AS 03 [2001] 189-194
Editoriale
Bartolomeo Sorge S.I. *
A proposito
di «coppie di fatto»
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D
ue avvenimenti recenti hanno portato di
nuovo alla ribalta il problema delle coppie
di fatto: la pubblicazione della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata al Vertice di Nizza (7-12
dicembre 2000), e il documento programmatico del Partito Popolare Europeo
(PPE): Una unione di valori, approvato al XIV Congresso di Berlino (11-13 gennaio 2001).
Poiché in entrambe le occasioni si sono scritte e dette tante cose inesatte
circa l’atteggiamento dei cattolici e il pensiero della Chiesa sulle «coppie di fatto», conviene fare un po’ di chiarezza. A questo fine offrono un contributo determinante sia il discorso di Giovanni Paolo II al Tribunale della Rota Romana per
l’inaugurazione dell’anno giudiziario (1 febbraio 2001), sia il discorso tenuto dal
card. Martini, la vigilia di sant’Ambrogio (6 dicembre 2000), ai sindaci, agli amministratori locali e a quanti portano responsabilità civiche, politiche e istituzionali sul tema: Famiglia e politica (cfr in questo numero pp. 250-263).
Anzitutto, richiameremo le dichiarazioni del Vertice di Nizza e del Congresso del PPE che hanno fatto discutere. In secondo luogo, metteremo in luce il
fondamento dottrinale dell’insegnamento della Chiesa in materia. Infine vedremo perché la famiglia fondata sul matrimonio si distingue essenzialmente dalla
coppia di fatto.
1. La «svolta» di Nizza e di Berlino
Sia il Vertice di Nizza, sia il XIV Congresso del PPE hanno preso atto esplicitamente della esistenza delle unioni di fatto. L’opinione pubblica ha parlato
di «svolta». In realtà, dai due vertici politici non è venuto un vero e proprio
«riconoscimento» delle coppie di fatto.
Si è trattato piuttosto della presa d’atto di una realtà essenzialmente
culturale e di costume. Realtà di cui si mostra pienamente consapevole pure
* Direttore di Aggiornamenti Sociali.
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Giovanni Paolo II, quando afferma che «tra le più ardue sfide che attendono oggi la Chiesa vi è quella di un’invadente cultura individualista, tendente […] a
circoscrivere e confinare il matrimonio e la famiglia nel mondo del privato»
(Discorso cit., n. 2, in L’Osservatore Romano, 2 febbraio 2001). Infatti, il prevalere della cultura liberal-individualistica ha messo in ombra la rilevanza
sociale e civile della famiglia e ha aperto la strada alla proliferazione di
nuovi rapporti di convivenza, basati esclusivamente sulla volontà e libertà individuali dei partner, senza che essi debbano rendere conto a nessuno della loro scelta e senza alcuna responsabilità nei confronti della società.
Certo, la cultura moderna ha consentito di raggiungere anche importanti
traguardi positivi, e non solo sul piano scientifico e tecnico. La rivalutazione
dell’individuo ha portato a miglioramenti sociali soprattutto in tema di diritti
umani e ha favorito in modo straordinario l’evoluzione dei rapporti interpersonali. In particolare, lo sviluppo delle scienze umane ha portato a una nuova valorizzazione della relazionalità tra i sessi e alla affermazione della priorità del
rapporto affettivo su quello giuridico all’interno della vita di coppia. Nello stesso tempo, però, la vita familiare ha risentito negativamente, molto più di altri
settori della vita sociale, del processo di privatizzazione e di secolarizzazione
della cultura contemporanea.
Ora, dai documenti finali di Nizza e di Berlino appare evidente che, di
fronte a questa situazione, in Europa prevale oggi la volontà di cercare un
compromesso tra la cultura tradizionale di ispirazione cristiana e la cultura liberal-individualistica. Con tutte le ambiguità che ciò comporta. Infatti,
pur dichiarando solennemente di volere rimanere fedeli al patrimonio spirituale e morale dell’Europa (ispirato ai valori cristiani), la cultura liberale dominante non consente di giungere a una definizione univoca di famiglia, ma obbliga ad accontentarsi di una definizione ambigua, sufficientemente ampia da
non escludere altre forme di convivenza.
Così, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata al
Vertice di Nizza, ribadisce in primo luogo che l’Unione vuole rimanere fedele al
suo patrimonio spirituale tradizionale: «Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana,
di libertà, di uguaglianza e di solidarietà […]. Essa pone la persona al centro della sua azione» (Preambolo). Ma poi, all’art. 9, la Carta introduce una distinzione
ambigua tra «diritto di sposarsi» e «diritto di costituire una famiglia». Questa distinzione, se non compromette direttamente il ruolo della famiglia fondata sul matrimonio, apre però la porta alla legittimazione di altre forme di convivenza.
