Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo

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Opposizione di terzo e principio del contraddittorio
nel processo amministrativo
di DANIELE CORLETTO
in Giur. cost. 1995. pp.3769 ss
SOMMARIO: 1. La sentenza n. 177 del 1995 e il principio del contraddittorio. – 2. La pari dignità
delle situazioni soggettive e l'astrattezza delle garanzie processuali rispetto alle situazioni
tutelate. – 3. Il principio del contraddittorio fra esigenze "assolute" ex art. 24 Cost. e
valutazioni comparative ex art. 3. – 4. L'opposizione di terzo e la sua problematica ricezione
nel processo amministrativo. – 5. L'opposizione di terzo nel processo amministrativo e i suoi
possibili riflessi sulle prospettive evolutive di quel processo. – 6. Segue. In particolare con
riferimento a due aspetti del processo amministrativo: l'impugnazione dei regolamenti e
l'estensione erga omnes del giudicato. La partecipazione al giudizio come mezzo di tutela dei
terzi e come strumento di garanzia dell'utilità e della tempestività della decisione. – 7.
L'inidoneità dell'opposizione di terzo a costituire la risposta ordinaria alle esigenze del
contraddittorio nel processo amministrativo. La necessità di strumenti preventivi, che
garantiscano la partecipazione dei terzi al giudizio. – 8. L'opportunità che siano assegnati al
giudice gli adempimenti connessi al rispetto del principio del contraddittorio.
1. - Con la sentenza n. 177 del 1995 la Corte costituzionale, integrando il disposto
normativo della legge TAR, ritenuto illegittimo in quanto non prevede l'opposizione di terzo
fra i mezzi di impugnazione delle sentenze, consegna al giudice amministrativo un istituto del
tutto nuovo per la giustizia amministrativa. Di questo inserimento si può essere soddisfatti, ma
si può anche considerarlo soltanto un primo passo, insufficiente, da solo, a dare soddisfacente
applicazione al principio del contraddittorio nel processo amministrativo, o addirittura se ne
può temere un effetto squilibrante sull'assetto tradizionale del giudizio amministrativo: di
certo non si possono sottovalutare l'estensione e il rilievo delle conseguenze che esso è in
grado di provocare sulle strutture e sui meccanismi, consolidati ma delicati, del processo
amministrativo, nè si può non vedere che esso costringe ad una rimeditazione dell'intero
sensibilissimo tema della struttura soggettiva di quel processo.
Si direbbe che con la sentenza attuale la Corte non faccia altro che riprendere, e svolgere
applicandolo al processo amministrativo, un filo logico che ha il suo capo nella sentenza n. 55
del 1971 (1), laddove si dichiarava che "un'efficacia riflessa di un giudicato sui terzi potrebbe
(1) Ma già anche nella sentenza n. 48 del 1968 - vedila in Giur. cost. 1968, 736 - che ha dichiarato
l'incostituzionalità della c.d. solidarietà tributaria e in particolare ha affermato che contrasta con il diritto di
difesa dell'art. 24, 2°, l'estensione ai coobbligati della efficacia della sentenza emanata in un processo cui ha
partecipato un solo coobbligato, e che, in presenza di un rapporto giuridico con pluralità di parti, tutti i soggetti
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ammettersi solo quando, come avviene nel processo civile, sia previsto, oltre al potere di
intervento da parte loro, il rimedio dell'opposizione di terzo, a tacere dell'eventualità della loro
chiamata ope judicis".
La sentenza n. 55 del 1971 è stata intesa come implicante una sicura affermazione della
piena vigenza del principio del contraddittorio. E in particolare si è ritenuto che essa segnasse
l'acquisita e irreversibile consapevolezza che il diritto di difesa dell'art. 24, 2°, Cost. non
esprime soltanto il principio della "parità delle armi" fra i partecipanti ad un giudizio, ma, più
ancora, è regola circa la composizione soggettiva dei processi, e dà fondamento costituzionale
a quell'antico principio di civiltà giuridica, secondo il quale non si può sottoporre agli effetti
inattaccabili di una pronuncia giudiziale chi non sia stato in condizione di contribuire
attivamente, con la sua partecipazione al processo, alla formazione della sentenza.
La regola del contraddittorio contiene e intreccia, a ben vedere, tre regole con ambiti
parzialmente sovrapposti. Essa in primo luogo disciplina il tema dell'estensione dei giudicati,
vietando che si estendano gli effetti vincolanti di una pronuncia oltre l'ambito di coloro che
sono stati formalmente parti del processo o che hanno almeno avuto la possibilità (effettiva) di
parteciparvi. In secondo luogo e simmetricamente impone, qualora la natura (costitutiva) della
sentenza o dell'oggetto del giudizio non consenta di evitare, o renda opportuno, che un effetto
ultra partes si produca, che quei terzi cui gli effetti siano per estendersi vengano
(concretamente) messi in grado di partecipare al processo (2). Infine essa esige che sia
garantita una possibilità di reazione successiva contro la sentenza da parte di chi, non avendo
partecipato al giudizio in cui essa si è formata, ne risenta comunque degli effetti a carico della
sua sfera giuridica.
Se questo è quanto si deve ricavare dalle pur sintetiche enunciazioni delle citate sentenze
del 1968 e del 1971, sono rimasti però sul problema numerosi interrogativi, che la sentenza n.
177/95 riapre ma ai quali non dà soluzione, anche se non è forse impossibile ricavarne
qualche utile indicazione. Innanzitutto rimane irrisolto il problema relativo alla struttura
interna della complessa regola che scaturisce dalla necessità di tradurre in concreti istituti e in
efficaci meccanismi processuali la garanzia costituzionale del diritto di difesa. In sostanza
cioè non si risolvono gli interrogativi circa il rapporto che si deve considerare esistente fra il
principio della partecipazione al giudizio, la regola circa l'estensione del giudicato, e la
disponibilità di meccanismi di reazione contro le sentenze. Esiste una priorità logica (di logica
costituzionale) di una di quelle enunciazioni rispetto alle altre? Quale conto bisogna tenere di
altri valori costituzionali che vengono in gioco (il diritto di azione, l'effettività - e la
tempestività - della tutela giurisdizionale)? Richiede la Costituzione che quelle tre garanzie
debbano tutte essere in ogni caso rispettate o sono alternative: è sufficiente cioè che il
legislatore assicuri in ogni tipo di processo che ne sia messa a disposizione anche solo una,
perchè il precetto costituzionale sia adempiuto? Ovvero, dovendosi riconoscere al principio
del contraddittorio una struttura saldamente unitaria, non si dovrà dire che le regole in cui esso
sembra articolarsi non sono che modi diversi di enunciarlo, vedendolo da angoli visuali
differenti? E qual è l'ambito dei soggetti cui la garanzia costituzionale è riferita? E ancora:
del rapporto sostanziale devono poter partecipare al processo che si concluderà con una sentenza unica nei
confronti di tutti.
(2) Non c'è dubbio dunque che la Corte abbia inteso che l'art. 24, 2°, Cost. "pone una strettissima correlazione
tra titolarità della situazione sostanziale dedotta in giudizio, partecipazione necessaria al processo e soggezione
all'efficacia diretta della sentenza", per usare le parole di A. PROTO PISANI, Appunti sui rapporti tra i limiti
soggettivi di efficacia della sentenza civile e la garanzia costituzionale del diritto di difesa, in Riv. trim. dir.
proc. civ. 1971, 1228.
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fino a che limite sono concepibili e consentite differenze nella sua configurazione e nei modi
della sua realizzazione a seconda del tipo e della struttura del processo?
Certo è che con questa sentenza il tema della tutela dei terzi entra in modo pieno nel
giudizio amministrativo; segnando la indiscutibile consacrazione di quel processo come
ispirato ad una logica soggettivistica, anche dal lato dei privati che resistono all'impugnazione
(3).
2. - La sentenza n. 177/95 dichiara dunque il contrasto della attuale mancanza del rimedio
dell'opposizione di terzo nel processo amministrativo con gli articoli 3 e 24 della
Costituzione.
La motivazione non riprende espressamente e anzi lascia abilmente cadere le
argomentazioni esposte dalla 6ª Sezione del Consiglio di Stato nella ordinanza di rimessione,
dove si istituiva un parallelo fra le due giurisdizioni, amministrativa e ordinaria, e fra le due
situazioni soggettive che ne sono rispettivamente al centro, l'interesse legittimo e il diritto
soggettivo. "Sotto il profilo considerato, in vero," - così si esprimeva il giudice remittente - "la
situazione del terzo titolare di interesse legittimo non è meno meritevole di tutela, che è
garantita dagli artt. 24 e 113 della Costituzione sullo stesso piano del diritto soggettivo,
sebbene in forma e con risultati diversi."
Il Consiglio di Stato aveva dunque prospettato la questione imperniandola essenzialmente
sulla violazione del principio di uguaglianza. La comparazione veniva instaurata non fra il
regime cui due diverse giurisdizioni sottopongono la stessa situazione soggettiva (secondo la
logica cui si era ispirata ad esempio la sentenza della Corte costituzionale n. 190 del 1985 in
materia di rimedi cautelari nelle controversie di pubblico impiego), ma fra il trattamento
processuale in due differenti ordini processuali di due diverse situazioni soggettive, la cui
diversità non viene considerata evidentemente tale da giustificare (almeno) quel tipo di
differenza nel relativo processo: la comparazione veniva istituita insomma direttamente fra
due processi, e, al fondo, fra le due situazioni soggettive su cui essi sono rispettivamente
imperniati.
Non si può fare a meno di constatare la distanza che separa la attuale impostazione da
quella accolta, poco più di trent'anni fa, dallo stesso Consiglio di Stato, il quale (4) sosteneva
addirittura che la "minore tutela dell'interesse legittimo del terzo nel giudizio amministrativo
... costituisce uno dei cardini essenziali del sistema, pur non presentando alcun carattere di
incostituzionalità perchè la stessa costituzione ha fatto propria la tradizionale distinzione fra
giurisdizione su diritti e giurisdizione su interessi".
Si ripete ancor oggi la - perfino troppo ovvia - considerazione (5) che la differente natura di
diritti (garantiti come situazione individualistica) e interessi legittimi (connessi con l'interesse
pubblico) consenta, e anzi imponga, diversità di trattamento giurisdizionale, di per sè non
censurabili sotto il profilo della costituzionalità, e si afferma bensì che "il diritto di difesa può
(3) E segna una lontananza incolmabile con i tempi in cui si poteva sostenere che nel processo amministrativo
il controinteressato "rimane in ombra rispetto al principale e necessario resistente, che è la pubblica
amministrazione, alla quale principalmente spetta difendere le sorti del provvedimento": cfr. Cons. Stato, A.P.,
24 maggio 1961, n. 12, in Cons. Stato 1961, I, 861.
(4) Cons. Stato, A.P., 24 maggio 1961, n. 12, citato.
(5) A suo tempo, fra gli altri, richiamata da C. ESPOSITO, Onere del previo ricorso e tutela giurisdizionale dei
diritti, in Giur. cost. 1964, 590 (in part. 595-596) che scriveva sul problema del previo ricorso amministrativo,
per considerarlo eventualmente inopportuno, ma costituzionalmente legittimo per gli interessi, e invece non
legittimo se imposto come condizione per la tutela giurisdizionale dei diritti.
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variamente atteggiarsi in funzione delle peculiari caratteristiche dei diversi tipi di
procedimento o delle esigenze di giustizia" (6).
Va però rilevato come sia evidentemente mutata la sensibilità circa il grado di accettabilità
di una meno efficace garanzia processuale dell'una rispetto all'altra situazione soggettiva, o
come, per meglio dire, si sia affermata la convinzione che il differente contenuto dell'utilità
sostanziale che la titolarità dell'una o dell'altra situazione soggettiva può assicurare debba
tenersi distinto dal funzionamento del processo in cui essa si fa valere, non potendo quella
differenza in alcun caso giustificare il meno efficace funzionamento delle garanzie relative
propriamente al momento processuale.
Sotto questo aspetto si potrebbe vedere l'argomento, cui il Consiglio di Stato ha acceduto,
come un ulteriore passo avanti nella considerazione dell'interesse legittimo come situazione
sostanziale e verso il pieno abbandono dei residui della impostazione "processuale" o,
volendo, come sintomo di una rivendicazione dell'astrattezza e dell'autonomia del momento
processuale rispetto ai profili sostanziali.
