shoah - Giorno della Memoria, 10 cose che forse non sai sulla

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Il crollo degli imperi e la trasformazione dei nazionalismi
0001000080 ‣ Introduzione . Il sistema europeo del XIX secolo fu profondamente influenzato dal
gruppo di stati della “Pentarchia”, le cinque “grandi potenze”1. Già con il nuovo ordinamento
europeo promosso dal Congresso di Vienna del 1815 dopo gli sconvolgimenti dell'età napoleonica,
questi stati apparivano suddivisi, agli occhi dei contemporanei, in due gruppi: da un lato le “potenze
occidentali”, più liberali, di Francia e Gran Bretagna, dall'altro le “potenze orientali”, conservatrici,
costituite dagli imperi di Austria e Russia, nonché dal regno di Prussia in forte espansione. Le
potenze orientali non solo erano unite tra loro dalla “Santa Alleanza”, nata soprattutto in risposta ai
timori dell'insorgere di movimenti rivoluzionari o democratici, ma avevano anche un interesse
comune: impedire che rinascesse lo stato della Polonia dai territori un tempo appartenuti ad essa e
ora spartiti tra queste potenze. In particolare nelle due maggiori potenze orientali, Russia e Austria, i
tre decenni successivi al 1815 si caratterizzarono per un temporaneo consolidamento del vecchio
ordine. Se in Prussia erano state avviate prudenti riforme, in Austria e in Russia rispettivamente il
sistema Metternich e l'era di Nicola I incarnarono in modo propriamente simbolico, almeno fino al
1848, ma anche in epoca posteriore, la conservazione, anzi la “reazione”.
Un secolo dopo, la Prima guerra mondiale portò alla dissoluzione proprio di questi due grandi
imperi. Tuttavia, anche la terza potenza orientale di un tempo, la Prussia, divenuta nel frattempo
impero tedesco di impronta bismarckiana, dovette annoverarsi tra gli sconfitti della guerra. Le
cessioni territoriali che furono imposte all'impero tedesco e altre condizioni sfavorevoli non
determinarono, ciò malgrado, un tale sovvertimento radicale come lo subì l'impero russo a causa
della rivoluzione, del ritiro volontario dal conflitto e del distacco di enormi regioni ai margini
dell'impero. Solo alcuni decenni più tardi, l'Unione Sovietica, lo stato sorto dalle ceneri dell'impero,
avrebbe riannesso pressoché tutti i territori persi, sotto forma di repubbliche sovietiche, assurgendo
nuovamente, in seno alla comunità degli stati, al rango di grande potenza, temporaneamente persino
di potenza mondiale, di “superpotenza” atomica; al suo interno, tuttavia, sarebbe rimasta per quasi
tutto il resto del XX secolo una dittatura di partito e uno stato basato sulla violenza. Dopo il 1990
l'Unione Sovietica si è nuovamente disgregata; l'attuale Federazione Russa presenta
approssimativamente l'estensione della Russia del XVII secolo. La terza “potenza orientale”, al
contrario, l'impero austro-ungarico, si smembrò completamente, nel 1918, in singoli stati costituiti
in base al principio delle nazionalità, che nella maggior parte dei casi – salvo una interruzione tra il
1938 e il 1945 – esistono ancora oggi; una restaurazione del grande impero sul Danubio non si è
mai più verificata e, con ogni probabilità, non avverrà neppure in futuro. In Russia, la tardiva
abolizione della servitù della gleba fu all'origine di tendenze di rivoluzione agraria; dall'ultimo
decennio del XIX secolo, il movimento operaio sorto in seguito alla ritardata industrializzazione in
poche aree del paese condusse ad una rivoluzione socialista. Il distacco di vaste regioni situate ai
confini dell'impero fu tuttavia causato dall'affermarsi di movimenti nazionali a lungo contenuti.
Anche nell'impero asburgico furono soprattutto questi movimenti a provocare, nel momento
propizio della Prima guerra mondiale, l'implosione definitiva dell'impero nell'autunno del 1918.
0001000080 ‣ Il mutamento del concetto di nazione, diversi concetti di nazione . L'interpretazione
di questo profondo cambiamento avvenuto dopo la Prima guerra mondiale risulterebbe certamente
troppo semplificata se si volesse vedere nelle tre citate potenze orientali solo dei regni dinastici
prenazionali, soppressi da movimenti nazionalrivoluzionari e sostituiti da nuovi stati nazionali
moderni originati da tali movimenti. In effetti, già precedentemente le stesse potenze orientali non
erano state risparmiate da un mutamento che, dalla seconda metà del XIX secolo, aveva investito
lentamente, ma in modo fondamentale, la società europea all'indomani della Rivoluzione francese:
l'ingresso nell'era del nazionalismo.
