giudice, concludere che il pericolo cautelare, oltre che probatoriamente fondato, e quindi
concreto, sia anche di imminente realizzazione. Accertamenti, dunque, che non guardano
alla precedente commissione del reato, ma a verificare se la libertà del suo presunto autore
possa costituire un “danno” per il processo.
Vi è poi una seconda ragione che ci fa dubitare che effettivamente, per le cautele disposte nel corso del 2015, abbia giocato un ruolo determinante la modifica normativa sulle
esigenze cautelari approvata nel corso dello stesso anno.
Basta in proposito scorrere le decisioni emesse dal Supremo collegio, nell’anno oggetto
12
236
Questo rilievo consente di affermare come la lettura dei dati raccolti fornita dal ministero sia stata assolutamente partigiana, volendo
a tutti i costi dare un quadro assolutamente tranquillizzante della situazione italiana e comunque espressiva di una realtà giudiziaria
assolutamente ossequiosa dei criteri normativi che governano la materia cautelare, forzando, come in questo caso, fino all’inverosimile gli argomenti spendibili.
La relazione governatica sull’applicazione delle misure cautelari
di osservazione, sul significato e la rilevanza del requisito dell’attualità per rendersi conto
di come l’introduzione di questo nuovo parametro non abbia condotto affatto, nell’immediato, a quella contrazione nell’uso delle cautele che il legislatore voleva perseguire. A
fronte, difatti, di non poche decisioni nelle quali si è sottolineato che l’espressa previsione
del requisito dell’attualità aggiungeva ben poco a quanto non fosse già desumibile nel
sistema normativo preesistente13, ve ne sono state anche altre in cui si è ritenuto che il requisito dell’attualità non andasse affatto equiparato all’imminenza di un pericolo cautelare,
dovendosi lo stesso apprezzare sulla «base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la
potenzialità criminale dell’indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi recenti,
idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura
cautelare è chiamata a realizzare»14.
Queste decisioni testimoniano, dunque, come in un primo momento la riforma della
disciplina cautelare non sia stata accolta con favore da parte della giurisprudenza di legittimità che ha teso a sminuire il significato innovativo della novella, riducendo così di molto
il suo impatto sulle prassi applicative, salvo poi modificare questo suo orientamento nel
corso del 2016.
Ed allora non resta che osservare come l’entusiasmo che traspare dalla relazione in ordine all’effetto che ha prodotto sull’uso delle cautele la interpolazione dell’art. 274 c.p.p.
sia totalmente infondato. Peraltro per poter affermare che vi sia stata una effettiva contrazione del ricorso alle cautele si dovrebbe essere in possesso di dati relativi all’applicazione
delle stesse negli anni precedenti: elementi che però non si conoscono.
L’altro punto della relazione che non può essere condiviso è quello in cui si giunge a
sostenere che, sulla base delle rilevazioni effettuate, le recenti riforme intervenute in materia de libertate hanno condotto effettivamente a ridurre il ricorso alla più limitative tra le
misure cautelari previste nel nostro ordinamento.
Al di là della considerazione che, come già osservato nel paragrafo 2, per formulare
una tale conclusione dovremmo essere in possesso dei dati relativi agli anni precedenti
rispetto a quello oggetto di verifica e anteriori all’entrata in vigore dell’ultima riforma del
2015, il dato statistico relativo al numero di provvedimenti custodiali emessi non consente
a nostro avviso di poter sostenere che nel nostro Paese il ricorso al carcere sia residuale,
come invece vorrebbe il legislatore.
E questo non solo perché la cifra del 46 % è un dato che coincide presso a poco con
la metà dei provvedimenti cautelari adottati nel corso dell’anno oggetto di indagine, ma
Opinioni
3. Il ricorso alla misura carceraria.
13
Cfr. ex plurimis Cass. Sez. I, 21 ottobre 2015, Calandrino, in CED Cass., n. 265985, sul presupposto che il requisito dell’attualità fosse
insito già in quello della concretezza.
14
Così tra le altre Cass. Sez. VI, 27 novembre 2015, Esposito, in CED Cass., n. 265618.
237
Fabio Alonzi
anche in considerazione del fatto che la custodia in carcere si posiziona al primo posto tra
le misure emesse nel 2015 in Italia, segno più che evidente che il ricorso alla detenzione
ante rem iudicata continui a non essere adottata seguendo il canone della extrema ratio.
Se poi si somma il dato percentuale relativo alla custodia cautelare con quello emerso
per gli arresti domiciliari, pari a circa il 29 % delle misure emesse, si ottiene un risultato
che appare degno di riflessione. La somma delle due cifre ci dice che i due terzi dei provvedimenti cautelari adottati nel nostro Paese – ossia il 75 % dei casi – hanno comunque
natura detentiva, in contrasto con il principio di gradualità nell’applicazione delle misure
ed evidentemente non sfruttando la possibilità oggi offerta dall’art. 275 c.p.p., di applicare
congiuntamente più misure cautelari. Per non considerare poi che, per quanto è dato comprendere dalla relazione, i dati raccolti, ad eccezione del Tribunale di Napoli, provengono
da tribunali di medie e piccole dimensioni ubicati in territori dove non risultano insediate
organizzazione di tipo mafioso, con il che viene meno la possibilità di giustificare il ricorso
alla custodia cautelare con le presunzioni che ancora governano la materia de libertate
quando si tratta di procedimenti che riguardano la criminalità organizzata.
Vi è poi un ulteriore elemento che sollecita una riflessione. Intendiamo riferirci alla circostanza che analizzando i procedimenti per i quali sia stata disposta la custodia cautelare
un grande rilievo tranquillizzante sia stato dato alla circostanza che per gli stessi sia poi
comunque intervenuta una sentenza di condanna, anche se in non pochi casi con applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Orbene forse questo è uno dei passaggi più allarmanti della relazione poiché l’aver dato
grande rilievo alla circostanza che il quadro indiziario ipotizzato nel provvedimento cautelare abbia poi trovato riscontro nella decisione di merito la dice lunga sulla persistenza
di una certa maniera di intendere l’accertamento cautelare.
Anche da questo documento traspare l’importanza che continua ad essere attribuita alla
verifica del fumus commissi delicti a fronte del completo disinteresse mostrato per il tema
delle esigenze cautelari, che non ha mai assunto, anche nella prassi giudiziaria, quell’importanza e quel ruolo che invece gli dovrebbe essere riconosciuto15. Forse, come osservato
in dottrina all’indomani dell’ultima riforma normativa, questo stato di cose può dipendere
anche dalla carenza nella disciplina positiva «di un’indicazione sullo standard probatorio
necessario a giustificare la decisione sui pericula libertatis»16, ma è comunque innegabile
che quanto più diminuisce l’importanza che viene attribuita alle esigenze cautelari tanto
più aumentano le difficoltà di operare una distinzione tra cautela e pena, con inevitabili
conseguenze sulla tenuta costituzionale di un tale assetto. La ragione è abbastanza eviden-
15
238
Lo osserva di recente E. Marzaduri, Law in the books e law in action: la libertà personale tra rispetto della presunzione di non colpevolezza ed anticipata esecuzione delle sanzioni detentive, in www.lalegislazionepenale.eu., 19.9.2016, il quale sottolinea che nelle
decisioni giudiziarie solitamente pubblicate, «si rinvengono tuttora con preoccupante frequenza motivazioni che esauriscono in poche
battute la verifica della sussistenza delle esigenze cautelari».
16
Cfr. A. Ciavola, La valutazione delle esigenze cautelari, cit., 80.
La relazione governatica sull’applicazione delle misure cautelari
Opinioni
te: l’identità cautelare di una misura è data esclusivamente dagli interessi, tutti necessariamente di natura processuale, che la stessa intende preservare.
Ed ancora, al di là di quanto sin qui considerato, l’avvenuta conferma in sede di merito
del quadro indiziario ipotizzato ex art. 273 c.p.p. non ci dice assolutamente nulla circa il
corretto uso dello strumento cautelare soprattutto se questo dato non lo si confronta con
la tenuta del provvedimento cautelare ai successivi controlli giurisdizionali, i quali potrebbero aver censurato la misura per carenza di esigenze cautelari.
Per concludere si deve infine notare come del tutto riduttive siano le valutazioni spese
dalla relazione a commento del numero dei procedimenti, in cui sia stata adottata una
misura cautelare, per i quali sia intervenuta successivamente una sentenza di condanna,
sebbene a pena sospesa.
In questo caso il documento si limita ad osservare un po’ troppo affrettatamente che
questo risultato non dimostra una disattenzione dei giudici per il rispetto del canone della
proporzionalità della misura, ma con buona probabilità è espressione della differente piattaforma cognitiva che hanno a disposizione il giudice della cautela e quello del merito e
degli eventuali apporti probatori difensivi acquisiti nella fase dibattimentale che possono
aver indirizzato a riconoscere il beneficio solo successivamente.
Non vi è alcun dubbio che questi rilievi in alcuni casi colgano nel segno, ma non tanto
da giustificare l’emersione di una percentuale, pari al 15 % dei procedimenti scrutinati,
ancora troppo elevata.
La permanenza di una scarsa affidabilità sulle valutazioni di proporzionalità fatte al
momento dell’applicazione della misura è dimostrata dai dati emersi in relazione ai procedimenti, iscritti nell’anno 2015, per i quali è stata emessa una misura cautelare e una
sentenza di condanna definitiva. Nel 26 % delle ipotesi considerate è stata disposta la
misura custodiale con il successivo intervento di una condanna, ma a pena sospesa. Se si
riflette sulla circostanza che la definitività è intervenuta nello stesso anno di iscrizione del
procedimento non si va lontano dal vero se si afferma che questi procedimenti sono stati
definiti, con buonissima probabilità, con il rito descritto dall’art. 444 c.p.p., e verosimilmente all’esito di un giudizio direttissimo17, il che testimonia che lo stesso giudice che ha
gestito la cautela ha provveduto poi a decidere nel merito il processo, sullo stesso materiale probatorio, ma evidentemente con scarsa attenzione a quanto previsto dalla disciplina
positiva. A voler essere maliziosi si potrebbe dire che, forse, in queste ipotesi la cautela si
è dimostrata un’efficace pungolo per una rapida definizione del processo.
17
Si ipotizza il solo patteggiamento in quanto questa definizione del processo è l’unica per la quale si perviene così in fretta alla definitività della sentenza. Non altrettanto si può dire per il rito abbreviato al quale si ricorre di solito quando non sussistono le condizioni
per patteggiare e che comunque mette capo ad una decisione appellabile allontanando così la formazione del giudicato.
239
Fabio Alonzi
4. L’applicazione della misura degli arresti domiciliari.
Non spiccano per obiettività neppure le valutazioni operate dalla relazione sull’utilizzo
degli arresti domiciliari. Non appare condivisibile, in particolare, la conclusione secondo
la quale l’analisi dei procedimenti monitorati nel corso del 2015, giunti a sentenza non
definitiva, nei quali si è riscontrato un notevole ricorso alla misura prevista dall’art. 284
c.p.p. (pari al 34 % dei casi scrutinati), dimostrerebbe il positivo impatto che avrebbero
avuto sulle prassi applicative le disposizioni recentemente introdotte in tema di controllo
elettronico dei detenuti domiciliari e di inasprimento delle misure in caso di trasgressione
(artt. 276 e 284 c.p.p.) che hanno riconsegnato al giudice della cautela la possibilità di
valutare l’entità dell’infrazione commessa18.
Innanzitutto non si può non partire dal rilievo che proprio dagli stessi dati presi in considerazione dal documento governativo (tabella 1) emerge chiaramente, giova ripeterlo,
come sia sempre la custodia cautelare in carcere la misura che trova, in concreto, maggiore
applicazione, posizionandosi sempre al primo posto nella classifica delle misure adottate a
livello nazionale. La persistenza di questo primato dimostra, evidentemente, come fatichi a
trovare applicazione il principio di residualità della custodia carceraria, poiché se le nuove disposizioni che il legislatore ha introdotto negli ultimi anni per favorire il ricorso alla
detenzione domestica avessero sortito il loro effetto ci saremmo dovuti trovare di fronte
a ben altri risultati, quantomeno con una preminenza applicativa degli arresti domiciliari
sulla custodia in cercare.
Se poi si passa ad analizzare le asserite ragioni del successo degli arresti domiciliari
evidenziate dalla relazione emerge un ulteriore motivo di dissenso. In mancanza di una
seria ed obiettiva rilevazione di dati circa l’effettivo utilizzo del c.d. braccialetto elettronico,
che dal documento che stiamo analizzando non emerge sia stata fatta, sfugge francamente
come si possa affermare che la possibilità di ricorrere a dispositivi di controllo elettronico
sulla persona abbiano facilitato il ricorso agli arresti domiciliari19.
Ma vi è di più. La prassi applicativa, per come traspare dalle decisioni della giurisprudenza di legittimità, ci consegna in effetti una realtà assolutamente diversa da quella proposta dalla relazione in commento.
Solo pochi mesi fa la Suprema corte20 si è trovata a dirimere un contrasto insorto al suo
interno su quale misura dovesse essere applicata qualora, per l’indisponibilità dei dispositivi elettronici, non fosse possibile disporre gli arresti domiciliari con tale forma di con-
18
Cfr. Rel., cit., 11.
Anche in questo caso non si può poi ribadire quanto si è già osservato in precedenza: in assenza di dati relativi agli anni precedenti
a quello oggetto di osservazione risulta francamente arduo formulare qualsivoglia giudizio comparativo. Per essere scientificamente
corretti dovremmo avere a disposizione i dati relativi all’applicazione della detenzione domestica prima e dopo gli interventi normativi che hanno favorito l’applicazione del braccialetto elettronico: l’unica maniera per ottenere dei risultati attendibili.
20
Cfr. Cass. Sez. un., 28 aprile 2016, Picciarelli, in questa rivista, con osservazioni di I. Conti, Indisponibilità del braccialetto elettronico:
il giudice non deve automaticamente applicare la misura cautelare in carcere, 115 ss.
19
240
La relazione governatica sull’applicazione delle misure cautelari
21
La soluzione proposta dalla Cassazione è stata di natura compromissoria rispetto ai due orientamenti in conflitto, indicando che
qualora non si abbia la disponibilità del braccialetto elettronico non scatti alcun automatismo, dovendo valutare il giudice, ai fini
dell’applicazione o della sostituzione della misura coercitiva, quale sia la misura, idonea e proporzionale, a soddisfare le esigenze
cautelari del caso concreto.
Opinioni
trollo. Al di là del risultato esegetico al quale la Corte è pervenuta, sul quale si potrebbe
avanzare qualche riserva21, ciò che emerge chiaramente è che in non pochi casi si sono
registrate delle difficoltà applicative degli arresti domiciliari legate proprio alla carenza
delle apparecchiature elettroniche, testimoniando così come la disciplina positiva abbia
trovato molti ostacoli per la sua attuazione.
Volgendo al termine di queste nostre considerazioni si può chiudere con un auspicio.
Le molte carenze del documento governativo che abbiamo sin qui analizzato, motivate
anche dalla mancata collaborazione delle autorità giudiziarie che erano state coinvolte,
appaiono tutte colmabili.
La speranza è che nelle relazioni che seguiranno il ministero proceda ad una più completa ed accurata rilevazione dei dati, astenendosi nel contempo dal fornire letture eccessivamente partigiane degli stessi, per consegnare così a tutti gli operatori del diritto una
fotografia reale dell’applicazione delle misure cautelari nel nostro Paese. Uno strumento
indispensabile per contribuire a generare un serio dibattito sull’effettivo uso e sul ruolo
che le cautele assolvono nell’attuale sistema processuale.
241
I tempi delle indagini preliminari: i “no” della Procura
I tempi delle indagini preliminari:
i “no” della Procura
Giorgio Spangher
Sommario : 1. Termine per l’esercizio dell’azione penale. – 2. Termine di iscrizione della notizia di reato.
– 3. Nessun controllo sui p.m.
Ogniqualvolta il legislatore fissa un termine per lo svolgimento della loro attività i magistrati “vanno in tilt”. Se poi il legislatore vi riconduce quale profilo sanzionatorio (disciplinare, avocazioni del superiore gerarchico, sanzioni processuali, perdita di efficacia dei
provvedimenti tardivi, e quant’altro) salgono “sulle barricate” ritenendo che ci sia sotto il
desiderio di limitare lo svolgimento delle funzioni, per tutelare oscure finalità.
Si cercano così gli strumenti operativi per disinnescare le implicazioni delle opzioni
normative.
Il dato è emerso – da ultimo – relativamente alla previsione che vorrebbe fissare un
termine per la richiesta dell’udienza preliminare dopo l’esaurimento delle attività di cui
all’art. 415 bis c.p.p. La questione è stata posta sul tappeto delle rivendicazioni dell’A.N.M.
nel corso dell’incontro del 24 ottobre con il Presidente del Consiglio ed il Ministro della
Giustizia. Al riguardo è stato sollevato anche il problema della possibile avocazione da
parte del Procuratore Generale presso la Corte d’appello nel caso dell’infruttuoso decorso
del termine.
Invero, le critiche nei confronti di questo aspetto della riforma Orlando – peraltro, impantanatasi, per varie ragioni, al Senato – è infondata e pretestuosa, anche a prescindere
dalla possibilità che i previsti tre mesi per esercitare l’azione penale possano essere prorogati di altri tre mesi (già questo è stato un ingiustificato cedimento alle rivendicazioni della
Magistratura associata). Invero, all’atto del deposito, il p.m. ha già deciso – come tutti gli
operatori della giustizia sanno – di non archiviare (configurandosi quest’ultima come una
ipotesi “di scuola” – possibile, ma irrealizzabile nei fatti).
Il p.m., invero, ha già formulato la “preimputazione”; ha già depositato il materiale delle
indagini e le eventuali attività difensive dell’imputato.
Ha già ordinato il materiale; la discovery si è realizzata; non sono possibili ulteriori atti-
Opinioni
1. Termine per l'esercizio dell’azione penale.
243
Giorgio Spangher
vità essendo (verosimilmente) scaduti i termini delle indagini. Dopo il deposito, si tratta di
“sistemare” l’attività conseguente eventualmente sollecitata dalla difesa, nonché l’eventuale
investigazione da questa ritenuta conseguente.
Escluso che debba toccare all’imputato una richiesta sollecitatoria, la stasi processuale
– abbinata alla riforma – della prescrizione, che ne vede allungati i termini nel contesto
della medesima legge di riforma, la dice lunga sulle ragioni che spesso sono a fondamento
della durata irragionevole del processo, in relazione ai c.d. tempi morti.
Il dato risulta ancora più discutibile ove si consideri che con riferimento ai processi di
criminalità organizzata il termine è di quindici mesi. Le giustificazioni addotte in questo
caso sono costituite dalla considerazione che, a volte, dopo le attività di cui all’art. 415 bis
c.p.p., non è esclusa la possibilità che emergano altri reati e altri componenti del gruppo
criminale, rendendosi necessario completare queste indagini in modo da svolgere un processo cumulativo sia in chiave oggettiva, sia soggettiva.
Deve aggiungersi che questo ragionamento rischia di protrarre senza termine il tempo
de quo, non potendosi escludere una ulteriore evenienza dello stesso tipo anche dopo la
scadenza del termine di quindici mesi.
Infondate e pretestuose si rivelano anche le riserve sul potere di avocazione del procuratore generale, peraltro già previsto dall’art. 412 c.p.p. e non sempre attivato.
Residuale nella riforma del codice del 1988, a fronte della sua dilatazione nel sistema
del 1930, stante la diversa configurazione istituzionale e ordinamentale del p.m., l’avocazione appare strumento adeguato a rimuovere in via residuale ed eccezionale gli “inceppamenti” della macchina investigativa.
Il dato ha ricevuto proprio da ultimo un significativo avallo a conforto, un vero “assist” per la riforma, da parte della Procura generale con la decisione dell’11.10.2016, n.
552 (confl. Proc. Gen. C.A. Milano – Proc. Rep. Milano), che ha prefigurato una ipotesi di
avocazione “allargata”, estesa anche al dissenso della procura generale sulla richiesta di
archiviazione da parte della procura della repubblica.
2. Termine di iscrizione della notizia di reato.
244
In realtà, le procure non sono mai entrate in sintonia con la scelta del Codice Vassalli
di cadenzare la fase delle indagini, anche dopo che la scansione temporale delle stesse ha
ricevuto il riconoscimento della loro legittimità costituzionale.
Superato dall’accondiscendenza dei gip, il meccanismo di controllo legato alle proroghe
dei semestrali segmenti investigativi, le procure hanno proceduto in proprio a disinnescare
il meccanismo temporale ipotizzato per una fase concepita nella logica bifasica del nuovo
processo. Parcheggio delle notizie di reato nel registro delle notizie non reato, indagini
parallele, travasi di investigazioni, numeri contenitore di notitiae criminis, investigazioni a
staffetta, e quant’altro, hanno consentito di aggirare una chiara opzione normativa, secondo la diversa visione onnivora e ispirata alla logica d’una fase investigativa totalizzante, da
far rifluire a dibattimento.
Elemento decisivo in questa logica, il rifiuto – avvallato dalla giurisprudenza – del con-
I tempi delle indagini preliminari: i “no” della Procura
trollo sul tempo della iscrizione nel registro ex art. 335 c.p.p. Invero, pure i timidi tentativi
anche di una sola “ricognizione” della prassi – adombrata nella stessa riforma Orlando –
sono guardati con sospetto e sostanzialmente rifiutate, senza considerare l’ostilità e l’ostruzionismo manifestato nei confronti dei tentativi di normare questo fondamentale profilo
dell’attività di indagine.
Invero, per le procure il tempo delle investigazioni è materia della pubblica accusa che
non consente interferenze e controlli.
3. Nessun controllo sui p.m.
Opinioni
In sintesi, il sistema congegnato dagli uffici del pubblico ministero si configura come un
meccanismo che consentendo all’ufficio di decidere quando iscrivere la notizia di reato,
di calibrare il tempo delle indagini, di decidere i tempi dell’esercizio dell’azione penale,
consente di determinare chi, quando, come imputare di un determinato reato. Scegliendo
i tempi, si definiscono le priorità oggettive e soggettive.
Si contrabbanda quella che è una assoluta discrezionalità, per l’estrinsecazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Di fronte a questa situazione, il problema dei tempi dell’iscrizione, del controllo sullo scorrimento delle indagini, sulla cronologia dell’esercizio dell’azione penale diventa
elemento centrale di trasparenza dell’azione dell’accusa, senza rigidità – in presenza di
situazioni che ne giustifichino l’adeguamento – e senza elasticità – sconfinante nell’arbitrarietà –. Il tempo nel processo è un elemento centrale, sia per la collettività, sia per
i soggetti coinvolti. Seppur condizionato da molte variabili, non esclusa la funzionalità
dell’organizzazione giudiziaria, soprattutto ora che – come anticipato – si allunga il tempo
dell’oblio, il tempo del processo non può essere condizionato da pratiche incontrollabili
che rimettono alle scelte “inquisitorie” le opzioni procedurali dei fatti da perseguire e dei
soggetti da processare, in via prioritaria.
245
Dal Parlamento
/ Al Parlamento
La proposta di legge sul cyberbullismo: la censura
corre sul web
Roberto Acquaroli
Sommario : 1. Premessa. – 2. Uno sguardo al testo. – 3. Hate speech, satira e libertà di opinione. – 4. Il
ruolo del Garante. – 5. Una nuova circostanza.
1. Premessa.
È all’esame del Senato il progetto di legge volto ad introdurre norme di contrasto ai
fenomeni del bullismo e del cyberbullismo1. Si tratta di un testo normativo che, a dispetto
della sua brevità (appena otto articoli, nella versione licenziata dalla Camera), apre la porta a nuove forme censorie, rafforzate da un inedito modello sanzionatorio, formalmente
extrapenale, ma in grado di incidere in maniera rilevante sulla libertà di opinione, in nome
della lotta ai discorsi di odio che trovano cittadinanza e diffusione sul web.
Ad alimentare l’allarme sociale per questa modalità comunicativa, l’eco ripetuta di
episodi, caratterizzati dalla pubblicazione online di immagini e filmati relativi alla sfera
privata di persone inconsapevoli o, comunque, non consenzienti all’uso dell’immagine
stessa; oppure il ricorso sui social a espressioni improntate al dileggio, a sfondo sessuale
o razziale, con conseguenti esiti drammatici per la vita dei destinatari. Vicende amplificate da campagne massmediatiche (il fattore M2) cui il legislatore si mostra sempre
più sensibile, lasciandosi convincere dell’inadeguatezza degli strumenti di prevenzione
e controllo già esistenti3 e della necessità di nuove misure in grado di neutralizzare il
cyberbullo.
1
Disegno di legge n. 3139 A.C., “Disposizioni per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni del bullismo e del cyberbullismo”, trasmesso al Senato in data 22.9.2016 (1261-B).
2
Secondo M. Calise, La democrazia del leader, Bari, 2016, 56 e ss., i media (il fattore M) sono uno degli elementi scatenanti la crisi
degli equilibri tra i poteri costituzionali.
3
Significative, al riguardo, le affermazioni dell’on. Buttiglione durante la discussione del progetto di legge: “Ma avete letto che una
ragazza si è suicidata perché oggetto di persecuzione drammatica attraverso Internet? Aveva trentuno anni, si chiamava T. e aveva
trentuno anni. Non merita protezione? Si dice: ma la legge già offre strumenti di protezione. T. ha usufruito di tutti gli strumenti di
protezione che la legge le dava; evidentemente, non è bastato” (discussione Camera dei Deputati progetto di legge A.C. 3139-A,
20.9.2016).
Roberto Acquaroli
2. Uno sguardo al testo.
La proposta di legge, nel testo approvato alla Camera, si rivolge ad una platea più
ampia, proponendosi di contrastare non solo il cyberbullismo ma anche il bullismo tout
court, identificato come una deriva patologica delle relazioni adolescenziali, soprattutto in
ambito scolastico. Il testo, per la verità, nell’incipit appare rassicurante e poco propenso
ad una prospettiva di tipo repressivo. Al comma 1 dell’articolo 1 il legislatore si ripromette
di privilegiare azioni di carattere formativo ed educativo rivolte “anche agli infraventunenni” (sic!) che frequentano le istituzioni scolastiche statali di ogni ordine e grado, con un
impegno economico, per la verità, assai contenuto.
Ma già il comma 2 dell’articolo suscita le prime riserve. Esso si incarica di definire la
figura del “bullo”, con un linguaggio a cavallo tra la descrizione di tipo sociologico e
una più tradizionale fattispecie di impronta penale. La condotta tratteggiata consiste nell’
“aggressione o la molestia reiterate, da parte di una singola persona o di un gruppo di
persone, a danno di una o più vittime”. Il legislatore prevede la reiterazione delle condotte descritte, rivelando l’affinità del tipo d’autore con quella dello stalker (art. 612 bis c.p,
reato abituale a reiterazione necessaria); prossimità che, vedremo, si disvela in maniera
inequivocabile nell’ultima norma del progetto di legge, contenente l’immancabile cadeau
penalistico.
Il legislatore ha, inoltre, inserito un ulteriore elemento, finalizzato ad ancorare la
condotta ad una dimensione concretamente offensiva. Così, non qualsiasi “aggressione
o molestia reiterate” è in grado di configurare il comportamento da bullo, ma solamente
quelle “idonee a provocare… sentimenti (corsivo nostro) di ansia, di timore, di isolamento o di emarginazione”. Infine, l’aggressione (o la molestia) deve avvenire secondo
una serie di modalità alternative, tra cui si rinvengono condotte penalmente rilevanti,
(pressioni o violenze fisiche o psicologiche, istigazione al suicidio, minacce o ricatti, furti o danneggiamenti, offese), accanto ad altre, di incerta determinazione (comportamenti
vessatori, derisioni). Rileva, ai fini dell’identificazione della figura del bullo, l’elemento
motivazionale, l’essere cioè tali comportamenti “determinati da ragioni di lingua, etnia,
religione, orientamento sessuale, aspetto fisico, disabilità o altre condizioni personali e
sociali della vittima”. Si evocano, in tal modo, i recenti interventi di contrasto a condotte
discriminatorie, riconducibili alla tutela del bene giuridico dell’ordine pubblico, secondo
un filo rosso che dalla legge Reale (legge n. 152/1975), giunge fino alla legge n.85/2006,
passando per la legge Mancino (legge n. 122/1993). Iniziano, così, ad intravedersi (sopratutto nel richiamo alle condotte consistenti in offese o derisioni) i segni di un inequivocabile scivolamento verso la repressione di condotte sostanzialmente riconducibili a
reati d’opinione, categoria di cui, periodicamente, si ripropone l’ampliamento, nonostan-
248
La proposta di legge sul cyberbullismo: la censura corre sul web
te l’evidente contrasto con l’art. 21 Cost., e le consolidate4 e rinnovate5 posizioni critiche.
Il rischio di introdurre norme sostanzialmente censorie rispetto alla libertà di opinione
si manifesta, in maniera evidente, quando l’attenzione si sposta sul tema centrale della
proposta di legge. Il comma 3 dell’art.1 definisce il cyberbullismo, cioè quelle condotte
ritenute vessatorie ed offensive che viaggiano nel web, trasformandolo in una sorta di
“gogna telematica”, in cui si esibiscono immagini e filmati relativi a momenti della vita
privata; oppure si aggrediscono, con espressioni e linguaggi particolarmente aggressivi, le
vittime designate. La traduzione legislativa del fenomeno, tuttavia, avviene con la tecnica
del rinvio integrale al comma 2 (“con il termine cyberbullismo si intende qualunque comportamento o atto rientrante tra quelli indicati al comma 2 e perpetrato attraverso l’utilizzo
di istrumenti telematici ed informatici”). Occorre, dunque, procedere ad una necessaria
operazione di cernita.
Va da sé che il rinvio al comma precedente, contenente la poliforme descrizione delle
condotte riconducibili al bullismo, va depurato da tutte le condotte materiali, (es. furto e
danneggiamento, violenza fisica) non riproducibili online. Residuano le condotte riconducili ad offese, minacce, derisioni e violenze psicologiche che appaiono compatibili con la
comunicazione web. Condotte che devono risultare connotate da quella idoneità a provocare quei sentimenti (di ansia, isolamento ecc.) descritti al primo comma.
Il cyberbullismo ripropone il tema della legittimità dei limiti alla libertà di pensiero, innanzitutto per quanto riguarda i cd. discorsi d’odio. Si tratta di una categoria difficilmente
delimitabile, per la varietà delle espressioni linguistiche utilizzate, che vanno dalle etichette denigratorie agli scherzi di odio, agli insulti, alle tradizionali ipotesi dei delitti contro
l’onore. Sono riconducibili ai discorsi d’odio anche le strategie argomentative cui l’autore
fa ricorso per mascherare una discriminazione: dalla banalizzazione, alle dubbie equiparazioni, al negazionismo6. Elemento caratterizzante è l’intenzione di aggredire la dignità
della vittima7. Tuttavia, una simile connotazione non aiuta a tracciare una linea di confine
sufficientemente netta con il diritto di critica o, ancora, la satira, per sua natura corrosiva
ed irrispettosa, dissacrante rispetto al comune sentire, destinata – diremmo istituzionalmente – a generare fastidio e sofferenza nei confronti di colui cui è rivolta, soprattutto se
4
Fondamentale resta, sull’argomento, la riflessione di C. Fiore, I reati di opinione, Padova, 1972. Sull’attuale stato del conflitto tra
libertà di espressione e reati di opinione si rinvia a: La criminalizzazione del dissenso: legittimazione e limiti, Atti del IV Convegno
Nazionale dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (Genova 13/14 novembre 2015), in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016,
859 ss.
5
Sul tema, segnala i pericoli sottesi alla repressione dei cd. discorsi d’odio A. Pugiotto, Le parole sono pietre, in www.penalecontemporaneo.it.
6
A. Pugiotto, Le parole sono pietre?, cit., 5
7
A.Tesauro, La propaganda razzista tra tutela della dignità umana e danno ad altri, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 961 ss.
dal parlamento / al parlamento
3. Hate speech, satira e libertà di opinione.
249
Roberto Acquaroli
quest’ultimo ricopre una posizione politica o è al centro del dibattito pubblico. A titolo di
esempio: è un discorso d’odio quello di chi, di fronte a vicende drammatiche, fa ricorso
ad espressioni derisorie, “politicamente scorrette” o a circostanze storiche non condivise
dalla comunità scientifica, ma comunque frutto di una attività di ricerca? Per quali ragioni, in questi casi, non dovrebbe valere l’ombrello rappresentato dall’art. 33 Cost, oltre
che la libertà di espressione?8 Rientra nella categoria delle immagini destinate a creare
sentimenti di ansia nelle vittime degli eventi sismici che hanno colpito il centro Italia, la
recente vignetta pubblicata dal giornale satirico Charlie Hebdo che ironizza su quei tragici
avvenimenti? È evidente che la risposta a tali interrogativi passa, necessariamente, per la
soluzione che si intende offrire all’irrimediabile contrasto tra i reati di opinione, volti a
reprimere giudizi di valore, espressi anche in maniera sgradevole o aggressiva, e la libertà
di manifestazione del pensiero, fondata sull’art. 21 Cost., una delle colonne portanti della
democrazia liberale. Secondo la proposta di legge in esame, la decisione sulla accettabilità/liceità del contenuto della comunicazione, andrebbe rimessa ad una decisione di chi
è considerato destinatario/vittima del cyberbullo; dimenticando che, spesso, la comunicazione online, al pari delle più tradizionali mezzi di informazione, si rivolge a soggetti o
poteri tutt’altro che deboli, che mal sopportano il dissenso; ma, soprattutto, che la stessa
libertà di opinione contribuisce alla piena espressione della dignità umana di colui che la
esercita.
In realtà, anche in questa proposta di legge sembra prevalere, ancora una volta, una
(ingiustificata) fiducia nella funzione educativa e comunque di promozione culturale dei
meccanismi disciplinari e sanzionatori. Il legislatore opta, così, per la compressione della
garanzia costituzionale, dimenticando che la libertà di espressione è per sua natura individualistica, e prescinde da qualsiasi finalità, positiva o negativa, che possa derivare dal
suo esercizio, sia esso la negazione di un fatto, storicamente accaduto e verificabile, sia
l’affermazione di un pregiudizio, altrettanto razionalmente infondato9. Dunque, se si vuol
essere fedeli al principio dell’art. 21 Cost., dovremmo giungere alla conclusione che, per
quanto riprovevole, non può essere represso penalmente un ragionamento, un’affermazione o un’invettiva, dettati magari da pregiudizi razziali o dal più becero sessismo. La
storia legislativa recente si è incaricata di smentire questa conclusione, con la sostanziale
conservazione dei reati di opinione, fino all’introduzione dell’aggravante del negazionismo, facendo leva sull’idoneità offensiva della condotta10 rispetto al bene giuridico or-
8
250
Sul punto, E. Fronza, Criminalizzazione del dissenso o tutela del consenso. Profili critici del negazionismo come reato, in Riv. it. dir.
proc. pen., 20161016 ss.
9
A. Pugiotto, Le parole sono pietre? cit., p. 14.
10
Art. 1 l. 115/2016: “All’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni, dopo il comma 3 è aggiunto il seguente: «3-bis. Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in
modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio,
dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale,
ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232».
La proposta di legge sul cyberbullismo: la censura corre sul web
dine pubblico. Nel caso del cyberbullismo, la violazione del principio di offensività e la
compressione della libertà di pensiero sono giustificati, apparentemente, dalla necessità
di tutelare l’integrità psicofisica della vittima, poiché la condotta da censurare richiede la
problematica valutazione degli effetti che il discorso d’odio provoca sui sentimenti della
vittima. Ciò tuttavia, non mette al riparo il gestore del web dal rischio di una ingiustificabile
censura. Infatti, tanto più l’argomentazione sarà penetrante e persuasiva, tanto maggiore
sarà il grado di sofferenza inflitto ai sentimenti del destinatario: solamente i discorsi innocui ed orientati al “sentire comune” potranno trovare spazio sul web.
Nell’economia della proposta di legge il ruolo della vittima riveste, in effetti, un ruolo
decisivo, soprattutto per quanto riguarda l’attivazione di un inedito meccanismo sanzionatorio. L’art. 2 prevede un doppio livello di intervento censorio. Il primo, già consolidato nella prassi, consente al destinatario delle espressioni o dei contenuti di rivolgere “al
gestore del sito internet o del social media, un’istanza per l’oscuramento, la rimozione, il
blocco dei contenuti specifici rientranti nelle condotte di cyberbullismo”. In caso di inerzia del gestore, il rimedio è stato, finora, il ricorso all’Autorità giudiziaria. La proposta di
legge apre ad una diversa prospettiva. Il comma 2 prevede, infatti, che “qualora entro le
ventiquattro ore successive al ricevimento dell’istanza… il soggetto responsabile non abbia comunicato di aver assunto l’incarico di provvedere all’oscuramento, alla rimozione o
al blocco richiesto ed entro ventiquattro ore non vi abbia provveduto… l’interessato può
rivolgere analoga richiesta… al garante per la protezione dei dati personali il quale entro
quarantotto ore dal ricevimento della richiesta, provvede ai sensi degli artt. 143 e 144 del
d.lgs. 196/2003”11.
Il progetto di legge trasforma, dunque, la natura ed il ruolo del Garante della privacy. In
linea con le tendenze del momento, (Anticorruzione docet), l’Autorità indipendente diventa un organismo di prevenzione e repressione di condotte considerate pericolose, secondo
11
Art. 143.(Procedimento per i reclami) - 1. Esaurita l’istruttoria preliminare, se il reclamo non è manifestamente infondato e sussistono
i presupposti per adottare un provvedimento, il Garante, anche prima della definizione del procedimento:
a) prima di prescrivere le misure di cui alla lettera b), ovvero il divieto o il blocco ai sensi della lettera c), può invitare il titolare,
anche in contraddittorio con l’interessato, ad effettuare il blocco spontaneamente;
b) prescrive al titolare le misure opportune o necessarie per rendere il trattamento conforme alle disposizioni vigenti;
c) dispone il blocco o vieta, in tutto o in parte, il trattamento che risulta illecito o non corretto anche per effetto della mancata adozione delle misure necessarie di cui alla lettera b), oppure quando, in considerazione della natura dei dati o, comunque, delle modalità
del trattamento o degli effetti che esso può determinare, vi è il concreto rischio del verificarsi di un pregiudizio rilevante per uno o
più interessati;
d) può vietare in tutto o in parte il trattamento dei dati relativi a singoli soggetti o a categorie di soggetti che si pone in contrasto con
rilevanti interessi della collettività.
2. I provvedimenti di cui al comma 1 sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana se i relativi destinatari non
sono facilmente identificabili per il numero o per la complessità degli accertamenti.
Art. 144. (Segnalazioni) - 1. I provvedimenti di cui all’art. 143 possono essere adottati anche a seguito delle segnalazioni di cui all’art.
141, comma 1, lettera b), se è avviata un’istruttoria preliminare e anche prima della definizione del procedimento.
dal parlamento / al parlamento
4. Il ruolo del Garante.
251
Roberto Acquaroli
il classico schema indiziario delle misure di prevenzione:. Non vi è, cioè, l’accertamento
della responsabilità (penale o amministrativa) per il fatto; piuttosto, una valutazione sommaria di alcuni elementi indiziari, rimessa ad un organo amministrativo. L’Autorità opera,
infatti, al di fuori di qualsiasi garanzia di un effettivo diritto di difesa per il gestore del sito
web in cui è stata pubblicata l’espressione o l’immagine incriminata, senza bisogno di alcun previo accertamento processuale. Con un’espressione oggi di moda, si rottama qualsiasi lungaggine procedurale e ogni parvenza di garanzia, sinonimi ormai di inefficienza e
di inadeguatezza di fronte all’urgenza di offrire una risposta efficace. La prescrizione viene
impartita nel giro di poche ore: lo esige la natura stessa della rete, oltre che l’esigenza di
contrastare efficacemente il caso mediatico. Durante il breve lasso di tempo previsto dalla
norma, il Garante dovrà valutare l’idoneità offensiva della condotta e la sussistenza delle
ragioni previste dall’art. 1 che hanno spinto il cyberbullo all’inserimento del messaggio o
dell’immagine incriminata ed ordinarne l’oscuramento al gestore del sito stesso.
Un simile meccanismo, mentre trasformerà il Garante nel destinatario di un numero
probabilmente assai elevato di segnalazioni12, alimenterà l’autocensura da parte dei titolari
di blog e pagine web. Infatti, il vero punto dolente della proposta di legge si nasconde nel
sistema sanzionatorio previsto dal d.lgs. n. 96 del 2003. Nel caso di inadempimento dell’ordine di oscuramento dell’espressione o dell’immagine ritenuta idonea a ledere i sentimenti
della vittima, è prevista l’inflizione di una sanzione fino ad euro 180.000 per il titolare del
sito telematico inadempiente (art. 162 comma 2 ter del d.lgs. n. 196 del 2003).
La prospettazione di una sanzione economica così elevata, eserciterà una funzione di
deterrenza quasi terroristica, soprattutto nei confronti di blogger e gestori di siti telematici
di piccole dimensioni. È di palese evidenza che, ancor prima di sottostare alle valutazioni
(per forza di cose affrettate) di un Garante trasformato dalla legge in occhiuto arbitro della
rete, chi pensa di mettere online scritti dal contenuto polemico o aggressivo se ne asterrà,
per il timore di dover poi tornare sui suoi passi, aderendo alla prescrizione del Garante; o,
qualora ritenga di disattendere la prescrizione impartita, di esporsi al rischio di una pena
patrimoniale la cui misura è, forse, la migliore garanzia per indurre il cybernauta ad un
prudente silenzio.
8. Una nuova circostanza.
In cauda venenum: la proposta di legge era giunta all’esame della Camera priva (caso
più unico che raro) di qualsiasi previsione di natura penale. L’Assemblea, in nome di un
diritto penale pervasivo, ha prontamente provveduto a colmare il vuoto, modificando il
12
252
Significative, al riguardo, le parole dell’on. Capezzone durante la discussione in Assemblea: “Cosa accadrà? Migliaia, decine di migliaia
di segnalazioni, che arriveranno sul tavolo del garante, un collo di bottiglia, un imbuto: fatalmente situazioni simili saranno trattate in
modo diverso, fatalmente ogni decisione del Garante innescherà un pazzesco dibattito in rete, perché si, perché no” (A.C., 20.9.2016,
p.45).
La proposta di legge sul cyberbullismo: la censura corre sul web
13
Art. 8: « …b) dopo il secondo comma è inserito il seguente: “La pena è della reclusione da uno a sei anni se il fatto di cui al primo
comma è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. La stessa pena si applica se il fatto di cui al primo comma è commesso utilizzando tali strumenti mediante la sostituzione della propria all’altrui persona e l’invio di messaggi o la divulgazione di
testi o immagini, ovvero mediante la diffusione di dati sensibili, immagini o informazioni private, carpiti attraverso artifici, raggiri o
minacce o comunque detenuti, o ancora mediante la realizzazione o divulgazione di documenti contenenti la registrazione di fatti di
violenza e di minaccia».
dal parlamento / al parlamento
secondo comma dell’art. 612 bis c.p. ed aggiungendone uno di nuovo conio, che trasforma
in circostanza ad effetto speciale, con l’autonoma previsione della pena da uno a sei anni,
la commissione del delitto attraverso strumenti informatici o telematici; integrando tale
previsione con una ulteriore specificazione, costituita da alcune modalità di utilizzazione
dello strumento informatico o telematico13. La circostanza, in particolare, l’espressa criminalizzazione della condotta di chi diffonde “dati sensibili immagini o informazioni private,
carpiti attraverso artifici o raggiri o minacce o comunque detenuti, o ancora mediante la
realizzazione o divulgazione di documenti contenenti la registrazione di fatti di violenza
e di minaccia”.
La previsione di una apposita circostanza consente al legislatore di recuperare una
serie di condotte inserite nella definizione originaria di cyberbullismo e poi rimosse; ma,
soprattutto, formalizza la responsabilità – questa volta – penale del cyberbullo (che resta,
invece, estraneo al meccanismo sanzionatorio previsto per il gestore del sito web, descritto nell’art.2 della proposta di legge, qualora non sia anche l’autore del documento o
dell’espressione oggetto dell’istanza) per condotte che, a tutti gli effetti, costituiscono una
limitazione della libertà di comunicazione e di espressione. Infine, lo stesso gestore del
sito web rischia di rispondere, in qualità di concorrente, dello stesso delitto nella forma
aggravata, una volta raggiunto dall’istanza di oscuramento della (presunta) vittima e decidesse di rimanere inerte.
253
Dal Parlamento
/ Al Parlamento
“Nuove” ipotesi di estinzione del reato: le condotte
riparatorie nel d.d.l. Orlando
Ottavia Murro
Sommario : 1. Premessa. – 2. La proposta normativa: inquadramento generale. – 3. I primi vuoti di tutela
e alcuni profili di incostituzionalità. – 4. Il requisito (problematico) dell’integralità della riparazione. – 5.
Il ruolo labile della persona offesa. – 6. Le criticità di un istituto che non ha disciplina processuale. – 7.
Problematiche di coordinamento e rischio di “impunità reiterata”.
1. Premessa.
La necessità di recuperare la durata ragionevole del processo e di limitare, ad un contenzioso selezionato, il ricorso al rito ordinario, ha comportato in questi ultimi anni l’introduzione di istituti già sperimentati in altri procedimenti, quali la messa alla prova per
adulti (l. 67/2014) e la non procedibilità per tenuità del fatto (d.l. 28/2015). A completare
l’esigenza di diversificare la risposta penale, in modo da prevedere per reati meno gravi
una risposta alternativa sia al processo che alla pena, è anche la nuova proposta presentata nell’art. 1 del disegno di legge A.C. 2798/20141 (meglio noto come d.d.l. Orlando)2 che
prevede l’introduzione – all’art. 162 ter c.p. – di condotte riparatorie idonee ad estinguere
il reato.
La proposta normativa recita al primo comma: Nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa,
quando l’imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione
di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato, mediante le
restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato.