Si può allora forse leggere la vicenda, nella quale il Consiglio di Stato ha preso posizioni in
qualche modo più radicali - nell'argomentazione se non nelle conclusioni - di quelle cui poi la
Corte ha ritenuto di accedere, come un passo verso la omogeneizzazione dei vari tipi di
processo, verso la individuazione di forme e di regole processuali, costituzionalmente fondate,
comuni in quanto tali a ognuno dei diversi riti processuali. Si andrebbe insomma verso la
definizione di un "diritto costituzionale processuale", cioè di uno standard di istituti e di
regole processuali, immancabili e necessitati sulla base dell'applicazione di principi
costituzionali, e in particolare giustificati dall'applicazione di quel vero e proprio "nucleo
generativo" di discipline e di istituti rappresentato dal principio del contraddittorio.
In questa prospettiva le peculiarità strutturali di ogni processo rimarrebbero in ombra, e la
maggiore astrattezza del momento processuale consentirebbe piuttosto la comparabilità fra i
vari processi e la trasmissibilità di istituti da un processo all'altro.
Sotto questo aspetto la sentenza in commento (e prima ancora l'ordinanza di rimessione)
potrebbe leggersi come un discorso sul "contenuto" necessario della forma processuale in
astratto, sulle esigenze "assolute" del processo in quanto tale ( individuate a partire dall'art. 24
Cost.), dove la comparazione col processo civile (e l'argomento che si basa sul principio di
uguaglianza) serve non tanto per argomentare la illegittimità, quanto per trarre il modello (la
rima obbligata) per rimediare ad una illegittimità individuata ragionando sulla forma
processuale in astratto e sulle esigenze che su questa si riflettono a partire dal principio del
contraddittorio.
Questo sarebbe (se la Corte avesse interamente accolto l'impostazione del giudice
remittente e non avesse invece - opportunamente - glissato sul punto) un aspetto davvero
nuovo, che supererebbe una limitazione (sottointesa o implicita) cui finora la stessa Corte si
era tenuta (forse anche per come le questioni le si erano presentate), consistente nel
considerare la diversità di situazione soggettiva e di struttura del processo amministrativo
come impedimento ad una pura e semplice diretta comparazione dei due processi, e al
trasferimento di istituti dall'uno all'altro.
L'applicazione di quella stessa impostazione ad altri aspetti del processo amministrativo
potrebbe però consentire verosimilmente di superare quella limitazione cui ci si era finora
tenuti e di arrivare, per esempio in tema di prove, o di tutela cautelare, a una
(6) Come fa la Corte cost. nella sent. n. 223 del 1993, e continua che però "deve essere sempre assicurato in
modo effettivo ed adeguato alle circostanze".
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omogeneizzazione dei due processi. Bisogna chiedersi tuttavia se quel risultato si fondi su
premesse teoriche difendibili e se sia davvero da considerarsi soddisfacente.
Non è dubbio che i principi fondamentali ricavabili dalla Costituzione in materia di
garanzie processuali, e per primo il principio del contraddittorio con tutta la sua ricchezza di
conseguenze, debbano avere piena vigenza in ogni tipo di processo. Tuttavia sarebbe
irragionevole, argomentando sulla pari dignità dell'interesse legittimo rispetto al diritto
soggettivo, perseguire una radicale omogeneizzazione di istituti e di soluzioni processuali e
negare che la astrattezza e la autonomia della forma processuale rispetto al suo contenuto
conoscano dei limiti. In particolare poi sarebbe probabilmente fallace la prospettiva di chi
volesse vedere il processo civile come una sorta di serbatoio di istituti-modello, dei quali non
si dovrebbe far altro che attuare il trasferimento ad altri processi che ne siano privi.
Rimane un limite concettuale invalicabile alla piena "civilizzazione" del processo
amministrativo (ammesso che questa sia la prospettiva che si vuole considerare desiderabile).
E' sicuro infatti che non può restare senza conseguenze la diversità di struttura del processo, e
la diversità delle situazioni soggettive, che discendono dal fatto che si tratta di un processo di
impugnazione di atti di autorità, spesso poi di portata generale o addirittura normativa, che
siamo cioè di fronte ad un processo da ricorso (secondo una formula che è stata spesso
svalutata ma che mantiene una sua efficacia interpretativa e sistematica), che si conclude con
una sentenza che è normalmente in primo luogo costitutiva (anche se non si può mancare di
rilevare la ricchezza dei suoi effetti di accertamento, conformativi, direttivi).
Il carattere "oggettivo" degli effetti della sentenza di annullamento, il carattere multipolare
7
( ) del rapporto normalmente sottostante alla vicenda processuale, costringe anche
quest'ultima ad assumere una complessità tutta peculiare, e pone esigenze - del tutto
particolari e assai impegnative - di tutela processuale e di garanzia procedimentale di
posizioni di "terzi" coinvolti..
La realizzazione del principio del contraddittorio nel processo amministrativo richiede
verosimilmente strumenti più articolati e più efficienti di quanto non siano quelli che si
considerano adeguati a rispondere alle esigenze che emergono in altri processi, e
segnatamente nel processo civile (a tacere però della complessità di problemi e della ricchezza
e varietà di soluzioni che nel processo civile - ma meglio sarebbe dire nei processi civili trovano spazio, al di là della schematizzazione didascalica di esso come prototipo della lite
interprivata).
Per certi versi anzi si potrebbe immaginare che la soluzione che venisse elaborata per
rispondere alle esigenze del contraddittorio nel processo amministrativo, di quel processo cioè
che per la sua struttura e per la natura del suo oggetto impone di dare rilievo non secondario al
tema dell'incidenza su posizioni di terzi, si presterebbe poi ad essere considerata
paradigmatica ed esemplare per ogni altro processo, compresi quelli soggetti al rito civile, in
cui si affacciasse il problema della tutela dei terzi.
Si cercherà fra breve di valutare se sia da considerare davvero soddisfacente il
trasferimento nel processo amministrativo di un istituto nuovo (anche se in esso già da lungo
tempo presente come fantasma, come possibilità, o come una "assenza" eloquente e
significativa) e fino a che punto l'ambientamento di esso nel nuovo contesto possa rivelarsi
carico di aspetti problematici; fin d'ora si può comunque apprezzare che la Corte abbia evitato
di giungere a questo pratico risultato per la via, concettualmente rischiosa, del raffronto e della
(7)
Secondo
l'espressione
di
E.
SCHMIDT-ASSMAN,
Verwaltungsverantwortung
und
Verwaltungsgerichtsbarkeit, in Veröffentlichungen der Vereinigung der Deutschen Staatsrechtslehrer, n. 34,
Berlin-New York, 1976, 226, il quale ragiona di un problema di "polygonale Rechtsschutz".
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omogeneizzazione delle situazioni soggettive. Ma più ancora, al di là di quello che appare il
risultato empiricamente più evidente e in qualche modo clamoroso della sentenza, vanno colte
e valorizzate quelle affermazioni e quelle puntualizzazioni che, sia pure per accenni e senza
che esse abbiano potuto - per la necessità di tenersi al punto che alla Corte era stato
prospettato - essere sviluppate e sistematizzate, contribuiscono a fissare i punti chiave
nell'impostazione del problema di definire il contenuto costituzionalmente necessario del
principio del contraddittorio.
E' da una riflessione sulle implicazioni del principio del contraddittorio e sulle specifiche
strutture del giudizio amministrativo che ci si può attendere - da parte del legislatore, ma
anche per opera della giurisprudenza adeguatrice dello stesso giudice amministrativo - una
risposta sistematica ed equilibrata, adeguata alle particolari necessità di quel processo, alle
quali nè una generica assimilazione al giudizio civile, nè l'importazione di singoli istituti
sarebbero probabilmente in grado di far fronte.
3. - Ci si può chiedere se il riferimento all'art. 3 (sul contrasto con il quale, oltre che con
l'art. 24, si fonda la dichiarata incostituzionalità) non finisca per essere superfluo e forse
addirittura fuorviante. Se esso significasse accoglimento implicito delle argomentazioni
avanzate dall'ordinanza di rimessione (laddove si riferisce all'interesse legittimo come
"situazione... non meno meritevole di tutela, che è garantita dagli artt. 24 e 113 della
Costituzione sullo stesso piano del diritto soggettivo, sebbene in forma e con risultati diversi")
sulla "pari dignità" dell'interesse legittimo rispetto al diritto soggettivo (che però significativamente - la Corte evita di riprendere nel suo ragionamento), comporterebbe infatti
la adozione di una discutibile prospettiva "sostanzialistica", che fonda la necessità dell'efficace
funzionamento dei meccanismi di garanzia processuale sulla qualità della situazione
soggettiva fatta valere.
Non pare insomma che sia necessario istituire una qualsiasi comparazione, e tanto meno
predicare una equivalenza, fra le situazioni soggettive tutelate per dimostrare la necessità che
il processo (ogni processo) funzioni correttamente e assicuri compiutamente garanzia a chi ne
venga coinvolto. Tanto più che, come necessaria premessa di quella comparazione,
bisognerebbe dire - come fa, a quanto pare, l'ordinanza di rimessione - che non solo la
posizione dei terzi controinteressati ma anche quella di chi sia comunque toccato, anche
indirettamente, dalla (futura) sentenza del giudice amministrativo si debba propriamente
definire di interesse legittimo. Il dubbio allora è non solo circa la configurabilità in concreto di
quella posizione soggettiva, ma, più radicalmente, circa l'esattezza del ricorrere alla nozione di
interesse legittimo - del quale contemporaneamente si afferma la natura essenzialmente
sostanziale - per definire una posizione propriamente ed esclusivamente processuale, che
nasce dal processo e che solo in esso trova la sua ragione e la sua protezione.
La stessa conclusione si deve infatti comunque raggiungere argomentando dalle necessità
costituzionali relative in senso stretto e proprio al funzionamento interno della garanzia
processuale, quale ne sia l'oggetto. Sotto questo aspetto il riferimento all'art. 24 e al principio
di garanzia del contraddittorio si potrebbe ritenere da solo sufficiente a fondare la pronuncia
(o almeno la sua pars destruens, la valutazione dell'inadeguatezza della garanzia assicurata al
valore costituzionale in questione, se non la pars costruens, l'individuazione del meccanismo
idoneo a rimediare alla riscontrata carenza (8)).
(8) Si direbbe infatti che la sentenza in commento si possa considerare composta sotto il profilo logico di due
elementi: la valutazione della inadeguatezza della garanzia accordata al diritto di difesa, con la conseguente
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Peraltro non è nuovo il ricorso al principio di uguaglianza per valutare l'inadeguatezza, dal
punto di vista dell'art. 24, di un meccanismo o di un istituto processuale: essa emerge infatti
con indiscutibile evidenza quando una situazione soggettiva risulti sottoposta ad un regime
processuale diverso e meno efficace, quanto a garanzia, rispetto a quella offerta alla stessa o
ad analoga situazione in altra parte dell'ordinamento, dove è dalla violazione dell'art. 3 che si
dimostra violato anche l'art. 24. Se è abituale una lettura della garanzia del diritto di difesa in
connessione con il principio di uguaglianza (9), talvolta si è giunti - discutibilmente - a
dichiarare che la garanzia dell'art. 24 non sarebbe che una specificazione di quella dell'art. 3
(10) .
L'argomento non è privo di risvolti rischiosi: l'adagiarsi su questo tipo di argomentazione,
se rende certo più agevole omogeneizzare, quanto a livello di garanzia offerta, diversi settori
dell'ordinamento processuale, rende poi arduo, ma al limite impossibile, colpire una lacuna
assoluta di protezione, cioè intervenire per una situazione che non ha nell'ordinamento alcuna
tutela, e per la quale non si trovano termini di raffronto, con i quali istituire la comparazione
necessaria per l'applicazione del criterio di uguaglianza (salvo doversi indurre, secondo
l'impostazione accennata anche dall'ordinanza di rimessione, ad allargare, non senza gli
inconvenienti che questa "diluizione" può comportare, il cerchio delle situazioni comparabili).
In sostanza ove la Corte si esoneri dal dare un giudizio assoluto di adeguatezza, di idoneità e
sufficienza sotto il profilo dell'art. 24, dei meccanismi giurisdizionali, e preferisca ricorrere in
ogni caso a un giudizio comparativo, colpendo non la "insufficiente" tutela ma la "minore"
tutela, rischia di privarsi di uno strumento che in alcuni, più gravi, casi può essere non
sostituibile.