Per non confondere i concetti ed evitare di proiettare retroattivamente, in maniera inadeguata,
situazioni attuali su secoli passati, occorre innanzi tutto tener presente che sono esistite due diverse
accezioni di “nazione”, una subentrata all'altra, che non devono essere confuse. A livello molto
generale, nella prima età moderna, quindi approssimativamente almeno fino all'epoca della
Rivoluzione francese, la società era articolata in un “livello superiore” e un “livello inferiore”. Lo
strato superiore, letteralmente privilegiato – ossia dotato di privilegi, nel vero senso della parola –
era l'unico ad avere voce in capitolo a livello politico. I suoi membri (appartenenti non solo alla
nobiltà) erano i protagonisti della vita politica; la loro comunità poteva essere definita “natio”
secondo l'accezione antica. Chi non faceva parte dei privilegiati, ovvero la vasta massa della
popolazione rurale e gli abitanti delle città di livello inferiore rispetto al ceto borghese, talvolta
anche quest'ultimo, non contava nulla sul piano politico. A differenza del successivo nuovo
concetto di nazione, che venne lentamente sviluppandosi dopo il “momento soglia” [Schwellenzeit ]
della Rivoluzione francese2, nei primi secoli dell'età moderna non aveva assolutamente alcuna
importanza politica quale lingua utilizzassero i membri della classe dirigente, e tanto meno i non
privilegiati, che non avevano comunque voce in capitolo3.
Solo dopo la Rivoluzione francese, in misura crescente nella seconda metà del XIX secolo, questo
sistema premoderno entrò in una fase di trasformazione che lo portò a un tipo di costruzione della
società totalmente diverso, alla nascita della nazione democratica fondata sulla base
dell'uguaglianza di tutti gli uomini senza distinzioni di ceto, così come la conosciamo oggi. Solo a
partire da questo momento si può parlare di età del nazionalismo: la nazione divenne sempre più il
valore politico dominante. E solo ora la lingua utilizzata assunse un ruolo completamente nuovo
quale segno distintivo nazionale per eccellenza. Poco dopo la Prima guerra mondiale, nel momento
in cui proprio la comunità degli stati dell'Europa orientale era sottoposta a un completo mutamento,
apparve tuttavia chiaro che il dibattito europeo includeva concezioni diverse su cosa si intendesse
per “nazione” nel XX secolo: dal punto di vista degli stati nazionali occidentali più antichi, come
Gran Bretagna, Francia o Spagna, il concetto di “nazione” risultò, fino al XX secolo inoltrato,
perfettamente identico a quello di popolo dello stato (quindi ogni cittadino di Francia, della “nation
française ”, è francese, parla francese, ecc.); come formulava Ernest Renan, la nazione era un
“plébiscite de tous les jours” [“plebiscito di tutti i giorni”]: ci si poteva pronunciare a favore o
contro l'appartenenza a uno “stato-nazione” [Staatsnation ].
Al contrario, nell'Europa centrale e soprattutto orientale, quindi nella “nazione tardiva” dei tedeschi,
giunta solo nel corso del XIX secolo alla consapevolezza di una comunità nazionale, e nel 1871 –
anche se in modo imperfetto – alla costituzione di uno stato nazionale, ma ancor più negli stati
multietnici delle potenze orientali, si impose un altro concetto di “nazione”, solo raramente
sovrapponibile a quello di “stato”; in tal caso cittadinanza e appartenenza al popolo erano spesso
divergenti. Cittadini dell'Austria-Ungheria, per esempio, potevano essere cechi, croati, tedeschi,
magiari ecc. Questo concetto di nazione, per così dire “orientale”, era piuttosto fondato sul diritto
naturale. Così come Johann Gottfried Herder aveva visto nel “popolo” [Volk ] qualcosa come un
dato di natura, addirittura di eterno, che si manifestava nella lingua e nei canti del “popolo”, allo
stesso modo, in periodi diversi del XIX secolo, i popoli che di norma non disponevano di uno stato
e che dunque vivevano in imperi sovranazionali accanto ad altri popoli in qualità di “non dominant
ethnic groups ” [gruppi etnici non dominanti]4, fecero della loro rispettiva cultura linguistica
l'elemento distintivo a cui si ispirarono i propri “movimenti nazionali”. Questi erano solitamente,
allo stesso tempo, anche movimenti per un'ascesa di tipo sociale [gesellschaftliche
Aufstiegsbewegungen ]; in misura sempre maggiore tentarono di diventare “nazioni” a pieno titolo
anche a livello culturale, economico e politico, di acquisire “attributi dello stato nazionale”5, di
perseguire come obiettivo finale la creazione dei propri stati nazionali.
Lo sforzo di queste “nazioni di popolo” (o “nazioni culturali”) di avvalorare il senso della propria
identità anche attraverso una propria storia risalente a tempi remoti e una letteratura antica, radicata
il più lontano possibile nel passato, e di richiamarsi se possibile a una precedente statualità – anche
se spesso solo fittizia – ha trovato espressione nella formula coniata da Benedict Anderson,
diventata in questi ultimi tempi di uso comune, che definisce la nazione una “imagined community ”
[comunità immaginata]6. Con ciò non si intende che questo gruppo di nazioni, soprattutto
nell'Europa orientale, siano mere “invenzioni”, bensì che grandi gruppi esistenti si sono uniti,
nell'“età del nazionalismo”, ossia nel XIX e XX secolo, a formare nuove nazioni, o distinguendosi
linguisticamente da altri gruppi o, al contrario, costituendo insieme ad altri una nuova comunità
linguistica con una comune lingua standard e formando dunque una nuova “nazione” nel senso
moderno del termine. In tal modo i movimenti nazionali filtrarono dalla storia multiforme la
“propria” storia nazionale. In breve, alla base della creazione di un'identità nazionale risiede una
notevole componente di costruzione, che in maniera altrettanto calzante ha trovato espressione nel
più antico concetto di “nation building ” [costruzione della nazione]. Grazie ai due concetti di
“nation building ” e “imagined community ” si è potuto smascherare come le immagini utilizzate
precedentemente per lo stesso processo, come quelle di “risveglio nazionale” e “rinascita
nazionale”, fossero costrutti ideologici romantici, organicistici; essi erano fondati sull'idea che i
“popoli” fossero qualcosa di eterno, creato da Dio o presente in natura che, al pari di un organismo,
potesse germogliare, svegliarsi, sbocciare e, dopo fasi di “sonno” o di “oscurità”, “risvegliarsi” o
addirittura “rinascere”.