La causa di estinzione del reato per riparazione rappresenterebbe un vero e proprio
istituto premiale/deflattivo da aggiungere a quelli preesistenti, diventando di fatto una
“nuova” scelta processuale per l’imputato che, nell’esercitare il suo diritto di difesa, può
optare per tale diversa soluzione della vicenda penale.
1
2
In Atti Parlamentari - Disegni di legge e relazioni al d.d.l. n. 2798 del 23 dicembre 2014, in www.camera.it.
Per un’analisi del disegno di legge e delle recenti novelle, A. Marandola, K. La Regina, R. Aprati (a cura di), Verso un processo penale
accelerato. Riflessioni introno alla L. 67/14, al D.Lgs. 28/15 e al d.l. 2798/14, Roma, 2015.
Ottavia Murro
Tuttavia il quadro normativo che accingiamo ad analizzare presenta numerose insidie,
determinate soprattutto da un vulnus di disciplina che apre non poche problematiche.
2. La proposta normativa: inquadramento generale.
Nell’analizzare in maniera succinta la disciplina delineata dall’art. 162 ter c.p., si rileva
sin da subito l’assonanza (seppure parziale) con l’art. 35 del d.lgs. n. 274/20003.
A destare qualche perplessità è, prima facie, l’ambito di applicazione (reati a querela
soggetta a remissione) in considerazione del fatto che per tali tipologie di reati può operare l’istituto di cui all’art. 152 c.p., pertanto, la causa di estinzione in esame residuerebbe
nelle sole ipotesi in cui alla riparazione del danno non segua la remissione di querela
da parte dell’offeso. L’originaria proposta normativa prevedeva, attraverso l’introduzione
dell’art. 649 bis c.p., l’estensione del beneficio in esame anche ad alcuni reati contro il
patrimonio procedibili d’ufficio, quali quelli rubricati dagli artt. 624 c.p., nei casi aggravati
dal primo comma dell’art. 625 c.p. ai numeri 2,4,6,8 bis; nonché ai delitti di cui agli artt.
636 e 638 c.p; tuttavia, nel corso dei lavori parlamentari l’art. 649 bis c.p. è stato soppresso.
Seppure la previsione del beneficio estintivo limitato solo ad alcuni delitti contro il patrimonio e precedibili d’ufficio lasciava perplessi4, non si può ignorare che tale tipologia di
illeciti appariva particolarmente adeguata all’istituto in esame.
Diversamente, altra proposta di articolato sulla revisione del sistema penale (non coronata da successo), del 23 aprile 2013, prevedeva di estendere la causa di estinzione del
reato per riparazione a tutti i delitti contro il patrimonio procedibili d’ufficio, fatta eccezione delle ipotesi più gravi disciplinate dagli artt. 628, 629, 630, 644, 648 bis, 648 ter, nonché
nei casi di delitti contro il patrimonio commessi con violenza sulle persone.
Appare evidente che la condotta riparatoria debba essere adempiuta personalmente
dall’imputato5, entro un termine perentorio, con evidente inapplicabilità del beneficio al
correo inadempiente6.
A differenza di quanto verificatosi con l’introduzione dell’istituto della messa alla prova
per l’imputato adulto, l’art. 2 del suddetto disegno di legge prevede la disposizione transitoria che consente di applicare l’istituto premiale ai processi in corso: l’imputato nella
prima udienza successiva all’entrata in vigore della legge, fatta eccezione per il giudizio
3
256
Per un approfondimento sulla causa di estinzione per riparazione sia generale che speciale, volendo, O. Murro, Riparazione del
danno ed estinzione del reato, Milano - Padova, 2016, 37 e ss.
4
La previsione di cui all’art. 649 bis, così come strutturata, andava a determinare una disparità di trattamento tra imputati di reati che
prevedono un medesimo trattamento sanzionatorio: si pensi ad esempio all’applicabilità della causa estintiva al delitto di furto nei
casi aggravati, ma non alle ipotesi di usurpazione, deviazione di acque, invasione di terreni aggravate dall’art. 639 bis c.p.
5
Per un’analisi della giurisprudenza di legittimità sul requisito della soggettività della condotta riparatoria si rimanda agli orientamenti
formatisi in tema di circostanza attenuante ex art. 62 n. 6 c.p.: Cass. Pen. Sez. V, 25 febbraio 2008, n. 996, in Cass. pen., 2001, 1468;
Cass. Pen Sez. II, 26 giugno 1979, n. 1161, in Giust. pen., 1980, II, 415.
6
Per la circostanza attenuate di cui all’art.62 n. 6 c.p. si segnala, Cass. Pen. Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 5941, in Dir. pen. proc. 2010,
173, con nota di A. Scarcella Attenuante del risarcimento del danno ed estensibilità condizionata al compartecipe.
“Nuove” ipotesi di estinzione del reato: le condotte riparatorie nel d.d.l. Orlando
di legittimità, può chiedere la fissazione di un termine, non superiore a sessanta giorni,
per provvedere alla riparazione. Tuttavia, sarebbe stato opportuno prevedere un lasso di
tempo maggiore, in quanto alcuni reati potrebbero richiedere, ai fini della declaratoria di
estinzione, un elevato risarcimento e, in tali ipotesi, il termine di sessanta giorni potrebbe
non essere sufficiente. Viepiù che non è comprensibile se, relativamente ai processi in
corso, possa trovare applicazione la proroga del termine, di cui al secondo comma dell’art.
162 bis c.p.
La proposta normativa reca in sé un evidente vulnus normativo serbando inspiegabilmente il silenzio sui di criteri valutativi che consentano al giudice di valutare la condotta
riparatoria ai fini della declaratoria di estinzione.
È noto che l’art. 35 del d.lgs. 274/2000 prevede, quale presupposto alla dichiarazione
di estinzione, una valutazione sull’idoneità della condotta a soddisfare le esigenze di prevenzione e riprovazione nel reato. Tale previsione consente di bilanciare la riparazione al
grado di colpa, al fatto di reato e alle esigenze sia rieducative sia preventive, precludendo
così una automaticità tra la riparazione e il beneficio dell’estinzione. In altre parole, nella
norma in esame manca una “griglia” sulla scorta della quale commisurare l’adeguatezza
della riparazione al fine di ottenere il beneficio della declaratoria di estinzione, con il
concreto pericolo di aver creato un istituto premiale sottratto ad un vaglio del giudicante.
Viepiù che manca qualsiasi richiamo anche ai parametri del 133 c.p.
La norma in esame non prevede neanche una previa valutazione – preliminare alla
dichiarazione di estinzione per riparazione – circa l’esistenza di una causa di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.
Ad essere lacunosa è anche la previsione del termine, infatti, nulla si dispone nell’ipotesi in cui sia stato emesso un decreto penale di condanna; si apre, quindi, la questione
circa la possibilità di ricorrere all’istituto della riparazione estintiva con l’atto di opposizione. L’imputato e la difesa si trovano, quindi, sprovvisti di disciplina normativa: manca
il termine (perentorio) entro cui adempire la condotta, manca altresì un’integrazione alla
disciplina degli avvisi ex art. 460 lett. e, c.p.p., con evidenti profili di incostituzionalità –
per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. – determinati da tali lacune.
Inoltre, il comma secondo dell’art. 162 ter prevede che se l’imputato non abbia potuto
adempiere la condotta, per fatto a lui non addebitabile, può chiedere al giudice la fissazione di un ulteriore termine, non superiore a sei mesi, con sospensione del termine di
prescrizione. La previsione appare emblematica nella parte in cui prevede che, in caso
di proroga, il giudice possa imporre, se necessario, «specifiche prescrizioni». La disposizione sembra richiamare sia l’art. 28 comma 2 D.P.R. 448/88, sia l’art. 35 comma 3 d.lgs.
274/2000, sia l’art. 464 bis comma 5 c.p.p.
Va rilevato, però, che l’art. 162 ter c.p. non specifica in che cosa si debbano estrinsecare
le prescrizioni imposte dal giudice e tale vulnus impone qualche breve riflessione. Preliminarmente va osservato che la prescrizione riparatoria è una libera e volontaria scelta
dal parlamento / al parlamento
3. I primi vuoti di tutela e alcuni profili di incostituzionalità.
257
Ottavia Murro
dell’imputato, non imposta da alcuna decisione del giudice; pertanto, non ha i requisiti
della sanzione, ma costituisce un comportamento spontaneo post factum. Di converso, le
prescrizioni imposte dal giudice, di cui al comma 2 dell’art. 162 bis c.p., non sembrano
connesse a scelte spontanee dell’interessato, pertanto, oltre a lasciare al giudicante un
ampio spazio discrezionale e ad alterare la natura dell’istituto riparatorio, appaiono generiche ed indeterminate, andando a stridere con il principio di tassatività (art. 25, comma 2,
Cost.), qualora si riconosca a tali prescrizioni la natura di “cripto-pena”.
4. Il requisito (problematico) dell’integralità della
riparazione.
La proposta normativa si distingue dall’art. 35 d.lgs. 274/2000 nel prevedere, in ordine
alle caratteristiche della condotta, una riparazione integrale del danno. Tale requisito apre
un interrogativo: la riparazione deve essere integrale rispetto al danno criminale e al grado
di colpa, ovvero al danno civile?
La giurisprudenza di legittimità si è già espressa – relativamente alla condotta prevista
nella giurisdizione di pace – ritenendo sussistente una proporzione tra comportamento
post factum e grado di colpa, dando così rilevanza a tutte quelle condotte idonee a sanare
il c.d. danno criminale ed escludendo tra i presupposti per la declaratoria di estinzione
quello di una riparazione integrale del danno civile. Il Supremo Collegio, intervenuto sulla
specifica questione, ha ribadito, altresì, che la sentenza di estinzione per riparazione non
fa stato nel giudizio civile, lasciando così impregiudicati i diritti della persona offesa ad
agire al fine di valutare l’esistenza e l’entità del danno civile7.
La proposta normativa in esame, nel prevedere l’integralità del risarcimento, riapre la
questione circa l’effettivo oggetto della condotta, lasciando intravedere non poche problematiche, infatti, ci si chiede se il giudice penale verrà chiamato a quantificare interamente
il danno civile, con tutte le criticità che tale vaglio comporta. Inoltre si segnala l’assenza
di una norma che precluda alla persona offesa (integralmente risarcita) di agire nell’eventuale giudizio civile.
Infine, sotteso al requisito dell’integralità del danno, vi è il rischio di aver creato un
istituto premiale riservato al solo imputato benestante e con reali dubbi di legittimità costituzionale dell’istituto in esame.
5. Il ruolo labile della persona offesa.
L’istituto delineato dalla proposta normativa riserva un ruolo marginale alla vittima del
reato, analogamente a quanto accade nelle ipotesi di messa alla prova per adulti e di non
258
7
Sul punto, Sez. Un. del 23 aprile 2015, n. 33864, in C.e.d. Cass. n. 264238
“Nuove” ipotesi di estinzione del reato: le condotte riparatorie nel d.d.l. Orlando
punibilità per tenuità del fatto. Questa comune caratteristica sottintende una specifica
finalità dei suddetti istituti: questi, pensati per l’imputato, hanno lo scopo di individuare
percorsi rieducativi, ovvero di lasciare “impuniti” alcuni reati perché tenui, allo scopo di
deflazionare, diversificare ovvero introdurre nuovi opzioni premiali per l’interessato. La
persona offesa, depotenziata nel processo penale, non perde i suoi diritti risarcitori, anzi
in alcune ipotesi, come quella in esame, vede celermente ristorato il danno subito.
Nel passare rapidamente in rassegna i poteri della persona offesa, si riscontra che questa deve essere sentita se compare, tuttavia, dal dettato normativo emerge che tale ascolto
non sia finalizzato a raccogliere un consenso, né a conferire alla vittima un potere di veto.
Si deve desumere, quindi, che sussista, in capo al giudice, un vero e proprio potere di
scavalcamento della volontà punitiva dell’offeso, che svincola il beneficio dell’estinzione
del reato dal dissenso della vittima.
L’assenza di un potere di veto implica che l’imputato viene tutelato da «un’indebita volontà punitiva del querelante, nei confronti del quale siano state efficacemente poste in
essere le condotte riparatorie»8.
Ulteriore aspetto problematico attiene alla rubricazione di tale istituto nel solo codice
penale.
A ben vedere, appare evidente che tale causa di estinzione si pone in chiave alternativa
e deflattiva del processo, diventando, a tutti gli effetti, una scelta difensiva dell’imputato.
Pertanto, seppure l’istituto non sia attivabile su richiesta dell’interessato e non integri un’ipotesi di procedimento speciale, meriterebbe – in considerazione delle sue caratteristiche
e dei suoi effetti – una disciplina tanto sostanziale quanto procedurale.
Oltre alle criticità già segnalate si riscontra che l’art. 162 ter comma 1, nel prevedere
l’audizione delle parti e della persona offesa, non specifica la modalità di ascolto (art. 162
ter comma 1 c.p.). Questo, infatti, sembrerebbe avvenire in maniera del tutto informale,
non dovendo seguire le regole, per l’imputato, dell’esame ovvero delle spontanee dichiarazioni; né, per la persona offesa, dell’esame testimoniale. Viene da chiedersi se l’audizione possa avvenire a mezzo di difensore, il quale può interloquire sul risarcimento, ovvero,
se l’imputato e la persona offesa debbano necessariamente essere ascoltati personalmente.
In tal caso ci si chiede se pubblica accusa e difesa possano fare delle domande. Soprattutto appare doveroso chiedersi se tali dichiarazione saranno utilizzabili qualora la condotta
riparatoria non sia stata reputata integrale, ovvero sufficiente ai fini della dichiarazione di
estinzione.
8
Si veda anche la Relazione governativa al Decreto Legislativo 28 agosto 2000, n. 274, cit., 37.
dal parlamento / al parlamento
6. Le criticità di un istituto che non ha disciplina
processuale.
259
Ottavia Murro
Inoltre, la persona offesa ha il diritto di interloquire, ma non un dovere; di conseguenza
se vuole essere sentita, deve comparire; ci si chiede, pertanto, se la mancata audizione
della persona offesa, presente in udienza, possa costituire motivo di impugnazione, alla
stregua di quanto è espressamente previsto nella disciplina della messa alla prova per
adulti (art. 464 quater comma 7 c.p.p.).
Da segnalare anche l’assenza di una disciplina che legittimi il giudice a prendere visione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, al fine di bilanciare la condotta
riparatoria con il fatto contestato e di valutare se sia stato rispettato il requisito dell’integralità della riparazione.
Manca, altresì, una previsione di incompatibilità del giudice nelle ipotesi in cui la
condotta riparatoria non sia stata reputata integrale, ovvero sufficiente a legittimare una
dichiarazione di estinzione del reato.
A ben vedere i vuoti di tutela coinvolgono anche altri aspetti, infatti, non è previsto se,
«fallita» la condotta riparatoria, l’imputato possa opzionare per i riti premiali (patteggiamento, giudizio abbreviato, messa alla prova, ecc.). Nello specifico, la problematica attiene
alla coincidenza tra il termine finale per adempiere alla riparazione e quelli entro i quali
possono essere richiesti gli altri riti premiali. Infatti, non è dato comprendere se l’intento
del legislatore sia quello di prevedere alternatività, ovvero incompatibilità, tra riti strettamente connessi a scelte dell’imputato.
Inoltre, se il giudice ritenga non congrua la riparazione, non si comprende quale sia
la forma del provvedimento (ordinanza ovvero decreto), né se questo debba avere dei
requisiti motivazionali.
Gli aspetti procedurali che sollevano criticità e dubbi attengono anche all’assenza di
una disciplina in tema di acquisizione di prove durante il periodo di sospensione; infatti,
nel caso in cui il processo venga sospeso per consentire la riparazione (sospensione che
può durare fino sei mesi), l’art. 162 ter c.p. non disciplina alcuna ipotesi di acquisizione
delle prove non rinviabili. Medesima lacuna era stata riscontrata nei lavori preparatori
dell’istituto della messa alla prova per adulti, lacuna che, con la l. n. 67/2014, veniva colmata dall’introduzione dell’art. 464 sexies c.p.p. (acquisizione di prove durante la sospensione del procedimento con messa alla prova). Nell’ipotesi delineata dall’art. 162 ter c.p.,
la sospensione del processo è discretamente ampia, pertanto, non sembra che il legislatore
possa esimersi dall’introdurre una disciplina per le prove non rinviabili.
7. Problematiche di coordinamento e rischio di “impunità
reiterata”.
260
Una lacuna che si riscontra è data dall’assenza di un coordinamento tra la proposta normativa e le cause di estinzione per riparazione preesistenti. La principale criticità attiene
alla coesistenza con l’art. 35 d.lgs. n. 274/2000: ci si chiede, infatti, se nella giurisdizione
di pace si potrà applicare l’art. 162 ter c.p., ovvero se la nuova norma, ai sensi dell’art. 2
d.lgs. 274/2000, sarebbe preclusa. La problematica dipende dal fatto che le due norme,
“Nuove” ipotesi di estinzione del reato: le condotte riparatorie nel d.d.l. Orlando
dal parlamento / al parlamento
per quanto simili, non sono sovrapponibili, stante la sussistenza di alcune difformità (il
termine perentorio, i termini di proroga, la previsione di integralità della condotta nel solo
art. 162 ter c.p., i parametri valutativi del giudice).
L’assenza di un coordinamento produce problematiche anche di più ampio respiro.
Si rileva, infatti, che sono state recentemente introdotte diverse ipotesi di non punibilità,
da aggiungere a quelle preesistenti: non punibilità per tenuità del fatto; estinzione del reato messa alla prova per adulti. A queste bisogna aggiungere le ipotesi preesistenti di oblazione (sia obbligatoria che facoltativa), nonché il beneficio della sospensione della pena.
Sul punto bisogna anche considerare che non è previsto alcun limite alla possibilità di
estinguere, a mezzo di condotta riparatoria, i reati indicati dall’art. 162 ter c.p. L’imputato può, pertanto, usufruire illimitatamente di tale beneficio, non incontrando né il limite
previsto per la messa alla prova (una sola volta), né quello previsto per l’ipotesi di non
punibilità per particolare tenuità del fatto (ossia l’occasionalità).
Evidente appare il pericolo di impunità e i rischi sottesi sia al mancato coordinamento
con gli istituti premiali preesistenti, sia all’assenza di una previsione che limiti il ricorso al
beneficio estintivo in esame.
In conclusione, gli spunti di integrazione e le problematiche segnalate non rendono l’istituto meno appetibile, stante la sua auspicabile introduzione; tuttavia quello che emerge
è la necessità di una più attenta riflessione, avendo riguardo soprattutto alla necessità di
evitare il pericolo di impunità e di conferire alla causa di estinzione in esame anche un
inquadramento normativo nel codice di rito.
261
Dal Parlamento
/ Al Parlamento
Riflessioni sulle nuove norme in tema di
“caporalato” e sfruttamento del lavoro
Carlotta Cassani
Sommario : 1. La nuova formulazione del delitto ex art. 603 bis c.p.: i soggetti attivi. – 1.1. Responsabilità del “caporale” e del datore di lavoro. – 1.2. Responsabilità amministrativa degli enti. – 2. Segue: le
condotte punibili. – 3. La circostanza attenuante della collaborazione. – 4. Profili processuali: il controllo
giudiziario dell’azienda. – 5. Le modifiche in materia di confisca. – 6. Le nuove misure di tutela delle
vittime. – 7. Osservazioni conclusive.
1. La nuova formulazione del delitto ex art. 603 bis c.p.: i
soggetti attivi.
1.1. Responsabilità del “caporale” e del datore di lavoro.
La l. 29 ottobre 2016, n. 199, recante “Disposizioni di contrasto ai fenomeni del lavoro
nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore
agricolo”, ha apportato modifiche penalistiche significative e ha istituito un sistema integrato di politiche del lavoro agricolo.
Con riferimento al primo aspetto è stato in primo luogo modificato l’art. 603 bis c.p.,
inserito nel Titolo XII del Libro II, tra i delitti contro la persona, nel Capo III, sui delitti
contro la libertà individuale, e in particolare nella Sezione I, tra i delitti contro la personalità individuale, nel 20111, finalizzato, come è stato sottolineato dalla Suprema Corte, a
“colmare l’esistenza di una vera e propria lacuna nel sistema repressivo delle distorsioni
del mercato del lavoro”, e a tutelare “lo stato di uomo libero, inteso come necessario presupposto per il riconoscimento dei singoli diritti di libertà”2.
Sulla formulazione della norma erano state sollevate perplessità, con particolare riguardo al novero dei soggetti attivi.
1
D.l. 13 agosto 2011, n. 138, “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”, convertito in l. 14 settembre
2011, n. 148, “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per
la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici
giudiziari”.
2
Cass. pen., Sez. V, (4 febbraio 2014) 27 marzo 2014, n. 14591, S.C., S.I., in DeJure.
Carlotta Cassani
Nella formulazione previgente, infatti, l’art. 603 bis c.p. contemplava tra gli autori del
reato esclusivamente il c.d. “caporale”, vale a dire l’intermediario nel reclutamento della
manodopera, non invece il diretto utilizzatore, con specifico riguardo al datore di lavoro3.
Il testo attuale dell’art. 603 bis, 1°comma c.p. punisce sia il “caporale” (1°comma, n. 1),
sia chi “utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione” (1°comma, n. 2).
La punizione della sola attività di intermediazione non consentiva invece di configurare
una responsabilità a titolo autonomo in capo al datore di lavoro, nei confronti del quale
era possibile al più contestare la qualifica di concorrente nel reato, rispetto alla quale erano state sollevate obiezioni, in ragione del ruolo di mero correo in capo a “colui che si
profila invece come dominus del fatto”4.
1.2. Responsabilità amministrativa degli enti.
L’art. 6 l. 199/2016 ha introdotto una modifica nell’art. 25 quinquies, 1°comma, lett. a)
d.lgs. 231/2001, prevedendo la responsabilità degli enti da reato anche per il delitto ex art.
603 bis c.p.
Qualora, pertanto, i soggetti apicali ovvero coloro che sono sottoposti alla direzione o
alla vigilianza degli stessi, ex art. 5 d.lgs. 231/2001, commettano il reato nell’interesse o a
vantaggio dell’ente, si applica la sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote.
Anche tale norma ha colmato una lacuna precedentemente oggetto di censure5, in
considerazione dell’esigenza di assoggettare a responsabilità anche l’ente al quale l’attività
criminosa è riconducibile.
La tipologia del fenomeno del “caporalato” appare infatti prestarsi plausibilmente a una
realizzazione in forma imprenditoriale, e le sanzioni all’ente possono rivelarsi idonee a
reprimere e inibire più efficacemente lo svolgimento di tale attività.
Rispetto, tuttavia, al profilo applicativo, occorrerà valutare se, specialmente rispetto al
“caporale”, nei singoli casi concreti sarà possibile dimostrare la sussistenza del rapporto
organico richiesto ai sensi dell’art. 5 d.lgs. 231/20016.
3
264
Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correazione (troppo) scontata, in Riv. trim. dir. pen. contemporaneo,
2015, n. 2, 109 ss.; Lo Monte, Osservazioni sull’art. 603-bis c.p. di contrasto al caporalato: ancora una fattispecie enigmatica, in
A.A.V.V. (a cura di), Scritti in onore di Alfonso M. Stile, Napoli, 2013, 958-959; Fiore, (Dignità degli) uomini e (punizione dei) caporali.
Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in A.A.V.V. (a cura di), Scritti in onore di Alfonso M. Stile, cit.,
883 ss.
4
Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correazione (troppo) scontata, cit., 110. L’Autore, tuttavia, proponeva
(v. pp. 116-117) un’interpretazione dell’intermediazione in un’accezione penalistica, quale attività organizzata caratterizzata dallo
sfruttamento della manodopera, sulla base della quale il datore di lavoro poteva comunque essere ritenuto autore del reato, anche
qualora non concorresse con il “caporale”. Sul punto v. infra.
5
Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correazione (troppo) scontata, cit., 110-111.
6
Per questi rilievi, in merito a una versione previgente del progetto di legge, v. Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti
su una correazione (troppo) scontata, cit., 126.
Riflessioni sulle nuove norme in tema di “caporalato” e sfruttamento del lavoro
Le modifiche apportate all’art. 603 bis c.p. rispetto agli elementi del fatto tipico comportano una significativa estensione dell’area penalmente rilevante.
In primo luogo, intermediazione e sfruttamento sono puniti anche in assenza di violenza, minaccia o intimidazione.
La formulazione previgente della norma limitava la punibilità alle ipotesi nelle quali la
condotta fosse posta in essere con tali modalità7.
L’art. 603 bis c.p. punisce oggi il reclutamento di manodopera finalizzato alla destinazione al lavoro presso terze persone, “in condizioni di sfruttamento, approfittando dello
stato di bisogno dei lavoratori” (art. 603 bis, 1°comma, n. 1 c.p.), e le condotte di utilizzo,
assunzione o impiego di manodopera, realizzate “anche mediante l’attività di intermediazione”, e attraverso la sottoposizione dei lavoratori a “condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno” (art. 603 bis, 1°comma, n. 2 c.p.).
Violenza e minaccia – esclusa l’intimidazione – integrano invece una circostanza aggravante speciale ad effetto speciale, che determina un sensibile innalzamento della forbice
edittale, da cinque a otto anni di reclusione e da € 1.000,00 a € 2.000,00 di multa, che nella
vigenza della norma del 2011 rappresentava invece l’ipotesi base.
Se da un lato è stato esteso l’ambito della punibilità per il reato base, è da rilevare che
la previsione di una circostanza aggravante ne determina l’assoggettabilità al giudizio di
bilanciamento ex art. 69 c.p.
Tale ipotesi appare particolarmente significativa, in ragione anche dell’introduzione
della circostanza attenuante ad effetto speciale della collaborazione, inserita nell’art. 603
bis-1 c.p., che ha riformulato quella prevista dall’art. 600 septies-1 c.p., e la cui applicazione concreta, in regime di prevalenza, è suscettibile di vanificare gli obiettivi di maggiore
repressione e deterrenza perseguiti dal Legislatore.
Un elemento ulteriore oggetto di modifica è rappresentato dalla rilevanza penale di
condotte anche prive del requisito, prima richiesto, dell’organizzazione.
La norma previgente puniva infatti l’attività di intermediazione “organizzata”8, e connotata, secondo un orientamento9, da caratteristiche differenti e individuate in via autonoma
rispetto alla concezione civilistica di intermediazione, mentre in una differente accezione10
si considerava intermediazione l’attività svolta da chi si interponeva tra lavoratore e datore
di lavoro.
Le problematiche interpretative11 sorte in seguito all’assenza di una definizione della
7
Sul punto, per l’esclusione della responsabilità penale in assenza della prova di tali requisiti, v. Cass. pen., Sez. V, (18 dicembre 2015)
21 aprile 2016, n. 16735, D.M.P., in DeJure.
8
Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correazione (troppo) scontata, cit., 116.
9
Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correazione (troppo) scontata, cit., 116.
10
Scarcella, Il reato di “caporalato” entra nel codice penale, in Dir. pen. proc., 2011, 1190.
11
Una definizione differente della condotta di intermediazione è stata proposta da Di Martino. L’Autore ha operato una ricostruzione
dal parlamento / al parlamento
2. Segue: le condotte punibili.
265
Carlotta Cassani
condotta di intermediazione, rapportata alla mancata previsione del datore di lavoro quale
soggetto attivo, sembrano superate dall’ampliamento delle condotte penalmente rilevanti.
Ad analoghe considerazioni si può pervenire rispetto all’incertezza relativa alla definizione dell’organizzazione come caratteristica della condotta12.
Occorrerà valutare l’idoneità di tale modifica rispetto a una maggiore efficacia della
fattispecie criminosa.
L’omessa previsione dell’organizzazione quale condotta alternativa, infatti, se da un lato può
condurre a ravvisare un’abolitio criminis, può d’altra parte rivelarsi una modifica di poco momento, considerando che sul piano pratico appare di ardua verificazione il “caporalato” in assenza della predisposizione di mezzi riconducibili ad una, seppure rudimentale, organizzazione.
La condotta punibile nella formulazione attuale è definita, rispetto al “caporale”, come
reclutamento, che non compare più, unitamente all’organizzazione, quale connotazione
alternativa dell’intermediazione.
Il reclutamento è invece alternativo all’utilizzo, all’assunzione o all’impiego della manodopera.
Le condotte di reclutamento e sfruttamento devono essere compiute sottoponendo i
lavoratori a “condizioni di sfruttamento”, nonché “approfittando” dello “stato di bisogno”
nel quale essi versano.
Rispetto al testo previgente è da rilevare l’abrogazione del riferimento allo stato di necessità in alternativa allo stato di bisogno.
Pertanto la rilevanza penale sussiste qualora ricorrano le condizioni per ritenere che il
lavoratore versi nella condizione, definita dalla giurisprudenza con riferimento al delitto di
usura ex art. 644 c.p., di “un impellente assillo”, il quale, “limitando la volontà del soggetto”13,
lo induca ad accettare lo svolgimento di un’attività lavorativa in condizioni di sfruttamento.
Anche le definizioni dell’“indice di sfruttamento” contenute nell’art. 603 bis, 2°comma
c.p. sono state parzialmente modificate.
La violazione delle norme contrattuali in materia di retribuzione, maggiormente specifi-
266
della norma che valorizzasse l’accezione esclusivamente penalistica dell’intermediazione, individuando nel reclutamento e nell’organizzazione “le modalità tipiche in cui si concretizza l’intermediazione quale attività organizzata, la quale di per sé non ha un’autonoma consistenza materiale”: Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correazione (troppo) scontata, cit., 116.
Pervenendo a tale conclusione, pertanto, l’intermediazione perdeva autonomia e prescindeva dall’esigenza di una frapposizione del
soggetto attivo tra datore di lavoro e lavoratore, potendo quindi l’agente essere individuato anche nel datore di lavoro.
12
Secondo un orientamento era ravvisabile un’area di impunità per il “caporale” che svolgesse l’attività di reclutamento illegale in proprio, o comunque in assenza di una struttura organizzata. È stato rilevato in proposito che tale ultima ipotesi appariva di verificazione
tutt’altro che frequente, considerato che il “caporalato” si caratterizza generalmente per un’attività posta in essere proprio da individui
alle dipendenze di organizzazioni criminali: v. Scarcella, Il reato di “caporalato” entra nel codice penale, cit., 1189. L’Autore (v. pp.
1189-1190) proponeva anche una diversa interpretazione, intendendo l’attività nella differente accezione di “esercizio non occasionale” dell’attività, consentendo quindi un’estensione della rilevanza penale anche a comportamenti posti in essere da un solo soggetto.
Con riguardo all’esigenza di ravvisare gli estremi, anche rudimentali, di un’organizzazione, nella formulazione previgente dell’art.
603 bis c.p., v. Fiore, (Dignità degli) uomini e (punizione dei) caporali. Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del
lavoro, cit., 880-801.
13
Cass. pen., Sez. II, (16 dicembre 2015) 15 marzo 2016, n. 10795, D.S.G., C.F., C.R., in DeJure. Nello stesso senso v., ex multis: Cass.
pen., Sez. II, (25 marzo 2014) 7 maggio 2014, n. 18778, M.G., V.A., B.G.L., S.S., R.R., Nomura International PLC, in DeJure; Cass. pen.,
Sez. II, (11 novembre 2010) 10 dicembre 2010, n. 43713, G.L., in DeJure.
Riflessioni sulle nuove norme in tema di “caporalato” e sfruttamento del lavoro
cata sotto il profilo della fonte contrattuale, ex art. 603 bis, 2°comma, n. 1 c.p., e di quelle
concernenti l’orario di lavoro, il riposo, l’aspettativa obbligatoria e le ferie, ex art. 603 bis,
2°comma, n. 2 c.p., devono essere caratterizzate non da sistematicità, come precedentemente previsto, ma da reiterazione.
L’espressa previsione del carattere reiterato di tali condotte conduce a ritenere che, per
assumere rilievo penale, debbano essere commesse almeno in due occasioni.
Rispetto alle ulteriori ipotesi riconducibili a un “indice” di sfruttamento, è stata ampliata
la rilevanza penale delle violazioni -la previsione al plurale lascia intendere che si debba
trattare di almeno due violazioni- delle norme in materia di sicurezza e igiene sul lavoro,
che prescinde oggi dall’idoneità delle stesse ad arrecare offesa al lavoratore, come invece
previsto nella formulazione previgente, ex art. 603 bis, 2°comma, n. 3 c.p.
Infine, la sottoposizione del lavoratore a “condizioni alloggiative degradanti”, ex art. 603
bis, 2°comma, n. 4 c.p., consente di rendere penalmente rilevante un numero maggiore
di ipotesi, in considerazione dell’eliminazione dell’avverbio “particolarmente” riferimento
alle condizioni degradanti.
Una novità introdotta dal Legislatore del 2016 è rappresentata dalla previsione della circostanza attenuante, speciale e ad effetto speciale, della collaborazione nell’art. 603 bis-1 c.p.
Tale circostanza concerne comportamenti di effettiva collaborazione14, posti in essere mediante dichiarazioni su quanto a propria conoscenza, e che consistono nell’adoperarsi per evitare l’aggravamento delle conseguenze del reato, ovvero nell’aiuto dell’autorità giudiziaria o della
polizia giudiziaria, posto in essere “concretamente”, a raccogliere “prove decisive”, sia “per l’individuazione o la cattura dei concorrenti”, sia “per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite”.
Tale circostanza introduce alcuni nuovi elementi rispetto a quelli previsti dall’art. 600
septies-1 c.p., prima applicabile anche al reato de quo.
Il regime premiale è più favorevole, in quanto la diminuzione della pena è compresa
tra un terzo e due terzi (fino alla metà per l’art. 600 septies-1 c.p.).
Tuttavia, affinché essa trovi applicazione, occorre che il reo renda “dichiarazioni su
quanto a sua conoscenza”.
Infine, la circostanza si applica, e questo rappresenta un ulteriore elemento di novità,
anche rispetto a chi aiuta concretamente l’autorità o la polizia giudiziaria a sequestrare le
somme o le altre utilità che siano state trasferite mediante la commissione del reato.
L’intento del Legislatore appare chiaramente volto a valorizzare, anche con una maggio-
14
Sui requisiti della collaborazione v., rispetto ad ipotesi assimilabili, in tema di sostanze stupefacenti, con riferimento all’art. 73, 7°comma d.p.r. 309/1990, v., ex multis: Cass. pen., Sez. VI, (23 luglio 2015) 4 settembre 2015, n. 35995, J.G.W., in DeJure; Cass. pen., Sez.
III, (15 aprile 2015) 25 maggio 2015, n. 21624, R.G., D.B.C., in DeJure; Cass. pen., Sez. III, (1 ottobre 2014) 4 giugno 2015, n. 23942,
A.C., L.R., P.M., S.A., Se.Gi., in DeJure.
dal parlamento / al parlamento
3. La circostanza attenuante della collaborazione.
267
Carlotta Cassani
re diminuzione della pena, tutti quei comportamenti che possano contribuire a bloccare
l’attività criminosa, anche rispetto ai proventi del reato.
4. Profili processuali: il controllo giudiziario dell’azienda.
L’art. 3, 1°comma l. 199/2016 ha introdotto, in alternativa al sequestro preventivo, qualora sussistano i presupposti per l’applicazione dell’art. 321, 1°comma c.p.p., una nuova
misura cautelare reale, denominata “controllo giudiziario dell’azienda”.
Il giudice, nel disporre la misura, nomina uno o più amministratori giudiziari (art.
3, 2°comma), che svolgono un ruolo di affiancamento dell’imprenditore, accompagnato
dall’obbligo di riferire al giudice l’attività svolta, ogni tre mesi, e comunque qualora si
verifichino irregolarità, e caratterizzato anche dallo svolgimento di attività finalizzate ad
evitare “situazioni di grave sfruttamento lavorativo” all’interno nell’azienda.
In particolare, l’amministratore svolge un’attività di controllo rispetto a comportamenti che costituiscano indice di sfruttamento lavorativo ai sensi dell’art. 603 bis c.p., ha il
compito di provvedere alla regolarizzazione dei lavoratori dell’azienda che all’epoca
dell’apertura del procedimento penale prestavano la propria opera in modo irregolare,
ed è titolare del potere di assumere iniziative diverse da quelle adottate dall’imprenditore
o dal gestore, al fine di evitare che le violazioni accertate si verifichino nuovamente (art.
3, 3°comma).
Tale misura appare volta a salvaguardare l’attività di impresa sotto il profilo del valore
economico della stessa, nonché dei livelli occupazionali, qualora entrambi possano essere
compromessi dall’interruzione dell’attività aziendale.
La natura giuridica di misura cautelare reale si fonda sul richiamo agli artt. 321 ss. c.p.p.,
dei quali l’art. 3, 1°comma l. 199/2016 fa salva l’applicazione.
Stando al tenore letterale della legge, pertanto, il provvedimento applicativo dovrebbe
essere impugnabile mediante il riesame ex artt. 322 e 324 c.p.p., e dovrebbero trovare applicazione per l’appello l’art. 322 bis c.p.p. e per il ricorso per cassazione l’art. 325 c.p.p.
La misura in questione presenta tratti peculiari rispetto a istituti ad essa parzialmente
assimilabili.
Differente appare la disciplina del commissariamento previsto in materia di responsabilità degli enti dagli artt. 45, 3°comma e 15 d.lgs. 231/2001, che interviene in sostituzione
della sanzione interdittiva quale misura cautelare15, ed è riconducibile, con riguardo alla
disciplina, alla materia cautelare.
L’istituto si distingue altresì dal monitoraggio, disciplinato dall’art. 32, 8°comma d.l.
15
268
In giurisprudenza, sui requisiti della nomina del commissario giudiziale nella fase cautelare, v. Cass. pen., Sez. VI, (28 settembre 2011)
22 novembre 2011, n. 43108, Ennauno S.p.a., G.M., in DeJure. L’amministratore giudiziario nominato ai sensi dell’art. 3, 2°comma l.
199/2016 svolge inoltre un compito di affiancamento che lo distingue dal ruolo del custode amministratore giudiziario, nonché dall’eventuale amministratore ex artt. 104 e 104 bis disp. att. c.p.p., nominati nei casi di sequestro preventivo ex art. 53 d.lgs. 231/2001.
Riflessioni sulle nuove norme in tema di “caporalato” e sfruttamento del lavoro
90/2014 conv. in l. 116/201416, che prevede la nomina, da parte del Prefetto, di uno o più
esperti che svolgano “funzioni di sostegno e monitoraggio dell’impresa”, considerata la
natura amministrativa della misura.
La natura giuridica del controllo giudiziario si presta comunque a considerazioni in termini problematici in ragione del contenuto, considerando che l’imprenditore è affiancato
e non subisce un’ablazione di beni, come nel caso del sequestro preventivo.
Il ruolo di affiancamento svolto dall’amministratore rappresenta pertanto una peculiarità dell’istituto in esame.
Nella normativa previgente era assente una previsione di ipotesi di confisca obbligatoria ad hoc17.
L’art. 603 bis-2 c.p., applicabile in caso di sentenza di condanna o di applicazione della pena, prevede la confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a
commettere il reato, oppure che ne rappresentano il prezzo18, il prodotto o il profitto, fatti
salvi l’appartenenza delle stesse a soggetti estranei al reato e i diritti della persona offesa
al risarcimento del danno e alle restituzioni.
Anche in tali ipotesi di reato, pertanto, il Legislatore è intervenuto allargando le maglie
della confisca obbligatoria, finalizzata a bloccare l’utilizzo delle risorse che nel reato rinvengono la propria fonte, nonché i mezzi per commetterlo: si pensi, a tale ultimo proposito, ai mezzi di trasporto utilizzati per condurre i lavoratori nei luoghi indicati dai “caporali”.
Nel caso in cui tale modalità non sia possibile, è stata introdotta una ulteriore ipotesi di
confisca per equivalente dei beni dei quali il soggetto attivo del reato abbia la disponibilità, anche mediante interposta persona.
Infine la confisca “allargata” prevista dall’art. 12 sexies d.l. 306/1992, conv. in l. 356/199219,
è stata estesa alle fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p.
16
D.l. 24 giugno 2014, n. 90,“Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari”, convertito in l. 11 agosto 2014, n. 116, “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, recante
misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari”.
17
Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correazione (troppo) scontata, cit., 122. L’Autore svolgeva considerazioni nel merito esprimendo dubbi sull’opportunità dell’introduzione di una nuova ipotesi speciale di confisca, in ragione della
maggiore plausibilità di una discrezionalità del giudice nella valutazione, ad esempio, della confisca dei mezzi di trasporto utilizzati
per la commissione del reato, e dell’esigenza di valutare, caso per caso, l’opportunità, piuttosto, di garantire una gestione provvisoria dell’attività lavorativa, valorizzandone l’aspetto economico e quindi soluzioni in grado di preservare quest’ultimo, considerando
anche i terzi beneficiari dell’attività in sé.
18
Tale previsione relativa al prezzo ribadisce peraltro quanto già previsto dall’art. 240, 2°comma, n. 1 c.p.
19
D.l. 8 giugno 1992, n. 306, “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità
mafiosa”, convertito in l. 7 agosto 1992, n. 356, “Conversione in legge con modificazioni, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306,
recante modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”. Sul tema v.,
ex multis, Fondaroli, Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale. Ablazione patrimoniale, criminalità economica, responsabilità
delle persone fisiche e giuridiche, Bologna, 2007, 201 ss.
dal parlamento / al parlamento
5. Le modifiche in materia di confisca.
269
Carlotta Cassani
In proposito è stato sottolineato20 come tale previsione possa prestare il fianco a obiezioni, con riguardo alla difficoltà dell’accertamento del requisito della sproporzione tra il
denaro, i beni o le altre utilità di cui il soggetto dispone, anche per interposta persona,
senza essere in grado di giustificarne la provenienza, e il proprio reddito o l’attività economica di cui è titolare, con riguardo a coloro che svolgono la parte più attiva nell’attività
criminosa, che possono paradossalmente essere maggiormente tutelati, per la difficoltà, in
ragione dell’entità dell’attività imprenditoriale e dei conseguenti introiti, di pervenire alla
dimostrazione del requisito della sproporzione.
Da tale considerazione può derivare la conseguenza di una maggiore aggredibilità
dei beni di coloro che svolgono ruoli più marginali nella vicenda, possedendo un
apparato organizzativo più modesto, che rende meno giustificabile la disponibilità
della res.
6. Le nuove misure di tutela delle vittime.
L’art 7 l. 199/2016 ha introdotto i reati di intermediazione e sfruttamento illecito tra
quelli che contribuiscono ad alimentare il Fondo per le misure antitratta, ex art. 12, 3°comma l. 228/200321, destinato pertanto anche all’indennizzo delle vittime, nel caso dell’esito
infruttuoso della procedura per ottenere il risarcimento del danno, secondo quanto previsto dall’art. 12, commi 2 bis, 2 ter e 2 quater l. 228/2003.
L’art. 8 l. 199/2016, inoltre, ha introdotto modifiche al d.l. 91/2014 conv. in l. 116/201422,
con riferimento alla Rete del lavoro agricolo di qualità.
In particolare, è stato ampliato il novero degli enti che vi possono partecipare, è stata
introdotta l’assenza di condanne per la violazione dell’art. 603 bis c.p., inoltre sono state
apportate modifiche nella composizione della cabina di regia prevista dall’art. 6, 2°comma
d.l. 91/2014 conv. in l. 116/2014.
Tali previsioni si iscrivono nell’ottica di un intervento finalizzato a rendere più efficace
il controllo degli enti nell’agricoltura, mediante attività di monitoraggio, anche rispetto ai
lavoratori impiegati, e a promuovere iniziative in tema di politiche di contrasto del lavoro
20
Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correazione (troppo) scontata, cit., 126.
L. 11 agosto 2003, n. 228, “Misure contro la tratta di persone”. L’art. 12, 3°comma prevede che tale fondo sia alimentato anche dai
proventti della confisca disposta per i reati di cui agli artt. 416, 6°comma, 600, 601, 602, e, oggi, 603 bis c.p., nonché per i delitti per
i quali è applicata la confisca ex art. 12 sexies d.l. 306/1992 conv. in l. 356/1992, in caso di sentenza di condanna o di applicazione
della pena. Nel fondo confluiscono altresì le somme previste dall’art. 18 d.lgs. 286/1998 (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, “Testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”).
22
D.l. 24 giugno 2014, n. 91, “Disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche,
nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea”, convertito in l. 11 agosto 2014, n. 116,
“Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, recante disposizioni urgenti per il settore
agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle
imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti
dalla normativa europea”.
21
270
Riflessioni sulle nuove norme in tema di “caporalato” e sfruttamento del lavoro
sommerso, di tutela contributiva e di controllo della regolarità dei lavoratori stranieri rispetto alle norme sul soggiorno23.
Sono state infine inserite disposizioni in materia di supporto dei lavoratori agricoli stagionali (art. 9) e di riallineamento contributivo (art. 10).
Con riguardo al differente profilo del soggiorno dei lavoratori stranieri24, è da rilevare
come possa ritenersi ampliato l’accesso alla titolarità del permesso di soggiorno per le
vittime dei reati ex art. 603 bis c.p.
Qualora ricorrano i requisiti per la sussistenza del reato di impiego di lavoratori irregolari ex art. 22, 12°comma d.lgs. 286/1998, aggravato ex art. 22, comma 12 bis, quindi si
verifichi un’ipotesi di “particolare sfruttamento”25, l’art. 22, commi 12 quater e 12 quinquies
conferisce già al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari,
qualora il lavoratore abbia presentato denuncia, ovvero collabori nel procedimento penale
instauratosi a carico del datore di lavoro.
Rispetto, invece, al reato di intermediazione e sfruttamento illecito aggravati ex art. 603
bis, 2°comma c.p., in assenza dei requisiti indicati dalle norme specifiche citate, il lavoratore straniero può beneficiare, se ne sussistono i presupposti, del permesso di soggiorno
per motivi di protezione sociale ex art. 18, 1°comma d.lgs. 286/1998, oppure per motivi di
giustizia, ex artt. 17 d.lgs. 286/1998 e 11, 1°comma, lett. c bis) d.p.r. 394/1999, considerato
che, per espressa previsione dell’art. 4 l. 199/2016, per tale reato è oggi previsto l’arresto
obbligatorio in flagranza ex art. 380, 2°comma c.p.p.