La medesima ambiguità si riscontra nel documento programmatico del PPE:
Una unione di valori, approvato al Congresso di Berlino. Da un lato, il testo ribadisce la fedeltà ai principi fondamentali del cattolicesimo democratico: ispirazione cristiana della politica, solidarietà, federalismo europeo, economia sociale di
mercato, tutela dei diritti della persona (in particolare difesa della vita dal conce-
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pimento alla morte, condanna dell’aborto e dell’uso di embrioni per la clonazione
o per altre manipolazioni genetiche); d’altro lato, però, venendo a parlare della famiglia, il discorso si fa sfumato e lascia trasparire il compromesso tra la cultura
neoliberale dei popolari del Nord e quella più solidale dei popolari del Sud Europa, in particolare degli italiani. In realtà, né a Nizza, né a Berlino si è giunti a legittimare (o a riconoscere) esplicitamente le coppie di fatto; ma neppure si è avuto il coraggio di riaffermare che «famiglia» è solo quella fondata sul matrimonio.
Infatti il documento finale del PPE (16 gennaio 2000), nel paragrafo dedicato alla famiglia, dice: «Le famiglie, nelle quali il padre e la madre [la prima
bozza diceva: «l’uomo e la donna»] si assumono la responsabilità dei loro figli,
sono il fondamento della nostra società. Noi riconosciamo l’esistenza di nuove
forme di convivenza [la prima bozza diceva: «nuovi modelli di vita familiare»] e
le loro esigenze. Al fine di dare la priorità ai bisogni dei bambini e di rispettare
l’eguaglianza di uomini e donne, è necessario adottare misure legislative ed
economiche che permettano ai genitori di trovare un equilibrio adeguato tra gli
impegni familiari e quelli professionali. Il partito sostiene tutte le misure che
mirano a migliorare la situazione dei bambini» (n. 102).
Questo compromesso raggiunto a Berlino sul tema della famiglia mostra che
l’influsso della cultura neoliberale di matrice individualistica è ormai preponderante anche all’interno del PPE. Infatti, pur di divenire il primo partito
nel Parlamento di Strasburgo, il PPE non ha esitato ad accogliere nel suo seno formazioni di cultura neoliberale, estranea alla tradizione popolare. Il desiderio di
contare di più ha prevalso sulla fedeltà al patrimonio originario. La conseguenza
è che oggi democristiani tedeschi, gollisti francesi, neoliberali e conservatori svedesi e inglesi, popolari spagnoli di Aznar e Forza Italia di Berlusconi stanno insieme soprattutto per fare numero; li unisce, cioè, il fatto di essere antisocialisti,
non la condivisione ideale del progetto originario del popolarismo. Aprendosi alla
cultura neoliberale, il PPE si è spostato a destra e ha cambiato natura.
Questo snaturamento deve preoccupare più del compromesso raggiunto sulle
coppie di fatto, perché intacca le radici ideali del popolarismo; mentre — come abbiamo visto — l’aver preso atto della esistenza delle unioni di fatto non equivale al
loro «riconoscimento», ma conferma solo l’obbligo civile e morale che lo Stato ha di
tutelare i diritti dei figli nati da quelle unioni. Tuttavia è lecito chiedersi quanto potrà resistere questa sottile distinzione tra «prendere atto» e «riconoscere».
2. Non è una questione confessionale
A questo punto, è importante chiarire la posizione della Chiesa, illustrando la premessa fondamentale su cui essa poggia. E la premessa fondamentale è
questa: la questione delle coppie di fatto è essenzialmente un problema di civiltà e di cultura; è fuorviante farne una questione «confessionale». Infatti,
anche qui vale il principio, richiamato da Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001): «non si tratta — dice il Papa — di
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imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i
valori radicati nella natura stessa dell’essere umano. […] perché dappertutto vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino dell’essere umano e il futuro della civiltà» (n. 51). In altre parole, la Chiesa rivendica il
carattere naturale del matrimonio quale fondamento della famiglia. E, sul
medesimo piano naturale (a prescindere dall’aspetto religioso del problema), la
Chiesa ritiene che sia possibile determinare la differenza essenziale tra la famiglia fondata sul matrimonio e le altre forme di convivenza. Infatti, neppure il matrimonio sacramento è una realtà estrinseca e successiva al dato naturale, ma assume il dato naturale e lo rende segno efficace di salvezza.