Il mutamento cui si faceva riferimento in precedenza dalla “natio” premoderna dei ceti alla nazione
democratica moderna può essere soprattutto osservato, come si è visto, nell'Europa orientale, dove
nel XIX secolo e all'inizio del XX secolo i movimenti nazionali cercarono sempre più di
emanciparsi all'interno dei loro “imperi” sovranazionali o da essi. Tuttavia, questi stessi imperi
finirono risucchiati nel vortice del nuovo nazionalismo. L'impero russo, per esempio, nel XVIII
secolo, sulla scorta di una occidentalizzazione inizialmente superficiale, aveva ampiamente aderito
al codice comportamentale tipico del sistema europeo. Così, ancora all'inizio del XIX secolo, in
occasione di acquisizioni territoriali, tale impero, si comportò esattamente come era uso tradizionale
nel resto dell'Europa nella prima età moderna: “nei nuovi territori annessi cambiava solo il sovrano
che diventava ora l'imperatore russo, mentre rimanevano immutati, come in un pacco sigillato”7 i
rapporti giuridici e sociali interni, nonché le condizioni religiose e lo stesso utilizzo della lingua o
delle lingue fino ad allora correnti. Questo era quanto si era verificato nei territori derivanti dalla
spartizione dell'antica Polonia, nella Finlandia, appartenuta fino al 1811 alla Svezia, o nella
Georgia, rimasta indipendente fino al 1803. Un gesto altamente simbolico in questo tipo di
passaggio di dominio era rappresentato dall'incorporazione della nobiltà del singolo stato –
finlandese, polacca o georgiana che fosse – in quella del nuovo stato dominatore, in questo caso
dell'impero russo.
Attorno alla metà del XIX secolo, tuttavia, si affermò sempre più in Russia, nell'ambito del
mutamento precedentemente accennato, la tendenza a identificare “russo” con “di lingua russa”,
ovvero a russificare anche le regioni dell'impero fino ad allora di lingua diversa (per esempio
tramite l'introduzione sempre più estesa della lingua russa a livello burocratico e nell'insegnamento
anche universitario, del rublo, della Chiesa ortodossa, ecc.). Quanto scarsa risultò la russificazione
completa, tanto forte risultò il malcontento suscitato da questa nazionalizzazione di tipo moderno
nelle regioni non di lingua russa, che stimolò l'insorgere di movimenti nazionali indipendenti non
russi. Questo mutamento nella concezione di quale dovesse essere il principio dominante della
società può essere osservato nel conflitto, che potremmo definire classico, scoppiato nelle province
russe del Mar Baltico, Estonia e Livonia, negli anni Sessanta del XIX secolo. In una controversia
pubblicistica il russo Jurij Samarin e il baltico tedesco Carl Schirren sostenevano i propri punti di
vista: Samarin accusava i baltici di sottrarsi all'unità dell'impero russo; Schirren insisteva sul diritto
del paese (quindi dei ceti) “contro la race dominante” (ossia i russi nazionalisti): “Noi ci
richiamiamo al nostro diritto e alla parola dell'imperatore. Lei fa appello all'istinto del suo popolo”.8
I “baltici” residenti difendevano perciò i loro privilegi “storici”, vale a dire di ceto, di cui avevano
in effetti goduto all'interno dell'impero russo e che di fatto erano stati loro confermati sempre nel
passaggio dal dominio polacco a quello svedese e a quello russo nonché da sovrano a sovrano;
venivano tuttavia costretti dalla nuova spinta alla russificazione fondata sul diritto naturale,
nonostante l'insistenza sui loro “diritti storici”, a considerarsi anche parte di una nazionalità intesa
in senso moderno, e questa era, corrispondentemente alla lingua utilizzata, la nazionalità tedesca. In
tal modo i baltici si avvicinarono molto più intensamente alla nazione tedesca dell'impero
bismarckiano dopo il 1871, riducendo così mentalmente in modo progressivo il loro senso di
appartenenza all'impero russo. Nel contempo essi dovevano, tra l'altro, difendersi dai nuovi
movimenti nazionali emergenti dei lettoni e degli estoni, che in precedenza avevano costituito la
massa contadina non privilegiata in Estonia e Livonia.