Le modifiche normative apportate al fine di contrastare il fenomento del c.d. caporalato
appaiono, a una prima lettura, finalizzate a un intervento integrato, sia sul piano penalistico e processualpenalistico, sia sul versante delle politiche in materia di lavoro agricolo.
L’applicazione del sistema interdisciplinare istituito dal Legislatore del 2016 potrà essere
oggetto di riflessioni in merito all’efficacia delle misure introdotte rispetto alla prevenzione
e alla repressione delle ipotesi di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Sotto il profilo penalistico, in particolare, considerata la scarsa applicazione, ad oggi,
dell’art. 603 bis c.p., sarà opportuno verificare se l’espressa previsione del datore di lavoro
tra i soggetti attivi del reato e la rilevanza penale delle condotte, anche se poste in essere
in contesti privi di violenza o minaccia, rappresentino strumenti efficaci di contrasto di
tale attività criminosa.
23
Sul tema, in prospettiva de iure condendo, v. Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correazione (troppo)
scontata, cit., 123-124.
24
Sono “stranieri”, ai sensi dell’art. 1, 1°comma d.lgs. 286/1998, i cittadini di Stati che non appartengono all’Unione Europea e gli apolidi.
25
Sul testo normativo previgente, con riguardo all’individuazione in via interpretativa delle ipotesi che vi rientrano, v. Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correazione (troppo) scontata, cit., 120 ss.
dal parlamento / al parlamento
7. Osservazioni conclusive.
271
Cass., Sez. Un., 21 luglio 2016 (dep. 9 novembre 2016),
n. 38670 – Pres. Canzio – est. Vessichelli
Sequestro conservativo – Riesame – Pignorabilità
dei beni – Competenza del Tribunale del Riesame
Dalle
corti
In tema di impugnazione delle misure reali, le questioni
attinenti al regime di ignorabilità dei beni sottoposti a sequestro conservativo sono deducibili con la richiesta del riesame
e devono essere decise dal Tribunale del Riesame, al quale è demandato un controllo “pieno” che deve tendere alla verifica di legittimità della misura ablativa in tutti i suoi profili
(fattispecie in tema di beni conferiti in fondo patrimoniale).
Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista.
Le Sezioni Unite riconoscono la cognizione del giudice
del riesame sulle questioni inerenti la pignorabilità del
bene sottoposto a sequestro conservativo
1. Sequestro conservativo del bene e sua pignorabilità:
posizioni a confronto.
Le questioni inerenti la pignorabilità del bene possono essere devolute al Tribunale
chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di riesame presentata avverso il provvedimento di
sequestro conservativo? Con la decisione in rassegna le Sezioni Unite della Cassazione
offrono risposta a questo interrogativo ponendo così fine ad un contrasto sorto negli anni
all’interno della giurisprudenza di legittimità.
Intorno alla tematica in esame la Cassazione ha infatti sviluppato due orientamenti
contrapposti. Secondo un primo minoritario indirizzo, il giudice dell’impugnazione cautelare penale non è abilitato a conoscere della assoggettibilità o meno a pignoramento
del bene sottoposto a sequestro conservativo, posto che la conversione della misura
cautelare in pignoramento ex art. 320 c. 1 c.p.p. avviene soltanto dopo il passaggio in
giudicato della sentenza di condanna; ne segue che la questione della eventuale impignorabilità del bene è ad appannaggio esclusivo del giudice civile quale organo funzionalmente competente per la fase dell’esecuzione forzata1. 1
Cfr. Cass., Sez. VI, 17 gennaio 2011, n. 4435, Trozzi, non mass.
Luigi Ludovici
La tesi opposta, che vuole competente a prendere cognizione dell’esistenza di cause ostative al pignoramento del bene il giudice dell’incidente cautelare penale, è, invece, sostenuta
in via maggioritaria dalla giurisprudenza di legittimità. A sostegno di questa diversa interpretazione viene, in particolare, richiamato il dato letterale ex art. 316 c. 1 c.p.p. secondo cui il
sequestro conservativo può essere richiesto «nei limiti in cui la legge ne consente il pignoramento» unitamente alla considerazione che, una volta individuato nell’impignorabilità del
bene un preciso limite al sequestro conservativo, sarebbe del tutto irragionevole non riconoscere al Gip (o comunque al giudice indicato dall’art. 317 cod. proc. pen.) prima, e al tribunale in sede di riesame, poi, il potere-dovere di verificare se tale limite è stato rispettato2.
2. La decisione delle Sezioni Unite.
Intervenute per dirimere il contrasto, le Sezioni Unite della Cassazione, aderendo all’orientamento maggioritario, riconoscono in capo al Tribunale del riesame una cognizione
estesa fino a ricomprendere anche il tema della pignorabilità del bene interessato dalla
misura ablativa.
Il ragionamento posto a base della decisione prende le mosse dalla disamina dei presupposti legittimanti l’adozione del sequestro conservativo tra cui, infatti, figura – oltre al
periculum in mora, al fumus boni iuris, alla disponibilità del bene da parte dell’imputato
e alla titolarità da parte del soggetto richiedente la misura di uno dei crediti garantiti dalla
norma – la circostanza che il bene sia suscettibile di pignoramento.
Posto questo dato, la cui esistenza si evince inequivocabilmente dal disposto normativo
di cui all’art. 316 c. 1 c.p.p., il plenum sottolinea come non vi sia motivo per non riconoscere come valutabile dal giudice che procede o da quello della impugnazione cautelare
il rispetto dei parametri normativi che condizionano o possono paralizzare la deduzione
della impignorabilità.
Che peraltro quella del Tribunale del riesame sia una cognizione piena e quindi coincidente con quella del giudice che ha applicato la misura è reso palese dalla catena dei
rinvii innescata dall’art. 318 c.p.p. il cui effetto ultimo è quello di sancire l’operatività nel
contesto dell’impugnazione in esame dell’art. 309 c. 9 c.p.p., norma in forza della quale al
giudice del riesame de libertate spetta, infatti, un potere di controllo scevro da limitazioni
ed esteso a tutti i profili che incidono sulla legittimità della misura applicata.
Né vale a suffragare la tesi – sostenuta dall’orientamento minoritario – della competenza esclusiva del giudice civile a conoscere le questioni inerenti la pignorabilità del bene
il rinvio che rispettivamente gli artt. 317 c. 3 e 320 c.p.p., operano a beneficio delle forme
prescritte dal codice di procedura civile.
274
2
Cass., Sez. VI, 22 maggio 1997, n. 2033, Lentini, in C.E.D. Cass., n. 209111; Cass., Sez. VI, 4 febbraio 2011, n. 16168, De Biase, ivi, n.
249329; Cass., Sez. V, 26 maggio 2015, Valeria, n. 21733, ivi, n. 264768.
Cognizione del giudice del riesame sulle questioni inerenti la pignorabilità del bene sottoposto a sequestro conservativo
Chiariscono, infatti, le Sezioni Unite che mentre il rinvio di cui all’art. 317 c. 3 c.p.p. ha
esclusivamente la funzione di determinare le modalità di esecuzione del titolo cautelare in
linea con quanto previsto dall’omologo istituto civilistico, nell’art. 320 c.p.p. il rinvio alle
forme del codice di rito civile ha la diversa funzione di regolamentare la fase di espropriazione forzata che si apre dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna; il
che non può non implicare la conseguente emersione della competenza del giudice civile
essendo, in effetti, il pignoramento – in cui si converte il sequestro conservativo in fase di
esecuzione – una procedura estranea al novero delle vicende esecutive rimesse al giudice
penale.
Al termine della propria disamina e in coerenza con l’impostazione di fondo lungo cui
si snoda l’intero percorso logico-argomentativo posto a base della decisione, il plenum
sottolinea come il giudice penale – sia esso il giudice richiesto della misura o il Tribunale
costituitosi ex art. 318 c.p.p. in funzione di controllo – ha, in definitiva, cognizione su tutte
le questioni di sostanza e di derivazione civilistica che, incidendo sulla possibilità o meno
di una espropriazione forzata, si riflettono sul piano della legittimità del vincolo cautelare:
non solo, dunque, spetterà al giudice penale verificare se ed entro quali limiti il bene sia
impignorabile, ma egli sarà chiamato anche a verificare se ricorrano eventuali condizioni
di inefficacia – es., per effetto di revocatoria c.d. fallimentare ex. art. 64 l.f. o c.d. penale
ex artt. 192, 193 e 194 c.p.- prospettate dal creditore/richiedente la misura in relazione agli
atti dispositivi compiuti dal debitore in favore di terzi la cui sussistenza, infatti, facendo
venir meno inespropriabilità del bene, implica l’opponibilità del vincolo cautelare.
La decisione in commento patrocina un’interpretazione del sequestro conservativo e
del sistema dei controlli ad esso associato la cui validità non sembra poter essere messa
in discussione.
A ben guardare, infatti, la lettera dell’art. 316 c.p.p., allorquando specifica che il sequestro conservativo è ammesso entro i limiti in cui la legge consente il pignoramento, abilita
senza ombra di dubbio il giudice penale a conoscere della pignorabilità del bene ed a
sondare i limiti della sua estensione posto che dall’una e dagli altri dipendono rispettivamente l’an e i margini di esercizio del potere cautelare in ambito penale.
Una volta chiarito, dunque, che la pignorabilità del bene individua un presupposto di
legittimità del sequestro conservativo e che, quindi, il giudice investito della richiesta cautelare ha cognizione anche in relazione a tale tematica, è giocoforza riconoscere analoga
competenza al giudice ex art. 324 c.p.p. stante l’omogeneità cognitiva che la richiesta di
riesame ex art. 318 c.p.p., quale gravame c.d. puro, assicura tra l’uno e l’altro3.
3
In argomento e, più in generale, in tema controlli sulle cautele reali cfr. Adorno, Il riesame delle misure cautelari reali, Milano, 2004.
Dalle corti
3. Riflessioni conclusive.
275
Luigi Ludovici
Ulteriore e definitiva riprova della competenza del giudice penale circa le questioni
inerenti il pignoramento del bene da sottoporre o sottoposto a sequestro conservativo si
rinviene guardando, più in generale, alla logica che informa la materia cautelare.
Per far luce su questo aspetto bisogna partire dalla considerazione che le cautele hanno
natura strumentale ed accessoria i cui effetti concreti trovano la propria ragione d’essere e
sono tollerati dall’ordinamento solo a patto che rappresentino una anticipazione di ciò che
accadrà con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna e l’inizio dell’esecuzione.
La conclusione vale naturalmente sia per le cautele personali che per quelle reali: volendo
restare alle esemplificazioni più emblematiche, la custodia cautelare in carcere anticipa,
infatti, gli effetti di una condanna a pena detentiva come il sequestro conservativo anticipa
quelli del pignoramento4.
Se così stanno le cose, è però evidente che tra i presupposti di adozione della cautela,
su un piano logico prima che normativo, figura necessariamente anche la verifica circa l’esistenza delle condizioni per cui, nella fase esecutiva, sarà possibile effettivamente limitare
quel diritto o vincolare proprio quel bene su cui la cautela è destinata provvisoriamente ad
incidere: se così non fosse si arriverebbe, infatti, al paradosso di consentire in via cautelare
limitazioni che in fase esecutiva saranno comunque precluse.
Non a caso il codice di rito vieta il ricorso alla custodia in carcere nei casi in cui il
giudice della cautela preveda che, con la sentenza di condanna, sarà concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena5 ovvero sarà comminata una pena (non
superiore a 3 anni) compatibile con il decreto di sospensione dell’ordine di esecuzione e
con la concessione di una misura alternativa alla detenzione (art. 275 c. 2-bis c.p.p.)6. E
non vi è dubbio che risponde alla medesima logica che attraversa la disciplina dettata in
materia de libertate anche la previsione di cui all’art. 316 c.p.p. circa il divieto di sequestro
conservativo di beni impignorabili.
L’interpretazione che vuole riservare al giudice civile investito della fase esecutiva la
competenza a conoscere le questioni sulla pignorabilità del bene come se le stesse non
influenzassero in alcun modo la possibilità di ricorso allo strumento cautelare reale, non
può essere, dunque, accolta non solo perché collide con il tenore cristallino del dettato
normativo e con la natura del controllo ontologicamente riservato al giudice del riesame,
ma anche perché, in definitiva, finisce per stravolgere la logica di fondo che permea di se
l’intero sistema cautelare.
Luigi Ludovici
4
La natura di pignoramento anticipato è ribadita dalla Cassazione proprio nella sentenza in commento.
In argomento v. Marandola, Sospensione condizionale della pena e misure cautelari, in Cass. pen. 1995, 641.
6
Per una disamina ad ampio spettro sulle modifiche apportate al sistema cautelare dalla l. 16 aprile 2015, n. 47, tra cui rientra anche
il divieto della custodia in carcere in caso di prognosi di pena non superiore a tre anni v. Spangher, Brevi riflessioni sistematiche sulle
misure cautelari dopo la l. n. 47 del 2015, in www.penalecontemporaneo.it
5
276
Cass., Sez. IV, 11 maggio 2016 (dep. 6 giugno 2016), n. 23283
– Pres. Blaiotta – est. Montagni
Omicidio colposo – Responsabilità medica
Dalle
corti
L’articolo 3 della legge 8 novembre 2012 n. 189 (legge
Balduzzi, in tema di responsabilità del medico), secondo cui
l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve, va inteso
nel senso che la limitazione di responsabilità, in caso di colpa lieve, può operare, per le
condotte professionali conformi alle linee guida e alle buone pratiche, anche in caso di
errori che siano connotati da profili di colpa generica diversi dall’imperizia.
Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista.
La Cassazione detta alcune “linee guida” in tema di
responsabilità medica
1. Breve premessa.
La sentenza in commento ha il duplice merito di delineare in maniera chiara ed organica la disciplina della responsabilità medica relativamente ai reati di omicidio e lesioni
colpose e di estendere a tutte le ipotesi di colpa generica la portata della novella legislativa
del 2012 (c.d. Decreto Balduzzi).
L’occasione è offerta da una vicenda processuale che vede imputato un chirurgo del delitto di cui all’art. 589 c.p., per aver omesso di attuare tempestivamente ogni possibile attività
diagnostica e terapeutica – la TAC venne eseguita solo quando la rottura dell’aorta era ormai
conclamata – nei confronti di un paziente che, già al momento del ricovero, presentava una
sintomatologia riferibile a fessurazione dell’aneurisma dell’aorta addominale, così cagionandone la morte, nonostante l’effettuazione dell’intervento di rimozione dell’aneurisma.
2. Questione di diritto intertemporale.
Preliminarmente il Supremo Collegio si occupa di ribadire l’incidenza intertemporale
Federico Emiliani
della novella normativa introdotta dall’art. 3 L. 189/20121: limitando la penale responsabilità alle sole ipotesi di colpa grave – per i reati di lesioni ed omicidio colposo ad opera
dell’esercente una professione sanitaria che si sia attenuto alle linee guida e alle buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica – si sarebbe in presenza di una abolitio criminis parziale delle norme incriminatrici in commento, con applicazione del disposto di
cui all’art. 2 comma 2 c.p.2
Da ciò deriva come, nell’ambito di procedimenti che occupino le tematiche in oggetto,
il giudice dovrà “procedere d’ufficio all’accertamento del grado della colpa, giacché le condotte qualificate da colpa lieve sono divenute penalmente irrilevanti”.
Sulla base di tale principio di diritto la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza
impugnata così che il giudicante di merito possa verificare, nel caso di specie, la sussistenza dell’elemento psicologico richiesto dalla norma incriminatrice alla luce del mutato
quadro normativo di riferimento – ossia, se vi sia la colpa e, se sì, se non sia lieve.
3. Individuazione del grado della colpa.
Il merito di tale decisione si disvela nel prosieguo della motivazione laddove, invece di
limitarsi a rinviare al giudice di merito sulla base della prima assorbente argomentazione
trattata, ritiene di orientare in punto di diritto la futura complessa, ed in parte inedita, valutazione rimessa alla Corte territoriale, facendo chiarezza su alcuni profili di criticità relativi
alle fattispecie in esame.
Per quanto attiene all’individuazione del grado della colpa il Supremo Collegio afferma
che, nel solco dei principi già in precedenza tracciati3, andrà verificata l’entità dello scostamento tra la condotta effettivamente tenuta dall’agente e quella che era lecito attendersi
sulla base della regola cautelare da osservare.
Nella misurazione della gravità del rimprovero dovranno necessariamente esser bilanciati tutta una serie di indicatori, sia soggettivi che oggettivi: le specifiche condizioni
dell’agente, il grado di specializzazione, la situazione ambientale in cui questi si sia trovato
ad operare, l’accuratezza nell’effettuazione del gesto clinico, l’urgenza dell’intervento, l’oscurità del quadro a sua disposizione, l’eventuale atipicità o novità della situazione clinica.
1
278
Art. 3 Legge 8 novembre 2012, n. 189: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee
guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”.
2
Cass. Sez. IV, 29 gennaio 2013 (dep. 9 aprile 2013), n. 16237, Cantore in CED, Rv. 255105: “Tale struttura della riforma da corpo ad
un tipico caso di abolitio criminis parziale. Si è infatti in presenza di norma incriminatrice speciale che sopravviene e che restringe
l’area applicativa della norma anteriormente vigente. Si avvicendano nel tempo norme in rapporto di genere a specie: due incriminazioni di cui quella successiva restringe l’area del penalmente rilevante individuata da quella anteriore, ritagliando implicitamente
due sottofattispecie, quella che conserva rilievo penale e quella che, invece, diviene penalmente irrilevante. Tale ultima sottofattispecie
è propriamente oggetto di abrogazione. La valutazione non muta se, per controprova, si guardano le cose sul piano dei valori: il
legislatore ha ritenuto di non considerare soggettivamente rimproverabili e quindi penalmente rilevanti comportamenti che, per le ragioni ormai più volte ripetute, presentano tenue disvalore. Il parziale effetto abrogativo, naturalmente, chiama in causa la disciplina
dell’articolo 2 comma 2 c.p., e quindi l’efficacia retroattiva dell’innovazione”.
3
Cfr. Cass. Sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16327, Cit.
La Cassazione detta alcune “linee guida” in tema di responsabilità medica
Dalle corti
Con tali elementi a disposizione chi giudica dovrà compiere un’operazione ermeneutica di bilanciamento non dissimile da quella che compirebbe in tema di circostanze del
reato.
Da ciò deriva – comunque ferma la discrezionalità della valutazione del giudice – che la gravità della colpa ricorre laddove “si sia in presenza di una deviazione
ragguardevole rispetto all’agire appropriato, rispetto al parametro dato dal complesso
delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento, quando cioè il gesto
tecnico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità
della malattia ed alle condizioni del paziente”; al contrario invece, “quanto più la vicenda risulti problematica, oscura, equivoca o segnata da impellenza, tanto maggiore
dovrà essere la propensione a considerare lieve l’addebito nei confronti del professionista che, pur essendosi uniformato ad una accreditata direttiva, non sia stato in grado
di produrre un trattamento adeguato e abbia determinato, anzi, la negativa evoluzione della patologia”.
Per fare ulteriore chiarezza circa la distinzione tra colpa lieve e grave, la Cassazione
effettua un breve excursus dei precedenti orientamenti sviluppatisi in seno alle Corti; al
riguardo si consideri che l’attenzione rivolta al tema si giustifica con il fatto che fino ad oggi, nel complesso quadro normativo che regola la materia penale, la distinzione tra colpa
lieve e colpa grave rilevava esclusivamente – salvo rarissime eccezioni, vedi art. 217 n. 4
del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 – ai fini della dosimetria della pena ex art. 133 c.p. e non
anche ai fini dell’individuazione del perimetro della penale responsabilità.
Secondo un primo risalente orientamento, ispirato al principio di unitarietà dell’ordinamento giuridico, si riteneva che, a fronte di situazioni comportanti la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, si potesse parlare di responsabilità del professionista
solo al ricorrere di profili di colpa grave derivanti da imperizia (non anche per le ipotesi
di negligenza o imprudenza), richiamandosi in tal modo alla disposizione di cui all’art.
2236 c.c.4.
Di diverso avviso la giurisprudenza successiva che, negando decisamente l’estensibilità
in campo penale del principio sancito dall’art. 2236 c.p., riteneva di dover avere esclusivo
riguardo agli ordinari criteri di valutazione della colpa di cui all’art. 43 c.p.5
Al termine di questa breve rassegna, la Corte sottolinea la ritrovata centralità assunta
dalla questione circa la distinzione tra culpa levis e culpa lata all’indomani dell’entrata in
vigore della novella più volte richiamata; tematica che viene necessariamente ad intrecciarsi con quella relativa alle linee guida ed alle buone pratiche accreditate.
4
5
Orientamento avallato anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 28 novembre 1973 n. 166.
Tra le altre Cass. Sez. IV, 28 ottobre 2008, n. 46412 in CED, Rv. 242251.
279
Federico Emiliani
4. Natura e definizione delle linee guida.
In coerenza con l’interpretazione consolidatasi la Corte, sotto il profilo definitorio, fa
propri gli approdi della comunità scientifica internazionale6, secondo la quale le linee guida rappresentano delle “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante
un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche, al fine di
aiutare medici e pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche
situazioni cliniche”. Altrimenti detto, si tratta di una serie di indicazioni comportamentali
le quali, a seconda del grado di cogenza, hanno la funzione di ridurre per quanto possibile
la variabilità e la soggettivizzazione delle condotte cliniche.
È bene sgombrare il campo da possibili errori: non potendo offrire standard legali precostituiti queste non assurgono a rango di regole cautelari e, pertanto, la loro eventuale
violazione, non integra un’ipotesi di colpa specifica.
Le ragioni sottese a tale conclusione sono molteplici: la loro varietà ed il diverso grado
di qualificazione; l’assenza di prescrittività tipica della regola cautelare, vista la loro natura
di strumenti di indirizzo ed orientamento; la pluralità delle fonti dalle quali promanano
(circolari, piani sanitari, regolamenti interni)7.
Ed infatti, considerata la loro valenza meramente orientativa, da un lato la loro violazione non integra ipso facto un profilo di colpa; dall’altro il loro pedissequo rispetto non
manderà in ogni caso esente da responsabilità il professionista nell’ipotesi in cui, le specificità del caso concreto, avrebbero suggerito di discostarsene.
5. Riferibilità del novum normativo a tutte le ipotesi di colpa
generica.
L’audacia commendevole – si consenta e il termine e l’attributo – della sentenza in
commento si rinviene nell’ulteriore parte motiva, laddove il Collegio tenta di risolvere
la questione del perimetro di operatività dell’esonero di responsabilità per colpa lieve
nell’ambito della colpa generica.
Preliminarmente viene dato atto del contrasto sul punto in seno alla Corte di legittimità:
a fronte di un orientamento prevalente per il quale la novella sarebbe riferibile esclusivamente alle ipotesi di imperizia8, altre pronunce la ritengono estensibile anche quando
si debba avere riguardo, quale parametro valutativo della condotta, alla diligenza tenuta
6
280
Institute of Medicine. Guidelines for clinical practice: from Developement to Use. Washington DC: The National Academies Press, 1992;
IOM. Clinical Practice Guidelines: We Can Trust. Washington DC: The National Academies Press, 2011.
7
Cfr. Cass. Sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16327, Cit.
8
Tra le altre Cass. Sez. IV, 25 giugno 2015, n. 26996, in CED, Rv. 263826: “In tema di responsabilità medica, la limitazione della responsabilità in caso di colpa lieve prevista dall’art. 3 D.L. 13 settembre 2012, n. 158 (conv., con mod., dalla legge 8 novembre 2012,
n. 189), operando soltanto per le condotte professionali conformi alle linee guida, non si estende agli errori diagnostici connotati da
negligenza o imprudenza, perché le linee guida contengono solo regole di perizia”.
La Cassazione detta alcune “linee guida” in tema di responsabilità medica
dall’agente (come nel caso in cui le raccomandazioni contenute nelle linee guida si riferiscano espressamente all’accuratezza da tenere in un determinato contesto)9.
Come anticipato, la soluzione adottata dalla Corte si discosta significativamente dai precedenti sopra richiamati e si fonda su tre ordini di ragioni:
1. dato testuale, per cui la riforma, sia in rubrica che nel contenuto, si riferisce genericamente agli “esercenti la professione sanitaria” e dunque non è indirizzata al solo personale medico ma a tutti i professionisti del settore sanitario;
2. la circostanza per cui le numerose linee guida oggi a disposizione (si fa ad esempio riferimento a quelle in tema di gravidanza fisiologica), oltre a contenere regole di perizia,
includono anche raccomandazioni che attengono ai parametri della diligenza, e dunque
dell’accuratezza nella prestazione delle cure;
3. l’assenza di tassatività, affermata dalla scienza penalistica, nella distinzione tra le diverse
ipotesi di colpa generica. Si sottolinea infatti come parte della dottrina10, con specifico
riferimento all’attività medica, ritenga troppo labile il confine tra imperizia, negligenza
ed imprudenza; la liquidità di tali concetti impedirebbe dunque di limitare l’operatività
dell’esimente alle sole ipotesi di imperizia.
Tali valutazioni portano alla conclusione per cui l’accertamento che sarà chiamato ad
effettuare ogni giudicante di merito dovrà inevitabilmente avere ad oggetto il grado della
colpa dell’agente secondo gli indicatori più sopra richiamati e dunque, sintetizzando, dovrà esplorare l’entità della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era
lecito attendersi nella fattispecie concreta, da individuarsi sulla base delle regole da osservarsi. Valutazione che, si badi bene, non dovrà limitarsi alle sole ipotesi di colpa caratterizzata da imperizia, posto che il Decreto Balduzzi non fa alcun riferimento esplicito ad essa.
In conclusione, la Corte afferma il seguente principio di diritto: “la limitazione di responsabilità, in caso di colpa lieve, può operare, per le condotte professionali conformi alle
linee guida ed alle buone pratiche, anche in caso di errori che siano connotati da profili di
colpa generica diversi dalla imperizia”.
Cass. Sez. IV, 16 novembre 2015, n. 45527, in CED, Rv. 264897: “In tema di responsabilità professionale del medico, la normativa
introdotta dall’articolo 3 della legge 8 novembre 2012 n. 189, secondo cui «l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento
della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per
colpa lieve», pur trovando terreno di elezione nell’ambito dell’imperizia, può tuttavia venire in rilievo anche quando il parametro
valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza, come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la
sfera della accuratezza di compiti magari particolarmente qualificanti, che quella della adeguatezza professionale”.
10
Si veda Di Giovine, In difesa del c.d. Decreto Baluzzi. Ovvero: perché non è possibile ragionare di medicina come fosse diritto e di
diritto come se fosse medicina, in Arch. Pen. on line, 2014, 7: “In medicina sfuma, perdendo la sua restante importanza (ammesso
che ne avesse ancora), la distinzione tra imperizia, da una parte e negligenza ed imprudenza dall’altra... Prescindendo pure dall’obsolescenza della tripartizione (soppiantata dalla consapevolezza della natura costitutiva dei giudizi di prevedibilità ed evitabilità
dell’evento), mi sembra che tale opzione potrebbe avere ancora senso, al limite, ove si abbracci una visione dell’attività medica come
riflessione teorica da realizzare a tavolino, casomai mediante computi di stampo ragionieristico. Ciò che (fortunatamente) non è.
Nella realtà dei casi complessi, il confine tra conoscenza, uso appropriato della cautela, avventatezza o trascuratezza nella scelta di
quella adatta mi pare troppo sottile, e troppo pericolosa una distinzione che voglia essere dirimente ai fini penali”.
Dalle corti
9
281
Federico Emiliani
6. Considerazioni finali.
Riepilogando, la sentenza in commento, oltre a fornire delle valide ed autorevoli indicazioni all’interprete su come muoversi nel terreno sabbioso della responsabilità medica,
si spinge fino ad estendere la portata applicativa della norma introdotta con la novella del
2012 a tutte le ipotesi di colpa generica.
A modesto parere di chi scrive, l’approdo cui giungono i giudici di legittimità ha il merito del risultato di giustizia, di conseguire l’armonia fra l’istituto della responsabilità medica
e la realtà socio-sanitaria, ma, forse, non anche del percorso argomentativo attraverso il
quale vi perviene.
Gli orientamenti affermatisi all’indomani dell’entrata in vigore del Decreto Balduzzi
hanno l’insuperabile pecca di aver ingiustificatamente forzato il dato testuale; non vi è
infatti alcun riferimento alla sola perizia nel tessuto della riforma: la limitazione di responsabilità riguarda genericamente la colpa lieve.
Nessuna attuale giustificazione pare potersi attribuire a tale scelta ermeneutica, alla
luce in particolare del fatto che, come ben sottolineato dalla sentenza in esame, sarebbe
erroneo ed anacronistico considerare le linee guida come dei meri recipienti di regole di
perizia (a titolo di esempio si pensi agli obblighi informativi che, è evidente, richiamano
regole di diligenza).
Si consideri peraltro come, all’interno del variegato panorama delle linee guida disponibili, siano contenute raccomandazioni che non sono riferite esclusivamente al personale
medico, ma anche a tutti i professionisti che operano nel settore della sanità, a ciascuno
secondo il proprio ambito d’intervento.
Tali considerazioni sarebbero già di per sé sufficienti a giustificare il principio di diritto
affermato dalla Quarta Sezione che, però, rappresenta l’epitome di un ragionamento parzialmente non condivisibile. Spingersi, come fanno in questo caso i giudici di legittimità
– ed anche la dottrina alla quale implicitamente si richiamano – fino al punto di considerare quasi come superata la distinzione fra le tre classiche categorie della colpa generica
risulta, questa pure, una forzatura del dato normativo: l’art. 43 c.p. è fin troppo esplicito
nel considerare negligenza, imprudenza ed imperizia come le tre fonti della colpa generica per poterle degradare ad un unicum interscambiabile. Altrimenti detto, l’assunto per
cui “si registra una intrinseca opinabilità, nella distinzione tra i diversi profili della colpa
generica, in difetto di condivisi parametri che consentano di delineare, in termini tassativi, ontologiche diversità, nelle regole di cautela” mal si concilia con quanto solidamente
affermato dalla tradizionale dottrina penalistica11.
Ad ogni modo, come già ribadito in premessa, la via imboccata sembra quella più
282
11
Tra gli altri si veda Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 20014, 350; Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale,
Milano, 200316, 368.
La Cassazione detta alcune “linee guida” in tema di responsabilità medica
corretta e rispondente ai crismi della materia, ragion per la quale sarebbe auspicabile un
consolidamento di tale interpretazione. La speranza è che, da un lato il Legislatore possa
prendere spunto da tale conclusione in modo tale da fornire a tutti gli operatori del diritto
un percorso più lineare; dall’altro la giurisprudenza possa affinare l’iter evitando di sconvolgere in parte le fondamenta della materia penale.
Dalle corti
Federico Emiliani
283
Cass. Pen., Sez. VI, 10 novembre 2015 (dep. 7 luglio 2016),
n. 28299, Pres. Milo – est. Fidelbo
Procedura Penale – Responsabilità degli enti
Dalle
corti
L’ente risponde del reato anche se l’autore non sia stato
identificato o non sia imputabile o il reato si sia estinto giacché la responsabilità dell’ente è autonoma da quella della
persona fisica ma non dalla obiettiva realizzazione di un
reato – solo se il giudice è in grado di risalire anche a livello
indiziario ad una delle due tipologie cui si riferiscono gli articoli 6 e 7 del d.lgs. 231/2001
potrà pervenire ad una decisione di affermazione della responsabilità dell’ente anche in
mancanza dell’identificazione della persona fisica responsabile del reato.
Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista.
Responsabilità “231”: quando è ignoto l’autore del
reato presupposto.
1. La vicenda e il decisum della Corte.
La pronuncia in commento trae origine dalla contestazione di plurimi episodi corruttivi
nell’ambito di appalti indetti da alcune società a partecipazione pubblica operanti nel settore
energetico. Il ricorso proposto dalla difesa di una delle società ritenute responsabili dell’illecito amministrativo previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25, comma 3, si è incentrato,
tra l’altro, sull’erronea interpretazione dell’art. 8, comma 1, lettera a) del Decreto, che, come
noto, sancisce che la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è
stato identificato. Secondo la tesi difensiva, tale disposizione non escluderebbe la necessità
di accertare l’ascrivibilità di una condotta penalmente rilevante ad un soggetto interno alla
società; in conseguenza di ciò, la difesa ha lamentato la mancanza di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui i Giudici di secondo grado si sono limitati ad affermare
genericamente che “altri hanno fatto fronte” agli obblighi derivanti da un accordo corruttivo
avente valenza meramente preparatoria al pagamento della tangente, stipulato da un intraneus alla società, in epoca precedente all’entrata in vigore del d.lgs. 231/2001.
I Giudici di legittimità, nell’accogliere in parte le doglianze dei ricorrenti, hanno adottato un’interpretazione restrittiva del principio di autonomia della responsabilità dell’ente, affermando che, nell’ipotesi in cui l’autore del reato-presupposto resti ignoto, ai fini dell’accertamento dell’illecito amministrativo deve comunque risultare individuabile,
quantomeno a livello indiziario, a quale categoria appartenga l’autore del reato – se, cioè,
si tratti di un “apicale” o di un “sottoposto” ai sensi degli artt. 6 e 7 del Decreto – e deve
altresì potersi escludere che questi abbia agito nel suo esclusivo interesse.
Valeria Raimondo
2. La ratio del principio di autonomia ed i precedenti
giurisprudenziali.
La decisione della sesta sezione della Suprema Corte fornisce rilevanti indicazioni sui
limiti di operatività di una disposizione definita tra le più “ardite” ma anche tra le più
qualificanti della nuova disciplina1. Nella relazione ministeriale al d.lgs. 231/2001 si legge
che essa “chiarisce in modo inequivocabile come quello dell’ente sia un titolo autonomo
di responsabilità, anche se presuppone comunque la commissione di un reato”. Ai sensi
dell’art.8 si può infatti pervenire ad un’affermazione della responsabilità dell’ente anche
quando l’autore del reato non è stato identificato ovvero non sia imputabile o quando
intervenga una causa estintiva del reato diversa dall’amnistia. Se la possibilità di fondare
un addebito a carico dell’ente, anche in caso di mancato accertamento della responsabilità
della persona fisica autrice del reato, trova la sua legittimazione teorica nella diversità dei
presupposti integranti la responsabilità della persona giuridica - che si fonda su una colpa
“normativa” in quanto di organizzazione - rispetto a quelli fondanti la responsabilità penale monosoggettiva; le ragioni di politica criminale sottese all’introduzione della previsione
sono riconducibili ad esigenze di effettività di tutela che si profilano ogniqualvolta “per la
complessità dell’assetto organizzativo interno, non sia possibile ascrivere la responsabilità
penale in capo ad un determinato soggetto e nondimeno risulti accertata la commissione
di un reato”2. L’impossibilità di muovere rimproveri nei confronti di singoli agenti assurge,
inoltre, a fenomeno tipico della responsabilità di impresa, tanto più in relazione a determinate tipologie di reati – si pensi ai reati colposi d’evento o ai reati informatici – legati ad
attività svolte all’interno di organizzazioni complesse, caratterizzate da una molteplicità di
centri decisionali e strutture operative3.
Posto che appare condivisibile la scelta di declinare la responsabilità dell’ente quale
“per fatto proprio” – in linea con il disposto dell’art.27, comma 1, della Costituzione – e
non già come sussidiaria, nondimeno la previsione dell’art.8 del Decreto solleva numerosi
interrogativi.
Già precedenti pronunce dei giudici di legittimità4 si erano soffermate sulla valenza di
detta norma affermando che, ove non si possa pervenire a una sentenza di condanna della
persona fisica perché non compiutamente identificata (ma comunque riconducibile alla
società), il principio di autonomia della responsabilità dell’ente legittima ad accertare il
1
286
Così Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in Lattanzi (a cura di), Reati e responsabilità degli enti, Milano,
2010, 139.
2
Relazione ministeriale al d.lgs. 231/2001.
3
In tal senso, De Simone, I profili sostanziali della responsabilità cd amministrativa degli enti: la parte generale e la parte speciale del
d.lgs. 8 giugno 2001/231, in Garuti (a cura di), Responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Padova,
2002, 114.
4
Cfr in particolare, Cass. Pen. Sez. V, 4 aprile 2013-9 maggio 2013, n.20060 in Rivista penale 2013, 7-8, 790, e Cass. Pen. Sez. I, 2 luglio
2015-2 settembre 2015, n.35818 in Diritto & Giustizia 2015, 3 settembre.
Responsabilità “231”: quando è ignoto l’autore del reato presupposto.
reato presupposto incidenter tantum, al fine di sanzionare l’ente nel cui interesse o vantaggio l’illecito sia stato commesso.
A livello dottrinale, si è osservato che tale ipotesi può venire in rilievo sia nel caso in
cui si pervenga a una sentenza di assoluzione della persona fisica, che comunque accerti
incidentalmente la responsabilità di un altro soggetto qualificato ai sensi degli artt.6 e 7
del Decreto; sia all’esito della fase delle indagini preliminari, quando queste non abbiano
consentito di raccogliere elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio nei confronti di
una determinata persona fisica e sia stata pertanto disposta l’archiviazione del procedimento penale5.
Sulla scorta di tali premesse, la Suprema Corte ha, in un caso, censurato qualsiasi automatismo tra assoluzione della persona fisica – dipendente della società non personalmente
responsabile di un reato accertato nella sua consistenza oggettiva – ed esclusione della
responsabilità dell’ente6; nell’altro, ritenuto immune da vizi la sentenza di secondo grado
che, pur non pervenendo ad un identificazione “anagrafica” dell’autore del reato di aggiotaggio, aveva condannato l’ente sulla base dell’accertamento della materialità del fatto
reato-presupposto e della sua ascrivibilità a funzionari interni alla società7.
I precedenti giurisprudenziali da ultimo ricordati non sembrano dirimere completamente i dubbi di compatibilità dell’ambito applicativo così riservato all’art. 8 lettera a) con
l’intero sistema della responsabilità da reato degli enti. In primis, nel caso in cui non sia
possibile identificare il reo, verrà meno pure l’accertamento circa l’elemento soggettivo del
reato, sicché quest’ultimo andrà inteso in senso oggettivo, quale fatto tipico e antigiuridico.
Ed invero la stessa sentenza in commento non manca di rilevare che “nelle ipotesi
prese in considerazione dall’art.8 cit., soprattutto con riferimento al caso della mancata
identificazione della persona fisica, può venire a mancare uno degli elementi del reato,
cioè la consapevolezza del soggetto agente, ma quando si parla di autonomia ciò che deve
precedere, in via pregiudiziale, l’accertamento della responsabilità dell’ente è sì il reato,
ma inteso come tipicità del fatto, accompagnato dalla sua antigiuridicità oggettiva, con
esclusione della sua dimensione psicologica”.
All’accoglimento di tale conclusione osta, tuttavia, la stessa Relazione ministeriale al
Decreto, che subordina la configurabilità di un’autonoma responsabilità della persona
giuridica all’esistenza di un “reato completo di tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi
giudizialmente accertato”, nonché la ricostruzione dei rapporti tra illecito amministrativo
Dalle corti
3. Criticità applicative. Il concreto ambito di operatività
dell’art.8 del Decreto nell’ipotesi di autore ignoto.
5
Così Amato, Autore ignoto e responsabilità dell’ente, in Rivista 231, Plenum, n. 4 del 2015.
Cass. Pen. Sez. V, 4 aprile 2013-9 maggio.2013, n.20060 in Rivista penale 2013, 7-8, 790
7
Cass. Pen. Sez. I, 2 luglio 2015-2 settembre 2015, n.35818 in Diritto & Giustizia 2015, 3 settembre.
6
287
Valeria Raimondo
e reato operata dalle Sezioni Unite, le quali hanno affermato che “il fatto della persona
fisica, cui è riconnessa la responsabilità anche della persona giuridica, deve essere considerato fatto di entrambe, per entrambe antigiuridico e colpevole”8.
L’incidenza del profilo soggettivo si coglie, inoltre, rispetto a un ulteriore elemento
della fattispecie complessa che radica la responsabilità dell’ente, ossia il criterio dell’interesse. Come noto, l’art. 5 esclude la possibilità di muovere un addebito all’ente nel caso
in cui il reato sia stato commesso nell’esclusivo interesse del reo o di terzi. A ben vedere,
nonostante quello dell’interesse sia un criterio oggettivo di ascrizione della responsabilità
amministrativa, il suo accertamento postula un’indagine sul movente psicologico dell’agente, indagine che risulta preclusa nell’ipotesi in cui non sia individuabile una persona
determinata9.
Il secondo ordine di problematiche destinato a emergere ove l’agente resti ignoto inerisce all’incertezza circa la riconducibilità del reo alla categoria degli apicali (art.6 d.lgs.
231/2001) ovvero dei sottoposti (art.7); inquadramento dal quale discendono conseguenze
differenti sul piano del regime probatorio previsto per l’accertamento della colpa di organizzazione, che si atteggia diversamente a seconda che il reato sia stato commesso da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente
ovvero da soggetti sottoposti all’altrui direzione10. Deve pertanto condividersi la soluzione
adottata dalla Suprema Corte nella sentenza in esame, che sancisce che “solo quando il
giudice è in grado di risalire, anche a livello indiziario, ad una delle due tipologie cui si
riferiscono gli artt. 6 e 7 d.lgs. 231/2001 potrà pervenire ad una decisione di affermazione
della responsabilità dell’ente, anche in mancanza dell’identificazione della persona fisica
responsabile del reato”11. Ad argomentare diversamente si rimetterebbe alla discrezionalità
del giudice l’opzione tra i due diversi regimi di prova, con conseguente compromissione
dei diritti difensivi dell’ente e, a monte, violazione del principio di legalità di cui all’art.
2 del Decreto12. Egualmente dovrà essere accertata la ricorrenza dell’interesse/ vantaggio
della persona giuridica, dovendosi escludere che la persona fisica non individuata abbia
agito nel proprio esclusivo interesse.
Se tale lettura risulta l’unica compatibile con la ratio complessiva del sistema, occorre
interrogarsi sul concreto ambito operativo dell’autonomia della responsabilità dell’ente.
Nel caso in cui non si possa pervenire a una sentenza di condanna perché l’autore del reato non è stato identificato, la ricorrenza dei presupposti di cui agli artt.5, 6 e 7 d.lgs. 231
8
Cass. Pen., Sez. Un., 27 marzo 2008-2 luglio 2008, n.26654 in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale 2008, 4, 1738.
Così Potetti, Interesse e vantaggio nella responsabilità degli enti (art.5 del D.Lgs. 231 del 2001) con particolare considerazione per
l’infortunistica del lavoro, in Cass.pen., 2013, 2036.
10
Cfr Bellacosa, Autonomia delle responsabilità dell’ente, in Levis-Perini (a cura di), La responsabilità amministrativa delle società e degli
enti, 2014, 222.
11
Cass. Pen., Sez. VI, 10 novembre 2015-7 luglio 2016, n. 28299 in C.E.D. Cass. Pen. 2016.
12
In tal senso, Pecorella, Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità, in Aa.Vv., La responsabilità amministrativa degli
enti, Milano, 2002, 80.
9
288
Responsabilità “231”: quando è ignoto l’autore del reato presupposto.
sembrerebbe infatti poter formare oggetto di accertamento giudiziale nei soli casi di cd.
imputazione soggettivamente alternativa, cioè quando ad esempio il reato risulti senz’altro
riconducibile ai vertici dell’ente (e, dunque, a due o più amministratori) ma manchi o sia
insufficiente la prova della responsabilità individuale di costoro13. Quando invece l’autore
non sia riconducibile ad una cerchia delimitata di soggetti, l’autonomia della responsabilità
dell’ente ci sembra non possa tradursi in una “scorciatoia”14 volta a legittimare l’attivarsi
della risposta sanzionatoria nei confronti della persona giuridica, a fronte delle complessità processuali insite nell’accertamento della responsabilità penale della persona fisica.
Dalle corti
Valeria Raimondo
13
14
Rel. Min. d.lgs. 231/2001.
Carmona, Premesse a un corso di diritto penale dell’economia, Padova, 2002, 216.
289
Cass. pen., Sez. III, 21 aprile 2016 (dep. 22 giugno 2016),
n. 25815, Pres. Amoresano – rel. Di Stasi
Reati tributari – Omesso versamento IVA – Ne bis in
idem – Rapporti tra illecito penale e amministrativo
Dalle
Non si applica il principio del ne bis in idem, previsto
dall’art. 649 cod. proc. pen., nel caso di procedimento penale avente ad oggetto il medesimo fatto per il quale sia stata
già irrogata una sanzione amministrativa di natura “sostanzialmente penale” secondo l’interpretazione dell’art. 4
Protocollo n. 7 CEDU adottata dalla Corte EDU.
corti
Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista.
Omesso versamento iva e divieto di bis in idem:
la Cassazione esclude la diretta applicazione della
Cedu
1. Il caso.
La sentenza che qui si annota appare di estrema attualità nell’affrontare il profilo del ne
bis in idem in relazione ai reati tributari, inserendosi nell’articolata trama della giurisprudenza nazionale ed europea.
Nel caso di specie, il procedimento penale era scaturito da taluni delitti di omesso versamento dell’iva, di cui all’art. 10-ter d.lgs. 74 del 2000, per i quali il Tribunale di Asti aveva
assolto l’imputato da uno dei capi di imputazione, poiché il fatto non è più previsto come
reato1. Relativamente, invece, ad altri due capi di imputazione, il primo giudice aveva pronunciato sentenza di non doversi procedere ai sensi degli artt. 529 e 649 c.p.p., essendo
stati gli stessi fatti puniti con sanzioni amministrative tributarie.
Avverso la pronuncia, il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Torino ha proposto ricorso per Cassazione per saltum, adducendo quale unico
motivo la violazione ed erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 10-ter
d.lgs. 74 del 2000, e della legge processuale penale, relativamente all’art. 649 c.p.p.