Passando a chiarire questa premessa fondamentale, Giovanni Paolo II — nel
citato discorso al Tribunale della Rota Romana — lamenta che «si sono accumulati molti equivoci attorno alla stessa nozione di “natura”. Soprattutto se ne è
dimenticato il concetto metafisico» (n. 3). Così dicendo il Papa è consapevole di
discostarsi dalla sensibilità culturale prevalente del nostro tempo, e di andare in
direzione diversa; perciò puntualizza: «Si tende poi a ridurre ciò che è specificamente umano all’ambito della cultura», per cui «il naturale sarebbe puro dato fisico, biologico e sociologico, da manipolare mediante la tecnica a seconda dei
propri interessi» (ivi). «Questa contrapposizione tra cultura e natura — conclude il Papa — lascia la cultura senza nessun fondamento oggettivo, in balia
dell’arbitrio e del potere. Ciò si osserva in modo molto chiaro nei tentativi attuali
di presentare le unioni di fatto, comprese quelle omosessuali, come equiparabili
al matrimonio, di cui si nega per l’appunto il carattere naturale» (ivi).
Invece — insiste Giovanni Paolo II — il matrimonio non è una unione
qualsiasi tra persone, la cui forma sia lasciata alla scelta dei partner, liberi di
seguire una pluralità di modelli culturali. «L’uomo e la donna trovano in se
stessi l’inclinazione naturale a unirsi coniugalmente. Ma il matrimonio, come
ben precisa san Tommaso d’Aquino, è naturale non perché “causato per necessità dai principi naturali”, bensì in quanto è una realtà “a cui la natura inclina,
ma che è compiuta mediante il libero arbitrio”. È, pertanto, altamente fuorviante ogni contrapposizione tra natura e libertà, tra natura e cultura» (n. 4).
Dunque, la preoccupazione maggiore che si rileva nel discorso di Giovanni
Paolo II alla Rota Romana è quella di riaffermare la dottrina tradizionale sulla
famiglia, fondata sul carattere naturale del matrimonio.
3. Il ruolo pubblico della famiglia
Dal canto suo il card. Martini, nel recente discorso di sant’Ambrogio, si
muove su un altro piano. Infatti, dirigendosi direttamente agli amministratori
pubblici, egli affronta il tema delle coppie di fatto non dal punto di vista
della fondazione dottrinale del matrimonio, né da quello della pastorale familiare, né sotto il profilo etico o bioetico, ma considerando la famiglia quale
comunità e istituzione sociale.
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L’Arcivescovo di Milano comincia con una leale ammissione: si deve riconoscere — dice — che anche nella Chiesa non si è saputo prevedere il cambiamento
di fondo che l’evoluzione culturale contemporanea stava producendo sul modo di
intendere i valori e le istituzioni tradizionali, in particolare la famiglia. Così, mentre
il discorso sulla famiglia e sulla vita di coppia si apriva a prospettive e a orizzonti
nuovi, «troppo a lungo forse si è lasciata prevalere un’idea giuridica ed economica
del rapporto di convivenza, destinato quasi alla sola procreazione della prole, dando
l’impressione che l’istituto familiare fosse non una convivenza di persone, bensì un
fatto oggettivo a prescindere da esse» (p. 253 ). La conseguenza è stata che «le enfasi giuridico-economiche hanno in realtà velato, lungo i secoli, l’immagine
della famiglia come comunità d’amore, mistero dell’amore di Cristo e della
Chiesa; esse le avevano assegnato una forte rilevanza esterna, ma una scarsa connotazione interiore. L’affetto coniugale costituiva troppe volte un dato accessorio che
non entrava a formare l’universo del consenso, e l’educazione dei figli era non di rado frutto più del controllo sociale che della stessa famiglia» (p. 254).
Anche in reazione a questa eccessiva accentuazione giuridica della famiglia, si
ha oggi una rapida moltiplicazione delle coppie di fatto, alimentata peraltro da una
cultura che ritiene possibili diverse forme di famiglia, e che quella «naturale» fondata sul matrimonio sia soltanto uno dei tanti modi di convivenza, preferito per lo
più per motivi religiosi. Cosicché ogni discorso a difesa del matrimonio naturale,
stabile e fecondo tra uomo e donna, viene ritenuto (tollerato o rigettato) come
«confessionale», e ogni proposta di garantirlo per legge viene giudicata un atto di
discriminazione e di intolleranza nei confronti delle «unioni libere».