Alla fine della Prima guerra mondiale e nel corso della rivoluzione dell'impero russo si produsse
una situazione che – all'insegna del “diritto all'autodeterminazione delle nazioni” postulato in quel
momento – rese possibile la fondazione di nuovi stati nazionali, in questo caso dell'Estonia e della
Lettonia, come “stati-successori” [Nachfolgestaaten ] che subentrarono all'impero russo. In seguito
all'affermazione del principio democratico delle nazionalità, tuttavia, non si valutava più il peso del
ceto (come succedeva prima, quando valevano solo i privilegi), ma si contavano gli individui,
oramai sostanzialmente di rango uguale, cosicché in base al principio di maggioranza quella che era
stata sino ad allora la classe baltica dirigente si ritrovò, in questi due paesi, a rappresentare, con
meno del 3 per cento della popolazione, la “minoranza nazionale tedesca”, mentre gli appartenenti
agli strati un tempo non privilegiati ottennero, in quanto nazione lettone o estone, il proprio stato
nazionale. Il vecchio e il nuovo principio di nazione poterono, certamente, anche coesistere per un
periodo transitorio. Nei paesi boemi la nobiltà si era in larga parte ritirata dallo scontro politico
attivo dopo il 1848 e la scena era dominata da due movimenti nazionali paralleli nati dalla stessa
radice, uno ceco e uno tedesco. Non rispondevano dunque al modello basato sulla dicotomia tra
“strato superiore” e “strato inferiore”, ma si trovavano su un piano paritario di concorrenza costante.
Da tale situazione derivò un singolare dualismo: uno dei principali obiettivi della lotta portata avanti
dal movimento nazionale ceco, vale a dire la riconquista del “diritto pubblico boemo” contro
l'ampia centralizzazione su Vienna, ovvero l'ottenimento di una maggiore autonomia un tempo
detenuta in seno alla monarchia asburgica, era in realtà una rivendicazione nobiliare conservatrice
risalente al tardo XVIII secolo. Essa venne tuttavia reinterpretata secondo una prospettiva nazionale
moderna con l'equiparazione di “boemo” (cioè del territorio) con “ceco” (ossia l'etnia)9. Verso
l'esterno, questa ideologia del “diritto pubblico” si serviva, pur sempre, di un'argomentazione
conservatrice. Al contrario appariva come la più moderna e la meglio rispondente al principio
nazionale di tipo etnico la tendenza, diffusasi tra i tedeschi dei paesi boemi a partire dagli anni
Ottanta del XIX secolo, che proponeva di dividere la Boemia in una regione di lingua ceca e una di
lingua tedesca; essa fu però duramente contestata da parte ceca in quanto avrebbe portato a una
“lacerazione del paese”.
Anche in Prussia e nella parte ungherese dell'impero austro-ungarico si assistette a una
trasformazione, analogamente a quanto era successo in Russia, da una società fondata sul ceto a una
di tipo nazionale moderno. Tale mutamento si evidenziò in particolar modo nel ruolo assunto dalla
Prussia nell'unificazione tedesca e, infine poi, a partire dal 1871, in quello di potenza dominante
all'interno dello stato nazionale piccolo-tedesco, il “Secondo Reich”. Già poco tempo dopo, tale
processo si manifestò in una politica nazionalista tedesca di tipo repressivo nei confronti dei
polacchi presenti nel paese. I polacchi, tuttavia, rappresentano un'eccezione rispetto ai modelli sopra
analizzati di movimenti nazionali costituitisi nel segno della democratizzazione e dell'aspirazione ad
uno stato nazionale, in quanto la nazione che si faceva portatrice dello stato polacco era stata sì
“non dominant ”, cioè senza uno stato proprio, per oltre un secolo dalla spartizione dell'antico stato
duale polacco-lituano, ma non si trattava in questo caso di uno dei nuovi movimenti nazionali, bensì
della complessa trasformazione di un'antica nazione nobiliare in una democratica in senso moderno,
nella fase di assenza dello stato nel corso del XIX secolo. Un discorso simile può essere fatto per la
trasformazione degli ungheresi, che, certamente, a partire dal compromesso austro-ungarico erano
già in una posizione dominante almeno in una parte dello stato, che seppero plasmare in senso
nazionalistico moderno.
0001000080 ‣ Stati nazionali - minoranze . Il fallimento contemporaneo delle tre “potenze
orientali” verso la fine della Prima guerra mondiale – la Russia per effetto della rivoluzione interna,
l'Impero tedesco e l'Austria-Ungheria a causa della sconfitta al termine del conflitto – rappresentò
un evento assolutamente inaspettato10 che portò all'affermazione, almeno nell'Europa centrorientale
e sudorientale e nel Sud-Est europeo, di nuovi movimenti nazionali del tipo dei non dominant ethnic
groups, aiutandoli nella creazione dei propri stati nazionali. In una fase precedente di questo
processo, già nel XIX secolo, nel territorio dell'impero ottomano che si andava lentamente
sgretolando, erano sorti, in modo analogo, gli stati nazionali di Serbia, Grecia, Bulgaria, Romania e
– molto tardi – di Albania. Per questo motivo, la nuova ondata di formazione di nuovi stati
verificatasi sul suolo dell'Austria-Ungheria e della Russia a partire dal 1918 fu definita, nell'Europa
centrale e occidentale, talvolta in modo dispregiativo, “balcanizzazione”. Tale espressione alludeva
alle dimensioni ridotte dei nuovi stati – spesso a torto, poiché per esempio la Polonia aveva
un'estensione notevole! – e al fatto che si sarebbe dovuto trattare (con un altro termine peggiorativo)
di “stati stagionali”, ossia stati instabili che si sarebbero nuovamente dissolti al primo attacco. Ciò
sembrò temporaneamente avverarsi negli anni Trenta-Quaranta del XX secolo, ma nel complesso i
nuovi stati mostrarono una resistenza davvero sorprendente, nonostante la loro momentanea
distruzione nell'ambito del dominio della Germania hitleriana e dell'Unione Sovietica; gli stessi stati
baltici, che si trovarono sotto il dominio sovietico per quasi mezzo secolo, si sono nel frattempo
ricostituiti. Soltanto quegli stati che, negli anni Venti e Trenta, tentarono di fondere singole nazioni
preesistenti in nuovi sintetici stati-nazione [Staatsnationen ], la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, si
sono frantumati nel recente passato in stati nazionali delle singole nazioni; la crisi che ne è scaturita
investe, ancora oggi, parti dell'ex Jugoslavia.