1
L’art. 10-ter è stato riformato ad opera del d.lgs. 158 del 2015, con innalzamento della soglia di punibilità da € 50.000,00 a €
250.000,00. L’efficacia retroattiva della disposizione più favorevole al reo comporta la non punibilità degli omessi versamenti sotto
soglia commessi anche prima della novella.
Antonella Ciraulo
La Suprema Corte, dichiarando fondato il ricorso, ha annullato la sentenza impugnata
e ne ha disposto il rinvio alla Corte d’Appello di Torino per le motivazioni nel prosieguo
illustrate.
2. Il rapporto tra illecito amministrativo ed illecito penale.
Come anticipato, il tema della “duplicazione sanzionatoria” occupa ormai un ruolo di
prim’ordine nel panorama giuridico nazionale ed europeo, richiamando l’attenzione sia
della giurisprudenza che della dottrina.
Al fine di un migliore inquadramento della vicenda che ha interessato la Cassazione
nella sentenza in esame, è doveroso un breve accenno alla sentenza delle Sezioni Unite n.
37424 del 20132, che riporta un’attenta ricostruzione dei rapporti fra l’illecito amministrativo di cui all’art. 13, comma 1, d.lgs. 471 del 1997 e l’illecito penale di cui all’art. 10-ter
d.lgs. 74 del 2000.
Nello specifico, la Corte, richiamando gli orientamenti opposti di legittimità, ha escluso
in tali ipotesi la sussistenza di un concorso apparente regolato dal principio di specialità
– così come previsto, in generale, dall’art. 9, comma 1, della l. 689 del 1981 e, nello specifico, dall’art. 19, comma 1, del d.lgs. 74 del 2000 – potendo, dunque, trovare applicazione
entrambe le norme richiamate.
Le Sezioni Unite hanno ancorato il rapporto tra i due illeciti ad una “progressione
criminosa”3: seppur il delitto di omesso versamento dell’iva contenga elementi dell’illecito
amministrativo di ritardati od omessi versamenti diretti, il primo prevede altresì elementi
nuovi ed ulteriori, non riconducibili al rapporto di specialità, in quanto collocati in un
momento successivo a quello di perfezionamento dell’illecito amministrativo.
Pertanto, la Suprema Corte ha negato la violazione del ne bis in idem, ricorrendo ad
un elemento differenziale delle due fattispecie che sarebbe quello temporale, affermando
altresì che non vi sono, in ogni caso, contrasti con le disposizioni di cui all’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU e dell’art. 50 della CDFUE, che sanciscono il divieto di bis in idem di
carattere processuale.
Tuttavia, come è agevole intendere, le Sezioni Unite hanno obliterato l’ormai pacifico
2
292
A commento della sentenza, sia consentito il rinvio a Ciraulo, La punibilità degli omessi versamenti dell’iva e delle ritenute certificate nella lettura delle Sezioni unite, in Cass. pen., 2014, 66 ss.; Soana, Le Sezioni unite sui reati per omesso versamento IVA e
ritenute, in Riv. giur. trib., 2013, 939 ss.; Traversi, Interpretazione rigorosa delle Sezioni Unite sull’omesso versamento dell’IVA e delle
ritenute, in Corr. Trib., 2013, 3487 ss.; Ungaro, Omesso versamento iva per il 2005 e ritenute 2004: le Sezioni unite escludono la
violazione del principio di irretroattività, ne Il fisco, 2013, 5315 ss.; Valsecchi, Le Sezioni Unite chiamate a decidere dell’applicabilità del delitto di omesso versamento delle ritenute certificate alle omissioni relative all’anno 2004, in www.penalecontemporaneo.
it, 13 marzo 2013.
3
È opportuno, tuttavia, rilevare che l’istituto della progressione criminosa, frutto di creazione dogmatica, viene tradizionalmente ricondotto nell’alveo del concorso apparente di norme. Per un approfondimento, si rinvia a Vassalli, Progressione criminosa e reato progressivo, in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano, 1987, 1150 ss.; Del Rosso, Spunti problematici in tema di reato progressivo e di progressione
criminosa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, 623; Goldoni, Brevi note in tema di reato progressivo e di progressione criminosa, in Giust.
pen., 1968, 823; Ranieri, Reato progressivo e progressione criminosa, Milano, 1942.
Omesso versamento iva e divieto di bis in idem: la Cassazione esclude la diretta applicazione della Cedu
divieto di bis in idem anche di carattere sostanziale. Infatti, il ne bis in idem sostanziale
– sul versante interno – vieta, nelle ipotesi di concorso di norme4, di addebitare più volte
lo stesso fatto al medesimo autore, a garanzia di equità e certezza giuridica5. Strettamente
correlato al ne bis in idem sostanziale è, poi, il divieto di bis in idem processuale che,
invece, preclude l’inizio o la prosecuzione di un procedimento penale per fatti già giudicati, salvaguardando la finalità di giustizia sostanziale che il primo vuole perseguire. Al
riguardo, aspetto dirimente è se il fatto debba essere inteso in senso naturalistico, ovvero
un determinato comportamento visto nella sua individualità storica, o in senso normativo,
risolvendosi nella valutazione giuridica della fattispecie legale6.
Com’è noto, relativamente al ne bis in idem processuale, il riferimento normativo è
contenuto nell’art. 649 c.p.p. – sul piano nazionale – nonché nel Patto sui diritti civili e
politici e nell’art. 4 del Prot. 7 CEDU. Inoltre, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona
e, dunque, della Carta, il divieto di bis in idem ha un nuovo referente normativo nell’art.
50 CDFUE, la cui portata ha da subito sollevato dubbi.
La ratio del divieto ha, per un verso, carattere preventivo, volto ad evitare la duplicazione procedimentale per “fatti” che siano, o siano già stati, oggetto di accertamento processuale; per altro verso, si vuole impedire che per lo stesso fatto un soggetto possa essere
più volte sottoposto ad un procedimento penale. Ne consegue che non è ammesso, in
pendenza di un procedimento, che venga iniziato, per lo stesso fatto e nei confronti della
stessa persona, un nuovo procedimento.
Sul punto, nella vicenda che qui rileva, il Tribunale di Asti ha ravvisato l’identità del
fatto, applicando l’art. 649 c.p.p., e fondando la pronuncia sulla giurisprudenza CEDU
secondo cui viola il diritto al ne bis in idem di cui all’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU
l’apertura o la prosecuzione di un procedimento penale avente ad oggetto la medesima
violazione tributaria già oggetto di un provvedimento sanzionatorio definitivo avente natura sostanzialmente punitiva in base ai criteri “Engel”, ancorché formalmente qualificato
“amministrativo nell’ordinamento nazionale”.
Per un approfondimento sul concorso di norme, cfr. Papa, Le qualificazioni giuridiche multiple nel diritto penale. Contributo allo
studio del concorso apparente di norme, Torino, 1997; Romano, Il rapporto tra norme penali. Intertemporalità, spazialità, coesistenza,
Milano, 1996; Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966; Pagliaro, Concorso di norme (diritto penale),
in Enc. Dir., VIII, Milano, 1961, 545 ss.; Siniscalco, Il concorso apparente di norme nell’ordinamento penale italiano, Milano, 1961;
Frosali, Concorso di norme e concorso di reati, Città di Castello, 1937.
5
Così, Mantovani, Diritto penale, Parte generale, Padova, 2015, 471 ss. Il principio del ne bis in idem è un principio di diritto positivo
non codificato, ma desumibile dal dato legislativo, ad esempio dagli artt. 15 e 84 c.p., o dalle clausole di riserva.
6
Sul punto, cfr. Lozzi, Profili di una indagine sui rapporti tra «ne bis in idem» e concorso formale di reati, Milano, 1974, 39-55.
L’Autore sostiene «l’inaccettabilità della tesi del fatto in senso naturalistico giacché non si può prescindere da una valutazione normativa al fine di stabilire quali elementi, nel complesso di quelli che integrano una determinata situazione storica, debbano essere
presi dal giudice come giuridicamente rilevanti (…). Pure la concezione normativa del fatto, perlomeno intesa con riferimento alla
nozione di fattispecie legale, è da respingere, considerata l’irrilevanza del mutamento del titolo di reato per stabilire l’identità o
no dei fatti oggetto di successivi procedimenti (…). [dunque] per l’individuazione della nozione di fatto non si può prendere in
considerazione soltanto la situazione storica o soltanto lo schema legale, ma bisogna seguire un a via intermedia che tenga conto
di entrambi».
Dalle corti
4
293
Antonella Ciraulo
3. La giurisprudenza europea: i criteri “Engel”.
Occorre, dunque, volgere lo sguardo alla giurisprudenza della Corte Edu e della Corte
di Giustizia, che sul tema seguono il medesimo filone interpretativo.
Anzitutto, il richiamo è ad una fra le più importanti e note decisioni della CEDU in
materia finanziaria, ovvero la sentenza “Grande Stevens”. È a quest’ultima, infatti, che si
deve l’ingresso nel nostro ordinamento del diritto al ne bis in idem di fonte convenzionale,
comportando, come rilevato da attenta dottrina7, rilevanti conseguenze di ordine pratico
in tutti quei casi in cui, per uno stesso fatto, troverebbero applicazione sia le sanzioni
amministrative che quelle penali, specie nei settori caratterizzati dal sistema del “doppio
binario”.
In materia fiscale, invece, numerose sono state le pronunce della Corte di Giustizia, che
ha affermato che l’art. 50 CDFUE non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di IVA, una combinazione di sovrattasse
e sanzioni penali, al fine di assicurare la riscossione delle entrate provenienti dall’iva e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione. Tuttavia, qualora la sovrattassa abbia
natura penale, ai sensi dell’art. 50 della Carta, e sia divenuta definitiva, tale disposizione
osta a che procedimenti penali per gli stessi fatti siano avviati nei confronti di una stessa
persona (cfr., ex multis, Sentenza Åklagaren c. Hans Åkerberg Franssonn, C-617/10).
In astratto, dunque, non è fatto divieto agli Stati membri di prevedere sanzioni amministrative e penali per una determinata condotta, ma ove la sanzione che il legislatore
qualifica come amministrativa dovesse avere natura afflittiva alla stregua di quelle penali,
allora saremmo di fronte ad una possibile violazione del ne bis in idem.
Per valutare la natura penale delle sanzioni tributarie, è ormai consolidata l’applicazione dei criteri statuiti dalla sentenza “Engel”, per cui spetta al giudice del rinvio – avuto
riguardo alla qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, alla natura dell’illecito, nonché alla natura e al grado di severità della sanzione – valutare se possa o meno
procedere al cumulo di sanzioni tributarie e penali o se, diversamente, ciò determini una
violazione del ne bis in idem.
4. L’obbligo di interpretazione conforme e la questione di
legittimità costituzionale
Ciò posto, la sentenza in commento richiama l’insegnamento delle sentenze gemelle nn.
348 e 349 del 2007 della Corte Costituzionale, che hanno statuito che, in caso di contrasto
7
294
Sul punto, cfr. De Amicis, Ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza “Grande Stevens” nell’ordinamento italiano, in www.penalecontemporaneo.it, 30 giugno 2014; Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in
idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta?, in www.penalecontemporano.it., 30 giugno 2014.
Omesso versamento iva e divieto di bis in idem: la Cassazione esclude la diretta applicazione della Cedu
tra una disposizione della CEDU o dei suoi protocolli ed una norma nazionale, il giudice
comune deve preventivamente procedere ad una interpretazione conforme. Solo ove la
questione non possa essere risolta in via ermeneutica, il giudice dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna ex art. 117, comma 1, Cost., risultando
dunque esclusa la possibilità della disapplicazione della norma interna contrastante8.
La Cassazione, nel caso di specie, ha affermato che il primo giudice non avrebbe potuto ricorrere ad una interpretazione conforme, dilatando la natura dei provvedimenti
amministrativi fino a ricomprendervi delle conseguenze sostanzialmente punitive, in base
all’orientamento della CEDU.
Pertanto, ad avviso della Suprema Corte, il giudice di prime cure avrebbe dovuto sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. ai sensi dell’art. 117 comma
1 Cost., assumendo quale parametro interposto l’art. 4 del Protocollo 7 CEDU, così come
interpretato dalla Corte di Strasburgo, “nella parte in cui non prevede l’applicabilità della
disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato,
con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento
amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura
penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
fondamentali e dei relativi Protocolli”.
Al riguardo, però, la Cassazione si astiene dal formulare essa stessa la questione di legittimità costituzionale, in quanto il difetto di prova della definitività dell’accertamento tributario e della conseguente sanzione amministrativa rendono irrilevante la questione nel giudizio escludendo la possibilità di sollevare la questione di legittimità costituzionale d’ufficio.
La Corte rileva altresì che il principio del ne bis in idem trova riconoscimento anche nel
diritto dell’Unione Europea, sulla base dell’espressa previsione dell’art. 50 della Carta dei
Diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE).
Tale norma è richiamata anche dal Tribunale di Asti a fondamento della decisione assunta, ma ciononostante la Cassazione riconosce che il citato difetto di prova in ordine alla
definitività dell’irrogazione della sanzione amministrativa osta alla possibilità di proporre
una questione pregiudiziale di interpretazione ex art. 267 TUE alla Corte di Giustizia in
relazione all’art. 50 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE).
Alla luce del breve excursus sul tema del ne bis in idem, emerge indiscutibilmente che
la giurisprudenza della Corte europea pone in discussione la compatibilità con il sistema
convenzionale dei settori del nostro ordinamento edificati sul sistema del doppio binario,
8
Tale assetto non ha subìto modifiche con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, secondo quanto affermato dalla sentenza n. 80
del 2011 della Corte costituzionale, consultabile in www.cortecostituzionale.it.
Dalle corti
5. Qualche riflessione.
295
Antonella Ciraulo
in quanto, a determinate condizioni, comporterebbero violazioni del diritto individuale al
ne bis in idem.
Il sistema del doppio binario, dunque, vive un momento di crisi ed incoerenza. Infatti,
in ambito tributario, nonostante la “netta” separazione tra i due procedimenti, che dovrebbero percorrere vie parallele, è lo stesso ordinamento a prevedere che dal medesimo
accertamento fiscale possano derivare i procedimenti tributario e penale. Sembra paradossale che i due procedimenti si celebrino senza alcuna influenza dell’uno sull’altro, seppur
scaturiti dal medesimo atto iniziale.
Indubbiamente, tale autonomia procedimentale rappresenta una derivazione della l.
516 del 1982 (cd. “manette agli evasori”) e andrebbe forse rivalutata in aderenza alla disciplina penale tributaria oggi contenuta nel d.lgs. 74 del 2000.
In realtà, i due procedimenti penale ed amministrativo in astratto potrebbero convivere,
seppur ricorrendo ad alcuni correttivi. Ciò che si vuole scongiurare è piuttosto il rischio
di eventuali “truffe delle etichette”9, e, cioè, che per eludere il principio del diritto penale
dell’extrema ratio anche in materia fiscale, si etichetti come amministrativa una sanzione
di natura afflittiva, repressiva e ripristinatoria, alla stregua delle sanzioni penali.
È in tali ipotesi che, secondo quanto statuito dalla CEDU, lo Stato può ritenere raggiunta
e soddisfatta la finalità deterrente e punitiva già con l’applicazione di una simile sanzione
“amministrativa”, con la conseguenza che l’ulteriore condanna in sede penale costituirebbe una illecita duplicazione e, quindi, una violazione del principio del ne bis in idem.
In conclusione, attualmente, dinanzi ad ipotesi sospette di duplicazione sanzionatoria,
come rilevato dai giudici di legittimità nella sentenza annotata, il giudice nazionale può
(rectius: deve) tentare la via dell’interpretazione conforme e, solo ove ciò non risultasse
possibile, sollevare la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117,
comma 1, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo 7 CEDU10; potrà altresì disporre il
rinvio pregiudiziale di interpretazione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi
dell’art. 267 TFUE, in relazione all’art. 50 CDFUE.
Non può tuttavia sottacersi il richiamo da parte della Cassazione alla sentenza della Cor-
9
296
In tal senso, Santoriello, Carta dei Diritti dell’Uomo e mancato pagamento delle imposte in sede penale e amministrativa, ne Il Fisco,
2014, 1656.
10
A proposito della questione di legittimità costituzionale, è utile richiamare la recente sentenza della Corte Costituzionale, la n. 200
del 2016, che, nell’ambito della vicenda “Eternit-bis”, ha fornito un’interessante precisazione sulla nozione di medesimo fatto. Con
tale pronuncia, pubblicata in www.cortecostituzionale.it, la Consulta ha dichiarato “costituzionalmente illegittimo l’art. 649 cod. proc.
pen., per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, nella parte in cui secondo
il diritto vivente esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato
con sentenza irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale”. Rileva la Corte che «l’autorità giudiziaria sarà
tenuta a porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all’esito del processo concluso
con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto a base della nuova imputazione. […] Sulla base della triade condotta-nesso
causale-evento naturalistico, il giudice può affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti questi elementi, assunti in una dimensione empirica».
Occorrerebbe, dunque, interrogarsi sui possibili riflessi del sindacato di illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. in relazione
al concetto di medesimo fatto – inteso in senso storico e non giuridico – nell’ambito di procedimenti di diversa natura, penale ed
amministrativa.
Omesso versamento iva e divieto di bis in idem: la Cassazione esclude la diretta applicazione della Cedu
te Costituzionale n. 102 del 201611, che ha evidenziato “che spetta anzitutto al legislatore
stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che tale sistema
genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU”12, mostrando che la questione è tuttora
aperta.
Infine, per completezza espositiva, è opportuno citare la dottrina che ha fornito un’ulteriore lettura, secondo cui l’art. 4 del Protocollo 7 CEDU è stato incorporato nell’ordinamento italiano in forza della relativa legge di esecuzione, divenendo dunque normativa di
rango primario. Ne consegue che tutte le norme self-executing sono direttamente applicabili, vincolando il giudice, eccetto che la diretta applicazione non incontri ostacoli normativi nell’ordinamento interno. In quest’ultimo caso, infatti, si renderebbe necessario un
intervento della Corte costituzionale, ex art. 117, comma 1, Cost.. Ad avviso della dottrina
in esame, l’art. 649 c.p.p. non costituirebbe un ostacolo e, pertanto, il giudice nazionale
potrebbe applicare direttamente anche una diversa norma.
Dalle corti
Antonella Ciraulo
11
12
La sentenza è consultabile in www.cortecostituzionale.it.
Su tutti, cfr. Viganò, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato: una sfida per il legislatore e i giudici italiani, in www.penalecontemporaneo.it, 8 febbraio 2016.
297
Cass. pen., Sez. III, 23 settembre 2015 (dep. 29 settembre
2016), n. 40650 – Pres. Fiale – rel. Grillo
Particolare tenuità del fatto – Reato continuato
Dalle
La esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto
di cui all’art. 131 bis c.p. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione e giudicati nel medesimo procedimento, configurando anche il reato
continuato una ipotesi di comportamento abituale, ostativa al
riconoscimento del beneficio.
corti
Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista.
La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale,
abitualità nel reato e “medesima indole”
1. La vicenda oggetto di giudizio.
La sentenza in commento offre un’interpretazione assai lata di uno degli “indici di particolare tenuità” del fatto, rilevanti ai sensi della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis
c.p., ossia la “non – abitualità del comportamento” del reo.
Nella fattispecie sub iudice, era venuta in questione l’applicabilità della nuova causa
di non punibilità al reato di “omesso versamento di ritenute previdenziali”, disciplinato
dall’art. 2, comma 1-bis, del d. l. 12 settembre 1983, n. 463, recentemente oggetto di (parziale) depenalizzazione di cui al d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8 (art. 3, comma 6).
In sede processuale, venivano contestati due episodi di omesso versamento, di modesta
entità economica, avvinti dal vincolo della continuazione.
Benché i fatti non sembrassero rientrare ratione temporis nell’ambito applicativo della
causa di non punibilità, la questione giungeva all’attenzione del Supremo Consesso sulla
base di due fondamentali assunti:
a. il primo (di ordine sostanziale), concernente la natura sostanziale della fattispecie ex
art. 131-bis c.p., come tale soggetta alla retroattività in mitius ex art. 2, comma 4 c.p.,
secondo l’insegnamento oramai pacifico della giurisprudenza di legittimità;
b.il secondo (di ordine processuale), riguardante la (consequenziale) applicabilità dell’istituto dei “motivi nuovi” ex art. 609, comma 2 c.p. p. alla questione, non sollevata in
grado d’appello in quanto la data di proposizione del gravame era anteriore rispetto a
quella di entrata in vigore della nuova causa di non punibilità.
In sintesi, nella decisione in esame, la Suprema Corte, ponendosi in una linea di assoluta continuità con due altri propri precedenti (Cass. Pen., sez. III, 28 maggio 2015, n.
29897, in Cass. Pen., 2015, 12, 4432; Cass. Pen., sez. III, 1 luglio 2015, n. 43816, in banca
dati www.dejure.it), accoglie una nozione assai lata di “non – abitualità”, argomentando
Gabriele Aronica
soprattutto sulla base dei lavori preparatori del d. lgs. 16 marzo 2015, n. 28, introduttivo
nel codice della causa di non punibilità. Nella nozione di “reato abituale” rilevante ai fini
della causa di non punibilità, viene fatta rientrare anche l’ipotesi del reato continuato,
ancorché l’esecuzione del “medesimo disegno criminoso” sia caratterizzata da due singoli
episodi, ciascuno dei quali di particolare tenuità.
2. L’iter logico della sentenza.
300
Il perno delle argomentazioni della Corte è rappresentato dalla lettura del concetto di
“non – abitualità del comportamento” alla luce della Relazione Illustrativa al d.lgs. 28 del
2015: viene ricostruita la presunta voluntas legis, in base ad un’interpretazione storico –
soggettiva.
Dalla lettura della Relazione emergerebbe la netta differenza del requisito rispetto alla nozione di “occasionalità” del comportamento, quale presupposto per l’attivazione di
istituti dell’ordinamento penale apparentemente simili a quello della particolare tenuità,
ma ispirati a logiche e finalità diverse: la non rilevanza del fatto di cui all’ordinamento minorile (art. 27 DPR 22 settembre 1988, n. 448); l’istituto affine attivabile nei procedimenti
dinanzi al Giudice di Pace (art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274).
Indice di una netta differenziazione delle due nozioni sarebbe anzitutto la “scrupolosa
osservanza”, da parte del legislatore delegato, del criterio direttivo – guida di cui alla legge delega, laddove in effetti si menzionava testualmente la “non abitualità del comportamento” quale requisito cui subordinare la fruibilità del beneficio (v. art. 1, comma 1, lett.
m) legge 28 aprile 2014, n. 67). L’aderenza testuale al testo della legge delega sarebbe,
secondo gli Ermellini, segno tangibile che il legislatore delegato abbia voluto differenziare
il nuovo istituto rispetto a quelli già esistenti nell’ordinamento; altrimenti, ne avrebbe certamente mutuato la descrizione dei requisiti di fattispecie.
Ad ulteriore comprova della diversa latitudine della nuova nozione, vi sarebbe il carattere “non - tassativo” dell’elenco delle situazioni di non – abitualità di cui al comma 3
dell’art. 131-bis c.p.
Pure tale argomento potrebbe essere suffragato dalla lettura della Relazione: come afferma la Corte, “il comma in parola, aggiunto su sollecitazione espressa nel parere della
Commissione giustizia della Camera dei deputati, descriverebbe soltanto alcune ipotesi
in cui il comportamento non può essere considerato non abituale, ampliando quindi il
concetto di abitualità, entro il quale potranno collocarsi altre condotte ostative alla declaratoria di non punibilità”.
In particolare, proprio l’ultima parte della norma definitoria di cui al comma 3 consentirebbe un’interpretazione massimamente estensiva della nozione: ivi, in alternativa alla
dichiarazione di abitualità, professionalità o tendenzialità nel delinquere, viene inclusa
nella “abitualità” la duplice ipotesi dei reati: a) della medesima indole; b) aventi ad oggetto
“condotte plurime, abituali e reiterate”. Poiché, peraltro, la norma non prevede la necessità di un previo accertamento giudiziale di tali qualificazioni, esse ben potrebbero riferirsi
a reati accertati nel procedimento penale ove si discute della “tenuità del fatto”.
La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale, abitualità nel reato e “medesima indole”
Di qui, la massima della Suprema Corte: non può predicarsi l’esistenza di un “fatto
tenue”, in presenza (anche solo di) due reati avvinti dal vincolo della continuazione e
giudicati nel medesimo procedimento.
Senonché, al di là della generica affermazione secondo cui il carattere esemplificativo,
non esaustivo, dell’elencazione di cui al predetto comma 3, amplierebbe notevolmente
“il concetto di abitualità, entro il quale potranno collocarsi altre condotte ostative alla
declaratoria di non punibilità”, non è dato comprendere all’interprete né se la Suprema
Corte ritenga che taluna ricorra nel caso di specie, né tantomeno quale sarebbe il criterio
generale, desunto dall’esemplificazione, che consenta di ritenere le condotte sub iudice
“abituali”.
Non soccorre neppure l’esame della motivazione del precedente cui la Suprema Corte
fa riferimento, quasi per relationem (vale a dire Cass. Pen., sez. III, 28.5.2015, n. 29897,
cit.): ivi infatti, accanto ad identico rilievo circa il possibile ampliamento del concetto
di “abitualità”, se ne aggiunge uno ulteriore in ordine alla «ridondanza dell’ulteriore richiamo alle “condotte plurime, abituali e reiterate”» (v. testualmente Cass. Pen., sez. III,
28.5.2015, n. 29897, cit.).
3. Gli orientamenti espressi in alcune “linee guida” delle
Procure.
La decisione in commento si rivela densa di problematicità per l’interprete, giacché
afferma, ad un tempo:
a. che, norma alla mano, non v’è necessità che le condotte inserite nel complessivo “comportamento abituale” formino oggetto di un preventivo accertamento giudiziale, giacché, per escludere la causa di non punibilità, recte per ritenere sussistente un “comportamento non abituale”, potrebbero prendersi in considerazione sia i comportamenti
oggetto di accertamento, sia, a quanto è dato comprendere, altre condotte pregresse, in
corso di accertamento in altre sedi processuali penali;
Circa il profilo sub a), l’opzione interpretativa adottata dalla Suprema Corte era già stata
fatta propria dalle “linee guida” emanate da alcune Procure della Repubblica all’indomani
della riforma (v. linee guida della Procura di Palermo, pp. 9-10; linee guida della Procura
di Trento, pp. 6-7). Il dato non può dirsi tranquillizzante per gli operatori: poiché la disposizione non consente di comprendere quali condotte debbano effettivamente essere considerate per predicare la non abitualità di un comportamento, ritenendo così “cristallizzata”
una serie di fatti – reati, per l’operatore del diritto si aprono scenari nebulosi ed incerti.
Si pensi, dicasi, all’orientamento espresso da alcuni Uffici della Procura della Repubblica,
secondo cui la “commissione di più reati della stessa indole, possa farsi discendere, non
Dalle corti
b.la non tassatività (e dunque evanescenza) dell’elencazione contenuta nell’art. 131-bis
c.p., che consentirebbe di ravvisare la non abitualità anche in (non meglio precisate)
“ulteriori ipotesi”, non espressamente individuate, con la conseguente, notevole riduzione dell’efficacia descrittiva del relativo requisito di fattispecie.
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soltanto dalla sussistenza di procedimenti per i quali sia già stata già esercitata l’azione
penale, ma anche di quelli oggetto di indagine”, per individuare i quali al magistrato del
Pubblico Ministero sarebbe sufficiente la consultazione del SICP ovvero la richiesta al
Collega del medesimo Ufficio di semplici informazioni o della trasmissione del relativo
fascicolo (v. linee guida della Procura di Palermo, p. 10).
In altri termini, non è dato comprendere a priori al Difensore quali fatti, in concreto,
potranno essere considerati dalla Procura prima, dal GIP poi, ai fini di quel giudizio di
non-abitualità, che potrebbe condurre al diniego dell’archiviazione per particolare tenuità
ex artt. 409-411 c.p. p. Dall’alveo dei fatti astrattamente considerabili a tal fine resterebbero
eccettuati, plausibilmente, solo i fatti in corso di accertamento dinanzi ad Uffici giudiziari
differenti (e per ragioni pratico – operative, non certo per effetto del dettato normativo).
Altre Procure hanno mostrato di non condividere tale orientamento interpretativo, ritenendo per contro necessario un previo accertamento del fatto (v. linee guida della Procura
di Lanciano, pag. 27, ove è dato leggere: “il riferimento alla commissione di reati impone
che si tratti di reati accertati con sentenza definitiva”). Andrà, in ogni caso, vagliata la persistente, effettiva tenuta di tali interpretazioni “restrittive” proprio alla luce delle indicazioni
offerte dalla Corte di Cassazione.
Circa il profilo sub b), esso mette in gioco questioni teoriche di fondo legate alla struttura complessiva della causa di non punibilità ed è quello che più interessa in questa sede.
Difatti, la previsione di cui all’art. 131-bis c.p., risultando articolata sui due perni della
“tenuità dell’offesa” e della “non abitualità” (così come definita nel comma 3), è sembrata
prima facie possedere un’anima divisa a metà tra fatto oggettivo e personalità dell’autore:
da una parte, la tenuità dell’offesa pare attingere ai caratteri del fatto oggettivo; dall’altra,
gli indici di non-abitualità sembrano riferiti a nozioni, quali “l’identità dell’indole” e la “abitualità”, “professionalità”, “tendenza a delinquere”, afferenti al differente capitolo del reo.
Gli indici di “tenuità”, riferiti a modalità della condotta e gravità del danno / pericolo,
presentano una loro intrinseca coerenza ed omogeneità (salve talune circostanze soggettive di cui al comma 2). Altrettanto, invece, non può dirsi per gli indici di “abitualità”,
oggetto della norma definitoria di cui al comma 3, giacché ivi, alle nozioni di delinquente
abituale, professionale o per tendenza, ovvero di medesimezza dell’indole, effettivamente
postulanti un’indagine giudiziale sulla personalità del reo (con tutti i problemi operativi
che ciò implica, specie qualora tale indagine debba avvenire in fase pre-dibattimentale)
sono giustapposte quelle di abitualità/reiterazione/pluralità delle condotte, nuovamente
ascrivibili al capitolo della teoria generale del reato.
A ciò aggiungasi che la stessa, triplice nozione posta a chiusura dell’elenco pare di per
sé foriera di ulteriori equivoci, nella misura in cui – come vedremo infra sub 4 – non sempre attinge a definizioni dottrinali o codicistiche dotate di un’incisiva portata classificatoria
o descrittiva.
Non poteva quindi non insorgere, nella definizione dell’ambito applicativo della disposizione, una certa confusione, determinata dall’eterogeneità dei termini della predetta elencazione, unita ad una loro intrinseca carenza di tassatività – precisione. A fronte di tali rilievi,
l’opzione ermeneutica seguita dalla Suprema Corte circa il carattere esemplificativo dell’elen-
La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale, abitualità nel reato e “medesima indole”
cazione pare foriera di ulteriori incertezze: la mancanza di una ratio unitaria ed omogenea
comune ai termini dell’elenco, dovuta alle predette ragioni, rende davvero difficile astrarne
un parametro interpretativo univoco, idoneo a contenere la discrezionalità del giudice.
Muovendo da tali premesse, l’orientamento adottato dalla Suprema Corte deve essere
vagliato:
I. sotto il profilo della corretta applicazione degli ordinari canoni ermeneutici, a partire
proprio da quello “storico – soggettivo”, fatto proprio dagli Ermellini;
II. sotto il profilo della coerenza sistematica, nonché della coerenza con i princìpi generali del diritto penale.
Principiando dal primo profilo, devono rilevarsi alcune criticità nella lettura dei lavori
preparatori prospettata dalla Suprema Corte.
La prima versione dell’art. 131-bis non conteneva l’elencazione di cui al comma 3, relativa alle fattispecie di “non abitualità”.
Per soddisfare la necessità di una più compiuta esplicazione della nozione, la prima
“Relazione Preliminare” allo schema di decreto delegato n. 28/2015 premetteva che: a) la
“non abitualità” avrebbe dovuto essere tenuta distinta dalla “occasionalità”, di cui al DPR
448/1988 e d.lgs. 274/2000 (v. supra); b) una più compiuta definizione era rimessa all’opera dell’interprete; c) comunque, la non abitualità non sarebbe stata esclusa, di per sé, dalla
ricorrenza di un unico precedente giudiziario (v. par. 4 Relazione Preliminare originaria).
La Relazione proseguiva:
1).precisando che l’abitualità “sembrerebbe piuttosto quella che venga accertata in relazione al reato oggetto di giudizio; nel senso cioè che quest’ultimo s’inserisca in un rapporto
di seriazione con uno o più altri episodi criminosi”, citandosi al riguardo l’esempio del
furto costituente “l’anello di una sorta di catena comportamentale” (v. sempre par. 4 Relazione Preliminare originaria);
2).aggiungendo che “parlando lo schema di decreto di non abitualità del “comportamento” … rimane aperta la possibilità di applicazione dell’istituto anche al reato abituale,
purché ovviamente esso presenti tutti i caratteri della particolare tenuità e, in particolare, la
reiterazione della condotta non possa in concreto integrare una “modalità” della condotta
particolarmente indicativa di gravità del reato” (v. sempre par. 4 Relazione Preliminare originaria).
Dunque, la Relazione preliminare all’originario schema di decreto legislativo introduceva una nozione di “non abitualità” del tutto autonoma rispetto a quella di “reato abituale”
(su cui v. infra sub 5), ed anzi maggiormente comprensiva rispetto alla seconda, nonché
di indole “naturalistica”, ossia riferita alla fenomenologia della condotta criminosa nel caso
concreto: essa, per essere considerata “particolarmente tenue”, non avrebbe dovuto integrare una “seriazione di episodi criminosi”.
Dalle corti
4. “Lavori preparatori” e interpretazione “storico soggettiva” del concetto di abitualità.
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Nessun cenno, invece, era dedicato alle figure del “delinquente abituale, professionale
o per tendenza”, né alla nozione di medesimezza dell’indole.
Il successivo dibattito parlamentare (cui allude testualmente la Corte di Cassazione nella
pronuncia in commento) avrebbe condotto all’introduzione dell’elenco del comma 3, avvenuta in particolare per effetto del parere reso dalla Commissione Giustizia il 3.2.2015. Tale
parere, favorevole a condizione che fosse introdotta la predetta elencazione, era così motivato circa la non abitualità del comportamento: “si ritiene che la particolare tenuità come
causa di non punibilità postuli intrinsecamente l’occasionalità del comportamento. Secondo l’effettiva ratio del principio di delega appare evidente che debbano restare estranee all’istituto della non punibilità per particolare tenuità [si esamini bene quest’ultimo passaggio;
n. d. r.] tutte le fattispecie che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate (v.,
ad esempio, gli articoli 572 e 612-bis del codice penale)” (v. pag. 14 parere Commissione).
La norma giungeva quindi all’attuale formulazione, ma nell’elencazione aggiuntavi su
suggestione della Commissione Giustizia non figurava soltanto la nozione di “reato abituale”, bensì:
1).veniva riprodotto testualmente l’inciso che figurava nel parere, alludendosi espressamente a reati aventi ad oggetto “condotte plurime, abituali e reiterate”, ovviamente senza
che fosse accompagnato dall’esemplificazione relativa ai reati ex artt. 572 e 612bis c.p.;
2).veniva aggiunto il riferimento alla dichiarazione di abitualità, professionalità, tendenza a delinquere ed alla medesimezza dell’indole dei reati.
La successiva “Relazione illustrativa” al decreto delegato manteneva ferme le precisazioni indicate sopra sub a) – c); eliminava invece quelle indicate sub d) ed e), sostituite dalla
mera specificazione per cui, “accogliendo specifica sollecitazione … della Commissione
Giustizia della Camera dei Deputati”, era stato aggiunto nell’art. 131-bis “uno specifico
comma … che descrive talune ipotesi in cui il comportamento non può considerarsi non
abituale” (v. par. 4 Relazione illustrativa).
Già a questo stadio dell’analisi, leggendo in sequenza l’iter dei lavori parlamentari, la
“interpretazione storico – soggettiva” fatta propria dalla Suprema Corte sembra addirittura
sconfessata.
La Suprema Corte ha preteso di de-tassativizzare l’elencazione di cui al comma 3 alludendo all’inciso della Relazione Illustrativa secondo cui essa descriverebbe solo “talune
ipotesi” di comportamento non abituale. Sennonché, avuto riguardo all’eziologia dell’elencazione ed alla sua posizione nella sistematica della norma, la sua funzione avrebbe
dovuto, recte, dovrebbe essere quella opposta: l’intentio legislatoris era di meglio definire
l’ambito applicativo (del limite negativo) della causa di non punibilità, chiarendo una volta
per tutte che i reati “abituali” (si noti, alludendo la Commissione Giustizia espressamente
alle fattispecie di cui agli artt. 572 e 612bis c.p.) avrebbero dovuto esserne espunti. Difatti,
la ratio della norma di favore avrebbe postulato di necessità l’occasionalità, sotto un profilo naturalistico, della condotta illecita.
Detto altrimenti: nella sua prima versione, la formulazione della fattispecie di favore “apriva” al reato abituale; la seconda formulazione era invece escogitata proprio per
espungerlo definitivamente. Diversamente, d’altro canto, non si spiegherebbe la scom-
La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale, abitualità nel reato e “medesima indole”
parsa, nella “Relazione illustrativa”, dell’inciso che originariamente argomentava in favore
dell’applicabilità del 131-bis al “reato abituale”.
Sembra quindi emergere, dal complesso delle suddette osservazioni, un certo qual
equivoco caratterizzante l’argomentazione prospettata dalla Cassazione, la quale adduce
lo svolgimento dei lavori parlamentari al fine di estendere la portata del limite negativo
dell’art. 131-bis, ancorché l’intenzione del legislatore, lavori preparatori alla mano, fosse
quella opposta.
Resta il fatto che, comunque, l’elencazione aggiunta all’esito del dibattito parlamentare,
oltre ad un impreciso riferimento al reato avente ad oggetto “condotte abituali, plurime e [si
noti la congiunzione; n. d. r.] reiterate”, contempla anche le nozioni di “delinquente abituale,
professionale, per tendenza” e di “medesimezza dell’indole” che – come vedremo infra –
nulla hanno a che vedere con l’occasionalità della condotta naturalisticamente intesa. E ciò
rende comunque problematico prospettarne un’interpretazione che voglia essere intrinsecamente coerente e conforme ai princìpi penalistici, per le ragioni che andiamo ad illustrare.
5. Reato abituale e “abitualità nel reato”. Conclusioni.
Sul piano sistematico e dei princìpi penalistici, sembra anzitutto che, nel redigere la
versione definitiva della disposizione, il legislatore delegato abbia confuso due nozioni del
tutto eterogenee, ossia quelle di “reato abituale” e di “abitualità nel reato”.
Quella di “reato abituale” è categoria dottrinale riferita alle fattispecie incriminatrici
caratterizzate dalla reiterazione intervallata nel tempo di più condotte identiche od omogenee. Una parte degli autori, seguita dalla giurisprudenza, distingue:
a. reato necessariamente abituale, in cui la reiterazione delle condotte è necessaria per il
perfezionarsi del reato; a tale categoria appartengono, esemplificativamente, le fattispecie ex artt. 572 e 612bis c.p. (citate dalla Commissione Giustizia);
Dunque, l’efficacia classificatoria della categoria attinge alla struttura oggettiva della fattispecie incriminatrice, dalla quale discendono rilevanti conseguenze in punto di disciplina
(ad esempio per ciò che concerne il momento perfezionativo, il decorso della prescrizione, la successione delle leggi penali nel tempo).
Diversamente, l’abitualità nel reato è nozione normativa, espressiva di una particolare
“condizione dell’autore”, descritta dagli artt. 102-103 c.p. e scissa nelle due figure della
“abitualità presunta” e della abitualità “ritenuta dal giudice”, quest’ultima riassuntivamente
sintetizzabile come “dedizione al delitto”.
L’abitualità è inoltre presupposto per la “professionalità nel reato” (art. 105 c.p.). Il
codice, peraltro, non esclude che i diversi episodi criminosi rilevanti ex artt. 102-105 c.p.
possano formare oggetto di unitario e contestuale accertamento giudiziale (art. 107 c.p.).
L’affinità tra le descritte nozioni è però soltanto semantica: “abituale” nel linguaggio
comune significa “non occasionale”; ma altra cosa è la non occasionalità della condotta,
Dalle corti
b.reato eventualmente abituale, in cui tale reiterazione può non esservi o meno, e tuttavia
si versa pur sempre in presenza di un unico reato.
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caratterizzante il “reato abituale”, in cui le condotte identiche od omogenee sono “intervallate”; altra la non occasionalità nel reato, presupposto per la dichiarazione di abitualità
nel delinquere, implicante, in sintesi, una reiterazione nel tempo di episodi criminosi di
per sé separati ed “autosufficienti” (nei casi previsti dall’art. 102 c.p., con le caratteristiche
e le tempistiche presunte dalla legge).
Le nozioni attengono quindi a due capitoli separati del diritto penale. Stessa considerazione vale, a fortiori, per l’ulteriore nozione di “tendenza a delinquere”, del tutto autonoma e distinta dalle precedenti (art. 108 c.p.).
L’inclusione delle tre, suddette nozioni all’interno dell’elencazione del comma 3 pare
quindi frutto di una confusione concettuale, che, vista la ragione originaria dell’introduzione dell’elenco, desunta dai lavori preparatori ed in particolare dalla lettura del parere
della Commissione Giustizia, può aver trovato origine nella predetta affinità semantica, ma
risulta priva di alcun fondamento tecnico – giuridico.
L’unico possibile trait d’union tra le diverse figure potrebbe essere la lettura delle fattispecie di reato abituale in ottica “soggettivistica”, quali espressione dell’intento del legislatore di punire la tendenza a delinquere del reo, espressa dall’abitualità della condotta
incriminata. V’è oramai concordia di vedute sul carattere recessivo di tale lettura, del tutto
ingiustificata alla luce della struttura obiettiva delle fattispecie astratte esistenti nel nostro
ordinamento penale.
Ciò posto, alla luce della reale intentio legis, l’elencazione del comma 3 non può che
intendersi come tassativa. Tale soluzione ermeneutica, invero, sembra la più coerente ai
principi fondamentali della materia penalistica, ed in particolare al principio di tassatività
– determinatezza ex art. 25 Cost., giacché la relativa previsione normativa – sia che la si
intenda come limite negativo di tipicità della causa di non punibilità, sia che la si intenda
come mero limite esegetico della medesima – opera in senso sfavorevole al reo.
A maggior ragione, una volta preso atto della mancanza di una ratio unitaria comune
alle diverse ipotesi riportate, l’elencazione deve intendersi come casistico-analitica, anziché come esemplificativa non esaustiva: se i termini dell’elenco non rispondono ad una
logica comune, non è neppure possibile, logicamente, individuare un’univoca regula iuris
di cui l’elencazione possa considerarsi esemplificazione.
Tale rilievo, a ben vedere, mostra un primo profilo di lacunosità dell’argomentazione
impiegata dalla Suprema Corte.
Difatti, per corroborare il principio di diritto, la Suprema Corte afferma bensì la non
esaustività dell’elenco di cui al comma 3, ma, in positivo, non individua né l’unitario criterio informatore della esemplificazione, né tantomeno la specifica ragione giuridica per cui
il reato continuato è considerabile “non abituale” ex art. 131-bis. Dice, in pratica, ciò che
la predetta norma “non è”, anziché individuarne un nucleo precettivo unitario, da riferire
alla figura del reato continuato.
Intendendo l’elencazione come tassativa, non pare possibile condividere le conclusioni
della Corte. Il reato continuato nulla ha a che vedere con la “dedizione al delitto” caratterizzante l’abitualità nel delinquere: anzi, secondo insegnamento pressoché costante, e
teoricamente fondato, della giurisprudenza di legittimità, le due nozioni si pongono in
La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale, abitualità nel reato e “medesima indole”
• il riferimento alla reiterazione può ben intendersi come duplicato sovrabbondante
dell’abitualità, magari volto a scongiurare letture equivoche di tale qualificazione del
reato, riferite all’indole del reo, come insegna anche certa autorevole dottrina tradizionale;
• il riferimento al carattere “plurimo” della condotta andrebbe invece considerato un’inutile superfetazione normativa, da ritenere assorbita nelle prime due qualificazioni, a meno di non volere partorire una inedita categoria classificatoria, la cui efficacia descrittiva
è però revocabile in dubbio, essendo riferibile tanto a diverse tecniche di tipizzazione
Dalle corti
perfetta antinomìa e risultano concretamente inconciliabili (ex multis, Cass. pen., sez. III,
12 gennaio 2016, n. 4364, ne Ilpenalista.it, 2016, 6 maggio). Inoltre, sul piano teorico, ai
fini di un’eventuale dichiarazione di abitualità, il reato continuato non può che essere
considerato “reato unico”.
Sull’eterogeneità delle figure di reato continuato, il cui tratto distintivo è rappresentato
dal coefficiente psicologico dell’ ”identico disegno criminoso”, e reato abituale, caratterizzato sul piano oggettivo, nei termini sopra descritti, non è necessario spendere soverchie
considerazioni.
Ci si deve chiedere, allora, se, per chiarire il percorso argomentativo della sentenza in
commento, possa soccorrere il riferimento alla «ridondanza dell’ulteriore richiamo alle
“condotte plurime, abituali e reiterate”», contenuto nel precedente evocato dagli Ermellini
a supporto della propria decisione (ossia Cass. Pen., sez. III, 28.5.2015, n. 29897 cit.).
Potrebbe infatti ipotizzarsi che la vis espansiva dell’elencazione di cui al comma 3, in
quanto “de-tassativizzata”, si fondi sulla ulteriore imprecisione in cui è incorso il legislatore delegato adagiandosi sul dictum del parere della Commissione Giustizia, parlando di
condotte ad un tempo “abituali”, “reiterate”, “plurime”.