Si può insomma comprendere che la Corte consideri più arduo condurre un discorso
"assoluto" sulla idoneità e sufficienza delle modalità di garanzia concreta di un valore
costituzionale, e preferisca appoggiarsi ad un tertium comparationis: questo modo di
procedere è certo più agevole, perchè offre un modello normativo già presente, giustifica in
maniera più sicura (ma bisognerebbe dire che propriamente consente) il carattere additivo
della sentenza, offrendo le "rime obbligate" cui riferirsi e risparmia alla Corte il compito, cui
essa sempre è riluttante, di dare un giudizio assoluto di sufficienza o di ragionevolezza di una
protezione data dall'ordinamento, o addirittura (ma qui la riluttanza sarebbe per la verità
giustificata, di fronte alla necessità di compiere scelte e valutazioni spettanti piuttosto alla
discrezionalità politica) di valutare il merito delle soluzioni adottate e di proporne altre più
adeguate.
Se riesce facile ammettere che appaia più logico e più economico integrare una carenza
normativa ricorrendo, come la Corte ha fatto, e come le si chiedeva di fare, ad un modello già
presente nell'ordinamento che risponde in qualche modo all'esigenza di garanzia che si era
sollevata, si potrebbe però anche sostenere che una risposta alla questione avrebbe potuto
essere condotta in termini più astratti e generali, costruendo un discorso di principi, impostato
sull'applicazione dell'art. 24 e del principio del contraddittorio nel processo amministrativo.
Anche a costo di rinunciare ad una soluzione immediatamente operativa per limitarsi ad
una sentenza-monito rivolta al legislatore (sul quale però non si può oggi fare troppo
affidamento) avrebbe forse potuto essere questa l'occasione per fissare esigenze costituzionali
valutazione della illegittimità costituzionale, e l'indicazione, basata sull'art. 3, del modo per rimediare la accertata
carenza.
(9) Come ad es. nella sentenza n. 167 del 1984, nella quale la Corte risolse il caso riferendosi all'art. 3,
"inserito nell'area coperta dall'art. 24".
(10) Ci si riferisce alla sentenza n. 55 del 1974.
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e linee portanti delle relative soluzioni: e ne sarebbero potute uscire indicazioni più complete
e equilibrate, che cioè - secondo quanto si dirà più avanti - non fossero limitate al rimedio
"postumo" dell'opposizione, ma che mettessero in evidenza innanzitutto la necessità
costituzionale di meccanismi efficaci e garantiti di partecipazione, idonei a realizzare in via
preventiva la tutela dei terzi che risentiranno della sentenza.
La Corte, pur se preferisce evitare di inoltrarsi in un discorso di principi e di impostazione
teorica del problema, offre però, quasi fra le righe, alcune indicazioni, di cui bisognerà fare
tesoro.
4. - Effetto immediato della sentenza è di introdurre nel giudizio amministrativo un nuovo
mezzo di impugnazione, l'opposizione di terzo ordinaria. Sotto questo aspetto non se ne
potrebbe sottovalutare il rilievo. L'individuazione delle conseguenze che il nuovo istituto sarà
in grado di produrre sulle strutture e sul funzionamento del processo richiede però che si
rifletta sui termini e sui limiti di questo inserimento. Resta insomma da capire come il nuovo
istituto funzionerà nel nuovo contesto, come esso si adatterà all'ambiente in cui verrà a
trovarsi, per poi chiedersi come a sua volta reagirà su di esso.
L'opposizione di terzo non c'è mai stata nel processo amministrativo: fin dall'esordio della
giurisdizione amministrativa la quarta sezione del Consiglio di Stato prendeva posizione
negativa sul punto, argomentando dal silenzio normativo (11) . Essa però è spesso stata
presente, come una sorta di fantasma, nelle riflessioni che la dottrina e gli stessi giudici hanno
condotto sul processo, e la sua assenza - una assenza rumorosa e vistosa - è stata spesso usata
come punto di appoggio per conclusioni che miravano a dare risposta al problema della
garanzia del contraddittorio e della tutela dei terzi nel giudizio amministrativo. E' proprio
sull'assenza del rimedio dell'opposizione che sembra fondarsi quella giurisprudenza (12) - che
la stessa sentenza della Corte ricorda - che ammette l'appello dei controinteressati sostanziali,
con l'argomento che altrimenti ci sarebbero dubbi di legittimità costituzionale, "specie in un
processo... in cui non è contemplato il rimedio dell'opposizione di terzo". Ma sullo stesso
argomento, rovesciato, si è basata anche la conclusione opposta, quella che dalla assenza del
rimedio dell'opposizione deduce la inammissibilità dell'appello dei controinteressati "non
(11) Con la decisione Cons. Stato, IV, 9 giugno 1892, ricordata in Giur. it. 1994, III, 1, 607. Del tutto diversa
al situazione in Francia, dove la tierce opposition è una via di ricorso ammessa contro le decisioni del Conseil
d'Etat fin dall'arrêt Boussuge del 1912, ma consentito solo contro decisioni che ledono i diritti di chi non abbia
potuto partecipare al giudizio. Al proposito si osserva che "le Conseil d'Etat paraît avoir été sensible au principe
équitable d'après lequel les personnes qui seraient admises à intervenir pendant l'instance doivent pouvoir, si
elles n'ont pas été prévenues à temps, attaquer la décision rendue en leur absence." Peraltro l'inconveniente
pratico di questa soluzione sarebbe che, se si aprisse la tierce opposition a tutti gli interessati ..."tous les arrêts
d'annulation ou presque seraient l'objet de cette voie de recours, car il y a presque toujours des personnes
intéressées au maintien d'un acte administratif". Per ovviare al segnalato inconveniente si è scelta la strada di
limitare la legittimazione a chi sia leso in un diritto (inteso poi però in termini abbastanza ampi), escludendola
per chi sia toccato in un semplice interesse. Si ricorda altresì che è prevista la condanna del soccombente a una
ammenda (dato che la tierce opposition "peut être utilisée par des plaideurs de mauvaise foi pour faire échec à
la chose jugèe") e che il Conseil d'Etat accoglie il rimedio in casi estremamente rari. Cfr. sul punto LONG, WEIL,
BRAIBANT e A., Les grands arrêts de la jurisprudence administrative, 10^ ed., Dalloz, Paris, 1993, 149 ss. e P.
DUBOUCHET, La tierce-opposition en droit administratif, in Revue du droit public, 1990, 710 ss.
(12) Cfr. Cons. Stato, VI, 11 marzo 1989, n. 259, in Foro amm., 1989, 633; Cons. Stato, V, 15 giugno 1992,
n. 558, in Cons. Stato 1992, I, 786; Cons. Stato, VI, 15 luglio 1993, n. 535, in Cons. Stato 1993, I, 959.
D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo
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diretti" rimasti estranei al giudizio di primo grado, che costituirebbe una introduzione di fatto
di quel rimedio (13).
L'ingresso dell'opposizione di terzo sembrerebbe privare queste conclusioni di uno dei loro
fondamenti. Sotto questo aspetto non sembra da sottovalutare il pericolo che l'istituto ora
introdotto nel giudizio amministrativo, assicurando una "rete di salvataggio" per quei casi cui
gli altri ordinari meccanismi processuali diano, sotto il profilo del rispetto del principio del
contraddittorio, insufficiente o nulla garanzia, possa costituire per la giurisprudenza
amministrativa una sorta di alibi, autorizzando insensibilità o distrazioni, o addirittura
inducendola ad arretrare rispetto alle posizioni fin qui assunte. Sembra possibile, ad esempio,
che proprio sul punto del riconoscimento della legittimazione ad appellare ai controinteressati
non formali restati estranei al giudizio di primo grado, la presenza della "valvola"
dell'opposizione indebolisca le posizioni giurisprudenziali fin qui prevalenti, inducendo a
negare, piuttosto che a riconoscere, quella legittimazione.
Ma, a parte le prognosi circa gli effetti che la presenza del nuovo istituto potrà indurre, su
cui torneremo fra breve, si pone in primo luogo il problema di quale sia esattamente l'effetto
della pronuncia della Corte, e cioè se essa comporti la ricezione, nel processo amministrativo,
di tutta la disciplina che il CPC detta in tema di opposizione di terzo ordinaria (14), ovvero se
essa si limiti ad introdurre un istituto, connotato solo nella sua complessiva identità e in specie
nella sua finalità, lasciando poi che la disciplina del suo funzionamento, se di dettarla non si
faccia carico il legislatore, sia da ricavarsi pretoriamente con riferimento al sistema del
processo amministrativo.
La domanda è ovviamente in gran parte oziosa: non può sfuggire infatti che l'opposizione
di terzo non potrà che risentire, per i suoi aspetti più significativi, e non solo per profili di
dettaglio procedimentale, del nuovo contesto in cui si trova inserita. E ciò a partire dal punto
fondamentale della legittimazione a servirsene, sul quale già la Corte non ha potuto fare a
meno di prendere posizione nella sua sentenza. Si può ben immaginare che ne risulterà un
istituto in sostanza nuovo, analogo (o, come dice la sentenza, equivalente) ma tutt'altro che
identico a quello conosciuto nel processo civile.
Una prima conformazione dell'istituto risulta da una limitazione espressamente indicata
dalla Corte, che ne differenzia l'ambito di applicabilità rispetto alle previsioni del CPC.
(13) Vedi in questo senso Cons. Stato, IV, 18 novembre 1989, n. 801, in Foro amm. 1989, 3022. Di una
"introduzione surrettizia dell'opposizione di terzo, attuata allargando le maglie della legittimazione all'appello"
parla V. PAZIENZA, Controinteressati "non diretti" ed (effettiva) tutela giurisdizionale: una "sentenza di
sbarramento" del Consiglio di Stato, in Foro amm. 1990, 1187, a commento della sentenza da ultimo citata.
Vedi pure, nel senso che il riconoscimento della legittimazione ad appellare significhi, di fatto, applicare il
rimedio dell'opp. di terzo: M. OCCHIENA, Controinteressato, intervento "ad opponendum" e opposizione di
terzo: il processo amministrativo tra declamazione e applicazione, in Giur. it. 1993, III, 1, 854; per una
posizione giurisprudenziale che esplicitamente collega il riconoscimento della legittimazione a proporre appello
a favore dei terzi pur non qualificabili come formalmente controinteressati alla necessità di assicurare "una tutela
analoga a quella che potrebbero conseguire dall'esperimento dell'opposizione di terzo", vedi Cons. g.a reg. Sic., 1
giugno 1993, n. 198, in Giur. amm. sic. 1993, 319.
(14) E che pure lascia incertezze non di poco conto anche fra gli studiosi del processo civile, se è vero che si
rileva che "l'opposizione di terzo è uno degli istituti più discussi del diritto processuale civile": cfr. C.A.
NICOLETTI, Opposizione di terzo, in Enc. dir., XXX, 478. Si veda però da ultimo l'impostazione di C.
CECCHELLA, L'opposizione del terzo alla sentenza, Torino 1995, che parla di "giudizio a contraddittorio
posticipato".
D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo
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La Corte infatti, servendosi della facoltà consentitale dall'art. 27 della legge n. 87 del 1953,
estende la dichiarazione di incostituzionalità all'art. 28 della legge TAR, introducendo così
l'opposizione anche per le sentenze di TAR. Peraltro questa estensione è espressamente
limitata alle sentenze passate in giudicato. Con quest'ultima precisazione si limita dunque
l'applicabilità della disciplina del CPC, il quale di per sè si riferisce, oltre che alle sentenze
passate in giudicato, anche a quelle "comunque esecutive" (15), fra le quali rientrerebbero
anche quelle del TAR (per l'art. 33 legge TAR). Se ci si chiede quale sia la ragione di questa
espressa limitazione, si può senz'altro ipotizzare che la Corte abbia voluto con essa risolvere il
problema della concorrenza fra impugnazioni, e in particolare dei rapporti fra l'opposizione e
l'appello. Consentire l'opposizione solo contro le sentenze passate in giudicato significherebbe
insomma evitare che si possa dare la contemporanea possibilità, e quindi eventualmente la
contemporanea pendenza, di due differenti impugnazioni contro la stessa sentenza (16).
Tutto il discorso risente però di un vizio di origine, connesso con le incertezze che nel
giudizio amministrativo circondano il tema della composizione soggettiva del processo, a
partire dalla nozione di parte, fino alla individuazione dell'ambito dei legittimati a esperire le
impugnazioni ordinarie (17).
Sotto un primo aspetto infatti si può osservare che la enunciazione della Corte non è così
inequivoca come può sembrare, per quanto riguarda la individuazione del momento in cui la
sentenza si possa dire "passata in giudicato".