In relazione al nostro tema, appare opportuno analizzare più da vicino la composizione nazionale
dei nuovi stati dopo la Prima guerra mondiale. Ci troviamo in questo caso di fronte ad un sistema
nel quale – contrariamente a quanto avveniva nei vecchi imperi sovranazionali – le nazioni titolari (i
polacchi per la Polonia, i lituani per la Lituania) si trovarono a confrontarsi con minoranze nazionali
e minoranze etniche residenti nello stato. Questa distinzione fu definita e rispettata in modo
estremamente preciso, ed ebbe notevole importanza per lo status di coloro che ne furono interessati.
Le minoranze – dette anche “nazionalità” – potevano essere distribuite sul territorio dello stato in
forme diverse. Spesso costituivano delle “minoranze di confine” lungo le frontiere dello stato e nei
territori attigui dello stato connazionale al di là del confine. In questa situazione poteva piuttosto
verificarsi quello che fu definito uno “sbirciare” oltre il confine, ma anche come “irredentismo” (il
termine italiano di “irredento” comparve presso gli italiani del Trentino austriaco desiderosi,
anteriormente alla Prima guerra mondiale, di far parte dello stato nazionale italiano). Con maggiore
efficacia rispetto a queste minoranze di confine, le cosiddette “minoranze a isola” o “minoranze
sparse” si organizzarono meglio all'interno dello stato di nazionalità differenti [andersnationaler
Staat ]. A questo proposito meritano particolare attenzione quelle “minoranze nazionali” che non
possono far riferimento, nei loro desideri, a una “nazione madre” al di là dei confini del proprio
stato, poiché un tale stato non esiste. Pensiamo qui alla lunga questione della nazione ucrainorutena, le cui zone di insediamento erano dislocate in parte sul territorio dell'impero russo o,
successivamente, dell'Unione Sovietica, in parte in Polonia o, prima della Prima guerra mondiale, in
Austria-Ungheria. In entrambi i casi tale minoranza non disponeva di un proprio stato. Occorre però
considerare anche “piccoli popoli” come i sorabi, che non hanno pressoché alcuna prospettiva di
raggiungere una propria struttura statale né la perseguono. (Un analogo ragionamento era stato fatto
in Europa occidentale, fino alla seconda metà del XX secolo, anche a proposito dei baschi o dei
catalani nello stato-nazione Spagna – ma nel frattempo la situazione è mutata radicalmente)11. Una
restaurazione degli stati sovranazionali non venne inizialmente presa in considerazione neppure
come esperimento concettuale; tutto ciò sarebbe riuscito solo all'Unione Sovietica per alcuni
decenni sotto ben altri auspici. Un possibile sviluppo al di fuori del nuovo sistema di stati nazionali
e di minoranze era ancora presente, nel primo periodo dopo la catastrofe generale della guerra
mondiale, nelle idee programmatiche di alcuni gruppi politici, vale a dire il prevalere
dell'internazionalismo, il superamento degli stati singoli. Questa prospettiva di sviluppo si
presentava soprattutto agli occhi di socialisti di sinistra. Tuttavia, quanto più l'“internazionalismo
proletario”, la rivoluzione mondiale oltre la dimensione statale [jenseits der Staatlichkeiten ] nella
stessa “patria dei lavoratori”, l'Unione Sovietica, degenerava a favore di uno stato rigidamente
amministrato e di una sempre crescente rinazionalizzazione, tanto più questa concezione ideale si
ritirava nei circoli delle sette politiche, perdendo in tal modo le rimanenti possibilità di
realizzazione.
Particolare attenzione meritano quegli stati-nazione o nazioni titolari [Titularnationen ] che di fatto
non esistevano come tali: i “cecoslovacchi” e gli “jugoslavi”. Sia il governo cecoslovacco che
quello jugoslavo hanno tentato di dar vita a queste “formazioni nazionali sintetiche” per rafforzare i
propri stati12. Hanno fallito soprattutto a causa del malcontento di determinate parti di questi
previsti stati-nazione a carattere sintetico, parti che erano già troppo sviluppate come nazioni
singole e che attraverso l'inglobamento nella rispettiva sovranazione [Supranation ] si sono sentiti
ostacolati nella propria pretesa di uno stato nazionale separato: ci riferiamo soprattutto ai croati e
agli slovacchi. Alla luce dell'approccio teorico del concetto di “inventing nations ” [“inventare le
nazioni”], un tale tentativo di fusione in una nazione più vasta non rappresenta tuttavia nulla di così
straordinario, come potrebbe apparire. Nel XIX secolo esso era praticamente la norma. Si ricordi il
movimento per l'unificazione tedesca, l'unificarsi della nazione italiana, in Russia il già citato
tentativo di convogliare movimenti nazionali centrifughi (per esempio degli ucraini, ma anche nel
Baltico e altrove) nella “nazione russa, una e indivisibile ”. Anche nel XIX secolo tali tentativi sono
in parte riusciti, in parte falliti. La particolarità dei due casi ricordati del XX secolo consiste solo nel
fatto che esisteva già uno stato nazionale comune: rispettivamente la Jugoslavia e la
Cecoslovacchia.