Nei primi, autorevoli commenti alla causa di non punibilità, dei singoli aggettivi è stata
offerta un’interpretazione tesa ad attribuire a ciascuno di essi un significato autonomo.
In particolare, l’inciso “plurime” è stato riferito anche ai reati complessi, oltre che ai reati
aventi ad oggetto due o più “condotte” naturalisticamente intese, o ancora ai reati concretamente realizzati con più atti tipici nel medesimo contesto temporale, o che tipizzano
“condotte progressive”.
Una rapida lettura dei lavori preparatori, in specie del parere della Commissione, mostra che in realtà l’espressione era ivi utilizzata in senso atecnico e si riferiva plausibilmente ai reati “abituali” stricto sensu intesi, come testimoniato dall’esemplificazione immediata
con le fattispecie astratte dei “maltrattamenti in famiglia” o degli “atti persecutori”. Errore
tecnico del legislatore delegato è stato quello di trasporre tale espressione nella definitiva
formulazione del requisito di fattispecie, così confondendo gli interpreti, indotti ad attribuire un significato univoco a ciascuno degli aggettivi della “triadica” qualificazione, in
ossequio ad un (astrattamente corretto) canone di interpretazione letterale.
A fronte di ciò, chi scrive ritiene che l’unica qualificazione dell’elenco dotata di una
reale, autonoma portata concettuale, descrittiva e dunque normativa debba considerarsi
quella di “condotte abituali”; mentre:
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Gabriele Aronica
delle fattispecie quanto a differenti fenomenologie concrete delle condotte criminose
(come testimoniato dall’incertezza e dalla varietà delle interpretazioni riscontrabili nella
prassi e nella dottrina). Una plausibile alternativa, al fine di attribuire al termine autonoma portata concettuale e normativa, potrebbe essere quella di riferirlo alle ipotesi di
reato eventualmente abituale realizzato, in concreto, con la reiterazione di più condotte.
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Piuttosto, è da chiedersi, in ultima istanza, se la paventata vis espansiva dell’elencazione, con riferimento al reato continuato, non possa derivare dalla previsione circa la possibile identità dell’indole dei reati componenti il “comportamento abituale”.
La “medesimezza dell’indole” é nozione di tipo normativo, definita all’art. 101 c.p., che
la collega, in prima battuta, all’omogeneità delle norme incriminatrici violate, ed in seconda battuta ed alternativamente, alla presenza di “caratteri fondamentali comuni” tra i due
o più fatti di reato commessi.
Considerando il reato continuato come “pluralità di reati”, una volta accettato che, ai
fini dell’art. 131-bis, i diversi episodi criminosi possano essere accertati anche nella medesima sede processuale – id est quella in cui si discute dell’applicabilità della causa di
non punibilità – si potrebbe avere un argomento forte a favore dell’opzione interpretativa
fatta propria dalla Suprema Corte. Difatti, se si presumono “della stessa indole” condotte
violatrici della medesima disposizione di legge penale, giusta il disposto dell’art. 101 c.p.,
tutte le volte che ci si trovasse di fronte ad un reato continuato “omogeneo”, dovrebbe
ritenersi integrata un’ipotesi di “comportamento abituale” (così come certa dottrina sembra ritenere).
All’evidenza, l’esito di tale percorso interpretativo finisce per condurre ad una radicale restrizione dell’ambito di operatività dell’art. 131-bis, per ragioni che paiono del tutto
estranee all’originaria intentio legis e non senza esiti contraddittori. Ad esempio, mentre
nel caso di reato continuato omogeneo, la discrezionalità dell’organo giudicante circa il
giudizio di non abitualità sarebbe del tutto annullata, addirittura dalla littera legis, tale
discrezionalità rivivrebbe nell’eventualità di reato continuato eterogeneo, che in siffatto
modo verrebbe ritenuto, paradossalmente a priori, juris et de jure, “comportamento” dotato di maggiore tenuità.
L’esito interpretativo sembra ancor più paradossale, considerando il fatto che, tradizionalmente, la figura della continuazione svolge una funzione di favor per l’imputato, a
mitigazione degli eccessi sanzionatori cui frequentemente può dar luogo la rigida applicazione dei severi compassi edittali del codice. Oltre a ciò, non può sottacersi l’ulteriore
rilievo per cui, data l’ampiezza che nella prassi caratterizza l’impiego della figura del reato
continuato, la diffusione di un simile criterio ermeneutico relegherebbe in spazi davvero
ristretti la concreta operatività dell’art. 131-bis.
Nondimeno, le uniche vie percorribili per evitare di confinare l’art. 131-bis a lettera
morta paiono essere:
I..quella di considerare il reato continuato un “reato unico”, anche ai fini della definizione dell’ambito applicativo dell’art. 131-bis, come sempre si è fatto ogniqualvolta si è
trattato di ricostruire la struttura della continuazione in relazione a norme di favore;
La “particolare tenuità del fatto” tra reato abituale, abitualità nel reato e “medesima indole”
II..alternativamente, quella di offrire, della nozione di “medesimezza dell’indole”, un’interpretazione correttiva, che la riferisca soltanto alla identità concreta e sostanziale dei fatti di
reato, di cui alla seconda parte della definizione di cui all’art. 101 c.p., così rimediando alla
“rigidità” della disposizione, nei suoi riflessi sull’operatività della causa di non punibilità.
Resta evidente, in ogni caso, l’inadeguatezza – già autorevolmente denunciata - di una
previsione che àncora la “medesima indole” alla mera omogeneità delle previsioni violate,
senza consentire una diagnosi circa la personalità del reo fondata sull’effettiva fenomenologìa dei fatti commessi.
Gabriele Aronica
Bibliografia
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Procura
della
Repubblica
presso il
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di
Palermo, D.lgs. 16 marzo 2015 n. 28 “Disposizioni in
Dalle corti
Mantovani, Diritto penale. Parte Generale, IX ed., Padova, 2015.
309
Gabriele Aronica
materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto…” - Circolare esplicativa/applicativa, in
http://www.penalecontemporaneo.it/d/4034-esclusione-della-punibilita-per-particolare-tenuita-delfatto-le-linee-guida-della-procura-di-paler
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trento, Decreto legislativo 16 marzo 2015 n. 28. Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’art. 1, comma 1,
lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67. Prime riflessioni, in http://www.penalecontemporaneo.
it/d/4010-particolare-tenuita-del-fatto-le-linee-guida-della-procura-di-trento
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lanciano, Prime linee guida per l’applicazione del decreto
legislativo 16 marzo 2015, n. 28 Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del
fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67, in http://www.
penalecontemporaneo.it/d/3817
Rampioni, La non punibilità per la particolare tenuità del fatto - Punishment exemption in the case of
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310
Cass. pen., Sez Un., 24 aprile 2016 (dep. 29 settembre 2016),
n. 40518 Pres. Canzio – rel. Rotundo e Taysir
Impugnazioni – Inammissibilità – Difensore non iscritto
all’albo speciale – Diritto di impugnazione - Sostituto
del difensore in possesso del titolo abilitativo – Legittimato.
Dalle
corti
È ammissibile il ricorso in Cassazione proposto da avvocato iscritto nell’albo speciale della Corte di Cassazione, nominato quale sostituto dal difensore dell’imputato, di fiducia
o d’ufficio, non cassazionista.
I testi integrali della sentenza e dell’ordinanza di rimessione sono accessibili sul sito
della rivista.
Un principio che travalica il quesito e offre soluzioni
de iure condendo
1. La questione posta
L’ordinanza di rimessione della prima sezione penale muoveva dall’assunto che non
potesse ritenersi consentito dall’ordinamento processuale l’esercizio del diritto di impugnazione da parte del difensore non cassazionista, attraverso la nomina di un sostituto in
possesso del titolo abilitativo.
Di conseguenza appuntava il ragionamento sulla possibilità di “adottare statuizioni di
condanna nei riguardi del difensore, e non della parte dallo stesso rappresentata, in situazioni in cui ab origine il mandato conferito volontariamente dall’imputato non possa
esplicarsi nel giudizio di legittimità per carenza dei requisiti soggettivi del professionista
prescelto.”
2. Commento
La motivazione in esame è interessante sotto diversi profili sistematici.
L’ordinanza invero presentava aspetti inquietanti diretti a sostenere la possibilità di
condannare in proprio il difensore che esercitava il proprio mandato, affermando che
il difensore non abilitato, anziché operare a sua scelta l’individuazione di un sostituto,
esercitando un diritto di cui era privo, avrebbe potuto e dovuto mantenere i contatti con il
proprio assistito e suggerirgli di scegliere altro legale in grado di assisterlo adeguatamente
nel giudizio di legittimità.
In ragione di questa censura nei confronti delle modalità di esercizio del diritto di dife-
Luana Granozio
sa, non ravvisava i presupposti per poter porre a carico dell’indagato, nel cui nome il ricorso è stato proposto, l’onere delle spese, dal momento che, per quanto dedotto dal difensore,
egli è irreperibile sin da un momento antecedente la presentazione dell’impugnazione,
iniziativa di cui nulla ha potuto apprendere, sicché alcun addebito di colpa può muoversi
a parte rimasta inconsapevole di quanto processualmente compiuto per suo conto.
Preliminarmente le Sezioni Unite non condividono il presupposto della sezione remittente e svolgono un’analisi dell’istituto della sostituzione processuale. Da tali argomentazioni, poi, discende la enunciazione di un principio che poco o nulla ha a che vedere con
la questione posta. La soluzione appare piuttosto conseguire dalla ricognizione sistematica
relativa alla difesa d’ufficio anche nella prospettiva di riforma del codice di procedura penale in corso di discussione.
I confini tracciati con riferimento alla sostituzione processuale delineano la figura di cui
all’art. 102 c.p.p. come un collaboratore del difensore, destinato a lavorare anche a fianco
del titolare della difesa.
Rifiutando le argomentazioni relative a un ruolo episodico ed estemporaneo del sostituto ed alla permanenza della titolarità dell’ufficio defensionale, questa decisione enfatizza
il rapporto di sostituzione e lo estende anche alla difesa di ufficio.
Il secondo punto, affrontato criticamente è quello relativo all’esercizio da parte del sostituto processuale degli stessi diritti e dei medesimi obblighi riguardanti il difensore sostituito.
Anche in proposito la decisione giunge ad una affermazione che supera le argomentazioni
della ordinanza di rimessione ovvero l’autonomia del diritto di impugnazione del difensore
in proprio che viene distinta dalla legittimazione a proporre ricorso per Cassazione.
Tale riconoscimento se da un lato si pone in continuità con la disciplina delle impugnazioni tracciata anche da precedenti pronunce delle Sezioni Unite, per altro verso estende
il tema, soprattutto con riferimento alla difesa d’ufficio.
Invero, tale distinzione è essenziale per superare il dato formale dedotto nella ordinanza che sosteneva la necessità che la sostituzione del difensore con altro patrocinatore
avvenga nel rispetto delle disposizioni che regolano i singoli istituti processuali, e quindi
di quanto previsto dall’art. 613 c.p.p. Di talché la decisione afferma che è sufficiente che
l’atto di ricorso sia sottoscritto da un difensore iscritto nell’albo speciale della Corte di
Cassazione.
3. Conclusioni.
312
Con queste argomentazioni, le Sezioni Unite giungono a risolvere una questione che
non è formalmente posta con l’ordinanza di rimessione, ma che ridisegna l’ambito della
difesa con una lungimiranza che sembra prevedere e risolvere questioni future, allorquando dovesse essere soppresso l’inciso «Salvo che la parte non vi provveda personalmente,»
all’articolo 613, comma 1, del codice di procedura penale come previsto dal disegno di
legge di Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale, presentato il 23 dicembre 2014 ed in discussione al Senato.
Qualora dovesse essere esclusa la facoltà della parte di sottoscrivere personalmente il
Un principio che travalica il quesito e offre soluzioni de iure condendo
ricorso in Cassazione, il primo strumento per garantire il diritto di difesa sarà la nomina
da parte dell’avvocato (anche d’ufficio) di un sostituto processuale iscritto all’albo speciale
per la proposizione del ricorso.
Un ultimo inciso si aggiunge ai precedenti argomenti: “qualora non si ritenga di avvalersi di tale rimedio, si potrà pur sempre richiedere la sostituzione del difensore con altro
idoneo all’autorità giudiziaria, trattandosi di giustificato motivo”.
Il quadro delineato dalla decisione in commento traccia dunque una figura di difensore
(anche d’ufficio) consapevole e tecnicamente attrezzato che esercita il diritto di difesa fino
in fondo in modo attivo attraverso la nomina ovvero la tempestiva rinunica al mandato.
La complessità delle conseguenze di tale ricostruzione sistematica non è agevole, specie, ma non solo, con riferimento all’esercizio del diritto di difesa con incarico d’ufficio e
nell’interesse di un soggetto che non mantenga i contatti con il difensore, poiché senza
dubbio la riforma dell’istituto della assenza non ha scongiurato le situazioni di mancata
conoscenza del processo verificate (e censurate dalla Corte europea) con il processo contumaciale.
Appare rilevante, sul punto, il tema del superamento del principio dell’unicità della
impugnazione introdotto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 317 del 4 dicembre
2009 quando ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 175 c.p.p., comma 2, nella parte in cui non consente la restituzione dell’imputato, che non abbia avuto effettiva
conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate
dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore
dell’imputato.
La giurisprudenza di legittimità non è univoca nella applicazione di tale principio, e
se tende a riconoscere un temperamento del principio di unicità dell’impugnazione nella
ipotesi in cui l’impugnazione è proposta dal difensore di ufficio, al contrario acconsente
a sacrificare la tutela del soggetto rimasto ignaro del processo, quando esiste la “foglia di
fico” del difensore di fiducia.
La pronuncia commentata, respinge una visione riduttiva del ruolo del difensore, la
difesa tecnica viene invece ritenuta essenziale all’equilibrio del sistema.
Affinché questo non si risolva con un detrimento delle garanzie è necessaria un’avvocatura specializzata e consapevole.
Dalle corti
Luana Granozio
313
Dibattiti / Focus
Omicidio stradale e lesioni
personali stradali. Luci (poche)
ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta
dall’emergenza
a cura di
Marco Maria Monaco
(Avvocato del Foro di Roma)
In questo numero, in linea con lo stile del “Focus”, cioè quello di offrire una lettura dell’istituto disarticolata e critica, abbiamo deciso di affrontare la disciplina introdotta con la L. 23 marzo 2016, n. 41 in tema di
omicidio e lesioni c.d. stradali.
Il tema è di scottante attualità mediatica e la risposta con la quale il legislatore ha cercato di “tranquillizzare” l’opinione pubblica non convince a pieno gli operatori che, con ruoli diversi, sono e saranno sempre
più chiamati ad applicare la normativa.
I diversi contributi che seguono non hanno nessuna pretesa di affrontare in modo completo gli istituti né
di approfondire tutte le problematiche possibili. Più semplicemente gli articoli, in una prospettiva dinamica
che non si prefigge di dare soluzioni, hanno lo scopo di stimolare le riflessioni dei lettori.
Ognuno degli autori, coinvolto in base ad una diversa e specifica professionalità, ha segnalato i profili e
gli aspetti, anche pratici e concreti, che hanno o potrebbero sollevare particolari questioni applicative.
Gli argomenti, di diritto sostanziale, processuale e di natura tecnica sono molti.
Da una parte, ad esempio, lascia perplessi la costruzione delle norme, sia con riferimento all’elemento
oggettivo che a quello soggettivo.
Dall’altra, la necessità di procedere ad una serie di attività tecniche, pone evidenti problemi processuali
che, come ben evidenziato anche da chi poi questi prelievi e l’esito di questi accertamenti deve valutare, non
sempre sono stati correttamente individuati e regolati dallo stesso legislatore.
Una particolare attenzione, poi, meritano anche alcune scelte distoniche introdotte in tema di applicazione di misure pre-cautelari e cautelari.
Temi questi in merito ai quali anche le circolari di alcune procure, che pure hanno ritenuto di intervenire
redigendo delle linee guida, non sempre sembrano essere convincenti.
Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
Breve commento all’introduzione delle nuove fattispecie
di omicidio stradale e lesioni personali stradali
Alì Abukar Hayo
(Avvocato del Foro di Roma – Professore Straordinario di Diritto penale nell’Università Niccolò Cusano di Roma)
di
L’introduzione dei reati di omicidio stradale e lesioni personali stradali, a seguito dell’entrata in vigore della legge 23 marzo 2016 n. 411, pone numerosi interrogativi dottrinali e apre gravose questioni ermeneutiche.
Fa discutere innanzitutto la scelta del legislatore di normare la materia de qua sull’onda emotiva dei casi
di cronaca più recenti. In genere, l’allarme dell’opinione pubblica, amplificato dai mass media, non pare un
buon consigliere per il legislatore penale. La materia penalistica non deve evolversi vorticosamente e non deve avere come orizzonte l’attualità giornalistica; per sua stessa natura, mal si presta ai repentini cambiamenti
e all’emergenza mutevole e ondivaga della quotidianità, dovendo garantire ai consociati un quadro stabile
e duraturo di certezze, giacché incide sul bene primario della libertà personale. Detto questo e confessate
candidamente la nostra diffidenza e ritrosia verso la legislazione ispirata alle sempre nuove “emergenze”
nazionali, osserviamo che si è passati dall’indulgenza al “pugno di ferro”. Questo repentino passaggio – si
conceda – contraddice quell’esigenza basilare di giustizia equitativa, non dissociabile dalla moderazione e
dalla ponderatezza. Ma l’oscillazione pendolare dalla “misericordia” alla “repressione” è forse un dato ineluttabile, al quale bisogna rassegnarsi in questi nostri tempi, in cui prosperano gli articoli bis e ter e quater, che
si affastellano – magari in contraddizione – con quelli entrati in vigore poco tempo prima.
Sorge, in secondo luogo, la domanda se, con le fattispecie di cui agli artt. 589 bis e 590 bis c.p., sia nato
un nuovo genus di ibrida responsabilità oggettiva-colposa-dolosa.
a) Il profilo oggettivo si potrebbe cogliere nella responsabilità nascente dal superamento delle rigide soglie
del tasso alcolemico. Nelle nuove fattispecie si fa riferimento all’aggravante dello stato di ebbrezza e tuttavia
tale stato si presume, per il solo fatto che sia stata superata una certa soglia quantitativa. Ebbene, questa
soglia è fissata in maniera differente per alcune categorie di soggetti qualificati (tassisti, conducenti di mezzi
pesanti, conducenti di mezzi pubblici)2. Poiché non è pensabile che il concreto “stato di ebbrezza” degli uni
(categorie qualificate) sia dissimile da quello degli altri (quidam de populo), appartenenti al medesimo genus
umano che potenzialmente subisce gli effetti dell’alcool alla stessa maniera, si deve concludere che lo “stato
di ebrezza” è un dato presunto, non solo svincolato dall’accertamento in concreto, ma anche parzialmente
indifferente ai criteri medici, generali e uniformi.
Si osserva inoltre che la rigida soglia quantitativa, con tutta evidenza, è inadatta a cogliere il dato concreto,
1
316
La legge ha per titolo: introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonché disposizioni di
coordinamento al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274
2
Il 3° comma dell’art. 589 bis e dell’art. 590 bis c.p. prende in considerazione lo stato di ebbrezza dei conducenti di un veicolo a
motore di cui all’art. 186 bis comma 1, lettere b), c), d), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285. Tale stato di ebbrezza alcolica
è accertato coi criteri di cui all’art. 186, comma 2, lettera b) del medesimo decreto legislativo; mentre per il quisque de populo si
utilizzano i criteri di cui alla lettera c), in relazione all’alcool, e i criteri di cui all’art. 187, in relazione alle sostanze stupefacenti. In
sintesi, le differenze riguardano non solo il tasso alcolemico, ma anche la mancata previsione dell’alterazione psico-fisica, conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti, per i soggetti qualificati.
in ragione delle inevitabili disuguaglianze degli uomini e delle innumerevoli circostanze del caso. Mentre non
è dato cogliere una disuguaglianza per tipi legali (ex ante), per es. tra “tassisti” e “non-tassisti”, è innegabile la
disuguaglianza individuale, degli uomini in carne ed ossa, in relazione all’assorbimento dell’alcool (ex post).
Tizio può non essere ebbro, mentre Caio lo è, a fronte della medesima quantità di alcool ingerito; inoltre
Tizio, in una determinata circostanza, potrebbe essere più o meno ebbro rispetto a se medesimo in altra
circostanza, pur avendo ingerito la stessa quantità di alcool. Se ne deve dedurre che l’aggravante dello stato
di ebbrezza incombe sul reo a prescindere dalle sue reali condizioni psicofisiche, in maniera oggettiva, sulla
base di una presunzione dedotta da parametri numerici, per di più non uniformi per la generalità dei cives
(bensì differenziati per alcune categorie qualificate).
b) Il profilo colposo della responsabilità si deduce dalla formulazione letterale delle due fattispecie, che
incriminano il fatto di chi “cagiona per colpa” la morte o le lesioni. Strutturata in tal guisa, la fattispecie
descrive indubitabilmente un delitto colposo, non solo per il titolo, ma anche per la natura intrinseca della
responsabilità tipizzata. Ma occorre chiedersi se si tratti di colpa generica o specifica; ed ancora se presunta
o concreta3. Il testo farebbe pensare a una colpa generica, sussistente per qualunque violazione di regole
cautelari, ancorché non verbalizzate in norme giuridiche. Tuttavia è difficile pensare che possa sussistere
l’imprudenza, la negligenza o l’imperizia e si possa dunque violare una regola cautelare pur che sia, senza
violare al contempo una precisa norma del codice della strada adottato con decreto legislativo 30 aprile 1992
n. 285. Piuttosto è pensabile che, in casi eccezionali ma non impossibili, la violazione della norma del codice
della strada non abbia determinato una concreta situazione di pericolo e dunque non si ponga in relazione
causale con l’accadimento de quo, funestato dalla morte o dalle lesioni personali. Si corre il rischio, in questi
casi, di semplificare l’accertamento della colpa del caso concreto, col ricorso alla presunzione legata alla
violazione della norma giuridica.
Si potrebbe obiettare che nessun legislatore, anche il più scrupoloso e avveduto, può surrogarsi al giudice che deve accertare il nesso causale del caso concreto. Verissimo. Ma il punto è proprio questo: il nostro
legislatore ha predeterminato una scala quantitativa di minor/maggior colpa in connessione con talune infrazioni tipiche del codice della strada. In un certo senso, ha proprio preteso di surrogarsi al giudice del caso
concreto, giacché ha prefigurato una sorta di tariffario della colpevolezza, sottraendogli un certo margine
di discrezionalità nel discernimento degli indici di cui all’art. 133 c.p.. Orbene, non si capisce perché, per
esempio, l’attraversamento dell’incrocio con luce segnaletica rossa4 sia necessariamente e a priori più grave
rispetto ad altra infrazione del codice della strada. Solo le mille circostanze del caso storico ci narrano il vero
grado di pericolosità della condotta; sicché, a nostro parere, la formulazione delle due fattispecie, dettagliata
secondo casistiche prefigurate e astratte, mal si adatta a cogliere il reale disvalore del fatto storico. Il legislatore che vuole prevedere tutto, in verità vuole fare il “mestiere” del giudice, e, surrogandosi a lui, imbriglia
l’esercizio della giurisdizione entro le strette maglie di una casistica astratta, ben diversa dalla infinita varietà
dei casi concreti.
In sintesi, i risultati perniciosi di siffatta legislazione per tariffe sanzionatorie ci sembra possano essere
due. Il primo è proprio quello di legittimare l’assunto interpretativo, che presume la colpa per il solo fatto dell’infrazione delle regole del codice della strada. Infatti, se il legislatore presume la maggior colpa in
3
Queste stesse domande si pone Macrillò, L’omicidio stradale e i reati connessi alla circolazione dei veicoli, Pisa, 2016, 43 ss. il quale
parla esplicitamente di sovrapposizione di colpa specifica e generica.
4
L’aggravamento di pena è espressamente previsto (al 5° comma n. 2 delle due nuove fattispecie) per il “conducente di un veicolo a
motore che, attraversando un’intersezione con il semaforo disposto al rosso” cagioni la morte o le lesioni personali.
Dibattiti / Focus
Dibattiti / Focus
317
Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
funzione di specifiche infrazioni, non si vede perché l’interprete del caso concreto non debba presumere la
colpa tout court, per un’infrazione pur che sia. Il secondo ci sembra quello di predeterminare in dettaglio il
quantum della pena (non solo l’an) in relazione a una “gravità” del fatto, prefigurata in astratto in maniera
rigida e schematica, imbrigliando così la giustizia del caso concreto.
c) Infine il profilo doloso si potrebbe cogliere nella severa risposta sanzionatoria voluta dal nostro legislatore “pendolare”, che oscilla dal perdono al “fuoco dell’inferno”. Si converrà che una pena di 18 anni di
reclusione5 pare oltrepassare i limiti di retribuzione della colpa, secondo il buon senso comune. Pare proprio
che alla pena retributiva il nostro legislatore, sensibile alle lusinghe dell’opinione pubblica del momento,
abbia voluto sostituire la pena “esemplare”6. Ci permettiamo osservare che l’esemplarità distorce la giustizia
e contraddice l’equità, giacché subordina l’esigenza di retribuire la colpevolezza del caso concreto alle contingenti esigenze “politiche” esterne, necessariamente estranee alla vicenda in giudizio.
A ciò si aggiunga che le aggravanti previste dalle due fattispecie fanno eccezione al principio comune della “bilanciabilità”. Essendo sottratte al giudizio di bilanciamento7, incrementano il quantum della pena anche
in presenza di attenuanti, le quali sarebbero ritenute prevalenti o equivalenti per le rimanenti tipologie di
reato. Ciò significa che per tali delitti colposi non valgono - ossia non producono effetto o comunque producono un effetto minore – quelle attenuanti valide invece per i corrispondenti delitti dolosi. Insomma la colpa
di fatto viene ritenuta più grave del dolo! Non ci pare che possa cogliersi grande coerenza logica in tutto ciò.
In conclusione, ci pare che l’ennesima affrettata “riforma” acuisca i mali della nostra ipertrofica legislazione penale, chiamata a raddrizzare il “legno torto” dell’umanità e risolvere tutti i problemi della convivenza, mentre la sua vera
vocazione è solo quella di sanzionare, in extrema ratio, le più gravi forme di aggressione ai beni giuridici primari.
Le criticità dei profili probatori della legge n. 41 del
2016
di
Filippo Giunchedi
(Avvocato del Foro di Bologna – Professore Associato di Diritto processuale penale nell’Università Niccolò
Cusano di Roma)
1. Originata più da pulsioni di carattere politico-emozionale che da riflessioni giuridiche, la L. 23 marzo
5
318
“ … qualora il conducente cagioni la morte di più persone, ovvero la morte di una o più persone e lesioni di una o più persone ….
si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può
superare gli anni diciotto” (art. 589 bis ultimo comma).
6
Questo sembra essere il motivo per il quale “i limiti edittali, pur rimodulati alla Camera rispetto a quelli proposti al Senato … appaiono, tuttavia, draconianamente superiori a quelli previsti come tertium comparationis per altre fattispecie di omicidio colposo … ”
cfr. Piccioni, L’omicidio stradale, Torino, 2016, 33.
7
Art. 590 quater: “Qualora ricorrono le circostanze aggravanti di cui agli artt. 589 bis, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma,
589 ter, 590 bis, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, e 590 ter, le concorrenti circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti …”
2016, n. 418 – configurante una sorta di binario à coté rispetto alla disciplina ordinaria in tema di omicidio e
lesioni colpose – presenta profili processuali che meritano attenta analisi.
In particolare sono gli aspetti probatori quelli che impongono una meditazione approfondita in quanto,
mediante l’interpolazione di istituti coniati per finalità differenti, non appaiono congrui allo scopo, registrando vuoti tali da incidere su quella forma di accertamento indispensabile per poter configurare le fattispecie
delittuose di omicidio e lesioni stradali disciplinate dagli artt. 589-bis e 590-bis c.p.
In questo breve saggio si approfondiranno questi profili, trascurando consapevolmente quelli relativi ad
arresto in flagranza, competenza per materia, accelerazione del procedimento, anch’essi oggetto della novella
legislativa, ma recanti minori problematiche interpretative.
2. Il legislatore, tramite la perizia “coattiva” (art. 224-bis c.p.p.) ed il prelievo coattivo di campioni biologici su persone viventi (art. 359-bis c.p.p.), ha predisposto degli strumenti finalizzati ad un accertamento
efficace e immediato sullo status di alterazione del conducente, l’unico in grado di fondare la sussistenza
dei presupposti che tendenzialmente, ma non esclusivamente, consentono la configurabilità delle due nuove
figure criminose. Le innovazioni apportate in funzione dei predetti delitti tradiscono, però, lo scopo per il
quale erano stati coniati con L. 30 giugno 2009, n. 85. Questo provvedimento ha recepito il Trattato di Prüm
teso ad approfondire la cooperazione transfrontaliera e, in particolare, il contrasto al terrorismo, la criminalità
transfrontaliera, la migrazione illegale e, in chiave strumentale a ciò, la creazione di una banca dati nazionale
del DNA. È ovvio che mutando sensibilmente la ragion d’essere e lo scopo delle due norme, l’adattamento al
contesto nel quale, contro natura, il legislatore le ha volute inserire non è riuscito, quantomeno nei termini
che ci si proponeva.
La disciplina volta ad effettuare il prelievo è dettata dall’art. 224-bis c.p.p. che prevede una perizia incidente sulla libertà personale ai fini della determinazione del profilo del DNA o comportante accertamenti medici
sul cui modello è in gran parte improntata la norma finalizzata al prelievo durante le indagini, configurando
così una nuova tipologia di accertamento tecnico del p.m. (art. 359-bis c.p.p.). La valenza dei due istituti è
rispettivamente indirizzata al dibattimento e alle indagini posto che siamo di fronte ad un accertamento ripetibile con la conseguenza che nell’ipotesi della perizia gli atti relativi al prelievo confluiranno nel fascicolo
del dibattimento, mentre nel caso dell’art. 359-bis accederanno a quello del p.m.
L’esclusione del difensore dai soggetti che possono compiere questi accertamenti pare giustificata dai
valori in gioco, sullo stereotipo di altre forme di esclusione (si pensi alle intercettazioni di conversazioni e
comunicazioni).
In generale entrambi gli istituti prescindono dal consenso della persona da sottoporre al prelievo coattivo.
Nel caso in cui questa presti il consenso si opererà secondo lo schema tipico previsto dall’art. 224 (qualora vi provveda il giudice), da un lato, e, dall’altro, degli artt. 359 e 360 c.p.p. (nell’ipotesi in cui l’iniziativa
muova dal p.m.), in quest’ultimo caso a seconda della ripetibilità o meno del prelievo. Nel caso dei reati di
8
Per le prime considerazioni del testo normativo cfr., senza pretesa di esaustività, Amato, Innalzamento delle punizioni poco proporzionato, in Guida dir., 2016, 16, 49; Id., Un impianto diretto a considerare solo la colpa specifica, ibidem, 55; Id., Prevista l’aggravante
per il reato commesso sotto l’effetto di alcool, ibidem, 58; Id., “Mano pesante” in caso di passaggio con il semaforo rosso, ibidem, 65;
Id., Ammesso il concorso in via autonoma con lesioni personali, ibidem, 67; Id., La competenza al giudice ordinario non esclude il
GdP, ibidem, 68; Id., L’obbligo di fermarsi aggrava la posizione di chi si dà alla fuga, ibidem, 71; Id., Il computo delle circostanze per
il nuovo delitto, ibidem, 74; Id., Sì al raddoppio dei termini di prescrizione, ibidem, 75; Bigiarini, Gli aspetti processuali più rilevanti:
prelievo biologico coattivo, arresto in flagranza e competenza del giudice, in Dir. pen. proc., 2016, 442; D’Auria, Omicidio stradale:
prime osservazioni, ibidem, 432; Mantovani, In tema di omicidio stradale, in www.penalecontemporaneo.it; Piccioni, Molte le incongruenze che rischiano la scure della Consulta, in Guida dir., 2016, 16, 51.
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Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
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cui agli artt. 589-bis e 590-bis c.p. gli accertamenti verranno effettuati a norma degli artt. 186-bis e 187 D.Lg.
30 aprile 1992, n. 285.
Non può, invece, ritenersi applicabile all’ipotesi in esame l’art. 349, comma 2-bis, c.p.p. poiché questa
norma attiene al prelievo a fini identificativi, mentre nel caso dell’art. 224-bis c.p.p. il prelievo deve essere
effettuato quando risulti «assolutamente indispensabile per la prova dei fatti» (comma 1). Pur essendo ammirevole la volontà di voler circoscrivere il perimetro di applicazione della norma, va sottolineato come il concetto
di indispensabilità, secondo l’interpretazione che, ad esempio, è stata offerta in materia di intercettazioni di
conversazioni e comunicazioni, assuma un significato estremamente garantista posto che il prelievo risulta
giustificato solo quando nessun altro mezzo sia idoneo al raggiungimento dello scopo. Il rischio, però, è che,
proprio come è avvenuto in materia di captazioni, l’inciso venga aggirato con comode clausole di stile riproducenti il tenore della norma, tali quindi da annichilire il ruolo di extrema ratio che il legislatore ha voluto
assegnare al prelievo coattivo di materiale biologico.
Gli accertamenti possibili sono tutti quelli esperibili su persona vivente sempre che non contrastino con
la garanzia posta dall’art. 5 c.c., mentre non pare possa procedersi coattivamente a prelievo ematico, pur
essendo indiscussa la valenza probatoria di tale accertamento per verificare la sussistenza di un’alterazione
psicofisica indotta dall’abuso di alcool o di droghe.
Sul piano delle dinamiche, il p.m. che intenda procedere agli accertamenti finalizzati al prelievo di capelli,
peli o mucosa del cavo orale o ad accertamenti medici su persona vivente (indagato, persona offesa o terzo),
sussistendo i presupposti di cui all’art. 224-bis, chiede al g.i.p. un provvedimento autorizzativo che ha la forma
dell’ordinanza. Nell’ipotesi in cui il prelievo o l’accertamento medico risultino urgenti, ossia «vi [sia] fondato
motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave o irreparabile pregiudizio alle indagini» (comma 2),
il legislatore ha apprestato un meccanismo analogo a quello in materia di captazioni (c.d. intercettazione ex
abrupto): il p.m. dispone lo svolgimento delle operazioni (mediante l’accompagnamento coattivo in caso di
mancata presentazione senza che sia stato addotto un legittimo impedimento o in caso di rifiuto di sottoporsi
al prelievo o all’accertamento medico) con decreto motivato che contiene gli elementi previsti nell’ordinanza di
cui all’art. 224-bis c.p.p. la cui convalida deve essere richiesta al g.i.p. nelle successive quarantotto ore. Questi,
nel medesimo termine, deve provvedere con ordinanza dandone immediatamente avviso p.m. e difensore.
Nulla emerge dalla disposizione relativa al prelievo non urgente circa la necessità – come previsto per le
intercettazioni – di un apposito decreto del p.m. che disponga l’inizio delle operazioni o se, invece, debba
ritenersi che l’ordinanza del giudice surroghi detto provvedimento.
La violazione delle disposizioni relative all’accompagnamento coattivo, così come quella attinente al
contenuto dell’ordinanza del giudice e di quelle ex commi 4 e 5 dell’art. 224-bis c.p.p., importano la nullità
dell’atto e l’inutilizzabilità dei risultati probatori in questo contenuti.
3. È comunque sul piano delle garanzie che il nuovo modello di accertamento finalizzato al prelievo coattivo suscita maggiori perplessità, in quanto il ruolo assegnato alla difesa risulta di mero controllo, ma non
di effettiva partecipazione come sarebbe stato garantito utilizzando uno schema riproducente quello degli
accertamenti tecnici non ripetibili, tale da consentire al difensore dell’indagato la possibilità di partecipare
all’atto di indagine con l’ausilio di un proprio consulente tecnico.
Sulla scorta delle prime riflessioni, appare evidente come risulti assai improbabile un utilizzo del prelievo
coattivo peritale (art. 224-bis c.p.p.) nella materia in esame in quanto non idoneo, soprattutto in funzione
del fattore cronologico, a dimostrare l’alterazione dettata dallo stato di ebbrezza. Qualche chance in più si
ha in riferimento ai soggetti dediti all’uso di sostanze stupefacenti in considerazione della latenza dei residui
tossicologici, anche se questa analisi consente di dimostrare la condizione di tossicodipendenza, ma non ciò
che rileva per la configurabilità delle peculiari ipotesi previste dagli artt. 589-bis e 590-bis c.p., vale a dire che
la guida avvenne in stato di alterazione.
Non si trascuri, peraltro, che la previsione del prelievo coattivo nella forma peritale è sorta, ad esempio,
per rispondere all’esigenza di tutelare l’offeso in funzione di determinate fattispecie delittuose come la violenza sessuale e la pedofilia al fine di individuare patologie sessualmente trasmissibili, qualora le modalità del
fatto possano prospettare un rischio di trasmissione delle patologie medesime e non certo per raggiungere la
prova dello stato di alterazione da alcool o stupefacenti. D’altronde il riferimento agli «altri casi espressamente
previsti dalla legge», in realtà, pare proiettato astrattamente pro-futuro e non attiene all’ipotesi che ci occupa,
ove con senso della misura appare difficilmente ipotizzabile, come detto, l’utilizzo dell’istituto di cui all’art.
224-bis c.p.p. quale strumento per pervenire all’acquisizione della prova dell’elemento condizionante i delitti
di omicidio e lesioni stradali nella forma aggravata dallo stato di alterazione da alcool o da stupefacenti.
Il legislatore, però, ha voluto fare di più. Dubitando del rinvio astratto agli «altri casi espressamente previsti dalla legge» ha effettuato un richiamo espresso ai delitti in discorso, vale a dire omicidio stradale e analoghe lesioni personali stradali gravi e gravissime in ragione del profilo soggettivo in quanto quello edittale
risulta ugualmente soddisfatto («la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni») e
non avrebbe richiesto l’espresso richiamo agli artt. 589-bis e 590-bis c.p.
Sul piano operativo occorre distinguere il caso in cui venga prestato il consenso oppure no.
In questa prima ipotesi l’interessato verrà sottoposto a prelievo senza l’osservanza delle garanzie previste
dall’art. 224-bis c.p.p. con il solo limite previsto dall’art. 5 c.c. il quale vieta trattamenti che importano una diminuzione permanente dell’integrità fisica o psichica lesivi della dignità della persona. Un modo di procedere
siffatto in realtà espone a rischi di contrasto con il principio di tassatività posto dall’art. 13, comma 2, Cost.
secondo la ben nota precisazione ad alto valore sintomatico della declaratoria di incostituzionalità per violazione dei parametri del predetto art. 13, comma 2, Cost. dell’art. 224, comma 2, effettuata da Corte cost., n.
238 del 1996. Tanto che non appare peregrina la soluzione di adottare dei protocolli operativi i quali, se da un
lato, consentirebbero di creare delle linee guida rispettose dei parametri costituzionali, dall’altro, tenderebbero ad escludere accertamenti medici non tassativamente previsti e nemmeno prevedibili ex ante in modo
particolareggiato. Sotto questo profilo appare di non poco momento la circolare n. 300/A/2251/16/124/268
emanata dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza il 25 marzo 2016, giorno di entrata in vigore della legge n.
41 del 2016.
Non si trascuri, inoltre, che il ricorso allo strumento della perizia coattiva costituisce l’extrema ratio alla
quale ricorrere quando non si possa pervenire diversamente all’accertamento in assenza di consenso, tanto
che l’ordinanza del giudice dovrà essere particolarmente esaustiva sul punto, poiché il rischio è quello di
ricadere in un vacuo formalismo confinato al dato normativo senza riflessi sulla sfera operativa.
I punti dell’ordinanza che presentano profili problematici anche in ragione della sanzione prevista, vale a
dire la nullità, sono costituiti da quelli indicati nelle lett. d) ed f) del comma 2.
Il primo attiene all’avviso di farsi assistere da difensore o persone di fiducia che pare non lasciare spazio
ad un collegio costituito dal difensore, il quale possa vigilare sul rispetto delle garanzie, e un medico che si
occupi della “supervisione” specialistica. L’utilizzo della disgiuntiva “o” impone una scelta tra una delle due
figure professionali. Previsione questa sicuramente singolare in relazione alla figura dell’imputato il quale
deve necessariamente essere assistito da un difensore.
Quanto alla lett. f), che disciplina le modalità di compimento delle operazioni, la previsione del legislatore
intende rimettere al giudice la determinazione delle modalità di compimento della perizia coattiva, ovviando
così alla possibile violazione del principio di tassatività imposto dall’art. 13 Cost.
4. Passando all’art. 359-bis c.p.p., con il comma 3-bis il legislatore è intervenuto specificamente in riferimento ai due delitti in discorso. L’accertamento mediante prelievo coattivo dei campioni si fonda sempre
sull’assenza del consenso del conducente a sottoporsi agli accertamenti relativi allo stato di ebbrezza alcoolica o di alterazione correlata all’uso di sostanze stupefacenti disciplinata dagli artt. 186-bis e 187 D.lg. n.
Dibattiti / Focus
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Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
285 del 1992, rispettivamente con etilometro o presso i presidi ospedalieri, ed attiene esclusivamente ad una
situazione di urgenza unitamente al grave ed irreparabile pregiudizio per le indagini tali da legittimare un
provvedimento orale da parte del p.m., da confermare successivamente per iscritto, che si tratti di situazione
d’urgenza è esplicitata nello sviluppo della norma che è molto chiara nello specificare l’oggetto dell’accertamento costituito da prelievo o accertamento finalizzato a verificare se sussistono le condizioni per ritenere la
guida in stato di ebbrezza alcoolica o alterata dall’uso di sostanze stupefacenti. Il difensore è avvisato, ma per
garantire la sua presenza non possono essere rallentate le operazioni. Il decreto dovrà essere convalidato dal
g.i.p. nelle quarantotto ore successive alla sua trasmissione (che deve anch’essa avvenire nel termine massimo
di quarantotto ore) da parte del p.m.
L’attuale art. 359-bis delinea due tipologie di accertamenti: quelli che trovano la loro matrice negli obiettivi
perseguiti dal Trattato di Prüm e quelli finalizzati agli accertamenti per i delitti in esame che muovono dalla
necessità di dimostrare la colpa specifica ed in riferimento ai quali opera il comma 3-bis ove è necessario un
preciso riscontro di natura tecnica per la configurabilità delle contravvenzioni di cui agli artt. 186 e 187 D.Lg.
n. 285 del 1992 e, in relazione ai delitti in esame, all’aggravante.
Circa le possibili interferenze tra l’art. 359-bis e gli accertamenti previsti dall’art. 187, comma 2, in effetti
l’accertamento di cui l’art. 359-bis si pone in chiave ancillare o preliminare rispetto ad accertamenti più ampi
rimessi alla valutazione del p.m., tanto che sarebbe più corretto ricondurre l’attività effettuata ex art. 187,
comma 2, al genus rilievi, secondo i paradigmi modulari dell’art. 354 c.p.p., non essendo posta in essere alcuna attività valutativa la quale, invece, costituisce il presupposto per quella che caratterizza gli artt. 359-360
c.p.p. i quali, a loro volta, si differenziano nelle varie declinazioni (species) dell’istituto.
Concludendo queste riflessioni “sparse”, il legislatore ha coniato due figure criminose che si fondano su
specifiche condizioni fisiche del conducente del veicolo, omettendo, però, di disciplinare compiutamente e
in modo sistematicamente corretto gli strumenti indispensabili per il loro accertamento.
L’arresto in flagranza in ordine ai nuovi reati di
omicidio stradale e lesioni stradali gravi o gravissime
di
Katia La Regina
(Professore Associato di Diritto Processuale Penale nell’Università Giustino Fortunato di Benevento)
322
La legge 23 marzo 2016, n. 41, confermando la tendenza alla massimizzazione dello strumento precautelare per finalità deterrenti e di accelerazione dei tempi della giustizia, arricchisce il catalogo delle ipotesi di
arresto in flagranza di due ulteriori previsioni. Da un lato, si procede alla dilatazione dell’area della restrizione
obbligatoria attraverso l’inserimento di una nuova lett. m-quater nell’art. 380 c.p.p. che, in aperta contraddizione con la prescrizione volta a circoscrivere l’operatività dell’istituto ai «delitti non colposi» (art. 380, comma
2, primo periodo, c.p.p.), impone l’arresto di chiunque sia colto in flagranza del «delitto di omicidio colposo
stradale» aggravato a norma dell’art. 589 bis, comma 2 e 3, c.p. La presunzione juris et de jure di doverosità
dell’intervento restrittivo viene meno, invece, rispetto all’ipotesi base di omicidio stradale (art. 589 bis, comma
1, c.p.). Se la relativa pena edittale – fissata in sette anni nel massimo – veicola tale ultima fattispecie nel perimetro di operatività dell’arresto facoltativo (art. 381, comma 1, c.p.p.), l’inclusione nel catalogo contemplato
dall’art. 381 c.p.p. è espressa in relazione alle ipotesi di lesioni colpose stradali gravi o gravissime (art. 590
bis, comma 2, 3, 4 e 5, c.p.) attraverso l’inserimento di una nuova lett. m-quinquies. Infine, e non nel corpo di
quest’ultima norma, bensì nell’art. 189, comma 8, cod. strada, è introdotta una modifica alle condizioni legittimanti l’arresto per il reato di lesioni stradali colpose, che risulta inibito nei casi in cui il conducente «si fermi
e, occorrendo, presti assistenza a coloro che hanno subito danni alla persona, mettendosi immediatamente a
disposizione degli organi di polizia giudiziaria».