Quella di giudicato è nozione necessariamente relativa, dato che la oggettiva condizione in
cui si viene a trovare la sentenza nel momento in cui non siano più esperibili le ordinarie
impugnazioni non è che la conseguenza, ma si direbbe il risvolto, della soggettiva condizione
in cui si trova chi sarebbe legittimato a proporre impugnazioni, nel momento in cui questa
possibilità gli è definitivamente preclusa. Se si ammette, come fa la giurisprudenza
amministrativa, che possano appellare anche i controinteressati (risultanti o no dall'atto
amministrativo) non notiziati, che non hanno quindi assunto nel giudizio di primo grado la
qualità di parti in senso formale, bisognerebbe ricavarne che l'eventuale avvenuto decorso del
termine breve (dalla notifica della sentenza) per le parti formali del giudizio non comporti di
per sè il "passaggio in giudicato" della sentenza, dovendosi quanto meno attendere che
decorra, per gli eventuali ulteriori legittimati all'appello, il termine lungo (dalla pubblicazione
della sentenza). Ma la situazione sarebbe ancor più complicata se si volesse seguire l'opinione
(15) La Corte dei conti ha ritenuto infatti per parte sua che il rimedio dell'opposizione sia esperibile per le
proprie decisioni che, ancorchè non passate in giudicato, siano comunque esecutive: cfr. Corte conti, sez. II, 29
maggio 1989, n. 125, in Giur. it., 1990, III, 1, 66.
(16) Sembrerebbero così evitati anche i dubbi e le incertezze che nel processo civile, e nella relativa dottrina,
si sono presentati circa il modo di risolvere il problema del concorso con altre impugnazioni, anche se
prevalentemente si ritiene che la pendenza dell'appello impedisca la proposizione dell'opposizione, aprendo
invece la strada, per chi sarebbe legittimato a quest'ultima, all'intervento in appello ex art. 344 (cfr. G. FABBRINI,
L'opposizione ordinaria di terzo nel sistema dei mezzi di impugnazione, Milano 1968, 254 e da ultimo F.P.
LUISO, Opposizione di terzo, in Enc. giuridica Treccani, XXI, ad vocem, 8) e che reciprocamente l'opposizione
già proposta si converta in intervento nell'appello successivamente presentato. Nel processo civile non si pone
invece un problema di concorrenza soggettiva di rimedi, restando le relative legittimazioni ben distinte.
(17) Si potrebbe anzi pensare che la stessa limitazione di cui si è detto costituisca un tentativo di tenere
separati quanto meno per l'aspetto temporale i due rimedi, l'appello e l'opposizione, che tendono invece almeno
in parte a sovrapporsi quanto a legittimazione.
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(18) secondo la quale si dovrebbe applicare per analogia nel giudizio amministrativo l'art. 327,
2° c., CPC, e si ritenesse quindi che il controinteressato pretermesso (almeno nei casi in cui
esso si possa considerare controinteressato "formale", perchè risultante dall'atto) non perda il
diritto di appellare neppure dopo il decorso del termine lungo. Non potendosi considerare il
decorso del termine annuale come termine preclusivo, per tutti i possibili legittimati,
dell'impugnazione, verrebbe meno in questo caso la possibilità di considerare la sentenza
oggettivamente "passata in giudicato" al fine di consentire l'esperimento dell'opposizione.
Nè del resto si può pensare che la Corte abbia voluto riferirsi al passaggio in giudicato
relativo a quegli stessi terzi ai quali si riferisce la legittimazione a proporre l'opposizione.
Questi infatti o sono fin dall'inizio privi di possibilità di impugnazione ordinarie, e non si può
parlare di un passaggio in giudicato nei loro confronti, non potendosi individuare un momento
a partire dal quale la sentenza divenga per loro inattaccabile, dato che lo è ab origine, o una
possibilità di impugnazione sussiste, ma allora consentire la possibilità di opporsi dopo la
perdita della possibilità di appellare significa vanificare la previsione di termini per l'appello,
consentendone l'aggiramento.
Così stando le cose, la limitazione dell'esperibilità dell'opposizione alle sentenze passate in
giudicato, se si facesse riferimento, per determinare il passaggio in giudicato, alla decorrenza
dei termini per le sole parti formali, non impedirebbe di per sè la sovrapposizione dei due
rimedi, negli altri casi visti risulterebbe priva di senso.
Una ulteriore, sottointesa, modificazione dell'istituto, nel passaggio dall'uno all'altro dei
due sistemi processuali, è quella che bisogna apportare alla formula dell'art. 404, per far sì che
essa abbia un senso se riferita alla realtà del processo amministrativo, laddove dispone che
l'opposizione sia consentita ai terzi "contro la sentenza pronunciata tra altre persone quando
pregiudica i suoi diritti". Qui il necessario adattamento al nuovo contesto impone di leggere il
riferimento ai "diritti" come fosse più genericamente operato alla "situazione soggettiva
protetta", comprensiva quindi degli interessi legittimi, e forse (ma il punto richiede più ampia
riflessione), se bisogna dare rilievo al riferimento della sentenza a chi sia toccato "di riflesso",
anche di altre situazioni riportabili alla sfera degli interessi. Ancora una volta quello della
legittimazione a servirsi del rimedio è il punto su cui emergono degli aspetti problematici.
E ancora al problema della teoria delle parti e della legittimazione riconduce quanto la
sentenza afferma in un altro passaggio che, come si dirà, è da ritenersi cruciale. Laddove
ricorda i modi individuati dalla giurisprudenza amministrativa per rispondere alle esigenze
connesse col principio del contraddittorio, la Corte rammenta che la giurisprudenza
amministrativa, "per ovviare in via preventiva alla possibilità che una sentenza ... possa
produrre effetti nei confronti di terzi senza che questi siano stati coinvolti nel giudizio perchè
formalmente non erano considerati controinteressati" non solo consente a questi terzi
l'intervento nel giudizio, ma "dimostra propensione a riconoscere" loro, ancorchè non abbiano
partecipato al giudizio di primo grado, anche la legittimazione ad appellare.
La Corte colloca dunque il rimedio che introduce nel processo amministrativo in una fase
temporalmente e logicamente successiva all'esaurimento del processo e delle sue ordinarie
possibilità, delle quali l'opposizione si presenta come integrativa. Dopo che il processo si sia
chiuso senza che il terzo ne sia diventato parte, facendo intervento in esso o impugnando
dinanzi al giudice d'appello la decisione che ne ha chiuso la prima istanza (o senza che gli sia
stata riconosciuta la legittimazione ad appellare), gli si deve allora almeno consentire
(18) Che è stata sostenuta sulla base di convincenti argomenti da G. PALEOLOGO, L'appello al Consiglio di
Stato, Milano, 1989, 477, anche se la giurisprudenza si è mostrata restia ad applicarla. Nota l'A. citato, pag. 473,
che un appello senza termine del controinteressato pretermesso diventerebbe in realtà una opposizione di terzo.
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l'opposizione. Ma ancora una volta si deve osservare che la configurazione e l'ambito di
operatività del nuovo rimedio, la sua praticabilità ed effettività non sono determinabili se non
affrontando il nodo della composizione soggettiva del processo e in particolare della
legittimazione alle impugnazioni, sul quale a sua volta la presenza del nuovo rimedio
provocherà inevitabilmente un riassestamento che si può provare ad immaginare, ma di cui
non si potrebbero pronosticare gli esiti finali. E' su questo tema che ci si può attendere che la
sentenza di cui ci occupiamo produca le sue conseguenze più significative.
5. - Si farebbe torto alla pronuncia della Corte se la si leggesse secondo una ottica statica,
architettonica, come se essa si limitasse ad aggiungere un elemento ad un preesistente,
incompleto, edificio. Essa assomiglia forse di più ad una sorta di intervento di ingegneria
genetica, che consente ad un organismo vivente nuove funzioni e nuove possibilità di
evoluzione, ma ridefinisce di necessità le funzioni delle altre sue parti e altera le precedenti
prospettive evolutive.
Si può immaginare che la Corte non abbia ignorato questa prospettiva e che anzi accogliendo del resto uno stimolo in questo senso che proprio dal giudice amministrativo le è
pervenuto - abbia inteso dare l'avvio ad un riassetto delle linee portanti della giurisprudenza
amministrativa su alcuni dei punti-chiave del funzionamento del processo. Di questa possibile
fase di risistemazione evolutiva che la Corte sembra autorizzare e promuovere, la stessa
sentenza indica anche alcune di quelle che ne appaiono essere le linee guida.
Per certi versi si può giustificare insomma la sensazione che si tratti di una sentenza che
non si esaurisce nella introduzione del nuovo istituto, ma che si prolunga, per così dire, in una
sorta di necessaria attività conseguenziale di completamento e di risistemazione, affidata alla
giurisprudenza ma anche al legislatore, rispetto alla quale la sentenza contiene sollecitazioni,
indicazioni, "moniti", che si riveleranno forse - sperabilmente - la sua parte più significativa e
più ricca di effetti.
Come si è detto, pare ragionevole supporre che il punto principale, che risulterà decisivo in
definitiva quanto alla configurazione concreta dell'istituto e quanto alle conseguenze che dalla
presenza di esso si produrranno sugli assetti e sugli equilibri del processo amministrativo, sarà
proprio quello della determinazione dell'ambito dei soggetti legittimati a servirsi del nuovo
mezzo di impugnazione, e della ridefinizione che di conseguenza si produrrà vuoi
sull'attribuzione della legittimazione a esperire gli altri rimedi, e in particolare l'appello, vuoi
più in radice sul trattamento cui saranno sottoposti i terzi controinteressati a partire dalla loro
stessa individuazione.
Ci si può prospettare uno scenario, nel quale il nuovo rimedio tenda ad assorbire e ad
esaurire in sè l'intero campo della tutela dei terzi rispetto al procedimento giurisdizionale dal
cui esito siano toccati. Si potrebbe immaginare cioè che la presenza di una successiva
possibilità di impugnazione induca i giudici amministrativi a recedere da quegli orientamenti
che tendono ad assicurare la tutela dei terzi attraverso l'allargamento dell'ambito delle parti
necessarie del processo fino a ricomprendervi non solo i controinteressati risultanti dall'atto,
in quanto da esso nominativamente indicati, ma altresì tutti coloro che siano individuabili
come tali sulla base degli atti del procedimento. In questa prospettiva sarebbe poi pienamente
giustificato il persistere della posizione restrittiva in tema di controinteressati sopravvenuti o
successivi, che, rifiutando una nozione propriamente processuale del controinteresse,
riduttivamente (19) lega la posizione di controinteresse al vantaggio derivante dall'atto più che
(19) La situazione riferita ignora la ricchezza di contenuti e di effetti che la sentenza del giudice
amministrativo è venuta assumendo, dato che fa riferimento ad una idea della giurisdizione amministrativa come
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alla lesione che ci si può attendere dalla sentenza, e quindi congela le posizioni al momento
dell'atto e ignora, tenendole fuori dal processo, le situazioni di controinteresse correlate alla
emananda sentenza.
Il ritorno alla nozione strettamente formale di controinteressato avrebbe dalla sua un
qualche relativo snellimento dell'andamento processuale e potrebbe sembrare accettabile,
anche sotto il profilo del rispetto dei principi costituzionali, nella considerazione che
comunque la tutela non viene negata ma al più solo rinviata (20).
Parallelamente, dopo la conclusione del primo grado, l'esistenza dello specifico gravame
renderebbe assai più ardua quella eccezione ai principi in tema di legittimazione all'appello
che viene talvolta operata consentendo la legittimazione ad appellare anche per chi non sia
stato costituito parte formale del primo giudizio, pur avendone titolo, e, a maggior ragione,
renderebbe ingiustificata quella eccezione a favore di quei controinteressati sostanziali che
non avessero, neppure nei termini di una nozione relativamente più ampia di controinteressato
formale, titolo alla notificazione del ricorso.
Se questa sarà la strada che la giurisprudenza amministrativa sceglierà, all'opposizione sarà
fin dall'inizio rinviata la possibilità di tutela per tutti coloro che non si debbano considerare,
nel senso più stretto e formale, parti necessarie, e nell'opposizione finirebbero per confluire,
oltre all'impugnazione del controinteressato "formale" non notificato, anche quella del c.d.
controinteressato sostanziale e degli altri interessati, toccati di riflesso (ma la legittimazione di
questi ultimi, nonostante il cenno in questo senso contenuto nella sentenza n. 177, apre un
orizzonte di problemi che meriterebbero una attenta riflessione). La massima espansione della
sfera dei legittimati all'opposizione di terzo risulterebbe così da una ridefinizione dei profili
soggettivi del giudizio amministrativo, conseguente alla precisazione in termini formali e
restrittivi della nozione di parte e al parallelo allargamento di quella di "terzo" (21).
Ma l'esito così delineato, se può valutarsi come non improbabile, sarebbe da ritenersi
tutt'altro che soddisfacente sotto il profilo del rispetto dei principi costituzionali, e tradirebbe
in realtà lo spirito e il dettato della stessa sentenza di cui ci occupiamo.