Un caso a parte era costituito da quelle minoranze che sino ad allora non avevano avuto a
disposizione un proprio stato né una “madrepatria”, cioè uno stato connazionale. Ad esse
appartenevano quelle – per lo più giovani – nazioni che fino a quel momento non avevano mai
posseduto uno stato proprio o lo avevano fatto solo in un passato mitico e con tutt'altra individualità
di gruppo: i bielorussi, i ruteni (russini), ma anche quelle minoranze troppo piccole per avere reali
prospettive di poter giungere alla creazione di uno stato proprio in tempi brevi: i sorabi/vendi, i
friulani, ecc.
0001000080 ‣ Gli ebrei – una nazionalità? . Per ultimi, ma non in ordine di importanza, vanno citati
in questo contesto gli ebrei dell'Europa orientale, che nella società predemocratica non trovavano
posto né nella parte privilegiata né in quella non privilegiata della società, ma, a causa della loro
religione non cristiana, si trovavano al di fuori di questa società, occupando nel corso dei secoli una
posizione ricorrentemente debole e minacciata. Costituirono anch'essi nell'età del nazionalismo
movimenti nazionali dello stesso tipo di quelli diffusi nelle grandi aree imperiali considerate? La
risposta può essere sia affermativa che negativa. Si impone una risposta negativa se si considera che
una gran parte degli ebrei, pressoché la totalità fino al XIX secolo, intendendo la propria comunità
in senso religioso, come popolo eletto da Dio, rimase in larga parte isolata rispetto alle Chiese
cristiane e alle istituzioni statali cristiane, nel cui ambito fu anche apertamente trattata come un
elemento estraneo, di volta in volta tollerato o perseguitato; il modo di vita del ghetto o dello shtetl,
con una separata lingua popolare yiddish, era assolutamente esemplificativo di questo fenomeno. In
seguito tuttavia, già a partire dal XVIII secolo sotto l'impulso dell'età dell'Illuminismo, e poi ancor
più con l'affermarsi del concetto di uguaglianza di tutti gli uomini, si aprì la strada all'integrazione
degli ebrei nella società non ebrea, la quale, da parte sua, veniva sempre più definendosi con criteri
di tipo nazionale e non più prevalentemente confessionale. Ora si poneva tuttavia la questione di
quale consapevolezza gli ebrei avessero di sé alla luce di tale mutamento: si vedevano come
cittadini prussiani, russi, austriaci di confessione “mosaica” o semplicemente – già orientandosi a
nazioni intese in senso moderno – come polacchi, tedeschi, cechi, russi ecc., a prescindere dal fatto
che rimanessero nella comunità di fede ebraica o si convertissero al cristianesimo e non esistesse
più, in tal modo, alcun impedimento formale a una loro assimilazione o acculturazione? Il dibattito
su tale questione toccava il tema dell'esistenza culturale e riguardava, tra l'altro, anche quale lingua
dovesse essere usata dagli ebrei: un ebraico modernizzato o lo yiddish – o piuttosto la lingua delle
nazioni con cui intrattenevano rapporti più stretti13? Proprio quest'ultima decisione risultava ancora
più difficile quando gli ebrei si trovavano a vivere insieme a differenti nazioni linguistiche, per
esempio nei paesi boemi, dove “assimilazione” poteva significare l'inserimento nella nazione ceca
così come in quella tedesca. Nella principale zona di insediamento ebraico, nella “Polonia russa”, la
scelta era tra il polacco e il russo (o altre lingue).
Altrettanto importante per l'identificazione degli ebrei era la questione di quale fosse la “propria”
storia. Ludwig Börne si identificò completamente con la nazione più grande, quella tedesca,
definendo una “fortuna [...] essere nel contempo tedesco ed ebreo”14. A partire da Moses
Mendelssohn gli ebrei si sentivano parte della nazione culturale tedesca; contemporaneamente,
però, si sviluppò nel XIX secolo una “scienza dell'ebraismo” che fece crescere in quest'ultimo a
poco a poco anche una propria coscienza storica ebraica, in particolar modo – ma solo negli ultimi
decenni del XIX secolo – dopo che Heinrich Graetz scrisse una Geschichte der Juden [Storia degli
ebrei ] in più volumi e fu attaccato da storici nazionalisti tedeschi come Heinrich Treitschke. In
effetti, come risulterà evidente, la “costruzione” della storia tedesca e quella della storia ebraica si
erano modificate ed evolute parallelamente nel XIX secolo, e ben presto lo stato d'animo ebraicotedesco (essere assimilati alla nazione tedesca pur rimanendo ebrei) aveva incontrato il rifiuto dei
nazionalisti tedeschi: Heinrich Treitschke polemizzò contro una “cultura mista” ebraico-tedesca15.