In quest’ultima previsione, e negli incerti confini dei concetti di «assistenza» e «messa a disposizione», è
più evidente il rischio, peraltro percepibile in relazione a tutto questo segmento della novella, di profonde
incertezze operative. A dispetto di una formulazione letterale che sembra suggerire un automatico effetto
inibitorio scaturente dai comportamenti attivi di assistenza e di collaborazione posti in essere dall’autore del
reato, resta del tutto indeterminato il livello di “attivazione” suscettibile di precludere l’intervento restrittivo,
aprendosi pericolosamente un varco per l’offuscamento del confine tra la discrezionalità tecnica, che inesorabilmente guiderà la qualificazione delle condotte a valenza preclusiva, e la disparità di trattamento, tanto
più inammissibile laddove attinga un diritto inviolabile quale è quello alla libertà personale. Sembra, dunque,
logico attendersi un correlativo incremento di ricorsi per cassazione volti a far valere l’illegittimità di un arresto operato pur in presenza di condotte che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, avrebbero
potuto invece ritenersi ostative della restrizione precautelare.
Questo orizzonte, peraltro, non sembra aprirsi solo in relazione ai reati di lesioni stradali colpose. Invero,
tenendo a mente l’espresso riferimento operato solo nei confronti di tale ultima fattispecie, l’unica ipotesi di
omicidio stradale che consente l’arresto facoltativo (art. 589 bis, comma 1, c.p.), resta apparentemente impermeabile alle condotte ostative alla restrizione contemplate dal codice della strada. Tuttavia, non pare affatto
potersi escludere la loro rilevanza, dapprima, all’interno della cornice disegnata dall’art. 381, comma 4, c.p.p.
per fissare i due indici di riferimento in cui prende corpo la discrezionalità dell’arresto, ovvero la gravità del
fatto e la pericolosità del soggetto e, successivamente, nella rivalutazione della vicenda precautelare condotta
dal giudice della convalida ai sensi dell’art. 391 c.p.p.
Che le lesioni stradali colpose presentino, quantomeno da un punto di vista tecnico, i maggiori margini
di ambiguità della novella è testimoniato anche dalle preoccupazioni, espresse nitidamente nelle linee guida
predisposte da alcune Procure della Repubblica per l’applicazione della legge 41/2016, circa la profonda
difficoltà di determinare l’entità delle lesioni ai fini della necessaria verifica, nell’immediatezza del fatto, della sussistenza delle condizioni legittimanti l’arresto di cui all’art. 381, comma 2, lett. m-quinquies c.p.p. Dal
punto di vista operativo, alcuni documenti suggeriscono di intraprendere percorsi prudenziali, incentrati sulla
previa consultazione del p.m. di turno in merito alla ricorrenza delle condizioni per procedere alla restrizione
precautelare; altri, invece, contengono direttive volte, oltre che all’acquisizione di tutti i dati rilevanti presso il
personale sanitario, alla tempestiva esecuzione di accertamenti tecnici ex artt. 359 o 360 c.p.p., previa acquisizione della cartella clinica e della documentazione sanitaria completa. E in questo modo riappare lo spettro
– che si auspica, tuttavia, superato dall’intervento delle Sezioni unite in materia di quasi flagranza - dell’attività investigativa operata senza soluzione di continuità e preordinata ad un arresto che soltanto un’ottica
davvero poco attenta alle garanzie individuali è capace di considerare come avvenuto in stato di flagranza.
Ove si procedesse allo svolgimento di una più o meno articolata attività investigativa volta alla qualificazione
della entità delle lesioni questa si tradurrebbe in una attività di accertamento del reato che è giuridicamente
incompatibile con i confini concettuali disegnati per lo stato di flagranza dall’art. 382 c.p.p.; un perimetro –
tracciato a monte dagli artt. 13, comma 3, Cost. e 27, comma 2, Cost. – in cui assumono rilievo solo situazioni
dalla evidenza probatoria così elevata da legittimare una restrizione della libertà personale in assenza di
previe investigazioni. Ne deriva che le uniche lesioni stradali capaci di legittimare l’arresto in flagranza sono
quelle che, ictu oculi, si manifestino all’operante come gravi o gravissime.
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Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
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Vi è da chiedersi, tuttavia, quale incidenza possiedano, in sede di udienza di convalida, gli esiti degli
accertamenti sull’entità effettiva delle lesioni al momento del fatto, che vengano espletati nel periodo che
intercorre tra l’arresto e la verifica di legittimità espletata ai sensi dell’art. 391 c.p.p. L’interrogativo – che
investe principalmente i casi in cui un successivo approfondimento clinico sconfessi la gravità delle lesioni
- scaturisce considerando il profondo contrasto che si registra in giurisprudenza in ordine al tema dei poteri
del giudice della convalida e, prima ancora, in ordine alle caratteristiche del relativo giudizio; l’impostazione
più riduttiva, infatti, risolve il controllo giudiziale in una mera verifica ex ante dell’operato di p.g., condotta
tenendo conto solo della situazione da essa conosciuta - o comunque conoscibile con l’ordinaria diligenza al momento dell’arresto, senza che su tale verifica possano influire conoscenze successive acquisite aliunde;
nell’altra, invece, assumono rilievo tutti gli elementi, compresi quelli emersi successivamente e, dunque, non
noti o non conoscibili ma in ogni caso valutabili in forza di un controllo operato ex post.
A favore di tale ultima prospettiva, a ben vedere, depongono una serie di indicazioni che si possono trarre
dall’analisi complessiva del sistema precautelare; questo, infatti, consente di scorgere la sussistenza di spazi
per riconoscere al giudice un potere di rivalutazione della situazione storico-fattuale alla luce di conoscenze
emerse ex post e, dunque, per affermare – anche in un’ottica di impugnazione – che il g.i.p. sia tenuto a considerare la legittimità dell’arresto anche sulla scorta dei contributi offerti in occasione dell’udienza.
La prima ragione che può essere posta a sostegno dell’assunto da ultimo prospettato è rinvenibile tra le
maglie di una disposizione che impone di tener conto dei fattori emersi successivamente all’arresto, ai fini
della valutazione della legittimità del provvedimento provvisorio. Il riferimento attiene all’art. 389 c.p.p., ovvero ad una norma che impone al p.m. o all’ufficiale di p.g. di disporre l’immediata liberazione della persona
laddove, a seguito dello sviluppo delle indagini o piuttosto dell’interrogatorio effettuato ai sensi dell’art. 388
c.p.p., risulti «evidente che l’arresto o il fermo è stato eseguito per errore di persona o fuori dai casi previsti
dalla legge». Orbene, se nel periodo intercorrente tra l’adozione della misura precautelare e la richiesta di
convalida della medesima gli organi inquirenti possono valutare quegli elementi da cui emerga che il fatto va
ricompreso sotto un titolo di reato che non consente l’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà
personale, analoga prerogativa deve essere riconosciuta al giudice perché non sussistono ragioni per operare un trattamento differenziato di conoscenze afferenti alla medesima situazione storico-fattuale a seconda
dell’organo chiamato ad effettuare la relativa valutazione ma soprattutto perché non sembra concepibile che
il sistema preordinato al controllo giurisdizionale dell’esercizio di un potere provvisorio ed eccezionale (art.
13, comma 3, Cost.) tolleri che il giudice abbia poteri più circoscritti rispetto ad organi che hanno operato in
sua sostituzione. Senza contare, poi, che accedere all’interpretazione più restrittiva significa anche privare una
persona posta illegittimamente in vinculis della possibilità di far valere il suo diritto alla eventuale riparazione
per ingiusta detenzione.
In secondo luogo, rileva il significato attribuibile alle deviazioni della disciplina prospettata per l’udienza
di convalida rispetto all’archetipo camerale di cui all’art. 127 c.p.p. Si deve considerare, infatti, che, rispetto
ad un ordinario procedimento in camera di consiglio e in ragione della delicatezza degli interessi coinvolti,
l’istituto in esame risulta chiaramente ispirato alla regola dell’incremento delle occasioni offerte all’interessato
per garantire alla difesa la possibilità di influire concretamente sulle decisioni che il giudice può adottare ai
sensi dell’art. 391 c.p.p. Ebbene, secondo l’indirizzo che qualifica la convalida come giudizio ex ante, laddove
dall’interrogatorio della persona arrestata o fermata, dall’audizione del difensore o, ancora, dalla documentazione prodotta in udienza, emergessero fattori ulteriori e diversi da quelli riconducibili alla situazione di osservazione e di intervento della polizia giudiziaria, questo compendio di elementi potrebbe essere impiegato
dal giudice solo per l’ulteriore pronuncia sullo status libertatis. Una simile differenziazione, tuttavia, finirebbe
per compromettere l’essenza di un meccanismo che, sebbene presenti connotati di notevole peculiarità rispetto al processo di merito, è comunque chiaramente improntato al rispetto del principio del contraddittorio,
Dibattiti / Focus
inteso nella sua accezione più ampia e generale, di garanzia che la decisione del giudice sia emanata audita
altera parte. Se, dunque, fosse imposta l’esclusione dei predetti elementi dal materiale valutabile ai fini del
riscontro della legittimità della misura precautelare, si opererebbe una compressione delle occasioni offerte
all’interessato, perché il materiale suscettibile di essere immesso all’interno dei canali chiaramente preordinati
alla tutela del diritto di difesa, sarebbe destinato a rimanere ininfluente almeno ai fini delle determinazioni
inerenti la materia precautelare. Questa conclusione, tuttavia, non pare sostenibile, perché se il legislatore ha
scelto di innestare il controllo sulla legittimità dell’operato della polizia giudiziaria e del pubblico ministero
all’interno di un congegno in cui la partecipazione della difesa è imposta a pena di nullità assoluta e, dunque, all’interno di un meccanismo che può essere qualificato come un modello camerale a contraddittorio
necessario, ciò ha fatto in quanto l’importanza degli interessi coinvolti impone che il supporto logico di tutte
le determinazioni che possono essere adottate ai sensi dell’art. 391 c.p.p. sia costituito anche dai contributi
orali e documentali della difesa, indipendentemente dal fatto che la decisione sia relativa alla convalida o
all’applicazione di una misura cautelare.
Le linee guida sull’applicazione delle norme relative
all’omicidio stradale nelle circolari adottate dagli
uffici di Procura
di
Eugenio Albamonte
La legge n. 41 del 2016, che ha tipizzato il reato di omicidio stradale, contiene una normazione di dettaglio
particolarmente analitica e complessa, tanto da rendere difficile, se non dopo un attento studio, la ricostruzione del quadro d’insieme e la focalizzazione delle singole fattispecie e sottofattispecie introdotte.
La necessità di darne applicazione fin dalle prime fasi dell’accertamento del reato ha imposto, a numerose
Procure della Repubblica, di adottare direttive e linee guida, rivolte alla polizia giudiziaria, finalizzate da un
lato a diffondere una conoscenza ragionata delle nuove norme e, dall’altro, ad indirizzare nuove prassi relative alla fase dell’acquisizione della notizia di reato e dell’adozione dei provvedimenti urgenti, da assumere
nell’immediatezza dell’accadimento dei fatti.
Alcuni di questi atti, che costituiscono espressione del potere di direzione, esercitato sulla polizia giudiziaria dai Procuratori della Repubblica, sono noti ai giuristi ed agli operatori per essere stati pubblicati su
numerosi siti internet e riviste giuridiche.
La loro lettura è certamente utile per focalizzare i principali problemi interpretativi ed applicativi offerti
dalla novella legislativa.
Una prima questione che viene in evidenza è costituita del doppio binario creato dalla legge, nella parte
in cui distingue tra lesioni colpose lievi, che continuano ad essere disciplinate dall’art. 590 c.p., e lesioni gravi
e gravissime che, qualora cagionate con violazione delle norme sulla circolazione stradale, ricadono nella
nuova ipotesi di reato prevista dall’art. 590 bis c.p.
Infatti le prime ipotesi rimangono procedibili a querela e sottoposte alla competenza penale del Giudice di
Dibattiti / Focus
(Sostituto Procuratore - Tribunale Roma)
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Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
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Pace, mentre le seconde sono procedibili d’ufficio e rimesse al Tribunale penale in composizione monocratica.
Da tale distinzione consegue inoltre l’applicabilità di ulteriori istituti, che incidono significativamente sulla libertà personale, quali l’arresto facoltativo in flagranza e la sottoposizione ad accertamenti, anche coattivi, sullo stato
di alterazione del responsabile dell’evento; misure previste per le ipotesi più gravi ma non per le lesioni lievi.
In buona sostanza si tratta di due regimi completamente differenti, che prevedono un diverso livello di
incisività dell’azione di polizia sulla persona ritenuta responsabile e sulle sue libertà fondamentali.
Il problema nasce dal fatto che la qualificazione della gravità della lesione personale inflitta non è sempre
di immediata valutazione, atteso che da un lato le prognosi anticipate dai sanitari nell’immediatezza sono
sempre suscettibili di prolungamento e, dall’altro, non sempre le situazioni che ad un primo esame impongono di riservare la prognosi si risolvono in lesioni successivamente certificabili come gravi o gravissime.
Di modo che il presupposto di fondo, al quale la legge riconosce valore determinante per riconnettervi, sin
dai primi momenti, trattamenti estremamente differenziati nei confronti degli autori, spesso risulta non chiaramente individuabile; con la conseguenza di esporre i ritenuti responsabili a trattamenti ingiustificati o per
eccesso o per difetto di rigore nell’assunzione delle immediate determinazioni.
Sul punto, alcune delle circolari rese note consigliano la polizia giudiziaria, in caso di impossibilità nell’immediatezza di poter fondare il giudizio su una prognosi definitiva (ad esempio in caso di prognosi riservata)
di parametrare l’azione in ragione di una prognosi finale che non potrà che essere almeno attestata sulla
soglia della gravità. Tale accorgimento, se da un lato sollecita al massimo rigore nella rilevazione delle tracce
del sinistro, in vista di un possibile giudizio attivato dalla procedibilità d’ufficio, potrebbe d’altro canto determinare l’adozione di misure coattive che, all’esito, potrebbero rivelarsi destituite di fondamento giuridicofattuale oltre ad essere indebitamente incisive delle libertà fondamentali.
Altro tema mai eluso, tra quelli oggetto delle direttive impartite dalle Procure, è quello della sottoposizione coattiva, del responsabile del sinistro, al prelievo ematico previsto dal combinato disposto degli artt. 359
bis co. 3° bis c.p.p. e 224 bis co. 1° c.p.p.
Il tema dell’accertamento mediante prelievo ed analisi ematica è centrale nel nuovo assetto normativo,
che sanziona con estrema severità le condotte di omicidio stradale e di lesioni gravi e gravissime quando gli
eventi siano determinati da conducente che si sia posto alla guida in condizioni di alterazione psicofisica, determinata da abuso di alcool o assunzione di stupefacenti. Peraltro, la previsione dell’arresto, rispettivamente
obbligatorio o facoltativo, impone che una verifica attendibile dello stato del guidatore venga fatta nell’immediatezza, anche quando il soggetto non vi si sottoponga spontaneamente. Di qui la norma di cui all’art.
359 bis con 3° bis c.p.p. che, con le garanzie di un controllo giudiziario successivo, consente alla polizia su
disposizione – anche verbale – del pubblico ministero, di sottoporre coattivamente l’indiziato di reato agli
accertamenti previsti dall’art. 224 bis c.p.p.
In questo caso il problema interpretativo è costituito dal fatto che l’art. 224 bis c.p.p., non modificato dalla
legge in esame, prevede la possibilità di disporre coattivamente “il prelievo di capelli, di peli o di mucosa del
cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA o accertamenti medici” e non
fa alcun riferimento alla possibilità di sottoporre a prelievo coattivo di sangue per l’accertamento relativo
allo stato di alterazione psichica. Si tratterebbe quindi di un accertamento diverso da quelli esplicitamente
consentiti e per una finalità non contemplata dalla norma.
Ovviamente l’approccio interpretativo offre spunti per le opposte soluzioni; secondo alcuni orientamenti
gli accertamenti consentiti non sarebbero soltanto quelli tipizzati, che costituirebbero quindi una elencazione
non tassativa ma esemplificatica. Per altro verso il prelievo ematico sarebbe sussumibile nella categoria più
ampia degli “accertamenti medici”; in ogni caso l’introduzione dell’art. 359 bis con 3° bis c.p.p. che esplicitamente parla di prelievi e richiama l’art. 224 bis c.p.p. sarebbe rassicurante sulla univoca intenzione del
legislatore di consentire proprio tali forme invasive di accertamento.
In senso opposto si può agevolmente sostenere che il tema dei prelievi ematici coattivi non era certo nuovo, avendo costituito oggetto di più pronunce della Corte Costituzionale e che in tema di diritto all’inviolabilità della persona, proprio la Costituzione impone un intervento legislativo dai contenuti univoci e tassativi.
A fronte di tale incertezza interpretativa appare eccessivamente affrettata, in assenza di pronunciamenti
giurisprudenziali, l’indicazione data da alcune Procure circa la sicura possibilità che la polizia giudiziaria
proceda agli accertamenti coattivi. È peraltro comprensibile il tentativo di evitare la frustrazione dell’intero
impianto sanzionatorio di nuova introduzione, ma a fronte di interventi così invasivi delle libertà personali
sarebbe stato davvero indispensabile una maggiore attenzione del legislatore che oggi appare difficilmente
surrogabile dall’attività di direzione delle indagini affidata alle Procure.
Ultimo tra i temi di maggior rilievo, che vengono trattati negli atti di direttiva alla polizia giudiziaria, è
quello dell’arresto. Infatti la nuova normativa ha previsto alcuni casi di arresto obbligatorio, limitati alle ipotesi di omicidio stradale in grave stato di alterazione psichica da assunzione di stupefacenti (art. 187 C.d.S.) o di
alcool in percentuale superiore all’1,5 ed allo 0,8 per i conducenti professionali (artt. 186 co. 2° lett. c) e 186
bis co. 1° lett. b), c) e d)) ai sensi dell’art. 380, 2° co. lett. m-quater) mentre l’arresto facoltativo è consentito
in tutti gli altri casi di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi o gravissime.
La scelta del legislatore è opportunamente temperata dalle direttive impartite dagli uffici requirenti che
sembrano, in modo pressoché unanime, voler ritenere l’arresto una estrema ratio e, sostanzialmente, limitarlo
ai soli casi in cui è previsto come obbligatorio. A tale risultato si giunge attraverso l’interpretazione congiunta
dell’art. 381 co. 2° lett. m-quinquies) e dell’art. 189 co. 8° C.d.S. che esclude sia soggetto all’arresto il conducente che si fermi, ed occorrendo, presti assistenza a coloro che hanno subito danni alla persona; per tal via
limitando la misura pre cautelare ai soli casi di fuga dopo il sinistro stradale. Per tali casi, peraltro, si ritiene
anche che la presentazione spontanea del conducente che si è dato alla fuga entro le 24 ora successive possa
essere valutata come elemento che interferisce positivamente sui presupposti dell’arresto facoltativo, incidendo sicuramente sulla valutazione circa la gravità del fatto e la pericolosità del suo autore.
Non può non essere rilevata anche l’assoluta difficoltà, soprattutto nell’immediatezza dei fatti, di sostanziare in modo attendibile la riscontrata violazione delle regole del codice della strada che riportano la condotta
lesiva o omicidiaria nell’ambito delle fattispecie in esame, quali l’eccesso di velocità, il passaggio con semaforo rosso, le violazioni in materia di sorpasso o inversione di marcia. Tali violazioni spesso sono dimostrabili
solo all’esito di complicate ricostruzioni tecniche della dinamica del sinistro, che nella maggior parte dei casi
non sono compatibili con i tempi di delibazione circa la sussistenza dei presupposti per l’arresto. Peraltro,
all’indomani delle restrizioni giurisprudenziali operate in tema di constatazione della flagranza dalla più recente giurisprudenza di legittimità, sembra potersi ritenere che, salva l’ipotesi della quasi flagranza, l’arresto
possa essere operato solo dal personale di polizia che, per fatalità, abbia assistito direttamente all’incidente.
All’esito di questa breve carrellata di temi aperti e problematici non si può non evidenziare come le direttive impartite dagli uffici di Procura alla polizia giudiziaria si assumono, a prescindere dalle scelte volta per volta suggerite, l’onere meritorio di orientare e rendere omogeneo l’ampio spazio di discrezionalità che la legge
ha attribuito a quanti operino nell’immediatezza del fatto, per accertarne i profili rilevanti; discrezionalità che,
come abbiamo visto, può potenzialmente risolversi in apprezzabili compressioni delle libertà fondamentali.
Sembra allora che un intervento legislativo animato dalla sfiducia per la giurisdizione, additata per aver
sempre assunto un atteggiamento lassista nella commisurazione delle sanzioni realmente inflitte alle condotte
illecite in esame, abbia operato un trasferimento improprio ed affrettato di rilevanti momenti di discrezionalità nella valutazione dei fatti a sedi ed articolazioni molto meno qualificate e necessariamente sfornite di ogni
contraddittorio, così aprendo spazi a disparità di trattamento ed a compressioni delle libertà personali non
supportate da valutazioni adeguate.
Dibattiti / Focus
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Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
Prime perplessità in tema di omicidio stradale
di
Gregorio Equizi
(Avvocato del Foro di L’Aquila)
1. Agli occhi del “difensore” il prodotto normativo frutto della Legge n. 41 del 23 marzo 2016 è destinato a sollevare problemi interpretativi dalla rilevante ricaduta applicativa in relazione al nuovo reato di “Omicidio stradale”.
Oltre ai dubbi di costituzionalità quanto al rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità del
trattamento sanzionatorio riservato alle ipotesi aggravate di cui ai commi da 2 a 6 dell’art. 589 bis c.p.,9 emergono difetti di coordinamento tra il novellato testo dell’art. 589 c.p. (epurato di ogni riferimento alla colpa
specifica per violazione delle norme sulla circolazione stradale)10 e quello dei commi 1 e 7 dell’art. 589 bis.
Infatti, per effetto della riforma, l’omicidio stradale è ora configurato dal legislatore come un reato autonomo:
tra le fattispecie incriminatrici previste dagli artt. 589 e 589 bis c.p. intercorre un rapporto di genere a specie.
La specialità è data dal fatto che per ricadere nell’ambito di applicabilità dell’art. 589 bis il “legame colposo” tra la condotta del soggetto agente e la morte (non voluta) deve passare attraverso “la violazione delle
norme sulla disciplina della circolazione stradale”: è la “specificità” della colpa a rendere l’omicidio stradale
speciale rispetto all’omicidio colposo.11
Inoltre, la soppressione dei riferimenti “stradali” in precedenza contenuti nell’art. 589 c.p. ha determinato
il fenomeno dell’abrogatio sine abolitio: tra le due norme vi è continuità normativa e dunque, rispetto ai fatti
commessi prima del 25 marzo 2016, troverà applicazione quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo
(ex art. 2, comma 4, c.p.).
In ogni caso, nell’ipotesi di omicidio colposo commesso da un utente della strada per colpa generica
(ovvero senza la contestuale violazione della specifica disciplina sulla circolazione stradale), in forza del divieto di analogia in malam partem e del correlato principio di tassatività, dovrebbe trovare applicazione la
norma generale di cui al primo comma dell’art. 589 c.p. che prevede una pena da sei mesi a cinque anni di
reclusione.12
9
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“Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, l’individuazione delle condotte punibili e la configurazione del relativo trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalità legislativa, il cui esercizio non può formare oggetto di sindacato, sul piano della
legittimità costituzionale, salvo che si traduca in scelte manifestamente irragionevoli o arbitrarie (ex multis: sentenze n. 68 del 2012,
n. 47 del 2010, n. 161 del 2009, n. 22 del 2007 e n. 394 del 2006)” – così Corte Cost. Sent. n. 185/2015. Inoltre, come noto, l’art. 49
comma 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (recepita dal Trattato di Lisbona di cui è parte integrante) stabilisce
che “Le pene non devono essere sproporzionate rispetto al reato”. Per toccare con mano la mancanza di proporzione tra fatto colposo e
sanzione basti pensare che la pena della reclusione da 8 a 12 anni prevista dal comma 2 dell’art. 589 bis (suscettibile di aumento nelle
ipotesi pluriaggravate di cui ai comma 6 ed 8 dello stesso articolo, con il mite massimo di anni 18) si inserisce in un sistema di legalità
nel quale delitti (a base dolosa) di competenza della Corte di Assise quali l’Omicidio preterintenzionale (584 c.p.) o l’Abbandono di
persone minori o incapaci se dal fatto deriva la morte (art. 591, comma 3, c.p.) sono, rispettivamente, puniti con la reclusione da 10
a 18 anni e da 3 ad 8.
10
Stando alla legge n. 41 del 2016 (art. 1, comma 3 lett. c e d): “all’articolo 589, secondo comma, le parole: «sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle» sono soppresse”; mentre il “il terzo comma è abrogato”.
11
Per una sintetica quanto completa analisi dei temi sottesi all’interpretazione ed all’applicazione del reato di omicidio c.d. stradale,
cfr. Montagni, Omicidio o lesioni in caso di sinistro stradale in Libro dell’anno del Diritto 2016 Treccani, in http://www.treccani.it/
enciclopedia/omicidio-o-lesioni-in-caso-di-sinistro-stradale_(Il-Libro-dell’anno-del-Diritto)/
12
La scelta interpretativa proposta non trova il conforto delle “Linee guida” emanate da alcune Procure della Repubblica per fornire
indicazioni operative che, però, sottendono scelte interpretative discrezionali, ad avviso di chi scrive, non aderenti al dato letterale
Dibattiti / Focus
di riferimento. Più precisamente, nella circolare n. 5 del 2016 emanata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trento
si legge: “L’addebito di colpa generica.- La formulazione della norma [“chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con
violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale”] presenta qualche dubbio interpretativo, che va sciolto per quanto
possibile. Risulta infatti totalmente dimenticata la colpa generica [imperizia, negligenza, imprudenza] che, pure, in astratto potrebbe
caratterizzare l’atteggiamento psicologico del responsabile, spesso unitamente a profili di colpa specifica [appunto integrata dalla violazione di determinate norme sulla disciplina della circolazione stradale]. Si impone allora ricercare una soluzione interpretativa che
eviti perplessità applicative in punto di compiutezza della contestazione. Tale soluzione ci sembra possa essere trovata ritenendo che,
nonostante l’infelice formulazione della norma, i profili di colpa generica possano ricomprendersi nel riferimento ampio all’avere
il soggetto cagionato la morte ‘per colpa’” (http://www.procuratrento.it/allegatinews/A_10259.pdf); diversamente, secondo le linee
guida della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere: “Il reato può essere commesso da chiunque viola
le norme che disciplinano la circolazione stradale, che sono costituite da quelle del codice della strada e delle relative disposizioni
complementari. In virtù di tale previsione, il reato ricorre in tutti di casi di omicidio che si sono consumati sulle strade, come definite
dall’art. 2 comma 1 c.d.s., anche se il responsabile non è un conducente di veicolo. Infatti, le norme del codice della strada disciplinano anche comportamenti posti a tutela della sicurezza stradale relativi alla manutenzione e costruzione delle strade e dei veicoli.”
(cfr. Omicidio Stradale e lesioni personali stradali: le linee guida delle Procure di Santa Maria Capua Vetere, Sondrio e Macerata, in
www.dirittopenalecontemporaneo.it). In altri termini, le predette indicazioni dimenticano di considerare le specifiche modalità della
condotta tipizzate dall’art. 589 bis; le quali vengono degradate nel primo caso a colpa generica e nel secondo al luogo di consumazione del reato (“sulle strade”). Senonché, non si può condividere che sia l’interprete (anche laddove animato dal solo fine di fare
“giustizia”) a colmare lacune normative o dimenticanze del legislatore così di fatto allontanandosi dai canoni ermeneutici imposti
dal diritto positivo (Sul tema dei limiti morali imposti al diritto penale, cfr. Brunelli, “Divagazioni sulle ‘dimensioni parallele’ della
responsabilità penale, tra ansie di giustizia, spinte moralistiche e colpevolezza normativa”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it).
13
Come esempio emblematico di norma di comportamento “elastica” si può citare l’art. 141, comma 1, Codice della Strada secondo il
quale: “È obbligo del conducente regolare la velocità del veicolo in modo che, avuto riguardo alle caratteristiche, allo stato ed al carico
del veicolo stesso, alle caratteristiche e alle condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra circostanza di qualsiasi natura, sia
evitato ogni pericolo per la sicurezza delle persone e delle cose ed ogni altra causa di disordine per la circolazione”. Sul punto, è bene
ricordare che anche in materia di circolazione stradale vige il principio di affidamento (corollario di quello del c.d. rischio consentito) che, in relazione al generale obbligo di moderare la velocità ex art. 141 C.d.S., porta ad escluderne una lettura tanto estrema da
enucleare in capo al conducente “l’obbligo generale di prevedere e governare sempre e comunque il rischio da altrui attività illecita”.
Infatti, continua la Suprema Corte: “vi sono aspetti della circolazione stradale che per forza implicano un razionale affidamento: di
fronte ad una strada il cui senso di marcia sia regolato non si può pretendere che l’automobilista si paralizzi nel timore che alcuno
possa non attenersi a tele disciplina. Insomma, un’istanza di sensatezza del sistema e di equità induce con immediatezza a cogliere
che il principio di affidamento debba essere in qualche guisa riconosciuto nell’ambito nell’ambito della circolazione stradale. La
soluzione contraria non solo sarebbe irrealistica, ma condurrebbe a risultati non conformi al principio di personalità della responsabilità, prescrivendo obblighi talvolta inesigibili e votando l’utente della strada al destino del colpevole per definizione o, se si vuole,
del capro espiatorio” (così, Cass. Sez. IV, ud. 9.1.15 - dep. 24.3.15, n. 12260).
Dibattiti / Focus
Tuttavia, tale ipotesi, sembra difficilmente verificabile sul piano pratico.
Infatti, da un lato, bisogna considerare che l’art. 140 Codice della Strada detta il “Principio informatore
della circolazione” stando al quale “Gli utenti della strada devono comportarsi in modo da non costituire
pericolo o intralcio per la circolazione ed in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale”.
Pertanto, soprattutto rispetto alla categoria dell’imprudenza, è difficile immaginare condotte colpose che non
determino anche la violazione dell’obbligo di salvaguardia della sicurezza stradale.
Dall’altro, l’esperienza maturata sulla strada giudiziaria dimostra che, di fronte ad un caso di sinistro
stradale con esito mortale, si assiste, all’interno del procedimento penale, alla riproduzione di schemi di ragionamento (in punto di imputazione oggettiva e soggettiva dell’evento) in qualche modo contaminati dalle
presunzioni e dalle regole probatorie dettate dall’art. 2054 c.c.
In altre parole, nella fase delle indagini preliminari e talvolta anche in quella dell’udienza preliminare,
sembra incombere una inconscia presunzione di “responsabilità” dei soggetti coinvolti nel sinistro mortale
che spesso conduce ad enfatizzare la rilevanza causale di regole di condotta elastiche.13
2. Tornando alla legge n. 41 del 2016, merita di essere segnalata la circostanza attenuante ad effetto speciale prevista dal comma 7 dell’art. 589 bis, stando alla quale: “Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti, qua-
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Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
lora l’evento non sia di esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole, la pena è diminuita
fino alla metà”.14
La norma rappresenta una concreta applicazione del principio generale sul concorso di cause dettato
dall’art. 41, comma 1, c.p.; al tempo stesso introduce, però, una deroga sia rispetto alla disciplina dell’attenuante comune di cui al n. 5 dell’art. 62 (il fatto doloso della persona offesa che concorre a determinare l’evento), sia rispetto al principio di equivalenza causale che, in presenza di una pluralità di cause concorrenti,
non consente di discostarsi dalla pena edittale prevista dalla norma incriminatrice.
La novità normativa, evidentemente finalizzata a stemperare il rigore sanzionatorio dell’omicidio stradale
riversando sul giudice l’onere di modulare la pena da applicare nel caso concreto nel tentativo di contenerla
nei parametri di legalità (proporzionalità, finalità rieducativa), è stata calata nel sistema senza riflettere sugli
effetti collaterali.
Si pensi, ad esempio, ad un caso di omicidio colposo con violazione delle norme per la prevenzione degli
infortuni sul lavoro (punito con pena edittale pari a quella base prevista per l’omicidio stradale: da due a
sette anni) nel quale l’evento morte sia determinato da causalità c.d. multifattoriale: il trattamento di favore
riservato dalla riforma all’autore del reato di omicidio stradale striderà con gli obiettivi del legislatore e comporterà la non ragionevolezza del trattamento più severo al quale continuerà ad essere sottoposto il “datore
di lavoro” (così come l’operatore sanitario in caso di colpa medica).
Inoltre, sotto il profilo del diritto intertemporale, non vi sono ragioni per non applicare reatroattivamente (in favore del reo) la circostanza attenuante speciale in tutti i casi (non aggravati dalla guida in stato di
ebrezza alcolica o sotto l’effetto di stupefacenti o psicotrope) nei quali l’evento non sia (stato) esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole ovvero nella quasi generalità dei procedimenti in corso.
Infatti, nell’ambito della sconfinata casistica offerta dall’infortunistica stradale è assai raro scovarne uno
nel quale non vi sia un “concorso di colpa” della vittima o di altri utenti della strada rimasti in qualche modo
coinvolti nel sinistro, oppure l’evento non sia riconducibile anche a fattori indipendenti dal comportamento
degli utenti della strada (quali la non corretta manutenzione del manto stradale, la scarsa illuminazione, la
visibilità della segnaletica orizzontale e verticale).
Concludendo, a prima vista, la propagandata introduzione del reato di omicidio stradale sembra aver generato più ombre che luci dimostrando ancora una volta che le emergenze sociali (come quelle determinate
dalla in-sicurezza stradale) non possono trovare risposta adeguata mediante lo strumento della repressione
penale soprattutto laddove si mette mano al codice senza una consapevole visione d’insieme.
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14
Per una corretta lettura della norma è opportuno evidenziare che il testo originario limitava l’operatività della circostanza al caso in
cui l’evento fosse “conseguenza anche di una condotta colposa della vittima”.
Dibattiti / Focus
Le misure cautelari in caso di omicidio e lesioni
stradali
Costantino De Robbio
(Giudice Indagini Preliminari Tribunale Roma)
La disciplina penale della circolazione stradale è oggetto da tempo di enormi pressioni meta-giuridiche e
mediatiche che hanno portato a numerosi interventi legislativi che, con cadenza quasi annuale hanno modificato le norme di riferimento nel tentativo di combattere il fenomeno delle cosiddette “stragi del sabato sera”.
Il risultato di queste pressioni è che gli interventi legislativi si sono spesso caratterizzati per essere ad
effetto immediato ma di breve respiro: un esempio evidente di questa tendenza è dato dai numerosi aumenti
dei limiti massimi delle pene previste per i delitti previsti dagli artt. 589 e 590 c.p. e 186 e 187 c.d.s.
Tali aumenti, adottati per consentire l’adozione di misure cautelari e pre-cautelari, non hanno tenuto conto che le pene che il giudice irroga al termine del processo si parametrano per tradizione sui limiti edittali
minimi e non su quelli massimi.
Conseguentemente, ai numerosi casi di arresto in flagranza e di misure cautelari sono spesso seguite,
al termine dei relativi processi, condanne a pene tali contenute nei limiti della sospensione condizionale o
patteggiamenti con applicazione di sanzioni ritenute del tutto incongrue: interventi efficaci e severi nell’immediatezza del fatto (arresto e privazione della libertà personale dell’indagato), seguiti da un nulla di fatto
all’esito dell’accertamento processuale (pene non effettive ma formali), con una inammissibile torsione dei
fini del processo penale.
La nuova disciplina dell’omicidio stradale introdotta dalla legge 241 del 2016 non fa eccezione: tra l’altro,
è stata presentata all’opinione pubblica come legge che avrebbe finalmente consentito l’arresto del conducente indiziato dei due delitti appena introdotti nel codice penale (l’omicidio stradale e le lesioni stradali previste
dagli artt. 589 bis e 590 bis c.p.).
Dunque le misure cautelari costituiscono l’elemento centrale ed in un certo senso “la bandiera” di questa
legge.
Al di là dei proclami, la possibilità di sottoporre il conducente indiziato del delitto di omicidio colposo
aggravato dalla violazione delle norme del codice della strada era peraltro possibile anche prima dell’entrata
in vigore della legge n. 241 del 20016.
La fattispecie base dell’omicidio stradale – oggi prevista come reato autonomo dall’articolo 589 bis del
codice penale – prevede infatti come limiti di pena gli stessi che erano già previsti dal vecchio articolo 589
aggravato (da due a sette anni di reclusione).
Si tratta di limiti edittali che consentono l’arresto facoltativo in flagranza (articolo 381 del Cpp) e, nella
ricorrenza delle altre condizioni di legge (in primo luogo il “fondato pericolo di fuga”), il fermo di indiziato di
delitto (articolo 384 del c.p.p.). È altresì consentita l’applicazione della custodia cautelare in carcere (articolo
280, comma 2, del c.p.p.).
Ciò nonostante, è innegabile che la nuova disciplina introdotta nel 2016 presenta in tema di misure cautelari alcune novità dirompenti: la fattispecie più interessante in tal senso è quella relativa all’omicidio stradale
aggravato previsto dai commi secondo e terzo dell’articolo 589 bis del codice penale.
Con apposita modifica all’articolo 380 del codice di procedura penale, quest’ipotesi è stata inserita nell’elenco dei reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza (alla lettera m-quater).
Dibattiti / Focus
di
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Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
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La nuova disciplina presenta almeno due grosse anomalie, di tale portata da far dubitare che essa sia
compatibile con il nostro sistema processuale.
La prima è data dall’eccentricità del delitto di omicidio colposo rispetto all’elenco dei delitti per i quali è
previsto l’arresto obbligatorio.
Questo tipo di intervento pre-cautelare infatti è (o forse si dovrebbe dire “era”) basato su un principio
implicito ma innegabile: l’urgenza di agire a tutela della collettività derivante dalla particolare gravità del reato
rilevabile in una particolare intensità del dolo.
Va in primo luogo accertata la sussistenza dello stato di flagranza: la circostanza che taluno venga colto
nell’atto di commettere un reato (art. 382 c.p.) riduce drasticamente i casi in cui, dopo la privazione della
libertà personale dell’indagato, si possa pervenire ad una pronuncia di assoluzione (ipotesi che il legislatore
vede giustamente con estremo disfavore).
Per procedere all’arresto non basta però lo stato di flagranza: occorre che il reato sia di particolare gravità.
Nelle ipotesi che destano particolare allarme sociale si elide ogni discrezionalità della Polizia Giudiziaria e
l’arresto diviene “obbligatorio”: si tratta di delitti connotati da particolare allarme sociale e caratterizzati tutti
da estrema pericolosità dell’agente, tale da non consentire di attendere l’intervento del giudice (che esaminerà la vicenda quando il soggetto si trova già in vinculis).
È la coscienza e volontà di agire in modo illecito, dunque un particolare atteggiarsi del dolo, che rende
il soggetto pericoloso per la società: l’articolo 380, 2° comma prevede l’arresto obbligatorio di “chiunque è
colto in flagranza di uno dei seguenti delitti non colposi”.
L’avere aggiunto a questo elenco un delitto colposo, quale appunto l’omicidio stradale, non può essere
dunque essere ridotto ad una semplice leggerezza o ad un’imprecisione stilistica da parte del legislatore ma
è un vero e proprio scardinamento del sistema cautelare dagli esiti imprevedibili: si agisce in via d’urgenza
privando taluno della libertà, senza nemmeno attendere il vaglio di un giudice, in quanto il soggetto desta
allarme sociale… per la sua particolare imperizia o imprudenza (ho preso ad esempio alcuni dei caratteri
distintivi della colpa, come noto).
La seconda perplessità delle modifiche apportate al sistema cautelare dalla legge in esame deriva dalla
modifica dell’articolo 189 del codice della strada.
L’ottavo comma della norma richiamata escludeva sempre la possibilità di procedere all’arresto del conducente che si fosse fermato a prestare assistenza alla vittima del sinistro: oggi, dopo le modifiche della legge
241 del 2016, la norma si applica solo ai casi in cui dal sinistro siano derivate lesioni e non la morte del
soggetto coinvolto nel sinistro.
Da ciò deriva che in caso di omicidio stradale il conducente dovrà essere arrestato anche se si è fermato
a prestare assistenza alla vittima ed ha atteso l’arrivo dei soccorsi e della Polizia Giudiziaria.
Ora, in ipotesi siffatte la P.G., constatato il decesso di un soggetto, è obbligata ad arrestare il soggetto
indiziato di delitto, laddove ravvisi gravi indizi di colpevolezza del reato di omicidio stradale aggravato.
Il Pubblico Ministero chiederà dunque la convalida dell’arresto al giudice ai sensi dagli articoli 389 e 390
c.p.p.: non vi è spazio per un’immediata liberazione, essendo l’arresto avvenuto “nei casi previsti dalla legge”.
Il giudice dovrà dunque procedere alla convalida dell’arresto. Immediatamente dopo egli è chiamato ai
sensi dell’articolo 391, 5° comma c.p.p. ad emettere ordinanza di applicazione di una misura cautelare, se ricorrono i gravi indizi di colpevolezza previsti dall’articolo 273 e le esigenze cautelari previste dall’articolo 274.
Ora, appare difficile sostenere la sussistenza di un pericolo di inquinamento probatorio (art. 274 c.p.p.,
lettera a) nel caso in cui l’indiziato di delitto, fermandosi a prestare assistenza e ad attendere l’arrivo della
P.G., abbia mostrato un atteggiamento di tutt’altro tenore; parimenti impossibile motivare sulla sussistenza
di un pericolo di fuga (art. 274 c.p.p., lettera b) in presenza di soggetto che ha scelto di non fuggire ma di
rimanere al suo posto.
Dibattiti / Focus
Rimarrebbe un limitato margine operativo per una motivazione di un eventuale pericolo di reiterazione
di delitti della stessa specie (art. 274 c.p.p., lettera c), ma si richiede in questo caso al giudice di motivare sul
fatto che, poiché taluno ha dimostrato di essere imprudente o imperito, è necessario che rimanga in vinculis
per evitare che con la sua imperizia o imprudenza cagioni altri danni alla collettività.
Ancora minore l’ambito di operatività dell’arresto nel caso di lesioni stradali, poiché come noto l’art. 381
comma 4 c.p.p. prevede che “si procede all’arresto in flagranza soltanto se la misura è giustificata dalla gravità
del fatto ovvero dalla pericolosità del soggetto desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del fatto”,
requisiti difficilmente riscontrabili nel caso di un delitto colposo quale quello in esame.
In altri termini, l’intervento legislativo sembra modellato, come si diceva in principio, sull’esigenza di fornire una risposta immediata e mediaticamente efficace, a scapito delle ricadute di sistema, sicché potrebbe
verificarsi – ancora una volta – che ad un profluvio di arresti in flagranza operati dalla P.G. seguano altrettanti
provvedimenti di liberazione da parte dei giudici all’esito delle udienze di convalida.
L’omicidio stradale e prova dello stato di ebbrezza
di
Luigi Ludovici
(Avvocato del foro di roma - Professore Associato di Diritto Processuale Penale nell’Università degli studi
guglielmo marconi)
Attraverso l’introduzione del delitto di omicidio stradale ex art. 589-bis c.p., il legislatore ha voluto punire
in maniera particolarmente rigorosa quelle condotte di guida che sottendono gravi violazioni del codice della
strada cui abbia fatto seguito la morte di una o più persone. Rispetto al precedente regime sanzionatorio, il
maggior inasprimento di pena si è in particolare registrato per le ipotesi nelle quali l’incidente mortale sia
stato causato da soggetto che, ponendosi alla guida con una percentuale di alcool nel sangue particolarmente
elevata, era per ciò solo punibile a titolo di guida in stato di ebbrezza ex art. 186 co. 2, lett. b) o c) c.d.s. La
commistione tra la guida in stato di ebbrezza e il verificarsi dell’evento morte nel contesto di un incidente stradale implica, infatti, agli effetti della nuova fattispecie delittuosa, una cornice edittale che va da 5 a 10 anni di
reclusione, nel caso in cui sia stato riscontrato un livello di alcool nel sangue superiore a 0,8 grammi per litro,
mentre nel caso di tasso alcolemico superiore a 1.5 grammi per litro la pena è da 8 a 12 anni di reclusione.
Le pesantissime ricadute di ordine sanzionatorio che, in caso di incidente mortale, il nuovo assetto normativo
riallaccia al superamento delle soglie alcolemiche oltre le quali ricorre il reato di guida in stato di ebbrezza
fanno si che, nel contesto della fattispecie delittuosa in esame, assumano rilevanza capitale le problematiche
inerenti le specifiche verifiche sul tasso alcolemico comunemente note con il termine “alcooltest”15.
Dibattiti / Focus
1. Premessa.
333
15
Per un’ampia panoramica sul tema, v. Ludovici, Alcooltest: profili processuali, in Digesto disc. pen., IX agg., 2016, 66-73.
Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
2. Alcooltest: profili generali.
Gli accertamenti che sostanziano l’alcooltest e le relative modalità di svolgimento sono disciplinate dal
combinato disposto degli artt. 186 c. str. e 379 reg. esce. c. str.
L’art. 186, 4° co., c. str. stabilisce che gli organi di polizia stradale hanno “la facoltà” di effettuare accertamenti sulle condizioni psico-fisiche in cui versa il conducente del veicolo impiegando gli strumenti e le
procedure determinati dal regolamento.
Quanto al primo aspetto, l’art. 379, 1° co., regolamento stabilisce che «l’accertamento dello stato di ebbrezza ai
sensi dell’art. 186, 4° c. del codice si effettua mediante l’analisi dell’aria alveolare espirata» precisando al 4° comma
che «l’apparecchio mediante il quale viene effettuata la misura della concentrazione alcolica nell’aria espirata è
denominato etilometro». Il regolamento prescrive che tale apparecchiatura sia dotata di caratteristiche tecniche
tali da consentire la visualizzazione dei risultati delle misurazioni e deve disporre di apposita stampante capace di
fornire la corrispondente prova documentale. Prima della sua immissione, l’etilometro necessita di omologazione
da parte della Direzione generale della M.C.T.C. ed è sottoposto a verifiche. Dei risultati di tali controlli l’apparecchio deve offrire apposita visualizzazione nonché la corrispondente prova documentale (art. 379, 4° co., reg.).