Di fronte a questa situazione, quale via seguire perché, attraverso un
confronto laico e democratico, si garantisca la tradizione civile del nostro
popolo, e non si metta in discussione in Italia il modello stesso di società che –
come vuole la Costituzione — si fonda sulla famiglia, intesa come «società naturale»? È ancora possibile tutelare la famiglia basata sul matrimonio (cioè
su un rapporto stabile e duraturo, aperto alla fecondità), quando oggi questa
struttura non è più ritenuta un dato di «natura», come avveniva ieri senza difficoltà, quando l’esistenza di una legge naturale era universalmente accettata?
Ovviamente il legislatore non può non tenere conto delle trasformazioni culturali e di costume della società; nello stesso tempo, però, non può
allontanarsi dalla norma costituzionale, che su questo punto è esplicita: «La
Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio» (art. 29 Cost.). Ora, equiparare la famiglia alle coppie di fatto,
equivarrebbe a sottovalutare e a indebolire i vincoli sociali che caratterizzano
la famiglia fondata sul matrimonio, e che non si danno invece nelle unioni private di fatto, le quali non sono legate da doveri pubblici di stabilità e di reciproca solidarietà. In altre parole: la famiglia fondata sul matrimonio, in
quanto è una istituzione stabile e sovraindividuale, ha un «ruolo pubblico»,
sociale e civile, che le coppie di fatto non hanno. E questo fa la differenza.
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È vero — commenta il card. Martini — che «viene non di rado affermato
che alcune di queste forme di convivenza diverse dalla famiglia tradizionale,
qualora siano espressione di esigenze di mutuo amore e di mutuo sostegno, possono rivestire, almeno nelle intenzioni, una funzione sociale. Nel momento però
in cui chiedono autorizzazione e riconoscimento pubblico, i rapporti alternativi
alla famiglia tradizionale (religiosa o civile che sia) devono sottoporsi anch’essi
al giudizio sulla loro rilevanza sociale e civile, in riferimento cioè al bene comune» (pp. 257 s.).
Dunque, è sbagliato scorgere nella promozione e nel sostegno alla famiglia
tradizionale la volontà di demonizzare o di penalizzare le coppie di fatto. Anzi,
evitata accuratamente la equiparazione, lo Stato è tenuto a provvedere e a
proteggere la maternità, l’infanzia e i diritti dei figli nati fuori del matrimonio,
come chiedono lo spirito e la lettera degli artt. 30 e 2 della Costituzione. Si
vuol dire invece — spiega il card. Martini — che una società non può non
stabilire una graduatoria di rilevanza tra varie istituzioni che si richiamano a modelli familiari diversi, sulla base delle funzioni sociali che svolgono e
tenendo conto della forza esemplare che esercitano. Infatti, è evidente, che la
equiparazione tra famiglia naturale e coppie di fatto si trasformerebbe in un invito rivolto ai cittadini a scegliere le forme di convivenza con minori doveri di
stabilità e con minori vincoli sociali, potendo usufruire dei medesimi diritti.
Concludendo: solo la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio riveste una piena funzione sociale, dovuta al suo progetto e impegno di stabilità e alla sua dimensione di fecondità. A essa non si possono
equiparare né le unioni omosessuali, né le cosiddette «famiglie di fatto».
Infatti — sottolinea il card. Martini — «le unioni omosessuali, pur potendo giungere, a determinate condizioni, a testimoniare il valore di un affetto reciproco,
comportano la negazione in radice di quella fecondità (non solo biologica) che è la
base della sussistenza della società stessa. Le cosiddette “famiglie di fatto”, anche
potendosi aprire alla fecondità, hanno un deficit radicale di stabilità e di assunzione di impegno che ne rende precaria la credibilità relazionale e incerta la funzione
sociale; rischiano infatti costitutivamente di gettare a un certo punto sulla società i
costi umani ed economici delle loro instabilità e inadempienze» (p. 258).
Terminando, è legittimo chiederci se basteranno mai a salvare la famiglia
gli argomenti esposti circa il fondamento «naturale» della famiglia e il suo
«ruolo pubblico». Perciò, mentre ci impegniamo con coraggio nella battaglia
civile a favore della famiglia, non dobbiamo dimenticare che l’arma vincente è la testimonianza della vita. Tocca alle famiglie cristiane mostrare con
l’esempio che l’ideale della famiglia fondata sul matrimonio indissolubile e
aperto al dono della vita, non solo è possibile, con la grazia di Dio, ma è anche
bello e fonte di gioia; non solo realizza pienamente la persona umana, ma è il
fondamento insostituibile di quella società più fraterna e più giusta che tutti
auspichiamo.