Diversa era la situazione degli ebrei nella “zona di insediamento ebraica”, che si trovava per la
maggior parte – dopo la spartizione della Polonia – nel territorio dell'impero russo. Se anche una
piccola parte della popolazione ebraica si era assimilata alla cultura russa o polacca, che si trattasse
di professioni borghesi o del movimento socialista, la massa della popolazione ebraica che parlava
yiddish continuava a vivere secondo le proprie antiche consuetudini, vale a dire anche con la lingua
yiddish, che dal tardo XIX secolo si era evoluta in lingua scritta e aveva prodotto una sorta di
letteratura nazionale, percepita come tale, però, solo da una parte degli ebrei. L'emigrazione di
massa dalla “regione di insediamento”, soprattutto a seguito dei pogrom a partire dagli anni Ottanta
del XIX secolo, si indirizzò principalmente verso gli Stati Uniti, dove fece sorgere un ebraismo
nordamericano che assunse ben presto rilevanza anche a livello politico.
In tal modo, già a cavallo tra il XIX e il XX secolo si poneva la questione di quale fosse il destino
degli ebrei. In effetti, tra gli ebrei liberali vi erano gruppi sempre più influenti che consideravano
anche gli ebrei ugualmente come una nazione nel senso moderno del termine; tra questi spiccavano
in particolar modo i “sionisti”. Il loro obiettivo era la fondazione di uno stato nazionale ebraico,
possibilmente in Palestina; il movimento, che inizialmente perseguiva anche la difesa dei diritti
degli ebrei nei territori in cui avevano sino ad allora risieduto, sarebbe diventato uno dei nuclei
fondatori dello stato di Israele sorto decenni più tardi.
La valutazione se gli ebrei nel XX secolo appartenessero alle nazioni in cui erano integrati o
costituissero una propria nazione – o se partecipassero a entrambe le situazioni, rappresentò uno dei
loro problemi principali. Quanto più i movimenti nazionali dell'Europa centrale e orientale si
esaltavano nel proprio nazionalismo, tanto più concretamente si affermava in talune loro parti la
concezione secondo cui gli ebrei non vi dovessero appartenere. Questa “dissimilazione”, ovvero
l'allontanamento dei cittadini ebrei dai movimenti nazionali e dalle loro organizzazioni, fu
rafforzata dal crescente antisemitismo, che avrebbe alla fine dovuto conoscere nel
nazionalsocialismo tedesco, con il suo carattere di razzismo estremo, una nuova hybris [nel senso di
violazione estrema dei confini morali].
0001000080 ‣ La tutela delle minoranze; la sua nascita alla Conferenza di pace di Parigi . Torniamo
alla “catastrofe originaria del XX secolo”, la Prima guerra mondiale. Essa colpì duramente non solo
i soldati, ma anche la popolazione civile in generale. Tali ripercussioni si fecero sentire in particolar
modo sugli ebrei, che furono deportati in massa dall'ovest della Russia, ovvero dalle principali zone
d'insediamento nei territori un tempo appartenuti alla Polonia, verso le zone interne dell'impero
perché sospettati dai russi di spionaggio, o che si ritrovarono in numero considerevole anche come
rifugiati nelle grandi metropoli centroeuropee, dove furono accolti con estrema diffidenza anche da
parte dei correligionari ebrei, caratterizzati da una formazione culturale totalmente diversa. Dopo la
guerra la vasta maggioranza degli ebrei dell'Europa orientale si ritrovò tuttavia nei nuovi stati.
Quale doveva essere lì il loro ruolo?
Tale questione si poneva in maniera molto più urgente rispetto a quanto non lo fosse per la
popolazione cristiana, la quale aveva la possibilità di inserirsi, nonostante tutte le difficoltà, in uno
dei movimenti nazionali ognuno dei quali poteva sperare di prendere parte al principio di
autodeterminazione. Gli ebrei, salvo nei casi in cui si fossero già completamente integrati nelle
nazioni circostanti, sembravano addirittura predestinati al ruolo di minoranza: in nessuna parte si
erano insediati in un territorio circoscritto e non esisteva dunque luogo in cui avrebbero potuto
creare uno stato ebraico nell'Europa centrorientale o sudorientale. Questo aspetto, unito al fatto che
già nei decenni precedenti centinaia di migliaia di ebrei dell'Europa orientale erano sfuggiti
all'indigenza e ai pogrom in Russia, a partire dagli anni Ottanta del XIX secolo, emigrando negli
Stati Uniti d'America dove erano nel frattempo divenuti un importante elemento della società, fece
sì che l'impulso principale all'istituzione e alla regolamentazione di una tutela delle minoranze
venisse proprio dagli ebrei, giacché il loro vantaggio risultava risiedere, in quel momento, nel fatto
di avere correligionari da entrambe le parti del conflitto, presso gli alleati così come negli imperi
centrali. Le organizzazioni ebraiche erano tra quelle che già nel corso della Prima guerra mondiale,
con acuta sensibilità per gli imminenti cambiamenti nel sistema degli stati europei sul territorio
delle ex potenze orientali, si resero conto di come e quanto fosse minacciata la futura esistenza degli
ebrei e intrapresero risoluti tentativi per far fronte a tali pericoli tentando di influenzare le “potenze