3. Natura e regime giuridico dell’alcooltest.
Dal punto di vista della qualificazione giuridica è oggi è ampiamente consolidata in giurisprudenza16 e
dottrina17 l’opinione secondo cui l’attività di verifica mediante etilometro rappresenta un atto di polizia giudiziaria urgente e indifferibile ascrivibile nella categoria degli accertamenti e rilievi sulle persone diverse dalle
ispezioni personali ex art. 354 c.p.p.
Si tratta, dunque, di un accertamento che la polizia stradale, in funzione di p.g., effettua di propria iniziativa sussistendo il pericolo che «le tracce (…) pertinenti al reato» si alterino o si disperdano o comunque si
modifichino, ed a fronte dell’impossibilità del pubblico ministero di «intervenire tempestivamente» ovvero nel
caso in cui questi non abbia «ancora assunto la direzione delle indagini» (art. 354 c.p.p.).
L’inquadramento dell’alcooltest nella tipologia degli atti urgenti di p.g. implica che i risultati con esso conseguiti, sebbene acquisiti in fase di indagini, in ragione della loro irripetibilità trasmigrano automaticamente
nel fascicolo per il dibattimento a norma dell’art. 431, 1° co., lett. b), c.p.p. e sono, pertanto, destinati a pesare
notevolmente sulla successiva decisione sia in punto di qualificazione giuridica che sul piano del trattamento
sanzionatorio applicabile. La valenza ai fin di prova dei risultati dell’alcooltest è però naturalmente condizionata al fatto che, in occasione del suo svolgimento, siano stati rispettati tutti i diritti e le garanzia che, a norma
del combinato disposto degli artt. 114 disp att. e 356 c.p.p., circondano gli atti urgenti di p.g.
16
334
Cfr., da ultimo, Cass. pen., S.U., 29-1-2015, DPP, 2015, 844, con nota di Jelovich, Guida in stato di ebbrezza: le Sezioni Unite sul termine per eccepire la nullità per mancato informazione dei diritti difensivi.
17
In tal senso v. Curtotti, Rilievi e accertamenti tecnici, Padova, 2013, 102; Giunchedi, Gli accertamenti tecnici irripetibili tra prassi devianti
e recupero della legalità, Torino, 2009, 135; Marandola, Rimessa alle Sezioni Unite la determinazione del termine ultimo per sollevare la
nullità dell’alcoltest espletato in violazione dell’art. 114 Dsisp. att. c.p.p., in www.archiviopenale.it; Potetti, Incertezze della Cassazione
sull’applicazione dell’art. 366 c.p.p. agli accertamenti della guida in stato di ebbrezza, CP, 2009, 2550; Procaccino, Alle Sezioni Unite
la nullità per l’omesso avviso sui diritti difensivi in caso di alcoltest: verso una procedura penale dell’automobilista, in www.archiviopenale.it; Tonini, Procedura penale, Milano, 2016, 519. In argomento, v. però, contra, Ichino, L’attività di polizia giudiziaria, in Indagini
preliminari e instaurazione del processo, a cura di Aimonetto, Torino, 1999, 182, nota 72, il quale afferma che «stante l’irripetibilità del
prelievo, dovrebbero essere osservate le modalità e le garanzie previste dagli artt. 223 ss. n. coord. c.p.p. per le analisi dei campioni».
Dibattiti / Focus
Quanto alla prima disposizione, questa è rubricata “avvertimento del diritto all’assistenza del difensore”
e recita: «nel procedere al compimento degli atti indicati dall’art. 356 c.p.p. la polizia giudiziaria avverte la
persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia»; la
seconda disposizione, rubricata invece “assistenza del difensore”, stabilisce che: «il difensore della persona
nei cui confronti vengono svolte le indagini ha la facoltà di assistere, senza diritto di essere preventivamente
avvisato, agli atti previsti agli articoli 352 e 354 c.p.p.».
È inoltre possibile affermare in via di prima approssimazione che l’alcoltest, quale atto di p.g. cui il difensore ha la facoltà di assistere senza diritto di preavviso, impone non solo la totale verbalizzazione delle
operazioni eseguite, ma anche l’obbligo per la p.g. di deposito del verbale – di cui costituisce parte integrante
il tagliando stampato dall’etilometro18 – entro il terzo giorno con immediato avviso al difensore per mezzo di
notifica ex art. 366 c.p.p.19.
Occorre però precisare che, secondo quanto chiarito dalla Cassazione, l’obbligo per la polizia stradale di
agire nel rispetto delle norme del codice di rito sussiste esclusivamente laddove il cosiddetto alcooltest venga
effettuato in presenza di elementi che lascino supporre la commissione da parte del sottoposto a controllo del
reato di guida in stato di ebbrezza. Se condotto in assenza di indizi di reato ma in via meramente esplorativa,
la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’ accertamento mediante etilometro degrada a mera attività di
vigilanza amministrativa con conseguente inapplicabilità delle norme che disciplinano gli atti urgenti di p.g.20.
Ma quali sono le conseguenze che si riverberano sulla validità dell’atto nel caso in cui ad esso si sia proceduto in difformità delle norme che lo regolano? Quanto all’art. 114 disp. att. c.p.p., dottrina21 e giurisprudenza22 concordano nel ritenere che l’omesso avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore, incidendo
sul profilo dell’assistenza dell’indagato ex art. 178, lett. c), c.p.p., rende l’atto affetto da nullità generale a
regime intermedio.
Se, dunque, la qualificazione giuridica del vizio non ha, di per sé, generato particolari difficoltà, è stato
necessario l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione per chiarire come il regime giuridico ex artt. 180 e
182 c.p.p. si coniughi con le peculiarità proprie dell’accertamento mediante alcooltest, specie con riferimento
all’individuazione del termine decadenziale di esperibilità cui è soggetta l’eccezione di nullità dell’alcooltest
per omesso avviso inerente l’assistenza difensiva.
Secondo un primo indirizzo sviluppatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità, la nullità dell’accertamento per violazione dell’art. 114 disp. att. c.p.p. ricade nell’orbita applicativa dell’art. 182, 2° co., primo
periodo c.p.p. trattandosi di un atto al cui compimento la parte assiste; ne segue che il vizio non può essere
più dedotto laddove il conducente non lo eccepisca prima del compimento dell’atto ovvero, nel caso ciò sia
impossibile, immediatamente dopo23.
18
Curtotti, op. cit., 102; contra, v., però, Cass. pen., sez. IV, 10-10-2014, CED, 263198.
Contra, v., però, in dottrina, Suraci, L’atto irripetibile, Padova, 2012, 78.
20
Cfr. Cass. pen., S.U., 29-1-2015, cit.
21
Di Geronimo, Il controverso regime della preclusione a dedurre la nullità dell’atto compiuto alla presenza dell’indagato, CP, 2014, 962;
Marandola, op. cit.; Procaccino, op. cit.
22
Cass. pen., S.U., 29-10-2015, cit.; Cass. pen., sez. IV 11-10-2012, CED, 254959; Cass. pen., sez. IV 4-11-2009, ivi, 245462.
23
Cass. pen., sez. IV, 11-3-2014, n. 139999; Cass. pen., sez. IV, 4-6-2013, CED, 255989; Cass. pen., sez. IV, 8-5-2007, GDir, 2014, 1, 55.
19
Dibattiti / Focus
4. L’alcooltest e il regime di cui all’art. 114 disp. att. c.p.p.
335
Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
Un diverso e composito orientamento24, pur ritenendo applicabile al caso di specie il disposto di cui
all’art. 182, 2° co., primo periodo, c.p.p., individua nel solo difensore il soggetto gravato dall’onere di eccepire la nullità. Data questa comune base teorica, si è affermato che il difensore deve far valere l’invalidità con
memoria da depositare subito dopo la sua nomina25 ovvero entro il termine di cinque giorni previsto dall’art.
366 c.p.p. per l’esame degli atti processuali inerenti attività urgenti di p.g.26 o anche in occasione del primo
atto successivo del procedimento il quale27, in caso di procedimento per decreto, si identifica nell’atto di
opposizione al decreto penale di condanna28.
Intervenute per dirimere il contrasto, le Sezioni unite della Cassazione hanno rilevato come il primo e
più restrittivo orientamento faccia leva su un concetto di “parte” ex art. 182, 2° co., c.p.p. che non può essere accolto posto che, stante il carattere obbligatorio della difesa tecnica, la “parte” che per legge è gravata
dall’onere – il cui assolvimento è previsto a pena di decadenza – di eccepire la nullità si identifica sempre e
necessariamente nel difensore. A dimostrazione di ciò il plenum sottolinea che la legge, nello stabilire che
l’indagato debba essere avvertito della facoltà di farsi assistere dal difensore, presume che egli non abbia conoscenza di tale facoltà di modo che, pur essendo presente all’atto nullo, giuridicamente egli non vi “assiste”
trattandosi di partecipazione non consapevole.
Secondo il Supremo Collegio sono però da respingere anche le ulteriori interpretazioni offerte in giurisprudenza circa l’onere per il difensore di dedurre la nullità immediatamente dopo il conferimento del mandato, ovvero entro i cinque giorni dal deposito dell’atto ex art. 366 c.p.p. o ancora in occasione del primo
atto successivo del procedimento presentando tutte il medesimo vizio di fondo: per stabilire il termine decadenziale entro cui eccepire la nullità, utilizzano i parametri di cui all’art. 182, 2° co., primo periodo, c.p.p.
nonostante l’operatività di tale disposizione presupponga la condizione, assente nel caso di specie, che la
“parte” assista al compimento dell’atto nullo.
La conclusione cui il Supremo Collegio giunge è dunque nel senso che, non potendo trovare applicazione
gli specifici termini decadenziali previsti dall’art. 182, 2° co., primo periodo, c.p.p., la nullità dell’alcoltest per
violazione dell’art. 114 disp att. deve essere eccepita entro la deliberazione della sentenza di primo grado a
norma dell’art. 180 c.p.p. cui l’art. 182, 2° co., secondo periodo, c.p.p. espressamente rinvia nel caso di atti
nulli al cui compimento la “parte”, però, non abbia assistito.
5. L’acooltest e il regime ex art. 366 c.p.p.
Altra tematica particolarmente rilevante in tema di accertamento dello stato di ebbrezza è quella che riguarda i rapporti tra l’alcooltest e le garanzie difensive offerte dall’art. 366 c.p.p.
In forza di tale disposizione, i verbali degli atti di indagine cui il difensore ha facoltà di assistere sono
depositati a cura della p.g. nella segreteria del p.m. entro tre giorni dal loro compimento, con possibilità per
il difensore di prenderne visione e di estrarne copie nel termine successivo di cinque giorni con obbligo,
peraltro, di notifica allo stesso difensore dell’avviso di deposito qualora egli, pur avendone la facoltà, non
abbia assistito all’atto.
24
In tal senso, v. Cass. pen., sez. IV, 4-6-2013, CED, 255989; Cass. pen., sez. III, 28-3-2012; ivi, n. 252397.
Cfr., Cass. pen., sez. IV, 4-7-2013, CED, 256213; Cass. pen., sez. IV, 4-6-2013, ivi, 255989.
26
Cfr. Cass. pen., sez. III, 28-3-2012, CED, 252397.
27
Cass. pen., sez. IV, 4-11-2009, CED, 245797; Cass. pen., sez. IV, 4-11-2009, ivi, 245462.
28
In senso sostanzialmente conforme, v. anche Cass. pen., sez. V, 9-2-2012, CED, 252171.
25
336
Declinato in materia di alcooltest, il regime de quo ha suscitato incertezze dal punto di vista interpretativo
sia in ordine al tipo di conseguenze che devono farsi discendere dal mancato o intempestivo deposito della
documentazione inerente l’accertamento sia, a monte, sulla riconducibilità dello stesso nell’ambito applicativo della disposizione in esame.
Quanto al tema da ultimo indicato, la tesi della totale inapplicabilità delle garanzie dell’art. 366 c.p.p. in
materia di alcooltest è sostenuta da una parte della giurisprudenza di legittimità29 la quale ritiene che tale
conclusione sia un precipitato dell’assenza in capo alla p.g. operante di un obbligo di assumere notizia della
nomina di un difensore di fiducia ovvero di procedere, in alternativa, alla nomina di un difensore di ufficio,
con conseguenze inesistenza del soggetto che degli adempimenti ivi previsti è il diretto beneficiario, id est
il difensore.
L’orientamento de quo è parzialmente disatteso da altro filone giurisprudenziale 30 l’art. 366 c.p.p. trova
applicazione nell’ipotesi in cui il soggetto abbia provveduto, in sede di accertamento o comunque entro il
termine di tre giorni previsto per il deposito degli atti, alla nomina di un difensore di fiducia.
In posizione diametralmente opposta si colloca invece la dottrina31, secondo la quale le garanzie di cui
all’art. 366 c.p.p. devono trovare sempre applicazione e a fondamento di questa tesi porta un solido argomento di ordine sistematico incentrato sull’art. 97, 3° co., c.p.p. secondo cui la polizia giudiziaria, al pari del
giudice o del pubblico ministero, se deve compiere un atto per il quale è prevista l’assistenza del difensore
– qual è appunto l’alcooltest - e se il soggetto ne risulta privo, dà avviso dell’atto al difensore di ufficio.
L’interpretazione da ultimo richiamata è fatta propria anche da una parte della giurisprudenza di legittimità la quale, però, a sua volta diverge in ordine all’individuazione delle conseguenze che si riflettono sull’alcooltest nel caso di inosservanza dell’art. 366 c.p.p.
Secondo un primo, consistente, indirizzo32 il mancato deposito del verbale nei termini di legge non inciderebbe sulla validità dell’accertamento rilevando sul piano della irregolarità ed avendo quale unico effetto
pratico quello di rinviare l’esercizio dei diritti difensivi riconosciuti dalla disposizione in esame al momento in
cui il difensore assuma effettiva conoscenza dell’atto. A fondamento di questa interpretazione, si è sostenuto,
infatti, che un atto non può subire conseguenze invalidanti per effetto di comportamenti che si collocano in
un momento successivo al suo compimento.
In dottrina33 si è però sostenuto che le garanzie riconosciute dall’art. 366 c.p.p. hanno lo scopo di rimediare all’assenza del difensore nel corso di svolgimento dell’atto favorendo così, sia pure in via posticipata,
l’instaurazione di un contraddittorio “imperfetto”34 e l’esercizio del diritto di difesa35. Visto in questa ottica,
l’art. 366 c.p.p. rappresenta a tutti gli effetti una disposizione concernente “l’assistenza” dell’imputato la cui
inosservanza è, quindi, sanzionata con la nullità a regime intermedio dell’atto ex art. 178, lett. c), c.p.p.36.
La tesi della nullità dell’atto per violazione dell’art. 366 c.p.p. ha trovato seguito anche nella giurisprudenza di legittimità, ove si è, infatti, rilevato come sia privo di pregio l’argomento secondo cui l’inosservanza
29
In tal senso, v. Cass. pen., sez. IV, 7-2-2006, CED, 234521; Cass. pen., sez. IV, 17-12-2003, ivi, 228339; Cass., sez. IV, 11-3-2004, ivi,
229114.
30
Cass. pen., sez. IV, 22-4-2004, CED, 228958.
31
Potetti, op. cit., 2558.
32
In tal senso v. Cass. pen., sez. IV, 22-10-2003, CED, 226033; Cass. pen., sez. IV 20-9-2004, ivi, 230276.
33
Curtotti, op. cit., 102; Marandola, op. cit.; in senso sostanzialmente conforme, Potetti, op. cit., 2558.
34
Cordero, Procedura penale7, Milano, 2003, 887.
35
Marandola, op. ult. cit.
36
Marandola, op. ult. cit.
Dibattiti / Focus
Dibattiti / Focus
337
Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
dell’art. 366 c.p.p. assume rilevanza solo ai fini di posticipare la decorrenza dei termini entro cui è possibile
esercitare le facoltà difensive connesse alla discovery degli atti: così ragionando, infatti, si finisce per svilire la
garanzia che il legislatore ha inteso offrire riconoscendo al difensore la possibilità ex art. 366 c.p.p di accedere entro tempistiche particolarmente serrate alla documentazione afferente all’alcoltest37.
Questo filone giurisprudenziale maggiormente garantista non ha comunque espresso opinioni omogenee
in punto di qualificazione giuridica del vizio che infirma l’alcooltest realizzato in violazione della disciplina
ex art. 366 c.p.p.
Secondo una minoritaria linea interpretativa, l’alcoltest non seguito dalle garanzie di cui all’art. 366 c.p.p.
sarebbe affetto da nullità relativa, la quale, dunque, ove tempestivamente dedotta, precluderebbe al giudice
la possibilità di porre a base della decisione i risultati dell’accertamento alcoolimetrico.
A questa tesi si contrappone, però, quella sostenuta in altre pronunce ove la Cassazione, concordando con
la dottrina, ritiene in definitiva, maggiormente rispettoso del principio di tassatività che informa la materia
delle nullità qualificare il vizio de quo in termini di nullità generale a regime intermedio ex art. 178, lett. c),
c.p.p.
Affermazioni di principio degne di nota sono state infine espresse in tema di sanatoria dell’atto invalido
nonché in punto di legittimazione dell’imputato all’exceptio nullitatis.
Quanto al primo profilo, si è sostenuto che la nullità – relativa o intermedia che sia – dell’alcooltest per
violazione dell’art. 366 c.p.p. si sana ex art. 183, lett. b) nell’ipotesi in cui, pur essendo mancato l’avviso di
deposito, il verbale dell’esame di verifica dello stato di ebbrezza sia stato comunque tempestivamente depositato dalla p.g. presso la segreteria del pubblico ministero ed il difensore ne abbia preso visione nei termini
di legge38.
Quanto invece al profilo della legittimazione a far valere la nullità, opinioni contrasti sono state espresse
in tema di rapporti tra l’inosservanza dell’art. 366 c.p.p. è l’esistenza di un valido interesse ex art. 182, 1° co.,
c.p.p. ad eccepire la nullità ad essa conseguente.
Sulla base della nota tesi dottrinaria secondo cui «dove vigano requisiti a pena di nullità, è irrilevante che
l’anomalia abbia o non nuociuto e quanto»39, si è quindi sostenuto che il giudice, al di fuori dei casi di sanatoria, è tenuto a dichiarare la nullità dell’atto per violazione dell’art. 366 c.p.p. e la conseguente inutilizzabilità
dei relativi risultati, senza svolgere alcun ulteriore accertamento circa quale vulnus, in concreto, al diritto di
difesa dell’imputato sia scaturito dal mancato tempestivo deposito degli atti o in caso di omesso avviso di
deposito40.
Facendo leva sulla concezione dell’interesse ex art. 182, 1° co., c.p.p. quale deminutio concreta ai diritti
ed alle facoltà dell’imputato, la giurisprudenza di legittimità41 ancora la legittimazione a dedurre la nullità
dell’alcooltest alla capacità del soggetto di dimostrare che la violazione dell’art. 366 c.p.p. gli abbia impedito
in maniera effettiva ed attuale, di di confutare i risultati dell’atto. La tesi de qua è stata peraltro sostenuta
anche da una parte della dottrina42 sul rilievo che l’interesse a dedurre la nullità ha una sua valenza auto-
37
338
Cfr. Cass. pen., sez. V, 22-2-1996, CED, 205122. In dottrina, in senso analogo, v. Potetti, op. cit., 2561; Bordieri, Sull’omesso avviso al
difensore del deposito del verbale dell’alcotest compiuto dalla polizia giudiziaria su un conducente di autoveicolo, CP, 2006, 1012.
38
Potetti, op. cit., 2560; Bordieri, op. cit., 1013.
39
Letteralmente, Cordero, op. cit., 1180; in senso conforme, Rafaraci, «Nullità (dir. proc. pen.)», in Enc. dir., II, Milano, 1998, 617.
40
In tal senso, Bordieri, op. cit., 1012.
41
Cfr. Cass. pen., sez. IV, 16-3-2003, GP, 2004, III, 653; Cass. pen., sez. I, 19-11-1998, CED, 211870.
42
Potetti, op. cit., 2560 ss.
Dibattiti / Focus
noma rispetto alla disposizione che commina la sanzione solo laddove concepito in termini concreti e non
meramente astratti; altrimenti opinando, si dovrebbe, infatti, giungere alla conclusione che il sistema processuale è paradossalmente composto da norme congegnate per travolgere l’intera sequenza procedimentale e
pregiudicare la validità degli atti al solo fine di tutelare interessi concretamente inesistenti.
Omicidio stradale, aspetti tecnici e criticità.
Il punto di vista di una tossicologa forense
di
Valeria Ottaviano
La Tossicologia Forense è quella scienza che studia gli effetti avversi delle sostanze sull’organismo umano,
quando il danno prodotto assuma il carattere di un delitto. Uno dei principali campi applicativi è costituito dalla evidenziazione qualitativa e quantitativa delle sostanze tossiche in matrici biologiche prelevate da
cadavere per le necessità medico-legali in tema di lesività chimica. Per tale motivo in Italia i laboratori di
tossicologia forense hanno sede presso i centri di medicina legale delle Università.
Oltre agli accertamenti su matrici cadaveriche, sempre più spesso viene oggi richiesto al tossicologo forense di effettuare indagini su liquidi biologici prelevati a soggetti viventi, volti ad accertare la violazione o
meno di leggi, norme o regolamenti. In tale ottica le indagini devono fornire risultati con elevato grado di
“certezza” poiché da essi può scaturire o meno una sanzione.
Il compito del tossicologo non si limita, tuttavia alla semplice produzione del dato analitico ma, soprattutto, alla sua interpretazione in maniera scientificamente valida e sostenibile. Quest’ultima prevede, oltre
ad una profonda conoscenza ed al continuo aggiornamento delle tecniche analitiche, anche conoscenze di
fisiologia, biochimica e farmacologia, nelle sue componenti farmacodinamica e farmacocinetica, che consentono di valutare problemi quali l’azione, l’interazione, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione delle
molecole esogene introdotte in un organismo.
Tra gli accertamenti su matrici prelevate da vivente, un posto di rilievo occupano quelli relativi alla
violazione degli articoli 186 e 187 del Codice della Strada ovvero all’accertamento della guida di veicoli in
stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o
psicotrope.
Poiché la Legge n°41 del 23 marzo 2016 che introduce i reati di omicidio stradale e di lesioni stradali personali gravi o gravissime fa esplicito riferimento ai sopracitati articoli del codice della Strada e poiché in caso
di violazione sono previste pene assai severe, ne consegue che gli accertamenti dovrebbero essere connotati
dal massimo rigore metodologico ed effettuati da personale dotato di preparazione specifica. Ma il condizionale è d’obbligo poiché già dagli enunciati degli articoli 186 e 187 emergono numerose criticità interpretative
che originano un sempre più numeroso contenzioso giudiziario.
Alla luce di ciò cercherò qui di seguito di analizzare alcune di tali criticità sulla base dell’esperienza maturata in anni di attività di tossicologa forense.
Art. 186
1. È vietato guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche.
Dibattiti / Focus
(Tossicologa forense - Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)
339
Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
La procedura per l’accertamento dello stato di ebbrezza è chiaramente indicata e regolamentata (art. 186
C.d.S. e s.m. - art. 379 regolamento di attuazione C.d.S.) e prevede la misura attraverso un apparecchio – etilometro – che, attraverso un “fattore di conversione” (valore numerico che il Decreto Ministeriale 22 maggio
1990 n. 196 - Regolamento recante individuazione degli strumenti e delle procedure per l’accertamento dello
stato di ebbrezza - ha fissato nella misura di 2300:1) determina il rapporto fra la concentrazione alcolemica
presente nell’aria espirata (Breath Alcohol concentration - BRAC) e quella presente nel sangue (Blood Alcohol
Concentration - BAC).
Il comma 2 dell’art. 379 recita: “La concentrazione di cui al comma 1 dovrà risultare da almeno due determinazioni concordanti effettuate ad un intervallo di tempo di 5 minuti”. La norma non specifica come si
intenda valutare la concordanza delle due misure ed, in tal caso, si deve obbligatoriamente far ricorso alle
conoscenze scientifiche.
E qui si verifica una prima criticità.
Tutti gli etilometri in uso presuppongono che vi sia una relazione matematica costante tra le due concentrazioni, basata sulla legge di Henry (enunciata nel 1803).
Semplificando, la legge di Henry dice che all’equilibrio la concentrazione d’alcol nell’acqua e quella
dell’alcol nella fase vapore sovrastante sono in rapporto costante. Per una temperatura di 34°C gli esperimenti effettuati da Harger (1931) hanno trovato un valore di 2100/1. Questo rapporto viene chiamato fattore di
conversione, in quanto indica proprio il numero che va moltiplicato per la concentrazione di alcol nel vapore
per ottenere la concentrazione di alcol nell’acqua.
Ma il sangue non è acqua e si è dimostrato che il fattore di conversione non è costante e varia da persona
a persona e da momento a momento.
Frajola, tra il 1941 e il 1974, determinò valori del fattore di conversione che andavano da 1307/1 fino a
3478/1. Jones (1976) dimostrò che non solo il fattore di conversione variava da individuo a individuo, ma
anche, nello stesso individuo, da momento a momento.
Un’altra fonte di imprecisione notevole deriva dall’influenza della temperatura.
Il fattore di 2100/1 era stato infatti determinato con acqua e alcol e a una temperatura di 34°C. La temperatura del sangue negli alveoli polmonari può, invece, variare (Mason e Dubowski, 1976) da 35.8 a 37.2 °C
ed ogni grado di differenza comporta una variazione di circa il 6.5% nella determinazione finale della BAC.
Queste variazioni possono essere anche maggiori in caso di ipo o ipertermia, infezioni, esercizio fisico, uso
di farmaci e, non ultima, la temperatura esterna che se scende sotto lo zero o se supera i 40 °C invalida la
misura (fatto riconosciuto da numerose sentenze anche in Italia).
Ma, un punto fondamentale che condiziona la concordanza matematica tra l’alcol nell’aria espirata e
quello circolante nel sangue è che la misura debba essere effettuata quando il soggetto sia in fase di postassorbimento dell’alcol. Se il test viene fatto prima della fase di distribuzione completa dell’alcol nel corpo
(ad esempio se si viene fermati all’uscita da una cena o da un locale o dopo aver gustato un “Mon-Chery”),
il valore di BAC ottenuto dal fiato sarà più alto di quello reale.
Si deve ricordare che l’assorbimento di una singola dose di alcol è completo al 90% in circa 1 ora e, anche
se a stomaco pieno l’assorbimento è più lento, non supera mai le 2,5 ore. 43
Studi pubblicati da diversi autori hanno indicato che nella fase di assorbimento dell’alcol etilico le dif-
340
43
Cfr anche: Morton F. Mason & Kurt M. Dubowski, Breath as a Specimen for Analysis for Ethanol and Other Low-Molecular-Weight
Alcohols, Medical-Legal Aspects of Alcohol 177 - 180 James C. Garriott ed., 4th ed. 2003.
ferenze tra i valori misurati nell’aria espirata (BrAC) e quelli misurati nel sangue venoso (alcolemia, BAC)
differiscono e che il dato dell’espirato sovrastima il valore dell’alcolemia anche del 100%44.
Infatti, la presenza di alcol residuo nella bocca o nello stomaco può comportare un valore dell’alcolemia
in eccesso. Questo fenomeno può essere verificato, ad esempio, quando le due misurazioni dell’aria espirata
previste ad un intervallo minimo di 5 minuti, danno valori crescenti anziché calanti o quando la differenza tra
i due valori misurati con l’etilometro ecceda la velocità media di eliminazione dell’alcol dal sangue che, alle
alte e medie concentrazioni, segue una cinetica di ordine zero (ossia, la velocità di eliminazione è indipendente dalla concentrazione) e viene eliminato dal sangue in funzione lineare del tempo – curva di Widmark
– con una velocità media di 0,15 g/l/ora45.
Infine, l’impiego dell’etilometro per la misura dell’alcolemia necessita che il soggetto sia integro ed in
grado di “soffiare” efficacemente nell’apparecchio.
Ma che succede se, in caso di incidente, viene richiesta l’alcolemia di un soggetto traumatizzato o incosciente? Il comma 5 dell’art. 186 C.d.S. prevede che in caso d’incidente stradale in cui il conducente sia rimasto ferito e sia ricorso a cure mediche, l’accertamento del tasso alcolico sia effettuato dalle strutture sanitarie
a richiesta degli organi di polizia di cui all’art. 12, commi 1 e 2 C.d.S.
L’accertamento viene effettuato, previo consenso dell’interessato (anche se con l’introduzione della norma
sull’omicidio stradale alcune procure d’assalto spingono per il prelievo coattivo, in barba agli artt. 13 e 32
della Costituzione - l’inviolabilità della libertà personale e la libertà di scegliere di sottoporsi o meno ad un
trattamento sanitario), su un campione di sangue con tecniche analitiche che sono, però idonee ai soli fini
clinico-diagnostici.
Infatti, negli ospedali, ai soli fini clinici, si usano tecniche automatizzate, prevalentemente spettrofotometriche, che necessitano di liquidi trasparenti come il siero o il plasma.
Le normative italiana ed internazionali concernenti la guida sotto l’influenza di alcol, impongono la determinazione dell’etanolo nel sangue intero (non siero o plasma) e, a fini forensi, si riconosce come valido
soltanto il valore ottenuto mediante analisi gascromatografica dello spazio di testa (HS-GC).
Il sangue intero è un tessuto (e non, come il legislatore erroneamente lo classifica, un liquido biologico)
costituito da cellule - globuli rossi, bianchi, piastrine - proteine, sali minerali, molecole organiche ed acqua;
il plasma è ottenuto dal sangue per centrifugazione con eliminazione della frazione cellulare e costituisce
circa il 55% del volume complessivo del sangue; il siero è costituito dalla parte acquosa del plasma dopo
eliminazione del fibrinogeno (fattore coagulante).
Quindi, poiché il siero è soltanto una parte del sangue e ricordando che la concentrazione di una sostanza
è data dal rapporto massa/volume è chiaro che se riduco il volume avrò un risultato maggiore.
L’alcol etilico appare quindi in concentrazione superiore a quella che si sarebbe misurata nel sangue intero (siero + fibrinogeno+ cellule ematiche).
Numerosi studi, infatti, hanno calcolato che il valore misurato nel siero (o nel plasma) debba essere diviso
per un fattore pari ad 1,15 (range 1,12-1,18) per poter essere rapportato a quello del sangue intero.46.
44
Cfr. anche: G. Simpson, Accuracy and Precision of Breath Alcohol Measurements for Subjects in the Absorptive State, 33(6) Clin. Chem.
753 ( June, 1987); G. Simpson, Corrections to a Report, 33(11) Clin Chem 2130 (Nov. 1987) (erratum to the June article); G. Simpson,
Do Breath Tests Really Underestimate Blood Alcohol Concentration? 13(2) Journal of Analytical Toxicology, 120 (Mar.-Apr. 1989).
45
Cfr. anche: R. Gagliano Candela – Tossicologia Forense – Giuffrè editore 2001 pag.126.
46
[cfr.: Barnhill et al. J. Anal.Toxicol. 31(1):23-30 (2007) – Penetar et al. J. Anal.Toxicol. 32(1):505-510 (2008) – Rainey P.M. Clin. Chem.
39(11):2288-2292 (1993)]
Dibattiti / Focus
Dibattiti / Focus
341
Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
342
Per non dire poi dei casi in cui il soggetto coinvolto nell’incidente abbia subito un’emorragia. In questi
casi, per mantenere un adeguato apporto di ossigeno ai tessuti (cervello in primis) l’organismo richiama nei
vasi sanguigni l’acqua dai tessuti circostanti (fluido interstiziale); poiché in quest’acqua si trova disciolto l’etanolo assorbito in precedenza, questo va a sommarsi a quello già presente nella sola componente acquosa
del sangue (il siero) aumentando ulteriormente il valore del tasso alcolico.
Per quanto attiene alla metodica di analisi utilizzata negli ospedali, si tratta di una delle numerose tecniche
immunochimiche dette di screening o di primo livello.
Nel caso specifico della determinazione dell’etanolo ematico in ambito ospedaliero, nella maggior parte
dei casi si usa un metodo immunoenzimatico indiretto con rivelatore spettrofotometrico a 340 nm. Si deve
qui ricordare che tali tecniche, pur se di fondamentale utilità nel campo delle urgenze, hanno la caratteristica
comune di essere basate su una reazione biologica del tipo antigene/anticorpo ed hanno una bassa specificità, non sufficiente a garantire l’identificazione univoca delle sostanze. La bassa specificità può comportare
il verificarsi dei cosiddetti “falsi positivi” dovuti a reazioni crociate dell’anticorpo con metaboliti di sostanze
endogene o con molecole esogene che possono anche non assomigliare chimicamente a quelle della classe
per la quale è stato progettato. Nel caso dell’etanolo, ad esempio, il sistema di dosaggio crocia anche con
molecole endogene come l’acido piruvico e lattico che sono prodotti in caso di trauma o emorragia.
A fini forensi, infatti, i metodi immunochimici non confermati con tecnica idonea e validata sono giudicati inaccettabili dalla comunità scientifica internazionale e non difendibili in caso di contenzioso.
Contenzioso che, come credo di aver detto, nasce da una certa “approssimazione” e genericità dell’enunciato dell’articolo di legge. Ma, quando si fissano dei valori numerici per la graduazione di pene sempre più
importanti, bisognerebbe sapere di cosa si sta parlando o avere la necessaria umiltà per rivolgersi a chi lo sa.
Uno degli orrori introdotti con l’art. 186 bis è, ad esempio, l’aver scritto il valore “0 (zero) grammi per litro”
come riferimento alcolemico per la sanzionabilità delle categorie dei conducenti. Le metodiche immunochimiche e spettrofotometriche sono soggette ad interferenze, anche minime, che difficilmente consentono di
ottenere un valore strumentale di zero assoluto.
Per tutto quanto ho esposto sopra in merito alle misurazioni l’aver omesso i decimali nella norma ha
permesso, ad esempio, che un ragazzino al quale in ospedale era stata misurata un’alcolemia di 0,000011 g/l
(11 centomillesimi di grammo per litro di sangue) sia stato rinviato a giudizio, da un p.m. fin troppo zelante,
per violazione al 186 bis!
Art. 187
1. Chiunque guida in stato di alterazione psico-fisica dopo aver assunto sostanze stupefacenti o psicotrope… (omissis)
2. Al fine di acquisire elementi utili per motivare l’obbligo di sottoposizione agli accertamenti di cui al
comma 3, gli organi di Polizia stradale di cui all’articolo 12, commi 1 e 2, secondo le direttive fornite dal
Ministero dell’interno, nel rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per l’integrita’ fisica, possono sottoporre i conducenti ad accertamenti qualitativi non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi
portatili.
2-bis. Quando gli accertamenti di cui al comma 2 forniscono esito positivo ovvero quando si ha altrimenti
ragionevole motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi sotto l’effetto conseguente all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, i conducenti, nel rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per
l’integrità fisica, possono essere sottoposti ad accertamenti clinico-tossicologici e strumentali ovvero analitici
su campioni di mucosa del cavo orale (!!!!) prelevati a cura di personale sanitario ausiliario delle forze di
polizia… (omissis)
Ma l’estensore sapeva di star parlando di una biopsia? Evidentemente, no, altrimenti si sarebbe reso conto
di essere in contrasto con il pregiudizio per l’integrità fisica!
Dopo lettere e proteste da parte dell’associazione scientifica di cui faccio parte: Gruppo Tossicologi Forensi Italiani – GTFI – hanno così emendato l’abominevole testo:
“2-bis. … Ove necessario a garantire la neutralità finanziaria di cui al precedente periodo, il medesimo
decreto può prevedere che gli accertamenti di cui al presente comma siano effettuati, anziché’ su campioni di
mucosa del cavo orale, su campioni di fluido del cavo orale”…
Neutralità finanziaria????
3. “Nei casi previsti dal comma 2-bis, qualora non sia possibile effettuare il prelievo a cura del personale
sanitario ausiliario delle forze di polizia ovvero qualora il conducente rifiuti di sottoporsi a tale prelievo,
gli agenti di polizia stradale di cui all’articolo 12, commi 1 e 2, fatti salvi gli ulteriori obblighi previsti dalla
legge, accompagnano il conducente presso strutture sanitarie fisse o mobili afferenti ai suddetti organi di polizia stradale ovvero presso le strutture sanitarie pubbliche o presso quelle accreditate o comunque a tali fini
equiparate, per il prelievo di campioni di liquidi biologici ai fini dell’effettuazione degli esami necessari ad
accertare la presenza di sostanze stupefacenti o psicotrope. Le medesime disposizioni si applicano in caso di
incidenti, compatibilmente con le attività di rilevamento e di soccorso”.
Per l’art. 187, norma relativa alla guida in condizioni di alterazione correlata con l’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope non è stato, a tutt’oggi, promulgato il relativo decreto attuativo.
Il co.3 inoltre intende delegare al sanitario la decisione di quali liquidi biologici e di quali analisi siano
necessari ai fini della sanzione, cosa che contrasta con i principi etici e deontologici del medico che sono
quelli di prevenzione, assistenza e cura.
Innanzitutto, deve essere chiarito che le sostanze introdotte nell’organismo (esogene), tra cui l’alcol etilico
e le altre sostanze psicotrope, esercitano la loro azione farmacologica fintanto che si trovano in circolo nel
sangue.
E, prima di addentrarmi nello specifico delle analisi, ritengo opportuno riassumere brevemente quale sia
il “significato” dei diversi prelievi di materiale biologico.
Le sostanze esogene introdotte nell’organismo penetrano nel sangue, per mezzo del quale raggiungono
gli organi bersaglio dove esplicano l’attività farmacologica (nel caso delle sostanze psicotrope, il bersaglio
è principalmente il cervello) e, raggiunto il valore di picco plasmatico (massima concentrazione), vengono
trasformate in metaboliti (che possono essere ancora attivi o no) e via via completamente eliminate. I tempi
di queste fasi dipendono, oltre che dal singolo soggetto, dalla natura chimica della sostanza, dalle quantità
assunte e dalla via di somministrazione (la via endovenosa e quella attraverso il fumo sono le più rapide
rispetto all’assunzione attraverso la mucosa nasale o alla via orale). A parte rari casi particolari, la maggior
parte delle sostanze scompare dal torrente ematico entro 2-3 ore ed è molto difficile individuare con certezza
una sostanza assunta oltre le 6-8 ore antecedenti il prelievo; in tossicologia questa matrice biologica viene
utilizzata solo per accertare intossicazioni o avvelenamenti acuti.
Quanto detto per il sangue vale anche per la saliva, poiché le sostanze esogene in essa contenute sono
correlabili a quelle contenute nel sangue e la finestra temporale in cui è possibile identificarle è sostanzialmente coincidente con quella del sangue47.
L’urina rappresenta la principale via di eliminazione delle sostanze e in essa, in genere, sono presenti i
loro prodotti di trasformazione (metaboliti) anche se spesso si rinvengono sia la sostanza sia i metaboliti.
47 ���
J.K.M. Aps, L.C. Martens. Review: The physiology of saliva and transfer of drugs into saliva. Forensic Sci. Int. 150 (2005); 119: 131.
[Detection of Drugs in Oral Fluid Edited by Olaf Drummer and Alain Verstraete]
Dibattiti / Focus
Dibattiti / Focus
343
Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
Maggiore è il tempo trascorso tra l’assunzione ed il prelievo dell’urina, maggiore è la probabilità di trovare
solo i prodotti di trasformazione (metaboliti) fino a quando anche questi verranno eliminati e i campioni
risulteranno negativi. La finestra temporale in cui si possono rinvenire può essere anche di molti giorni ed
è correlata, oltre che al soggetto, al tempo trascorso, alle quantità assunte e anche all’abitudine all’uso della
sostanza (assuntori cronici).
Le formazioni pilifere (capelli, peli) rappresentano matrici in cui le sostanze si accumulano nel tempo e
vi rimangono fino a quando capelli e/o peli non vengono tagliati o cadano spontaneamente. Le concentrazioni che si riscontrano alle analisi non possono, ad oggi, essere correlate alle quantità di sostanza assunte
e alla frequenza di assunzione. In genere la finestra temporale relativa all’identificazione delle sostanze nei
capelli dipende dalla lunghezza degli stessi (1 centimetro = 1 mese) mentre nei peli pubici è di circa 10
e 12 mesi. Non esiste altro fluido, organo, tessuto o matrice in grado di accertare assunzioni così lontane
nel tempo48.
Ai fini del C.d.S. sono stati predisposti test di screening rapido sulla saliva proprio per verificare la presenza in circolo delle sostanze psicotrope ed ipotizzare uno stato di alterazione psicofisica conseguente
all’assunzione.
Come detto a proposito dell’alcolemia, per tutti i test di screening, però, è indispensabile un’analisi di
conferma perché si possa escludere una falsa positività.
A titolo di esempio, attualmente, i tribunali statunitensi e di gran parte d’Europa (Italia inclusa) riconoscono quale risultato dotato di elevata affidabilità e, quindi, avente valore di prova, quello ottenuto mediante
l’abbinamento di una tecnica immunochimica come screening iniziale, con la cromatografia accoppiata alla
spettrometria di massa (GC-MS, HPLC-MS-MS, UPLC-MS-MS) come metodo di conferma e di identificazione
univoca della sostanza che ha determinato il risultato positivo preliminare.
Anche la normativa vigente in Italia per il controllo dei lavoratori con mansioni che comportano il rischio
di terzi (D.lgs. 81/08 art.41 c. 4) esige che l’accertamento di primo livello sia costituito da uno screening immunochimico che, se positivo, sia seguito da analisi di conferma con tecniche cromatografiche (GC o HPLC)
accoppiate alla spettrometria di massa.
Si deve ancora sottolineare che le stesse ditte produttrici ed i distributori dei kit per i test immunochimici, nelle “istruzioni per l’uso” raccomandano di confermare sempre gli eventuali risultati positivi con altre metodiche.
La maggior parte dei laboratori delle strutture ospedaliere per le necessità di pronto soccorso, per motivi
di costi e per la non invasività del prelievo, esegue la ricerca delle sostanze psicotrope e delle droghe d’abuso
sulle urine.
Come sopra ricordato, però, le urine non sono idonee a stabilire se il soggetto avesse assunto sostanze
48
344
La possibilità di identificare la presenza di sostanze stupefacenti nelle formazioni pilifere per assunzioni di molto pregresse rispetto al
momento dell’accertamento, nasce, alla fine degli anni 70, dall’intuizione di Baumgartner, un patologo della Marina Militare Statunitense nel tentativo di scoprire se i militari impegnati nel Sud-Est Asiatico avessero fatto uso di sostanze stupefacenti [A.M. Baumgartner, P.F.Jones, W.A. Baumgartner, C.T. Black. Radioimmunoassay of hair for determining opiate-abuse histories. J. Nuclear Med. 20:
749-52 (1979)]. Successivamente è stata creata la Society of Hair Testing (SOHT), società scientifica internazionale per lo studio di
queste problematiche. Da allora sono stati pubblicati numerosi trattati, ricerche scientifiche, convegni internazionali ecc. tra cui:
Hair Analysis as a Diagnostic Tool for Drug of Abuse Investigation. Proceedings of the 1st International Meeting – Genoa –Italy. 10-11
December 1992.
National Institute on Drug Abuse: Hair testing for Drugs of Abuse – U.S. Department of Health and Human Services – National Institute
of Health (1995).
Hair Analysis in Forensic Toxicology: Proceedings of the 1995 International Conference and Wokshop. ABU DHABI 19-23 Nov.1995.
Drug Testing in Hair. Edited by Pascal Kintz – CRC PRESS INC. (1996).
Dibattiti / Focus
prima di mettersi alla guida in quanto costituiscono la via di eliminazione dei farmaci dall’organismo e, quindi, raccolgono gli “scarti” anche di giorni precedenti.
Si pensi che la positività al metabolita della cannabis, in quanto si accumula nel tessuto adiposo, può
essere riscontrata nelle urine anche dopo una settimana dall’ultima assunzione.
Inoltre, nella maggior parte dei casi, poiché non esiste nessuna norma od obbligo in materia di conservazione, i campioni biologici che vengono analizzati negli ospedali, anche se risultati positivi allo screening
e usati quindi dall’Autorità Giudiziaria per emettere sanzioni e capi di imputazione, vengono smaltiti rapidamente o, al più, conservati per qualche giorno (magari a temperatura non idonea – tipo frigorifero) impedendo l’eventuale analisi di conferma a garanzia del soggetto.
Visto che questo tipo di problematiche tecniche, procedurali ed interpretative sono emerse da anni e sono
causa di contenziosi che, per la mia personale esperienza si sono quasi sempre conclusi con l’assoluzione
dell’indagato solo dopo, però, mesi di ritiro della patente, avvocati, udienze e consulenti di parte, avrei ritenuto più opportuno che si procedesse, anziché con la creazione di una nuova legge dettata dall’onda emotiva,
sanando quelle che negli anni si sono dimostrate essere delle carenze e labilità delle norme già esistenti.
L’identificazione genetica e il reato di omicidio
stradale
di
Emiliano Giardina
Variability is the law of life, and as no two faces are the same, so no two bodies are alike, and no two
individuals react alike and behave alike under the abnormal conditions which we know as disease. William
Osler (1849-1919)
Lo studio della variabilità inter-individuale è da sempre la principale sfida della medicina. Perché la stessa
malattia si estrinseca in fenotipi differenti nei malati? Perché pazienti che assumono lo stesso farmaco reagiscono in modo diverso? Perché in alcune famiglie ricorrono alcune malattie e non altre? La comprensione della diversità biologica tra gli individui è oggi alla base della medicina genomica, per personalizzare le terapie
e la prevenzione. L’avvento delle tecniche di genetica molecolare ha dimostrato negli ultimi anni l’esistenza
di un paradosso del DNA: siamo praticamente uguali dal punto di vista genetico, ma profondamente diversi
dal punto di vista biologico e fenotipico. Il 99.7% della sequenza del DNA è uguale in tutti gli individui, solo
il restante 0.3% mostra variabilità. È evidente che una piccola porzione del DNA ha un profondo significato
biologico. Queste differenze sono dovute principalmente ai polimorfismi del DNA, sequenze variabili tra le
popolazioni e tra gli individui. Non si tratta di mutazioni, ma di variazioni frequenti, neutrali o con piccoli,
piccolissimi effetti sul fenotipo. Questi polimorfismi sono oggi studiati per comprendere le basi molecolari
delle patologie, predire i profili di risposta ai trattamenti farmacologici in termini di sicurezza ed efficacia,
determinare, a livello probabilistico, il rischio individuale di malattia. Nel caso oggetto di trattazione in questo
articolo, queste caratteristiche genetiche possono determinare differenze nella velocità di metabolizzazione di
sostanze in grado di alterare la capacità di guida e la risposta all’assunzione delle stesse sostanze. Certamente
a breve queste differenze tra gli individui potranno e dovranno essere prese in considerazione dal legislatore
Dibattiti / Focus
(Responsabile Laboratorio di Genetica Forense, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)
345
Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
specialmente se sarà dimostrata in modo univoco una diretta associazione quantificabile e ripetibile.