E' evidente infatti che la previsione di una possibilità successiva di impugnazione non può
comunque ritenersi, da sola considerata, un mezzo sufficiente di tutela della posizione dei
terzi, ai quali si debba assicurare una protezione effettiva e non puramente nominale. Altro è
essere messi tempestivamente in condizione di partecipare - con argomentazioni, con
eccezioni, con repliche, con allegazioni istruttorie - alla formazione della sentenza (secondo la
nozione propria e irrinunciabile di contraddittorio), altro è dover reagire ad una decisione già
presa e, assumendo la posizione di chi chiede la modifica di un assetto già fissato e di
giurisdizione di mero annullamento, nella quale dunque l'unica posizione di controinteresse ritenuta significativa
è quella di chi può temere che la sentenza metta il segno negativo davanti al vantaggio che dall'atto gli deriva.
(20) Del resto è questo in sostanza l'argomento su cui si basano quell pronunce che hanno valutate non
contrarie alla Costituzione le previsioni di procedimenti sommari, purchè sia data una possibilità successiva di
opposizione: vedi infra alla nota 34.
(21) L'esito opposto, conseguente al desiderio di salvare le sentenze definitive da successivi attacchi, e di
impedire in pratica le opposizioni, potrebbe consistere in una generalizzazione della legittimazione all'appello. Il
punto debole di questa soluzione è che si dovrebbero prevedere meccanismi che consentano agli interessati di
essere informati circa la pronunciata sentenza, ovvero di considerare fittiziamente avvenuta tale conoscenza al
momento della pubblicazione della sentenza, anche per chi non aveva mai avuto notizia del giudizio in corso.
L'ammettere invece l'appello senza termine, o - in ipotesi - a partire da una "piena conoscenza" della sentenza,
non differisce se non marginalmente, quanto ad effetti, dalla generalizzazione dell'opposizione, anche se forse ha
qualche aspetto di maggiore sensatezza.
D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo
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valutazioni già compiute con un atto solenne e conclusivo, e non quella di chi difende uno
status quo, convincere lo stesso giudice che l'ha pronunciata a ritornare sulla sua decisione
(22).
Ma l'altro punto che pare di dover considerare decisivo è che una tutela così accordata ai
terzi ha un prezzo, che ricade sull'efficacia complessiva del sistema giurisdizionale in cui essa
si inserisce. Se lo scopo (o uno degli scopi, se si preferisce) della giurisdizione è quello di dare
certezza ai rapporti giuridici (23), e se uno dei metri con cui comunque si deve valutare
l'efficacia della giurisdizione nel raggiungere il suo scopo (lo si voglia vedere nella certezza,
nella chiusura delle controversie, ovvero nella giustizia, nella chiusura giusta delle
controversie) è il tempo che intercorre fra il momento in cui la controversia si apre e il
momento in cui essa è risolta definitivamente, non può essere dubbio che l'opposizione è un
rimedio assai costoso, in termini di certezza e in termini di tempo. Un'impugnazione che
riapra un giudizio dopo che questo era arrivato a quella che avrebbe potuto essere, e che
ragionevolmente tale appariva a chi vi aveva partecipato, la sua conclusione; che consenta in
linea di principio questa riapertura senza limiti di tempo; che abiliti a richiederla una ampia e
forse indeterminata schiera di soggetti, è così radicalmente contraria allo scopo, al significato
stesso della giurisdizione, da apparire in qualche modo eversiva.
Se la tutela dei terzi fosse affidata (esclusivamente o in via generalizzata e prevalente) ad
un meccanismo in tal modo congegnato, non si potrebbe fare a meno di considerare
incostituzionale il sistema che ne risultasse così caratterizzato. E ciò sotto due aspetti: da un
lato non si potrebbe ritenere adeguata la garanzia del contraddittorio che non consentisse, a
chi vedrà gli effetti della decisione giurisdizionale toccare in maniera diretta proprie posizioni
soggettive, di partecipare efficacemente alla formazione di quella decisione, e di essere a
questo scopo tempestivamente informato del processo. D'altro lato però la tutela delle
posizioni dei controinteressati che fosse affidata solo ad una successiva impugnazione sarebbe
in realtà lesiva non solo dell'interesse generale alla rapida conclusione delle liti, e alla certezza
dei rapporti, ma si porrebbe direttamente in contrasto con la garanzia costituzionale del diritto
di azione. Metterebbe infatti gravemente in forse l'effettività di quella garanzia la situazione in
cui si troverebbero i ricorrenti che, esperito il ricorso e ottenuta la pronuncia favorevole del
giudice, vedessero poi, non come evento eccezionale ma come ipotesi frequente e quasi
normale, la vicenda processuale riaprirsi, e le sentenze, su cui riposava la certezza dei
ricorrenti di aver ottenuto soddisfazione, vanificate.
Non occorre aggiungere argomenti per mostrare il carattere intollerabile di una tale
possibilità. Ma volendo si potrebbe riflettere sul destino del giudizio di ottemperanza nel
frattempo intrapreso (la proposizione dell'opposizione contro il giudicato su cui esso è basato
ne comporterebbe la sospensione, o la chiusura?) e, prima ancora, della sorte dell'obbligo di
esecuzione (l'attesa, o la speranza, di una opposizione potrebbe dare un alibi alla eventuale
scarsa propensione dell'amministrazione ad adeguarsi alla pronuncia? non si potrebbero
temere, nel caso limite, opposizioni concertate con l'amministrazione, per allontanare il
(22) Già a suo tempo, a commento della sentenza n. 55 del 1971, era stato ben osservato che "la previsione di
un mezzo... di opposizione successiva non varrebbe di per sè a rendere ammissibile, sotto il profilo
costituzionale, l'efficacia riflessa della sentenza nei confronti dei terzi titolari... di rapporti connessi o dipendenti
da quello dedotto nel giudizio principale, ove a costoro non fosse anzitutto assicurata la preventiva possibilità di
intervenire, volontariamente o jussu judicis, in tale giudizio": così L.P. COMOGLIO, L'incostituzionalità dell'art.
28 cod. proc. pen. e la decisione "overruling" della Corte costituzionale, in Riv. dir. proc. 1971, 741.
(23) E' interessante rilevare come, nel volume di G. PALEOLOGO, L'appello al Consiglio di Stato, cit., il
capitolo I porti quale titolo: "La sentenza come certezza".
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momento dell'adempimento?); e ancora: in caso di opposizione, contro la sentenza
pronunciata in grado di appello, di chi lamentasse di essere restato indebitamente ignaro del
processo, si dovrebbe (24) procedere al rinvio al giudice di primo grado? E la sentenza
pronunciata in sede di opposizione sarebbe poi a sua volta suscettibile di appello
(allontanando così sempre di più la conclusione della controversia e il raggiungimento della
certezza)?
Con l'opposizione, insomma, si dà al terzo un'arma che è allo stesso tempo troppo forte e
troppo debole: debole perchè è comunque un attacco postumo a decisioni già assunte in sua
assenza; forte perchè il terzo ha a sua disposizione, in ogni tempo, lo strumento per far riaprire
il processo e per impedire intanto (come, in presenza di certe condizioni, si deve ritenere
possibile) la esecuzione della pretesa già riconosciuta fondata. Questo - al di là della
fondatezza nel merito dei suoi argomenti - gli dà il potere di disporre un ritardo nella
conclusione della controversia, gli dà la signoria sul "tempo" di chiusura della vicenda, che
può avere conseguenze gravi e effetti decisivi sul diritto del ricorrente di vedersi riconosciuta,
in tempi ragionevoli, la sua ragione.
Deve dunque essere risolutamente escluso che l'opposizione di terzo possa aspirare a
diventare lo strumento normale e addirittura esclusivo di garanzia dei terzi, o almeno di quelli,
non nominati dall'atto, che il rispetto dell'art. 21 della legge TAR non esiga di chiamare nel
giudizio fin dalla sua costituzione.
E' vero che si potrebbero, per via di interpretazione, limitare in parte le gravi conseguenze
cui si è accennato. Sembrerebbe ragionevole per esempio sostenere che la proposizione
dell'opposizione, per la quale le disposizioni del CPC non prevedono alcun termine, incontri
invece nel processo amministrativo, almeno in alcuni casi, una limitazione temporale.
Parrebbe infatti sensato, e conforme al sistema, ritenere che, qualora in esecuzione della
sentenza siano adottati atti amministrativi impugnabili dai terzi, la possibilità di attaccare con
il rimedio giurisdizionale la decisione non sopravviva alla sopraggiunta inoppugnabilità degli
atti che in quella hanno il loro fondamento, costituendo altrimenti in tal caso l'impugnazione
della sentenza un modo di aggirare la perentorietà del termine di impugnazione dei
provvedimenti.
Si potrebbe però giungere ad immaginare che risultato dell'introduzione dell'opposizione
finisca per essere una posizione dei terzi complessivamente meno tutelata di quanto sia ora.
Se dovessero affermarsi (per la tendenza comprensibile e sacrosanta a salvare i giudizi, a non
riaprire controversie definite, a far prevalere le ragioni della certezza e dell'economia)
posizioni restrittive in tema di legittimazione all'opposizione, ci si potrebbe, nel caso limite,
trovare di fronte ad una sorta di tenaglia fra orientamenti restrittivi in tema di identificazione
delle parti necessarie e di legittimazione all'appello, e successivo affermarsi di linee restrittive
in tema di legittimazione all'opposizione, producendosi così, per paradosso, un collasso nei
livelli di garanzia dei terzi.
Ma, al di là di ipotesi limite che certo la giurisprudenza amministrativa saprebbe evitare,
resta che l'eventuale concentrarsi della tutela dei terzi nel rimedio postumo dell'opposizione
sarebbe criticabile non solo sotto il profilo dell'opportunità ma anche sotto quello della
ragionevolezza costituzionale. Si produrrebbe infatti una sorta di "bilancia" fra la
realizzazione di due garanzie costituzionali, dato che il grado di soddisfazione del diritto del
ricorrente a vedere definitivamente riconosciuta la fondatezza delle sue ragioni, e attuato nei
fatti il suo interesse, diventerebbe complementare al grado di sacrificio del diritto del terzo di
(24) Così come ha ritenuto, per i litisconsorti necessari pretermessi, la Cass. civ., Sez. I, 5 agosto 1987, n.
6722 e 18 maggio 1994, n. 4878, nel Mass. 1987 e 1994.
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difendere, con il rimedio postumo, le sue posizioni e i suoi interessi. La massima tutela del
diritto di azione vorrebbe il massimo sacrificio del diritto di difesa, e, viceversa, la piena
garanzia del terzo comporterebbe un grave sacrificio all'effettività della tutela del ricorrente
(25).
Se ne avrebbe una situazione inaccettabile perchè non necessaria, dato che l'affidare la
tutela dei terzi solo ad un sistema di impugnazioni successive creerebbe una contrapposizione
e un reciproco condizionamento fra valori costituzionali (quello dell'art. 113 e quello dell'art.
24) che non è davvero in rerum natura e si può benissimo evitare ricorrendo ad altri, meno
rozzi, meccanismi.
6. - La realtà è che, come si dirà fra breve, l'opposizione non può costituire se non un
rimedio di uso limitato, o addirittura eccezionale. Ma prima di affrontare quel conclusivo
discorso, non si ritiene di poter fare a meno di toccare brevemente un paio di altri punti, che
paiono di notevole rilievo.
Il primo è relativo al tema della legittimazione (a resistere) nei giudizi di impugnazione di
atti normativi o di atti generali.
Il secondo attiene ai riflessi concettuali che l'ingresso dell'opposizione di terzo produce
sulle teorie correnti in tema di giudicato amministrativo (26).
La previsione di un rimedio messo a disposizione dei terzi, e in particolare dei
controinteressati c.d. sostanziali e di chi sia toccato di riflesso dagli effetti della sentenza,
scompagina e disperde istantaneamente e irrimediabilmente la disattenzione (ma si potrebbe
anche considerare una sorta di narcosi pacificatrice) che ha finora consentito di non affrontare,
se non anche di non vedere, i punti difficili del tema dell'impugnazione di atti generali e
normativi.
In particolare l'opposizione di terzo porterà forse ad un punto di rottura il problema
dell'attuazione del contraddittorio e della costruzione soggettiva del processo di impugnazione
il cui oggetto sia un atto efficace nei confronti di una pluralità indeterminata di soggetti.
E' possibile, ma non auspicabile, che il caso del giudizio avente quel particolare oggetto
continui, per le speciali difficoltà che presenta, a fungere da metro delle soluzioni da adottare
per ogni altra ipotesi, e da giustificazione delle limitazioni che a partire da esso siano poi
estese all'intera teoria del processo amministrativo.
E' probabile che si debba proprio alle esigenze che il processo presenta in quel caso se non
riesce ad affermarsi nel giudizio amministrativo una nozione ampia e sostanziale di
controinteressato, e regole adeguate per consentirne il coinvolgimento nel giudizio. Si
tratterebbe infatti, in quel caso, di assicurare il contraddittorio a favore di schiere
numerosissime o indeterminabili di soggetti. Ed è così, pur non potendosi negare la posizione
di controinteressati a coloro che potrebbero impugnare l'atto amministrativo che producesse
gli stessi effetti sostanziali che chi impugna si attende dalla sentenza, e non essendoci alcuna
buona ragione giuridica, se si allarga la legittimazione ad impugnare atti normativi, per
(25) Un analogo meccanismo è stato descritto, e criticato, da chi scrive con riferimento alla regola che carica,
almeno in linea di principio, sul ricorrente il compito di istituire il contraddittorio con i controinteressati: vedi La
tutela dei terzi nel processo amministrativo, Padova, 1992, 154. Ma qui le conseguenze ne sarebbero
probabilmente ancor più vistosamente inaccettabili.
(26) Non è necessario sottolineare il legame che collega i due punti accennati: infatti la corrente teoria del
giudicato erga omnes è stata elaborata proprio con riferimento al caso degli atti generali e di quelli normativi, sul
presupposto della loro inscindibilità rispetto ai soggetti interessati, o controinteressati, alla loro impugnativa e al
loro annullamento.
D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo
17
restringere la legittimazione a resistere a quell'impugnazione, che ci si adatta in quel caso a
sostenere che non vi sono cointrointeressati che abbiano diritto ad essere chiamati nel
giudizio, e si sostiene poi che la sentenza di annullamento produca effetto di giudicato erga
omnes. L'arrangiamento così operato sul caso limite diventa poi, necessariamente, parte
integrante della teoria dell'istituto (dei controinteressati, del giudicato), di cui anzi disegna i
tratti esterni.
La difficoltà si ripresenta ora di fronte all'opposizione, con aspetti ancora più dirompenti:
non si tratta più di un processo appesantito e reso quasi ingovernabile da un numero
indeterminato di partecipanti, ma ci sarebbe potenzialmente un numero indeterminato di
processi (di opposizione), uno per ognuno dei terzi controinteressati alla sentenza, e
comunque una incertezza aperta, intollerabilmente, per un tempo indefinito.
La soluzione, che va comunque trovata, potrebbe consistere nella ridefinizione
dell'opposizione (della legittimazione a proporla) o, si può temere, della stessa nozione di
controinteressato, in termini compatibili con il caso indicato, e quindi assai restrittivi. Ne
verrebbe un risultato, che si applicherebbe indifferenziatamente a tutto il giudizio
amministrativo, giustificato solo dalla necessità di far fronte alle difficoltà connesse con un
caso particolare di impugnazione, e dipendenti dalla speciale natura del suo oggetto. In
alternativa si dovrebbe giungere (con la necessità però di un intervento normativo in questo
senso) a ridefinire la giurisdizione di impugnazione di atti normativi (più arduo teoricamente
il caso degli atti generali non propriamente normativi), portandola senza infingimenti fuori del
campo del giudizio c.d. di parti, fino a configurarla come giurisdizione di diritto oggettivo,
attenuandosi così - in un giudizio per il quale sarebbe ben plausibile una nozione
guicciardiana della legittimazione ad agire - il rilievo della composizione soggettiva del
processo e della legittimazione alle impugnazioni, e giustificandosi l'estensione generalizzata
della efficacia e della vincolatività della sentenza (27).
Una soluzione di compromesso potrebbe essere poi quella, ispirandosi in qualche modo al
modello dei Massenverfahren del diritto processuale amministrativo tedesco (28) e alla
disciplina del processo dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee, di rendere
almeno sotto il profilo temporale meno distruttiva la presenza dell'impugnazione successiva,
immaginando una pubblicazione della decisione che annulla il regolamento (29) dalla quale far
decorrere un termine per proporre l'impugnazione (appello o opposizione). A quel punto però
molto meglio sarebbe (secondo quanto fra breve si dirà) costruire fin dall'inizio un processo in
cui il numero dei possibili legittimati non impedisca di prevedere la pubblicazione, negli stessi
modi cui è soggetta la pubblicazione dell'atto, del ricorso contro di esso, facendo decorrere da
quella un termine entro il quale chi vi è legittimato possa fare intervento nel giudizio, con
esclusione, per chi non se ne è avvalso, della possibilità di attaccare poi la sentenza (e
individuando, sempre sul modello tedesco (30), meccanismi di semplificazione interna della
gestione del processo, quale ad es. la nomina di un unico rappresentante processuale per
gruppi di persone accomunate dallo stesso interesse).
Quanto al secondo punto cui si accennava, pare di dover dire che la sentenza della Corte
elimina puramente e semplicemente la possibilità di sostenere ancora l'opinione che il
giudicato amministrativo valga "erga omnes". Se tutti coloro che sono toccati "dal giudicato"
(27) Vedi, per dei cenni su questo ordine di argomentazioni, il citato La tutela dei terzi nel processo
amministrativo, 137 ss.
(28) Vedi riferimenti nel citato La tutela dei terzi nel processo amministrativo, 136, nota 50.
(29) Secondo l'esempio della previsione dell'art. 14 del dpr 1199 del 1971, in materia di ricorso straordinario.
(30) Cfr. il § 65 e il 67a della VwGO, nel testo risultante dalla novella del 17.12.1990.
D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo
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possono fare opposizione se ne deve dedurre che essi sono da esso toccati ma non ad esso
soggetti, cioè, più esattamente, toccati dagli effetti (e questo è precisamente il titolo della loro
legittimazione) ma non soggetti a rispettarli come immutabili, cioè non soggetti al giudicato.
L'aver messo a disposizione, di chi si ritiene danneggiato in un suo interesse dagli effetti
prodotti dalla sentenza, un mezzo per attaccare la stessa sentenza e per ottenerne la riforma,
impone ormai di avere ben presente la differenza concettuale che esiste fra l'efficacia della
sentenza, da un lato, e la sua inattaccabilità e indiscutibilità, dall'altro. Le due nozioni sono
state a lungo confuse nell'uso linguistico, cui dottrina e giurisprudenza amministrative sono da
tempo immemorabile abituate, che le accomuna sotto la denominazione di "giudicato". Il
fenomeno non è privo di spiegazioni. Chi sosteneva doversi applicare anche alla sentenza
amministrativa la lezione di Liebman, avrebbe potuto sentirsi obbiettare che l'assenza di
rimedi, o di possibilità di reazione, contro l'effetto costitutivo della sentenza amministrativa
rende identica per tutti la definitiva e inattaccabile soggezione a quell'effetto, e quindi
superflua la distinzione concettuale fra efficacia ed autorità della sentenza (31). E' vero che a
questo si sarebbe potuto opporre l'argomento che non è concettualmente la stessa cosa essere
soggetti, come parti destinatarie di una definitiva pronuncia giurisdizionale, al vincolo alle sue
ormai inattaccabili statuizioni, e trovarsi invece ad essere toccati dagli effetti di una sentenza
resa fra terzi, rispetto alla quale l'ordinamento non consenta alcuna possibilità di attacco o di
reazione, e che solo il primo dei due casi merita propriamente di essere considerato come
soggezione ad un giudicato; resta però che da un punto di vista empirico la differenza è poco
percepibile. E' vero anche che si è spesso sostenuta la possibilità, per chi risentisse gli effetti
della sentenza senza essere destinatario della pronuncia, di ottenere dal giudice (impugnando
gli atti amministrativi adottati in esecuzione della prima sentenza o chiedendo un
provvedimento di segno contrario e impugnando il rifiuto) una pronuncia a lui favorevole
sulla stessa situazione oggetto della prima sentenza, non potendosi opporre al terzo il vincolo
al rispetto del giudicato. Questa soluzione però, oltre ad essere faticosa e scoraggiante,
lasciava comunque in vita la prima sentenza, potendo al più riuscire ad ottenere una seconda
pronuncia contraddittoria alla prima.
Ora la situazione è ben differente, potendosi direttamente attaccare la fonte degli effetti, per
chiedere che la decisione sia cambiata di segno o annullata.
Non si può quindi d'ora in poi fare a meno di tenere distinti i due concetti: l'efficacia della
sentenza (in particolare della sentenza costitutiva), estesa tanto quanto lo è l'ambito delle
conseguenze che essa è in grado di produrre oggettivamente; e la forza di giudicato, che
impone a chi vi è soggetto di considerare quelle conseguenze che si producano a suo carico, e
l'atto giurisdizionale stesso che le produce, indiscutibili e inattaccabili. La prima (l'efficacia, il
risentire nella propria sfera giuridica gli effetti della sentenza) costituisce infatti il titolo stesso
della legittimazione a proporre l'opposizione; il secondo (il giudicato) è la situazione di chi si
trovi a non avere (o non avere più) possibilità di ridiscutere e di attaccare la sentenza di cui
risente gli effetti. Ma se coloro che non hanno partecipato al giudizio, e sono quindi terzi,
hanno a disposizione un'impugnazione, essi non sono, per definizione, soggetti al giudicato.
Si torna quindi di necessità ad una nozione rigorosa e univoca di giudicato, come posizione
verso la sentenza che riguarda solo le parti formali del giudizio. Il giudicato, come forza
irresistibile, come produzione di effetti non contestabile, non può che riguardare le parti in
(31) Quella riferita è, in sintesi, l'opinione sulla base della quale C. ANELLI (L'efficacia della cosa giudicata
con particolare riguardo ai limiti soggettivi del giudicato amministrativo, in Cons. Stato, 1973, II, 130) nega che
l'impostazione di Liebman possa trovare accoglimento quanto alle sentenze del giudice amministrativo.
D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo
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senso formale, e non più chi è restato estraneo al giudizio che pure riguardava anche sue
posizioni soggettive (32).
Conseguenza di tutto ciò è che sono mature le condizioni per effettuare un rovesciamento
di prospettiva: il problema della estensione e della completezza del contraddittorio non è più
ormai un problema di tutela dei terzi, ma un problema di tutela della sentenza contro gli
attacchi dei terzi. La partecipazione al giudizio di chi sarà toccato dagli effetti della sentenza
resta certo il modo più adeguato e sicuro di dare anche a costui garanzia del suo diritto al
contraddittorio, ma può essere visto ora (e si direbbe principalmente) come il modo di
difendere la conclusività e l'utilità della pronuncia contro le riaperture postume della questione
che l'opposizione rende possibili. Allargando il giudizio anche a quei terzi che avrebbero
altrimenti a disposizione l'arma dell'opposizione, si rende la sentenza, se a loro sfavorevole,
inattaccabile, perchè coperta, anche per loro, in quanto divenuti parti del giudizio, dal
giudicato.
7. - E' ora il momento di chiedersi, in positivo, quale configurazione debba assumere
l'opposizione di terzo, e quale ruolo possa esserle affidato nel processo amministrativo per far
sì che l'inserimento del nuovo istituto non solo sia compatibile con le particolarità strutturali e
con le necessità funzionali di quel giudizio, ma perchè anche risponda al meglio ai valori
costituzionali in gioco.
Bisognerà poi di conseguenza valutare quale sia l'insegnamento che dalla giurisprudenza
della Corte, se non proprio dalla sentenza che si sta considerando, si debba trarre a proposito
dei contenuti che alla regola del contraddittorio, in particolare riferita al processo
amministrativo, si devono attribuire e circa gli svolgimenti operativi, in termini di istituti
processuali, che se ne devono derivare. Il nuovo istituto dell'opposizione richiederà
adattamenti e provocherà riflessi sul funzionamento e forse anche sulla struttura del processo.
Si può perfino immaginare (forse con speranza più che con timore) che si presenti un
momento di "crisi", che ci si trovi davanti ad un crinale, all'aprirsi di una possibilità di scelta
fra paesaggi diversi. Sarebbe allora auspicabile che, non potendosi far conto sulla mente
riformatrice di un legislatore, la giurisprudenza affronti consapevolmente il compito che finirà
per cadere sulle sue spalle e si faccia in esso condurre dai principi che la Corte indica.