Da un punto di vista diverso, la genetica svolge un ruolo importante nella determinazione dei responsabili
di reati quale anche quello dell’omicidio stradale. Le varianti genetiche di cui abbiamo parlato prima, sono
oggi utilizzate per identificare gli individui in ambito forense e prendono il nome di marcatori. Ne esistono
molte classi, con caratteristiche differenti ed utilizzati per diverse finalità. In linea teorica, qualsiasi sequenza
di DNA può essere utilizzata quale marcatore di identificazione, ma esistono delle precise caratteristiche preferenziali di alcune sequenze che le rendono preferibili rispetto ad altre. In particolare:
Il grado di polimorfismo (o eterozigosità): più è alto maggiore sarà l’informatività del marcatore e quindi
la sua capacità di discriminare i cromosomi gli uni dagli altri (e di conseguenza, gli individui);
La lunghezza della sequenza variabile: sequenza brevi possono essere analizzate con maggiore facilità e
velocità e con minori costi;
La localizzazione sui cromosomi: per determinare la segregazione patrilineare sono preferibili i marcatori
localizzati sul cromosoma Y, per individualizzare una traccia o un campione di DNA, sono generalmente
preferibili i marcatori a localizzazione autosomica, maggiormente variabili a causa dell’assortimento indipendente dei cromosomi e della riproduzione per via sessuale.
La presenza in singole copie nel genoma: se presenti in copie multiple, la determinazione del genotipo
corrispondente può divenire impossibile.
1. Gli Short Tandem Repeats (STRs)
I marcatori genetici più estesamente utilizzati sono gli short tandem repeats, corte sequenze (da 2 a 6 bp)
ripetute in tandem, il cui elemento variabile è costituito dal numero di volte in cui è presente l’unità ripetuta.
La tipizzazione molecolare di un marcatore STR consente di determinare il numero di volte in cui è presente
l’unità ripetuta (su entrambi gli omologhi). Il genotipo è rappresentato dai due alleli corrispondenti nominati
in base al numero di ripetizioni. L’insieme dei genotipi ai marcatori analizzati costituisce il profilo da utilizzarsi a fini comparativi.
Ogni marcatore occupa un preciso locus sui cromosomi ed esiste in un numero elevato di forme alleliche,
caratterizzate dal numero di unità ripetute. Ne esistono migliaia, su tutti i cromosomi. La quantificazione del
numero di unità ripetute presenti al locus STR che stiamo analizzando determina il genotipo (di un individuo
o di una traccia) attraverso un processo chiamato tipizzazione (Butler, 2006; Moretti et al.,2001; Weber et
al.,1989). I più moderni kit disponibili per l’analisi genetica forense permettono di determinare il genotipo a
20-24 marcatori, generando un profilo (l’insieme degli alleli rilevati per ciascun marcatore sottoposto ad indagine) unico per ciascun individuo. Precise analisi biostatistiche consentono infatti di trascurare la possibilità
che due individui presi a caso nella popolazione possano condividere esattamente lo stesso genotipo a tutti
i loci analizzati (Butler, 2014; Fung et al.,2008). Tralasciando alcune eccezioni, delle quali ci occuperemo nel
corso dei prossimi articoli, il profilo di DNA è unico e specifico per ogni individuo.
2. Le classi e la nomenclatura dei marcatori
346
In Tabella 1 sono riportati i marcatori autosomici validati per l’uso forense con le relative specifiche (Rudin, 2002; Watson et al.,2001). Sulla base delle caratteristiche molecolari i marcatori si possono definire:
1) semplici, costituiti da sequenze ripetute identiche sia per lunghezza che per sequenza;
2) composti, costituiti da diverse sequenze ripetute semplici;
3) complessi, costituiti da sequenze ripetute variabili sia in lunghezza che in sequenza.
Dibattiti / Focus
Tabella 1. Elenco dei marcatori autosomici utilizzati in ambito forense.
Locus
Localizzazione Cromosomica Classe
Numero di alleli
D1S1656
TPOX
D2S441
D2S1338
D3S1358
FGA
D5S818
CSF1PO
SE33
D7S820
D8S1179
D10S1248
TH01
vWA
D12S391
D13S317
Penta E
D16S539
D18S51
D19S433
D21S11
Penta D
D22S1045
1q42
2p25.3
2p14
2q35
3p21.31
4q31.3
5q23.2
5q33.1
6q14
7q21.11
8q24.13
10q26.3
11p15.5
12p13.31
12p13.2
13q31.1
15q26.2
16q24.1
18q21.33
19q12
21q21.1
21q22.3
22q12.3
da 8 a 20.3
da 4 a 16
da 8 a 17
da 10 a 31
da 6 a 26
da 12.2 a 51.2
da 4 a 29
da 5 a 17
da 3 a 49
da 5 a 16
da 6 a 20
da 7 a 19
da 3 a 14
da 10 a 25
da 13 a 27.2
da 5 a 17
da 5 a 32
da 4 a 17
da 5.3 a 40
da 5.2 a 20
da12 a 43.2
da 1.1 a 19
da 7 a 20
composto (TAGA)
semplice (AATG)
composto (TCTA/TCAA)
composto (TGCC/TTCC)
composto (TCTA/TCTG)
composto (CTTT/TTCC)
semplice (AGAT)
semplice (AGAT)
complesso AAAG
semplice (GATA)
composto (TCTA/TCTG)
semplice GGAA
semplice TCAT
composto (TCTA/TCTG)
composto (AGAT/AGAC)
semplice (TATC)
semplice (AAAGA)
semplice (GATA)
semplice (AGAA)
composto (AAGG/TAGG)
complesso (TCTA/TCTG)
semplice AAAGA
semplice ATT
Dato il numero di marcatori validati, e la difficoltà attuale a tipizzarli tutti in un singolo esperimento,
esistono delle differenze tra gli STRs utilizzati ai fini identificativi (e necessari per l’inclusione dei profili nei
Database) nei vari paesi, soprattutto tra USA ed Europa. Tuttavia, poiché l’efficacia della tipizzazione genetica
dipende strettamente dalla comparabilità dei dati, oltre ad adottare una comune nomenclatura, si utilizza un
pannello di marcatori comuni che consente di comparare, almeno parzialmente i profili genetici.
Dibattiti / Focus
Sulla base della localizzazione nel genoma si è deciso di adottare la seguente nomenclatura standardizzata
che consente di identificare univocamente ogni marcatore e ogni allele:
1) Per gli STRs all’interno di regioni codificanti (ad esempio negli introni dei geni), lo STR riceve il nome
del relativo gene e si numerano gli alleli utilizzando lo strand codificante del DNA;
2) Per gli STRs non correlati con altri geni si utilizza la prima sequenza depositata nei database. Tali marcatori sono identificati per mezzo della lettera “D” (che indica DNA), un numero che costituisce il cromosoma
sul quale è localizzato, “S” (che indica la presenza in singola copia nel genoma) e poi un numero progressivo
assegnato ai marcatori identificati su quel cromosoma. Questo numero non è indicativo della localizzazione
cromosomica del marcatore;
3) Per i marcatori STR cui era già stata assegnata una particolare nomenclatura, prima della definizione di
questi standard, si è deciso di conservare la prima per evitare confusioni (Butler, 2011).
347
Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
3. Il sistema CODIS
È un pannello di 13 marcatori necessari per l’inclusione dei profili nel National DNA Database degli Stati
Uniti d’America conosciuto come CODIS (COmbined DNA Index System). I marcatori inclusi nel pannello
sono: CSF1PO, FGA, TH01, TPOX, vWA, D3S1358, D5S818, D7S820, D8S1179, D13S317, D16S539,D18S51,
D21S11.
4. Il sistema ESS
348
È il pannello di marcatori utilizzato in Europa (European Standard Set). Attualmente sono 16 gli STRs
comprensi nel ESS: D1S1656, D2S441, D2S1338, D3S1358, FGA, D8S1179, TH01, vWA, D10S1248, D12S391,
D16S539, D18S51, D19S433, D21S11, D22S1045, SE33, (amelogenina?). In tal modo sono 8 i marcatori STR
comuni ai due sistemi (Butler, 2014).
L’applicazione al reato di omicidio stradale
Gli attuali kit commerciali, e validati per l’uso forense, permettono l’amplificazione di 20-24 marcatori in
una singola reazione di PCR. La tipizzazione di questo numero di marcatori consente di estrapolare un profilo
genetico unico ed irrepetibile, con probabilità di condivisione casuale del profilo assolutamente trascurabile.
Tuttavia è importante considerare che in alcune circostanze, che affronteremo in dettaglio nei prossimi mesi,
è necessario estendere il numero di marcatori sottoposti ad indagine per aumentare il peso statistico dell’analisi. L’utilizzo o meno di un profilo in ambito forense dipende infatti non dal numero di marcatori, ma dalla
sua frequenza nella popolazione, stimata attraverso calcoli di tipo biostatistico (Butler, 2014). Solitamente in
seguito ad incidenti stradali gli occupanti il veicolo subiscono lesioni con conseguente possibile rilascio di
tracce biologiche. Tali tracce sono rilevabili sul volante, sul parabrezza, sugli airbag e sulle parti più esposte
degli interni dell’auto. La caratterizzazione genetica si queste tracce biologiche, l’estrapolazione del profilo
genetico e la comparazione con eventuali indagati, consente un’univoca identificazione di chi era all’interno
dell’auto e soprattutto di chi era alla guida.
Occorre tuttavia considerare che le attuali tecniche di genetica forense consentono di stabilire solo chi
ha lasciato una traccia biologica, ma non possono mai dire quando. Nel caso dell’omicidio stradale occorre
considerare che l’auto può essere soggetta ad uso promiscuo e pertanto la rilevazione di un dato profilo
genetico riconducibile ad una persona all’interno di una autovettura non corrisponde ipso facto alla certezza
che tale persona era effettivamente all’interno dell’abitacolo (o alla guida) nel momento dell’incidente. In
tali casi può essere molto utile cercare di contestualizzare la deposizione del materiale genetico. Valga un
esempio per tutti: la rilevazione di tracce biologiche sugli airbag consente di contestualizzare la deposizione
dei fluidi (saliva, sudore, sangue) o altri elementi (capelli) poiché come è noto questi sistemi di protezione
fuoriescono solo al momento dell’incidente. Non può in nessun caso essere presunta una deposizione di
materiale biologico su questi elementi in un’epoca precedente a quella dell’incidente rafforzando il valore
probatorio della prova del DNA.
La determinazione della natura biologica della traccia, che viene effettuata mediante l’utilizzo di test presuntivi o confermativi può essere utile a tal fine. Oltre, quindi, a estrapolare un profilo genetico da tracce
biologiche rilevate sugli airbag, così come su altre parti della carrozzeria, è possibile stabilire anche di che
tipo di fluido si tratta (sangue, saliva, sudore) e l’origine umana. In particolare, se il profilo estrapolato è di
un singolo soggetto è possibile, talvolta, individuare anche con quale fluido biologico il soggetto abbia contribuito alla traccia. Tale analisi è sicuramente utile per ricostruire la dinamica dell’incidente e per associare
la presenza di un soggetto ad un fatto accaduto. Ad esempio se il test ha mostrato esito positivo alla natura
Dibattiti / Focus
ematica di una traccia, il soggetto incluso nella traccia stessa potrebbe essere associato all’autovettura non
solo per l’uso promiscuo dell’auto, ma a causa di un incidente stradale. Occorre tuttavia considerare che se
una traccia nell’autovettura è rilasciata da più soggetti e si identifica la natura della traccia biologica non è
possibile stabilire chi dei tra due o più soggetti abbia contribuito alla traccia con quel determinato fluido biologico. Per la determinazione della natura e della specie di un fluido biologico rinvenuto all’interno di un’autovettura, in seguito ad un incidente stradale si utilizzano un’ampia gamma di test cosiddetti “presuntivi” e “di
conferma”. I test presuntivi sono test orientativi sulla natura biologica della traccia che permettono, inoltre,
di escludere la presenza di una determinata sostanza. Dal momento che possono presentare falsi positivi è
necessario confermare la natura biologica della traccia mediante test confermativi. Spesso si tratta di test immunocromatografici che utilizzano anticorpi monoclonali in grado di legare antigeni umani specifici presenti
nel fluido biologico sottoposto ad analisi (Butler, 2011; Lee et al., 2001). Tali test, validati per l’uso forense,
consentono di mantenere inalterata la traccia ai fini di non compromettere le successive fasi analitiche.
5. Conclusioni
Mediante l’analisi genetico forense di tracce rinvenute all’interno dell’abitacolo è possibile l’estrapolarne
il profilo genetico e compararlo con eventuali indagati. I kit commerciali di ultima generazione validati per
l’uso forense, permettono, ad oggi, la tipizzazione simultanea di 20-24 marcatori in una singola reazione di
PCR. L’analisi di questo numero di marcatori consente di estrapolare un profilo genetico unico ed irrepetibile. Ciò consente un’univoca identificazione di chi era all’interno dell’auto e soprattutto di chi era alla guida.
L’indagine forense permette, inoltre, di caratterizzare la natura biologica della traccia e definirne la specie di
appartenenza. Tale analisi può essere utile quindi per ricostruire la dinamica dell’incidente e per associare
cronologicamente la presenza di un soggetto ad un fatto accaduto. Sebbene ad oggi, nel caso specifico dell’omicidio stradale, la tipizzazione genetica sia una tecnica di uso infrequente, le potenzialità identificative e
la semplicità di esecuzione ne determineranno un’applicazione sempre più diffusa. In particolare tali analisi
potranno e dovranno essere richieste non soltanto dall’autorità giudiziaria ma anche dalle parti, nella certezza
che l’applicazione dell’investigazione scientifica in ambito penale comporta sempre una maggiore capacità di
accertamento della verità oggettiva dei fatti.
Referenze
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Butler, J.M. (2014). Advanced Topics in Forensic DNA Typing: Interpretation. Academic Press.
Fung, W.K., and Hu, Y-Q. (2008). Statistical DNA Forensics: Theory, Methods and Computation. Wiley. Hoboken, NJ.
Lee H.C. and Ladd C. (2001). Preservation and collection of biological evidence. Croatian Medical Journal, 42, 225-8.
Moretti, T.R., Baumstark, A.L., Defenbaugh, D.A., Keys, K.M., Brown, A.L., and Budowle, B, (2001). Validation of STR typing by
capillary electrophoresis. J Forensic Sci. 46, 661-76.
Rudin, N., and Inman, K. (2002). An introduction to forensic DNA analysis. CRC Press.
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multiplex system. Forensic Sci Int. 115, 207-17.
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reaction. Am. J. Hum. Genet. 44, 388-96.
Dibattiti / Focus
Butler J. M. (2011). Advanced topics in forensic DNA typing: Methodology. Elsevier Academic Press.
349
Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
Omicidio stradale e lesioni personali stradali.
Le riflessioni del consulente tecnico
Marco Marcon
Consulente Tecnico e Perito Infortunistica stradale
di
350
Svolgo attività di perito in infortunistica stradale dal 1979 e per questo motivo ho analizzato, studiato e
ricostruito molti incidenti stradali, nonché partecipato a tantissimi processi penali. In questi anni, in cui si è
passati dalla macchina da scrivere al computer, dal disegno a mano con squadra e matita a quello con Autocad, dalla calcolatrice ai programmi di simulazione, dove i veicoli si sono arricchiti di congegni elettronici che
prima solo 007 poteva permettersi e anche le auto più piccole hanno il navigatore, l’ABS, gli airbag e spesso
la scatola nera, le tecniche per ricostruire i fatti si sono affinate: studi, esperimenti e programmi di vario genere sono diventati gli strumenti per analizzare l’incidente in modo sempre più particolare. Le vecchie fotografie in bianco e nero, sono diventate digitali, ingrandibili a dismisura. Le mille telecamere ed i telefonini
(alla faccia della anacronistiche leggi sulla privacy) riprendono ogni giorno qualche incidente, per cui a
volte lo stesso può essere analizzato fotogramma per fotogramma o anche dall’alto (riprese satellitari). In
questi anni molte cose sono cambiate, qualcuna velocemente altre ancora no. Quando faccio il mio lavoro,
spiego sempre che la ricostruzione dei fatti è più o meno attendibile in relazione ai dati oggettivi di cui si
dispone. Più i rilievi di P.G. sono precisi, più la ricostruzione sarà oggettiva. Con l’entrata in vigore della legge 41/2016 (omicidio stradale e lesioni personali stradali), i rilievi di P.G. sono ancora più importanti e la
prima cosa che mi viene in mente, da normale cittadino a maggior ragione da perito, è: speriamo che chi
interviene sia ben addestrato e dotato di tutti quegli strumenti che possano garantire la corretta individuazione e natura delle tracce, la cristallizzazione dei dati oggettivi necessari per ricostruire in modo puntuale i
fatti e definire la velocità dei veicoli coinvolti. Dal 25/03/2016 le pene si sono inasprite e sono previsti anche
delle aggravanti non solo per la guida in stato psicofisico alterato, ma anche se vengono rilevate violazioni
ad articoli specifici del CdS. Gli articoli oggetto di aggravante sono il 142 (velocità), il 143 (riferito alla circolazione contromano), il 154 (riferito all’inversione di marcia in corrispondenza di aree d’intersezione, curve o
dossi), il 148 (riferito al sorpasso in prossimità delle strisce pedonali), il 146 (sorpasso in presenza di linea
continua). Se è sacrosanto che la pena abbia una relazione con la velocità, se si vuole “giustizia”, è necessario
che il legislatore si preoccupi di dare all’autorità che interviene i mezzi e gli strumenti per poter consentire
poi di giudicare al meglio, quindi che sappia valutare se la segnaletica verticale apposta è tecnicamente comprensibile (penso ai cartelli di limite 20 km/h sparsi a vanvera sulla strada solo al fine di ritardare i necessari
interventi di manutenzione). Le violazioni sopramenzionate sono facilmente rilevabili da un tecnico quando
riguardano l’aspetto geometrico dell’incidente, ovvero la posizione sulla strada al momento dell’urto. Questa
viene infatti ricostruita in relazione alle tracce prodotte prima e dopo la collisione, per cui se i rilievi sono
precisi, non sarà difficile contestare in modo oggettivo le violazioni di cui agli articoli 143, 146, 148 e 154.
Discorso differente va fatto per la contestazione all’articolo 142 (velocità), in questo caso è importante la
massima attenzione sia da parte di chi effettua i rilievi (P.G.) che da chi poi li analizzerà (CT del PM, CTP,
Pdu). Per prima cosa, visto che l’aggravamento della pena riguarda l’articolo 142, è bene che la P.G. dia sempre indicazione precisa sul limite consentito, specificando se è quello generico per tipo di strada o se è
quello imposto dalla segnaletica. Quando il CT del PM analizza la dinamica dell’incidente, naturalmente da
indicazioni riguardo la velocità dei veicoli coinvolti in esso. La velocità di un veicolo viene solitamente cal-
colata analizzando le fasi che hanno preceduto l’urto e cause ed effetti dello stesso, quindi l’energia dissipata prima della collisione, durante (lavoro di deformazione dei lamierati) e dopo (raggiungimento posizioni di
quiete). È quindi indispensabile che i rilievi siano tali da poter definire bene le tre grandi fasi in cui la velocità viene dissipata. Di solito il problema riguarda la fase antecedente all’urto, se infatti prima dello stesso
non vengono rilevate tracce di frenata, non è detto che i conducenti dei veicoli coinvolti non abbiano frenato. Non è raro che uno o tutti i veicoli coinvolti siano dotati di ABS, ovvero di sistema frenante che evita il
bloccaggio delle ruote e quindi la produzione di tracce marcate e continue di abrasioni gommose sull’asfalto,
tracce che con l’impianto frenante tradizionale venivano sempre prodotte a causa del bloccaggio delle ruote
e relativa produzione di attrito radente. In sintesi quando in un incidente rimane coinvolto un veicolo dotato
di ABS (caso sempre più frequente), il tecnico sa che è possibile che parte della velocità sia stata dissipata
prima dell’urto, ma non può dimostrare con certezza che ciò si sia veramente verificato se gli accertamenti
non sono stati fatti con la massima professionalità e attenzione. Al fine di consentire al magistrato di valutare
la pena, è bene quindi che il tecnico che calcola la probabile velocità dissipata prima dell’urto senza avere
solidi dati oggettivi, dica con chiarezza che si tratta di un dato verosimile ma non certo. Per il resto è bene
che il tecnico si esprima sempre con cautela, dando indicazioni precise sul limite della propria perizia, indicando che la velocità è stata calcolata “per difetto”, piuttosto che “per eccesso”, al fine soprattutto di evitare
udienze dove: avvocati e periti discutono per ore sull’approssimazione del calcolo, su un coefficiente piuttosto che su un altro, invece che sulla sostanza e le certezze del caso. Leggendo la 41/2016 si osserva anche
che il legislatore si è preoccupato di allungare i termini di prescrizione. Riguardo questo punto si osserva che,
a parte i casi eclatanti dove forse sarà utile, tale provvedimento è la logica conseguenza di un sistema lento,
macchinoso, inefficiente (sembra che se il treno ritarda sia logico cercare di rinforzare la linea; mentre se la
giustizia arriva in ritardo non importa dargli i mezzi per evitarlo, ma la giustificazione per farlo). In questi
anni, ho passato molto tempo nei corridoi prima di essere chiamato in aula per esporre la mia relazione.
Durante le attese, non sempre comprensibili, ho visto spesso che due o tre agenti di P.G. convocati alle 9:00,
venivano liberati alle 13:00 senza essere ascoltati, perché il processo doveva essere rinviato di svariati mesi…
Mi viene rabbia incontrare la P.G. davanti alle aule piuttosto che lungo le strade, sui marciapiedi o dentro la
metro … mi viene rabbia pensare che vengono pagati per aspettare, spesso solo per dire: “… non ricordo
bene, rileviamo centinaia di incidenti, sono passati svariati anni, posso però confermare il verbale: l’ho scritto anche io”. Durante l’esercizio della mia professione, ho visto spesso che per avere la prima sentenza ci
sono voluti troppi anni: i tempi della giustizia sono eccessivamente lunghi per considerarla tale. Le troppe
udienze, oltre che incrementare le spese, sono uno stillicidio soprattutto per le vittime. Le vedove, gli orfani,
i genitori che perdono un figlio sono costretti ad affrontare un mondo strano, che li opprime per anni, che li
dissangua, che li fa aspettare, che non li aiuta nell’immediato, che li costringe a rivivere il dolore ogni volta
che c’è una nuova udienza. Dopo due anni la voglia di giustizia diventa una illusione e quando i fatti sono
ancora più lontani, resta solo il dolore e la speranza di poter girare pagina e dimenticare (si fa per dire) il
prima possibile. Se come cittadino auspico che la legge 41/2016 crei le condizioni per diminuire le vittime
della strada (nel 2014 gli incidenti hanno procurato 3.381 morti e 251.457 feriti), come CT sono sicuro che
inizialmente produrrà sicuramente maggior lavoro e spese, nonché sentenze ancora più lontane. Spero quindi che il legislatore abbia valutato che la 41/2016 aumenterà le incombenze per tutto l’indotto: i magistrati
saranno costretti a procedere di ufficio per tutti i casi in cui l’incidente ha prodotto lesioni (almeno centomila processi in più) e non solo per quelli dove ha causato un decesso, i costi della giustizia saranno aggravati
da maggiori spese a carico dell’erario per il sequestro e la custodia veicoli e per le necessarie consulenze; i
tempi della giustizia diventeranno ancora più insopportabilmente lunghi. Mi auguro di vedere un potenziamento del corpo di Polizia, altrimenti difficilmente potrà far fronte in modo professionale ed in tempi accettabile a tutta l’attività che dovrà fare (già ora, quando come CT del PM prendo un incarico sono spesso co-
Dibattiti / Focus
Dibattiti / Focus
351
Omicidio stradale e lesioni personali stradali. Luci (poche) ed ombre (molte) dell’ennesima disciplina scritta dall’emergenza
stretto a chiedere proroghe perché i rilievi definitivi non sono disponibili nei termini a me concessi); spero
inoltre che nel frattempo, si possa discutere se per acquisire in udienza il rapporto di P.G. sia veramente
utile convocare sempre gli agenti che hanno rilevato l’incidente o solo quando è necessario chiarire la natura o l’ubicazione di una traccia; per chiedersi infine: è preferibile o meno avere più agenti fuori dalle aule di
giustizia che non sulla strada? è meglio pagarli per sentirsi dire, dopo ore di attesa, l’ovvio, piuttosto che per
prevenire gli incidenti e rilevarli?
352
La stanza
di Gaetano
La Corte Costituzionale non è più il giudice delle leggi, ma è un giudice che fa le leggi. Ancora, noi avvocati, ricordiamo la sentenza che azzerò il processo accusatorio in base al principio della conservazione
degli atti giuridici: un principio che la Costituzione ignora, ma in base al quale la Corte affermò che gli atti
di indagine erano tutti utilizzabili in sede dibattimentale. L’UCPI proclamò sette giorni di sciopero, e il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, ci accusò di eversione. Salvò l’accusatorio la riforma dell’art.
111, che sovrastò la volontà della Corte. Ma che strano essere è la Corte Costituzionale? È un giudice, ma fa
leggi che stanno sopra la volontà del Parlamento, e che il Parlamento non può modificare se non con leggi di
rango costituzionale. Da cosa gli deriva, poi, la legittimazione a fare leggi, o a cancellare leggi ricorrendo al
principio di ragionevolezza, se il potere di fare leggi ha il suo fondamento soltanto nella volontà popolare, e i
giudici della Corte sono nominati dai magistrati o in sede politica?
La questione fu dibattuta nell’Assemblea costituente, che si divise, creando alla fine un giudice che in realtà è un organo politico. Ho cercato di ricostruire quel dibattito, e di prospettare una riforma costituzionale
che, almeno in parte, riportasse la Corte nell’alveo della giurisdizione. Ma anche questa riforma è rimasta
ferma in Parlamento, paralizzata da una politica senza coraggio.
Origini e ambiguità della Corte Costituzionale1.
La Corte costituzionale è un organo giurisdizionale o è un organo politico?
È noto che su ciò vi sono state recenti polemiche che però sono state poste in modo sbagliato o dalle
persone sbagliate. L’occasione è stata quasi sempre la pronuncia della Corte su istituti processualpenalistici
che riguardavano personalità politiche. Per questo il confronto è stato tutto ideologico, da parte di soggetti
interessati, e al di fuori di qualsivoglia prospettiva scientifica. Ma la questione c’è, ed è seria. Lo dimostra
l’ampio dibattito che si è svolto in sede di Assemblea costituente con l’intervento di giuristi come Mortati, o
di politici come Togliatti. La questione – soprattutto nel campo del diritto penale – è anche attuale, benché
abbia le sue radici nella storia, in tutt’altra epoca, alle origini della nostra democrazia.
Tendenzialmente la sinistra vide con diffidenza un organo che non promanava dalla volontà popolare, e
che con le sue decisioni si sovrapponeva al Parlamento, unica vera espressione della democrazia. Per i costituenti del P.C.I. la Corte costituzionale, togliendo efficacia alle leggi, doveva avere una qualche investitura
popolare. La esigenza fu particolarmente avvertita da Renzo Laconi, vicinissimo a Palmiro Togliatti. Laconi
sostenne, nel corso del dibattito nella Seconda Sottocommissione, che alla Corte dovesse darsi sì una “composizione tecnica”, ma anche “una fonte politica genuinamente democratica”. Si trattava di tutelare la centralità
della sovranità popolare: l’organo, perciò, avrebbe dovuto avere la stessa “origine e dignità dell’Assemblea
costituente”: poteva darsi il via libera al controllo di costituzionalità (su cui la sinistra aveva espresso molte
1
Il testo del’articolo è stato pubblicato su “Diritto penale e processo”, n. 12, anno 2014.
Gaetano Pecorella
riserve), ma a condizione che l’Assemblea costituente delegasse il suo stesso potere “ad un organo della medesima origine e dignità, cioè costituito con quelle cautele con le quali saranno prevedute nella Costituzione
le modifiche alla Costituzione stessa”.
Ci furono, all’interno del gruppo comunista, posizioni ancor più radicali. Carlo Farini, nella stessa sede,
sostenne che la Corte costituzionale dovesse essere “l’espressione della volontà e degli interessi delle classi
popolari e, pertanto, se i suoi componenti fossero nominati dall’alto, essi sarebbero stati avulsi dall’anima
popolare”. Perciò, andava “senz’altro respinta l’idea di realizzare un organo superiore che controlli la legalità
della legge: compito che semmai potrebbe essere riservato al Parlamento”.
Lo stesso Calamandrei, uno dei relatori della Seconda Sottocommissione (l’altro era Giovanni Leone), dichiarò di condividere “i dubbi e le incertezze di carattere politico avanzate dai commissari comunisti, perché
questo controllo di costituzionalità che il giudice potrà esercitare sulle leggi sarà spesso di carattere politico e
non giuridico”, “specialmente di fronte a una Costituzione, come quella allo studio, in cui molti articoli sono,
non vere e proprie norme giuridiche, ma direttive politiche proiettate verso l’avvenire”. E di ciò era talmente
convinto da proporre, nel suo progetto di Costituzione, che la decisione della Corte, che avesse accolto il
ricorso, dovesse avere efficacia meramente dichiarativa della incostituzionalità della legge, ma non potesse
abrogarne, né sospenderne l’efficacia. Sarebbe spettato al Governo, informato della dichiarazione di incostituzionalità, prendere l’iniziativa di proporre alle Assemblee legislative una legge abrogativa o modificativa della
legge dichiarata incostituzionale. In sostanza – commentava Calamandrei – “in questi conflitti tra la Suprema
Corte costituzionale e l’organo legislativo, l’ultima parola rimane sempre a quest’ultimo, e cioè al popolo”.
Anche in altri gruppi ci fu chi manifestò diffidenza verso la istituzione di una “Suprema Corte costituzionale”, come Pietro Bulloni, democratico cristiano. La sua fu una posizione molto rigida, tanto che affermò
che “la Corte costituzionale, se anche fosse istituita, non avrebbe mai ragione di essere chiamata a decidere,
e che, d’altronde sarebbe assurdo che un organo a carattere tecnico o tecnico-politico, ma non emanante dal
popolo, controllasse leggi formulate dagli organi che sono espressione della volontà popolare. La Corte, al
massimo, potrebbe essere creata per giudicare della costituzionalità delle leggi regionali e per dirimere gli
eventuali conflitti tra le regioni e lo Stato”.
Altrettanto numerosi e autorevoli, però, furono coloro che sostennero la natura esclusivamente “giurisdizionale” della nascente Corte: da Giovanni Uberti, democratico cristiano, a Giovanni Leone, a Gaspare
Ambrosini, anch’egli democristiano. L’argomento fu sostanzialmente che non poteva spettare al Parlamento
giudicare della costituzionalità di una legge, in quanto con ciò esso avrebbe avuto la funzione di controllare
se stesso. Perciò l’organo avrebbe dovuto avere carattere soprattutto, se non esclusivamente, giurisdizionale.
Il dibattito sul punto, fu assai vivace, ma alla fine la Seconda Sottocommissione riconobbe l’esigenza di
ricondurre il nuovo organismo a un fondamento democratico: il 15 gennaio 1947 fu approvato il principio
secondo cui tutti i componenti della Corte costituzionale dovevano essere eletti dall’Assemblea nazionale.
Il dibattito nell’Assemblea Costituente.
354
Com’era inevitabile, il confronto tra le due tesi si ripropose in sede di Adunanza plenaria investendo la
scelta stessa dell’organo, quale “giudice delle leggi”. Luigi Einaudi sostenne che, proprio per evitare un giudizio politico, fosse preferibile affidare il giudizio di costituzionalità al magistrato ordinario. Si legge nella
seduta del 1° febbraio 1947: “La ragione fondamentale è che, se il giudizio della incostituzionalità delle leggi è
Origini e ambiguità della Corte Costituzionale
La scelta dei Costituenti. La Corte come organo
eminentemente giurisdizionale.
Tramontata la tesi di Calamandrei di lasciare al Parlamento l’ultima parola sulla costituzionalità di una
legge, il confronto fra le due fazioni, in sede di Assemblea costituente, si concentrò inevitabilmente sulla
fonte del potere attribuito alla Corte costituzionale, e cioè sul soggetto o sui soggetti a cui dovesse affidarsi
l’elezione dei suoi componenti.
Togliatti, ed altri del gruppo comunista, proposero un emendamento in base al quale i giudici della Corte
dovessero essere nominati per un terzo dalla Camera dei deputati, per un terzo dal Senato e per un terzo dalle
Assemblee regionali. Laconi lo illustrò criticando la proposta del Comitato di coordinamento (o Comitato dei
diciotto), secondo cui la Corte dovesse essere nominata per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un
terzo dal CSM, e per un terzo dal Parlamento: così, sostenne, “è stato snaturato il carattere fondamentale della
Corte costituzionale. Si è passati, infatti, da un organo che era definito e configurato come tecnico-politico,
ad un organo che si vuol rendere prevalentemente od esclusivamente tecnico”. “Ora, è questa la Corte costituzionale che noi intendiamo preporre al controllo dei supremi poteri dello Stato? In sostanza, a questa Corte
La stanza di Gaetano
lasciato al Tribunale ordinario, si ha la massima probabilità che il giudizio stesso sia inspirato esclusivamente
a criteri giuridici; mentre invece, se tale giudizio è affidato ad una Corte speciale, esso avrà in parte un valore
politico. La Corte, per quanto si circondi di garanzie, è pur sempre una Corte nominata dal Parlamento e,
quindi, ha un carattere indiscutibilmente politico. Attraverso la nomina politica quello che influisce di più è
l’ambiente politico e non quello giuridico: non sono considerazioni puramente giuridiche quelle che fanno
sì che il giudizio di costituzionalità sia formato. Il giudizio di costituzionalità di una legge è un giudizio che
deve avere puramente un carattere giuridico. Qualora il Parlamento voglia modificare la legge, la modifichi
secondo le vie normali, non attraverso questa maniera indiretta di far pronunziare la incostituzionalità o la
costituzionalità di una legge”.
Contro la proposta di Enaudi, Laconi osservò che “la magistratura in Italia non ha una investitura popolare
e quindi non è assimilabile al potere costituente e non può avere investitura di questo genere. Si è parlato
di potere di carattere tecnico, ma la funzione attribuita alla Corte costituzionale ha un alto valore politico”.
Il problema, infine, fu esposto, con chiarezza, davanti all’Assemblea Costituente, da Codacci Pisanelli, del
gruppo democratico cristiano, che si chiese: “A chi attribuire il controllo della legislazione?”. La sua risposta
fu nel senso che “per controllare la costituzionalità delle leggi è anche necessario l’esercizio di un controllo
politico”, che avrebbe dovuto avere la specifica finalità di garantire i cittadini dagli abusi del potere legislativo. Si vedrà come in queste parole vi è il seme della profonda trasformazione della Corte che, da organo di
controllo, si trasformerà, lei stessa, in organo legislativo, o, quanto meno, in una ulteriore “fonte del diritto”.
Costantino Mortati, del gruppo democristiano, si schierò decisamente per la natura giurisdizionale della
Corte. Eguale fu la posizione di La Pira che così si espresse: “se c’è una legge base la quale è suscettibile
di violazione da parte del legislatore futuro, la conclusione è evidente: deve esistere un organo giurisdizionale il quale accerterà, ove queste violazioni avvenissero, il verificarsi di tali violazioni”. “Qual è la finalità
di quest’organo?”, si domandava: “Evidentemente è una finalità giurisdizionale, tecnica, perché si fa questo
confronto fra le leggi e in base al confronto viene emessa una sentenza in cui si dichiara la costituzionalità
e incostituzionalità di una legge”.
355
Gaetano Pecorella
noi abbiamo dato la funzione di interprete della nostra volontà di costituenti. Come possiamo pensare che
legittimamente interpretino la nostra volontà e giudichino in base alle norme da noi sancite, uomini che sono
eletti dal Consiglio della Magistratura, il quale non ha nessuna derivazione popolare? Possiamo pensare che
essi possano interpretare domani quello spirito innovatore che noi abbiamo infuso nella Costituzione? Possiamo noi pensare che questo spirito profondamente innovatore, dal punto di vista sociale ed economico, che
noi abbiamo infuso nella Costituzione, possa essere inteso nel suo significato reale e nella sua reale portata
da uomini che siano sottratti completamente a qualunque elezione popolare, ed anche al più lontano riflesso
delle elezioni popolari? Non credo che questo possa accadere”.
L’emendamento fu bocciato. Come fu bocciato l’emendamento di Ferdinando Targetti, del gruppo socialista, che attribuiva al Presidente della Repubblica, per un terzo, e al Parlamento, per due terzi, la nomina dei
giudici della Corte. L’onorevole Fabbri, del gruppo misto, obiettò che, “mentre certamente in ogni giudizio
da parte di qualsiasi giudice vi è sempre, da un punto di vista generale, un lato tecnico e un lato politico,
nel caso particolare di questo giudizio da parte della Corte costituzionale, il lato preminente è nettamente
di carattere giurisdizionale. Questo deve essere l’elemento caratteristico della Corte costituzionale, sia pure
con il concorso di quei tali criteri d’ordine tecnico e d’ordine politico che sono subordinati alla esigenza
primordiale, preminente su tutte le altre, di una pronuncia giurisdizionale”. Contro si espresse anche Gaetano
Martino, deputato del gruppo liberale, ritenendo “pericoloso” “il voler ravvisare nella Corte costituzionale un
contenuto politico tale per cui essa, per la sua formazione, per la sua composizione e per il suo funzionamento, debba essere un organo politico”.
L’assemblea, dunque, fu chiamata a scegliere su una di queste due tesi: la preminenza della valutazione
politica nella funzione della Corte; ovvero la preminenza della valutazione giuridica. L’assemblea si espresse
a favore della seconda.
Ciò che è accaduto dopo: la forza delle cose.
356
Ma le cose andarono in tutt’altro modo rispetto alle intenzioni dei Costituenti. I germi di una Corte
prevalentemente politica erano già insiti nella sua stessa funzione, che era ed è quella di contribuire alla
formazione delle leggi, attività politica per definizione. Ma si ritrovano anche nel cuore della Costituzione,
e cioè nella previsione di norme di indirizzo, di norme programmatiche, di norme di principio. L’onorevole
Laconi lo aveva detto: “Oggi, nella nostra Costituzione figurano elementi di orientamento per le Assemblee e
i Governi di domani. Io mi chiedo quando domani le Assemblee legislative ed i Governi che succederanno
alla nostra Assemblea ed all’attuale Governo, dovranno muoversi entro la sfera di discrezionalità che è loro
consentita nell’ambito di quei principi, è possibile che un organo giurisdizionale, intervenendo per assicurare
la costituzionalità di questi atti, possa limitarsi unicamente ad un controllo di legittimità e non debba fatalmente sconfinare anche nel merito?”.
Eventi successivi rafforzarono la vocazione della Corte costituzionale a fare di sé il “supremo legislatore”,
e non l’organo di garanzia, di controllo meramente giuridico, come era stato pensato nel 1947. Ci fu un grave
ritardo del Parlamento ad adeguare la legislazione ordinaria sia alla lettera che allo spirito della Costituzione.
La Corte finì per sostituirsi alla politica, alla sua inerzia, spesso al suo rifiuto di dar corso al cambiamento: e
così cercò formule nuove, al di là dei palesi contrasti tra le norme (ordinarie e costituzionali), per avviare il
nuovo corso. Fu certamente meritevole, ma alterò sensibilmente gli equilibri istituzionali.
A ciò si aggiunse il mutamento che negli anni si ebbe della magistratura che si impegnò, sempre più direttamente, nella società cercando di regolamentarla secondo l’uno o l’altro modello ideale: ragion per cui,
quello che doveva essere un elemento di equilibrio, di pura giuridicità, nella Corte, diventò una delle sue
componenti politiche.
La Corte costituzionale, via via, in questi anni, non si è limitata al ruolo di conservazione dei valori fondanti la Repubblica, a verificare la costituzionalità delle leggi alla luce di quei valori: la Corte ha esercitato
una chiara funzione politica, di creatrice del diritto. Ciò è stato possibile soprattutto ricorrendo a un principio
di valutazione della legge che non è in Costituzione, ma che è il fondamento di ogni sistema giuridico che
nasca dalla mente umana: sto parlando del principio di ragionevolezza. Il principio di ragionevolezza esprime
il modo di essere della giustizia costituzionale. Valutazioni di ragionevolezza sono presenti in tutti i tipi di
controllo affidati alla competenza della Corte costituzionale. Si è fatto largo uso del principio di ragionevolezza, ad esempio, in tema di eguaglianza, elaborando la regola secondo cui l’art. 3 Cost. è violato “anche
quando la differenza di trattamento è irrazionale secondo le regole del discorso pratico, in quanto le rispettive
fattispecie, pur diverse, sono ragionevolmente analoghe” (sent. n.1009 del 1988).
Ma la Corte ha fatto un passo ulteriore: ha cominciato a sindacare gli atti legislativi in quanto irragionevoli
in sé, ossia senza termini di raffronto. Il primo segno ufficiale di questo mutamento di prospettiva si trova nella relazione annuale del Presidente Saja del 1987: “La Corte ha portato il suo esame sull’intrinseca irragionevolezza della norma, in sé considerata, allorquando non era prospettabile il confronto con altre disposizioni”.
Mi sembra che si possa dire che, per la Corte, è irragionevole ciò che non risponde alla sua concezione
dell’ordinamento giuridico, e persino dell’ordine sociale. La Corte, in sostanza, in questi casi non è d’accordo
con le scelte fatte dal legislatore, e le corregge. Se “razionale” vuol dire: “secondo ragione”, la Corte, quando
ricorre a questo parametro, sovrappone il suo modo d’intendere la società a quello del Parlamento, e quindi
si sostituisce al legislatore, diventa il legislatore.
Il mezzo, per legiferare, tecnicamente, sono le sentenze interpretative, di rigetto o di accoglimento, le
sentenze manipolative e, soprattutto, le sentenze additive, per le quali una legge è incostituzionale “nella
parte in cui non prevede”. Si ha così un organo che fa leggi pur non avendo alcuna investitura popolare. C’è
di più. Nel momento in cui emette una sentenza additiva, crea una norma che è modificabile dal Parlamento
solo con la complessa procedura della revisione costituzionale: un esempio, a noi caro, è stata la introduzione
dell’art. 111, che si è resa necessaria dopo il ripetersi di sentenze dirette ad abrogare il fondamento stesso del
giusto processo, e cioè la netta separazione delle fasi. Lo ha riconosciuto Sabino Cassese che, con il suo libro
Dentro la Corte. Diario di un giudice costituzionale, ci ha permesso di “spiare” gli umori, i pregiudizi politici,
le vere ragioni delle decisioni del giudice delle leggi: «La legge del 1953 fa salva la discrezionalità del legislatore. La Corte Costituzionale arretra quando si tratta della discrezionalità legislativa (un concetto almeno
ambiguo). Ma, poi, la Corte diventa legislatore essa stessa quando, con interpretative di accoglimento, decide
che il testo deve essere quello risultante da certe addizioni o modificazioni. La Corte che modifica la legge».
Una proposta.
Torniamo alle origini. I costituenti hanno voluto una Corte costituzionale che fosse organo della giurisdizione, ma sono stati imprevidenti rispetto alle tendenze espansive che sono insite in ogni forma di potere.
Gaetano Martino intuì questo pericolo, invitando l’Assemblea Costituente a limitare quanto più possibile la
La stanza di Gaetano
Origini e ambiguità della Corte Costituzionale
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politicità della Corte, “circondando e la formazione e la composizione e il funzionamento della Corte di determinate cautele”. Cautele che non furono previste.
Torniamo alle origine, nel senso che bisogna sviluppare i caratteri della Corte coerentemente, o come organo politico o come organo giurisdizionale. Oggi vale per la Corte lo stesso rilevo che in non pochi casi può
farsi alla giurisdizione in generale: la forma è quella della giurisdizione, la sostanza è quella della politica.
Se si vuole che sia un organo della giurisdizione, bisogna che, con legge costituzionale, si disponga che
la Corte possa deliberare solo l’accoglimento o il rigetto dell’eccezione con l’esclusione di altre formule.
Probabilmente, però, la vocazione della Corte costituzionale ad essere un organo politico è nelle cose,
ragion per cui non c’è “cautela” che glielo possa impedire. Meglio sarebbe, quindi, dare alla Corte quel fondamento di democraticità che le manca, o con l’elezione diretta, o con la designazione di tutti i suoi componenti
da parte del Parlamento. Per il rispetto delle minoranze bisognerebbe introdurre, da un lato, la dissenting
opinion, e, dall’altro una maggioranza qualificata per la dichiarazione di incostituzionalità.
Non è certo l’epoca che si presti a ricondurre alla politica, ed in particolare al Parlamento, il ruolo di
protagonista, soprattutto in materie che richiederebbero coerenza e senso dello Stato. Ma la ricerca di un
fondamento democratico, in tutte le istituzioni, ci porta, obbligatoriamente, a pensare ad una Corte costituzionale che, essendo parte della produzione normativa, trovi la sua legittimazione nella sovranità popolare.
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