L'opposizione di terzo non può essere un mezzo ordinario e generale di tutela dei terzi nel
processo amministrativo. Lo impedisce, secondo quanto si è cercato sopra di esporre, la
considerazione che essa è uno strumento debole, quanto a garanzia che è in grado di offrire,
perchè non consente che una difesa postuma, o meglio un postumo attacco ad una sentenza già
formulata, e non permette quella tempestiva e attiva partecipazione alla formazione della
decisione che è la sostanza stessa del principio del contraddittorio (33). Ma lo impedisce con
(32) Rimarrebbe da vedere se si possa immaginare in prospettiva, oltre che una relativizzazione del vincolo di
giudicato, anche una analoga limitazione alle sole parti degli effetti della sentenza: per l'effetto di accertamento la
cosa è già ora indubbia,se è vero che solo alla parte formale è consentito il ricorso allo strumento
dell'ottemperanza, ma come relativizzare una pronuncia costitutiva, senza cadere in una sorta di disapplicazione?
(33) Sono la giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht e la dottrina tedesca che hanno formulato,
ragionando sull'art. 103 del Grundgesetz, la nozione più incisiva e convincente del principio del contraddittorio.
Di quel principio, indicato come magna charta di ogni procedimento giurisdizionale (secondo l'espressione di
C.H. ULE, Verfassungsrecht und Verwaltungsprozessrecht, in Deutsches Verwaltungsblatt, 1959, 541), si è
detto in sostanza che comporta la necessità costituzionale di consentire una efficace partecipazione al processo
per tutti coloro che finiranno per risentire gli effetti della sentenza. Salvo poi naturalmente chiedersi di quale
grado e di quale intensità debba essere l'incidenza della sentenza sul soggetto perchè si debba ritenere operante la
D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo
20
ancora maggior forza il fatto che essa, più ancora che ritardare la conclusione delle
controversie, le riapre, e produce con ciò una incertezza che, se diffusa o generalizzata in
corrispondenza ad un uso esteso e potenzialmente generale del rimedio, metterebbe in forse
non solo l'effettività del diritto di azione, ma vanificherebbe addirittura il significato stesso
della garanzia giurisdizionale.
Non si tratta del resto neppure di effettuare una graduazione, di individuare una gerarchia
fra valori costituzionali, per affermare che la garanzia dell'azione non debba essere sacrificata
alla garanzia della difesa. Si tratta invece di constatare che un reciproco sacrificio dei due
contrapposti aspetti della garanzia della giurisdizione non è affatto necessario, dato che
esistono istituti e meccanismi, che - come fra breve si dirà - anche la Corte indica e di cui
suggerisce il maggior utilizzo, in grado di dare soddisfazione piena alle esigenze individuate.
La valorizzazione e il pieno utilizzo dei quali lascia dunque all'opposizione di terzo il ruolo,
pur necessario, di rimedio di chiusura, di ultima rete di salvataggio, di mezzo di recupero, per
il caso di fallimento (che non può essere a priori accettato nè tollerato come normale) dei
precedenti, prioritari, strumenti di garanzia (34).
Se si conviene sull'impostazione proposta, non dovrebbe essere necessario, agli argomenti
che si rifanno alla logica costituzionale, aggiungerne altri di più modesta levatura. Ma, se si
vuole, si tenga presente che nello stesso senso, di limitazione dell'uso dell'opposizione a rari e
gravi casi, va letta certamente la previsione dell'art. 408 CPC, che si deve ritenere parte
integrante dell'istituto cui la Corte ha fatto riferimento, e quindi operante anche per il processo
amministrativo. La previsione di una sanzione per il caso di non accoglimento
dell'opposizione, non subordinata - si noti - alla valutazione della temerarietà della domanda,
ma legata puramente e semplicemente all'accertamento della non fondatezza delle ragioni fatte
valere, è un dato che non va sottovalutato nella definizione dell'istituto. Esso dimostra che
l'opposizione ha natura di mezzo il cui uso va ponderato, da coloro stessi cui è concesso, e che
in sostanza si tratta di un rimedio che si vuole riservare a casi di sicura, grave, evidente
garanzia costituzionale. Se ne ricavano in concreto le regole del dovere (del giudice o delle altre parti) di
informazione, del diritto di esprimersi nel processo, del dovere del giudice di prendere in considerazione le
domande e le affermazioni di tutti i partecipanti e di tenerne conto, motivando, nella decisione: cfr. E. SCHMIDTASSMAN, Commento all'art. 103 GG, Rdnr. 69, 70 ss., in MAUNZ-DÜRIG, Grundgesetz. Kommentar, München,
1989. Vedi nella dottrina italiana i lavori di N. TROCKER, Processo civile e Costituzione. Problemi di diritto
tedesco e italiano, Milano, 1974 , e I limiti soggettivi del giudicato tra tecniche di tutela sostanziale e garanzie
di difesa processuale (profili dell'esperienza giuridica tedesca), in Riv. dir. proc., 1988, 35; riferimenti anche nel
mio La tutela dei terzi nel processo amministrativo, cit., 22 ss.
(34) E' ben vero che la Corte ha a più riprese mostrato di considerare una successiva possibilità di opposizione
(anche in ipotesi non tecnicamente definibili come opposizioni di terzo) sufficiente a dare legittimità a
disposizioni processuali che non garantivano la tempestiva piena attuazione del principio del contradditorio: si
vedano le sentenze n 167 del 1984 (in tema di ordinanza di convalida di sfratto per finita locazione); n. 237 del
1985 (in tema di ordinanza di sfratto per morosità; n. 1105 del 1988 (in tema di ordinanza di affrancazione di
enfiteusi). Se ne potrebbe forse superficialmente dedurre che l'opposizione è un istituto che "piace" alla Corte. Il
rischio è che ci si induca a ritenerlo davvero idoneo a coprire le esigenze del contraddittorio e a salvare il
principio costituzionale. A ciò potrebbe spingere la circostanza che in qualche modo l'opposizione è un istituto
che mette la coscienza in pace: comunque sia costruito il processo, comunque funzioni, anche se non tenga alcun
conto delle necessità del contraddittorio, tutto è salvo se c'è almeno questa possibilità successiva. E' un po' la
logica dell'emergenza, del meno peggio, che sta in agguato: non potendosi pretendere che davvero i processi
funzionino come i principi costituzionali vorrebbero, ci si accontenti di un rimedio di emergenza.
D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo
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erroneità o viziosità della decisione, e non di un mezzo normale per far valere opinabili, anche
se non spregevoli, diverse valutazioni.
Del resto il carattere accessorio, complementare, e non principale, della garanzia offerta
dall'opposizione risulta ben chiaro anche dalla pronuncia della Corte. Essa infatti dichiara la
necessità di consentire al terzo di far valere le sue ragioni con un apposito mezzo di
impugnazione, solo in subordine al mancato funzionamento dei meccanismi che in via
preventiva servono ad "ovviare alla possibilità che la sentenza possa produrre effetti nei
confronti di terzi senza che questi siano stati coinvolti nel giudizio". Solo se ciò non avvenga
il nuovo mezzo di impugnazione si rivela costituzionalmente necessario. Questo "se ciò non
avvenga" pare sia da considerare insomma la chiave di lettura per definire la collocazione
dell'opposizione nel giudizio amministrativo.
Non pare dubbio dunque che essa, nel quadro dei meccanismi che devono assicurare il
rispetto del diritto al contraddittorio, assume un ruolo di riserva, di chiusura, e non primario,
anche se non per questo va considerato marginale o ne va negata l'importanza, e che invece
altri sono quelli che in prima linea devono garantire che il processo funzioni secondo i
principi costituzionali.
Allora il punto significativo è di chiedersi quali sono, secondo la valutazione della Corte e
secondo la logica costituzionale, gli istituti che primariamente hanno il compito di soddisfare
le esigenze connesse col rispetto del principio costituzionale espresso dall'art. 24, 2°, Cost. La
risposta al quesito che così ci si ponga, e che si cerchi nella sentenza di cui ci si sta
occupando, non è equivoca, nelle linee generali, ma lascia qualche margine di incertezza poi
nella successiva specificazione. Non è dubbio infatti che la Corte indichi come idonei a dare
risposta alle necessità indicate gli istituti che sono in grado di "ovviare in via preventiva alla
possibilità che una sentenza, pronunciata nei confronti di soggetti direttamente contemplati
nell'atto impugnato, possa produrre effetti nei confronti di terzi senza che questi siano stati
coinvolti nel giudizio".
Meno convincente ed esaustiva è però l'indicazione puntuale di quei mezzi preventivi, il
cui cattivo funzionamento o le cui strutturali insufficienze lasciano poi il campo all'eventuale
opposizione. La Corte infatti ricorda la "propensione" della giurisprudenza amministrativa "ad
ammettere l'intervento", e a "riconoscere la legittimazione di soggetti che non abbiano
partecipato al giudizio di primo grado ad appellare".
Quanto all'appello si potrebbe obbiettare che esso non può considerarsi, se non in un senso
assai esteso (nell'ottica che il processo sia aperto fino alla sentenza d'appello, e che la sentenza
di primo grado ne sia solo un momento interlocutorio) mezzo preventivo di partecipazione al
giudizio. Certo per definizione la possibilità di appellare si colloca in un momento che viene
prima di quello nel quale la sentenza acquista il carattere della definitività; tuttavia si possono
riferire anche all'appello, come ad ogni altro mezzo di impugnazione, le osservazioni, che si
sono avanzate circa l'opposizione, sulla differenza che esiste fra il partecipare dialetticamente
con argomenti e prove alla formazione di una decisione e l'attaccare una decisione già presa,
dimostrandone l'ingiustizia. C'è poi per l'appello il problema, che sopra si è segnalato, che si
presenta se si ritiene che l'ambito dei legittimati ad appellare si sovrapponga, almeno in parte,
con quello dei legittimati ad opporsi. La disponibilità (almeno per una certa serie di soggetti)
di due rimedi, uno soggetto a termine, l'altro disponibile (teoricamente) all'infinito, anche
dopo essere decaduti dal primo, potrebbe rendere recessivo il primo dei due rimedi, potendo
risultare più comodo stare a vedere, per decidere se attaccare la sentenza, se e in che limiti
l'attività esecutiva della sentenza sia sgradita o lesiva, o cercare nel caso limite di
condizionarla con la minaccia dell'impugnazione. Sembra qui di vedere il rischio che
l'indicazione dell'appello come mezzo possibile e preferibile di partecipazione dei terzi si
D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo
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riveli paradossale, nel momento in cui si consente, con l'opposizione, una possibilità che
potrebbe finire col togliere spazio alla utilizzazione di quello. Ma ad analoga obiezione si va
incontro se si pensi di risolvere il problema della sovrapposizione dei due rimedi, quanto ad
ambito di legittimati, col riservare la possibilità di appellare alle sole parti formali del giudizio
di primo grado. Anche in questo caso infatti gli effetti provocati sul funzionamento del
processo dall'introduzione dell'opposizione di terzo contraddirebbero le premesse su cui la
sent. n. 177 della Corte si basa e ne tradirebbero le indicazioni.
Con riferimento a entrambi questi strumenti però va poi comunque osservato che l'essere
astrattamente legittimati ad intervenire o ad appellare non può di per sè garantire in concreto
la possibilità di partecipare al processo: manca infatti il mezzo per assicurare, a chi potrebbe
servirsene, la notizia della pendenza o della avvenuta conclusione di un processo che lo
riguarda. L'obiezione sembrerebbe di per sè risolutiva: la garanzia di una possibilità di
attivarsi, se deve essere garanzia effettiva, cioè vera garanzia, e non casuale o nominale, non
può mancare di comprendere il diritto di essere informati. Da lì parte la catena di scelte e di
possibilità giuridicamente significative con cui la garanzia viene azionata: senza
l'informazione la garanzia non c'è, e la sua previsione è inutile, se non ingannevole e falsa.
Certo la Corte non può aver mancato di considerare questo punto, che però non richiedeva
di essere espressamente affrontato per la soluzione della questione. Un breve accenno, che
potrebbe essere letto come una risposta all'affacciarsi di questo ordine di obiezioni è quello
che la sentenza fa alla "chiamata in giudizio". Laddove dice che la giurisprudenza
amministrativa ha mostrato propensione ad ammettere l'intervento, la Corte infatti aggiunge:
"talvolta anche con la chiamata in giudizio".
L'inciso, anche se apparentemente si direbbe avanzato distrattamente, merita di essere
valorizzato. Esso infatti, dato che la chiamata del terzo in giudizio è in realtà tutt'altro che
praticata dal giudice amministrativo, non esprime la rilevazione di una prassi
giurisprudenziale, ma va letto piuttosto come un invito, un suggerimento, l'indicazione di una
possibilità che la Corte ritiene evidentemente meritevole di essere esplorata. E che rinvia per
implicito a tutta una gamma di strumenti che hanno a che fare con la costruzione soggettiva
del giudizio, e a compiti essenzialmente officiosi nel farvi fronte: dalla individuazione, da
parte del giudice, dei controinteressati, alla integrazione del contraddittorio per suo ordine,
alla chiamata successiva, sempre per sua iniziativa e responsabilità, di ulteriori terzi la cui
esistenza sia emersa successivamente dagli atti di causa o il cui interesse si sia venuto
precisando nel frattempo.
Ma allora, in conclusione, dopo questa sentenza, l'unico modo per garantire la tutela dei
terzi senza mettere in pericolo l'utilità del momento giurisdizionale come produttore di
certezza, il modo quindi a questo punto doveroso di far fronte ad esigenze costituzionalmente
irrinunciabili, è l'anticipazione della tutela dei terzi alla fase della costruzione del processo.
Bisogna insomma che (tendenzialmente) tutti i terzi che avrebbero la possibilità di mettere
in discussione con l'impugnazione successiva la sentenza siano chiamati a partecipare al
giudizio in cui quella si sta formando, per potere, da un lato, esprimere liberamente e
pienamente le loro difese, e per dovere, dall'altro, rispettare come indiscutibile la decisione
che, anche con il loro concorso, sia stata pronunciata.
Per esprimere il discorso nei termini della teoria del giudicato (35), bisogna insomma che si
realizzi la più completa possibile coincidenza fra soggetti toccati dagli effetti della sentenza, e
soggetti sottoposti al vincolo del giudicato.
(35) O, almeno, di teoria liebmaniana del giudicato.
D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo
23
La sentenza per la verità non affronta affatto il tema del giudicato. Anzi si esprime talvolta
sul punto in termini confusi, ad esempio là dove riporta la regola dell'art. 2909 CC come
riferita all'"inefficacia della sentenza nei confronti di soggetti diversi dalle parti del processo",
o dove parla di "terzo, toccato dal giudicato".
Ma l'impostazione del discorso può effettuarsi in quei termini sulla base dei principi a suo
tempo nitidamente formulati nella sentenza n. 55 del 22 marzo 1971 (36). Allora si ritenne che
scopo del giudicato è di "fissare in modo stabile le risultanze di un giudizio reso in via
definitiva.... ma limitatamente alle parti originarie del giudizio e a quanti vi intervennero o
dovevano intervenirvi"; ne risulta che è costituzionalmente non consentito considerare
vincolante la pronuncia "in confronto di terzi che si siano trovati nella impossibilità giuridica
o di fatto, per non averne avuto conoscenza giuridicamente rilevante, di partecipare" al
giudizio.
Di quelle indicazioni l'attuale pronuncia costituisce in qualche modo applicazione. Chi
risenta nella sua sfera giuridica degli effetti di una sentenza pronunciata fra altri non può
essere vincolato a considerare quegli effetti definitivi e immodificabili: ed è quindi
incostituzionale l'assenza di un mezzo di reazione contro quegli effetti, la quale equivale in
fatto alla sottoposizione a quel giudicato.
Una volta però che tale mezzo di reazione è entrato nel processo il discorso va ancora
proseguito e anzi rovesciato: se per garantire l'utilità della sentenza per il ricorrente vincitore,
per salvare il processo da ripetute e indeterminate riaperture che i terzi potrebbero chiedere ed
ottenere, è preferibile o necessario sottoporli al giudicato, cioè vincolarli a ritenere
immodificabili e definitivi gli effetti che dalla sentenza derivano, ciò non può essere ormai
ottenuto che facendo partecipare quei terzi al processo, o almeno consentendo loro una
effettiva possibilità di partecipare. A quel punto il rimedio successivo rimane per i terzi come
garanzia per il caso di eccezionale mancato funzionamento dei meccanismi di coinvolgimento
nel giudizio.
Rimane da chiedersi, e il punto è ovviamente della massima importanza, chi siano questi
terzi cui si riferisce la possibilità di esperire l'opposizione, e ai quali quindi va assicurata una
preventiva possibilità di partecipazione al giudizio. Anche sotto questo aspetto la sentenza che
si commenta dà indicazioni abbastanza ampie, lasciando, certo volutamente, alla
giurisprudenza amministrativa il compito di elaborare degli indirizzi puntuali sul tema. La
Corte ricorda innanzitutto, inquadrando l'istituto per come esso è configurato nel processo
civile, che esso ha applicazione sia quando "la situazione vantata dall'opponente e
incompatibile con quella affermata dal giudicato venga considerata dal diritto sostanziale
prevalente rispetto a questa", sia quando la sentenza risulti pronunciata "senza il rispetto di
regole processuali". Rispetto al processo amministrativo si fa poi riferimento innanzitutto al
caso del controinteressato, da considerarsi parte necessaria, che sia stato pretermesso. E si
ricordano poi, con indicazioni piuttosto larghe se non generiche, i soggetti che l'azione
amministrativa coinvolge "direttamente o di riflesso" e che non sempre sono ritenuti parte
necessaria, e coloro che, toccati dai procedimenti cui la sentenza dà luogo per la sua
attuazione, "non dovevano o addirittura non potevano" partecipare al processo.
Tali indicazioni sono così ampie che non possono essere considerate se non
l'individuazione di un campo, di un ambito, all'interno del quale toccherà al giudice
amministrativo la puntualizzazione e la specificazione dei casi da ritenere meritevoli della
(36) E, su quella sentenza, estesa da Mortati, si veda il lucidissimo commento di L.P. COMOGLIO,
L'incostituzionalità dell'art. 28 cod. proc. pen. e la decisione "overruling" della Corte costituzionale, già citato
supra.
D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo
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tutela. La sentenza sembrerebbe sotto questo aspetto invitare, con una sorta di monito alla
giurisprudenza, a considerare che anche in ambiti diversi da quelli nei quali si sono finora
individuati quei terzi che hanno titolo a diventare parti del giudizio non è escluso si presentino
soggetti cui una tutela deve essere assicurata (e l'esempio è proprio quello del caso concreto
oggetto del giudizio a quo, quello del controinteressato c.d. successivo).
Peraltro vale la pena di osservare che anche qui, con riferimento almeno ad alcuni dei
campi individuati dalla Corte, la diversità strutturale del processo amministrativo e del suo
oggetto rispetto a quello civile potrebbe costringere a degli adattamenti. Se è vero ad esempio
che si dice che l'opposizione è un rimedio "facoltativo" (37) nel senso che il terzo può
raggiungere lo stesso risultato anche per altra via (con una autonoma azione), nel caso che la
posizione del terzo sia lesa, più immediatamente che non dalla stessa sentenza, dall'attività di
esecuzione di essa, e questa esecuzione consista nell'adozione di provvedimenti, la
"facoltatività" dell'opposizione deve fare i conti con l'inoppugnabilità dei provvedimenti
adottati in ottemperanza alla sentenza, alla quale, come già abbiamo accennato, non pare
possa sopravvivere.
8. - Pare inevitabile concludere che la conseguenza dell'aver previsto un mezzo postumo di
difesa per i terzi è che si impone ora come assolutamente inderogabile quel compito, che
prima poteva parere solo desiderabile e ragionevole, di individuare dei modi efficaci per
estendere preventivamente il processo a chi, risentendo degli effetti della sentenza, potrebbe
poi altrimenti, se non fosse tenuto al rispetto del giudicato, attaccarne il risultato.
Sembra di poter sostenere che questi modi non possono tradursi in un aumento degli oneri
per i ricorrenti, ma vanno cercati piuttosto in meccanismi officiosi, affidati ad adempimenti
doverosi del giudice.
In un altro lavoro ho tentato di dimostrare la criticabilità della regola che, imponendo in
linea di principio al ricorrente il compito della instaurazione del contraddittorio nei confronti
dei controinteressati, individua come suo onere, come requisito per la valida proposizione del
giudizio, gli adempimenti connessi con la garanzia dei terzi (38). Pare infatti che non si possa
ragionevolmente assicurare la tutela del diritto dei terzi al contraddittorio a spese del diritto
del ricorrente di chiedere la tutela delle sue posizioni giuridiche nei confronti dell'azione
amministrativa, come accade se si rende disagevole, faticoso, costoso, il ricorso con oneri di
reperimento e di notifica ai terzi, nè che all'opposto si possa misurare la garanzia che si offre
ai terzi sul metro di ciò che si può chiedere al ricorrente senza rendergli troppo arduo
l'esperimento del ricorso.
Tale conclusione pare tanto più difendibile ora. Sembra dunque difendibile l'idea che si
debba giungere in prospettiva ad una assunzione da parte del giudice del compito di assicurare
il rispetto del principio del contraddittorio. I modi in cui svolgere tale compito dovrebbero
comprendere una attività istruttoria per l'individuazione dei terzi che devono essere, per il
rispetto del principio del contraddittorio e per la garanzia dell'utilità del processo, coinvolti nel
processo, e la loro chiamata per mezzo di una comunicazione della segreteria del giudice, sul
modello di quanto avviene, con la Beiladung, nel processo amministrativo tedesco. Ma anche
nel sistema attualmente vigente sono già consentiti orientamenti e sono possibili soluzioni
che, almeno in parte, vadano nella direzione indicata. Sotto un primo aspetto pare si possa ora
valutare seriamente se non si debba dare più estesa e più attenta attuazione al compito, che la
(37) Vedi per tutti F.P. LUISO, Opposizione di terzo, in Enc. giuridica Treccani, cit., 4.
(38) Vedi ancora, se vuoi, il già citato La tutela dei terzi nel processo amministrativo, 154 ss., dove si cerca di
dimostrare la possibilità di seguire anche nel nostro processo amministrativo il modello tedesco.
D. Corletto, Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo
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legge già assegna al giudice, di "ordinare le ulteriori notifiche agli altri controinteressati". Il
dovere di ordinare l'integrazione del contraddittorio potrebbe opportunamente, nell'ottica che
si è indicata, riferirsi più ampiamente e più francamente di quanto ora non si faccia, ad una
attività sostanziale di individuazione dei terzi, "altri" non solo rispetto a quello o a quelli già
notificati dal ricorrente, ma ulteriori anche rispetto a quelli "ai quali l'atto direttamente si
riferisce". Questa soluzione interpretativa, che consentirebbe di estendere il processo ai
controinteressati c.d. sostanziali, ha dalla sua l'argomento che, se non si presupponesse una
attività del giudice di ricerca - nella realtà e sulla base degli atti di causa - dei terzi che sia
necessario notificare e che non siano individuabili dall'atto, non sarebbe stato sensato
prevedere un ordine del giudice, essendo sufficiente invece imporre al ricorrente, come
condizione di procedibilità, il completamento delle notifiche fin dall'inizio possibili.
Nello stesso ordine di idee si potrebbe cogliere quello che appare - come si è detto - una
sorta di suggerimento della Corte, e utilizzare anche nel giudizio amministrativo la chiamata
del terzo ai sensi dell'art. 107 CPC, per coloro che, individuati come legittimati a fare
intervento, non fossero in grado di farlo perchè non informati del processo, o che preferissero
attenderne l'esito riservandosi di impugnare la sentenza con l'opposizione.
In questo e nel precedente caso è vero che l'allargamento del processo ai terzi interessati
passa per il tramite di una notificazione, da effettuarsi a cura e a spese del ricorrente. Sotto
questo aspetto, come si accennava, ne deriva certamente un aggravio, anche economico, per
chi chiede la tutela del suo interesse legittimo, che non può non considerarsi inopportuna e, si
direbbe, anche costituzionalmente discutibile, per la sua incidenza sull'esercizio di un diritto
costituzionalmente garantito. Peraltro, se si può auspicare un intervento legislativo che porti
l'attività di tutela dei terzi fra i compiti officiosi del giudice, pare che comunque sia preferibile
anche per il ricorrente spendere tempo e impegno nella fase iniziale del processo, piuttosto di
esporre quest'ultimo, una volta concluso, a tanti legittimi attacchi quante sono le notifiche
risparmiate prima (39).
in Giurisprudenza costituzionale, n. 5/1995>
(39) Nell'ottica di una attività di integrazione del contraddittorio che serva a garantire l'utilità della sentenza
oltre (o più) che i terzi, si potrebbe poi pensare all'opportunità di procedere a chiamare anche quei ulteriori
soggetti pubblici, che senza potersi propriamente definire controinteressati, e senza formalmente essere autori
dell'atto, sia però necessario sottoporre al giudicato perchè dalla pronuncia possa davvero derivare la
soddisfazione dell'interesse del ricorrente: vedi ancora (volendo) il mio citato La tutela dei terzi nel processo
amministrativo, 178.
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