alleate e associate”, quindi i pacemaker, alla Conferenza di pace di Parigi nel 1919. Prima della
creazione degli stati nazionali, nell'Europa centrorientale esistevano solo pochi precedenti
nell'ambito della tutela delle minoranze etniche. La parte occidentale dell'impero austro-ungarico,
contrariamente alla sua fama di “carcere dei popoli”, offriva piuttosto un caso esemplare per la
situazione delle nazionalità, poiché non vi era stato ancora introdotto il principio di maggioranza e
di conseguenza – in conformità con il principio costituzionale di “tutte le etnie sono uguali” – non
esistevano neppure le minoranze16. Ma proprio dove, sotto l'egida delle “grandi potenze”, erano
stati creati degli stati nazionali già nel XIX secolo sul territorio dell'impero ottomano, le potenze
riunite al Congresso di Berlino sancirono la tutela di minoranze religiose, non da ultima quella degli
ebrei, che sino ad allora, per esempio, non potevano diventare cittadini rumeni17. Il confronto su tale
tematica si protrasse fino all'epoca delle guerre balcaniche; la diplomazia americana era dunque già
consapevole del fatto che il problema delle minoranze si ponesse soprattutto in termini di
popolazione ebraica, allorché nel corso della successiva Prima guerra mondiale esso cominciò a
diventare attuale, in tutte le sue molteplici situazioni, per l'intera Europa centrorientale a mano a
mano che, verso la fine del conflitto, si profilava sempre più la disgregazione della monarchia
asburgica.
Tra gli alleati si sviluppò solo lentamente nel corso dell'anno 1918 una comune consapevolezza
della complessità che avrebbe assunto il rapporto tra il principio di autodeterminazione, la futura
omogeneità degli stati nazionali e il ruolo delle minoranze. Nel frattempo i due maggiori gruppi
ebraici degli Stati Uniti, quello degli ebrei occidentali assimilati e in particolare quello degli ebrei
orientali sionisti, riconobbero l'importanza di una rappresentanza comune degli ebrei nordamericani
nell'interesse degli ebrei dell'Europa orientale. A tale scopo Fondarono l'American Jewish Congress
[Congresso ebraico americano] alla fine del 1918, che approvò una “Jewish Bill of Rights” [“Carta
dei diritti degli ebrei”] nella quale venivano enunciati i principi generali per la tutela delle
minoranze; gli ebrei stavano in effetti per diventare la “Minorité par excellence” [“minoranza per
eccellenza”] nell'Europa orientale. Certo, nel corso della conferenza di pace, che sarebbe cominciata
di lì a poco, i suoi rappresentanti non riuscirono a far approvare da Wilson e dal suo entourage le
loro rivendicazioni principali relative all'autonomia e alla tutela dei diritti di gruppo per le
minoranze future, ma diedero pur sempre quell'importante impulso che in ultima analisi avrebbe
condotto al sistema della tutela delle minoranze nell'ambito della Società delle Nazioni appena
fondata.
0001000080 ‣ Il nazionalismo fra le due guerre mondiali . Questa tutela riguardava i diritti delle
minoranze “de langue, de race et de religion ” [di lingua, di razza e di religione]. Il fatto che la
lingua apparisse già allora come tratto distintivo era sintomatico del ruolo di primo piano della
lingua, già indicato in merito al nazionalismo moderno. “Race ”, in questo contesto, indicava ciò
che nella concezione dell'Europa centrorientale era chiamato “nazionalità” o “carattere nazionale”.
Il fatto che la “religion ” apparisse come ulteriore criterio non fa riferimento solo agli ebrei, i quali
prima dell'affermazione del razzismo antisemita erano definiti principalmente in senso religioso,
ma, con implicazioni molto più ampie, al fatto che gran parte di ciò che fu ben presto interpretato
come un contrasto etnico-nazionale era ancora considerato – secondo un modo di pensare più antico
– un contrasto religioso o confessionale: fu in tal senso, in base alla definizione di “ortodossi” e
“musulmani”, che avvenne lo scambio di popolazione, in un primo tempo ancora volontario (1913),
tra bulgari e turchi, così come, dieci anni dopo, lo scambio di popolazione a carattere obbligatorio
fra Turchia e Grecia, concordato a Losanna. Solo gradualmente la definizione si sarebbe spostata su
un piano linguistico-nazionale.
Alla tutela delle minoranze furono vincolati i nuovi stati, ma non i paesi dell'Europa occidentale, né
la Germania o l'Italia. Di conseguenza non poche furono le riserve dei nuovi stati, che concessero
solo con riluttanza questa tutela, nonostante essa fosse accordata solo agli individui e non
riguardasse autonomie di gruppo, e malgrado interessasse solo determinati ambiti, anche se di
importanza fondamentale, come la cittadinanza, il diritto alla vita e alla libertà individuale,
l'uguaglianza davanti alla legge, i diritti politici, l'utilizzo della propria lingua anche come lingua
d'insegnamento, per le pubblicazioni e nelle attività associative, nonché il diritto a fruire di parte
della spesa pubblica in campo scolastico, religioso e assistenziale18.
La tutela delle minoranze era affidata per la sua applicazione ad un procedimento complicato: in
caso di proteste, si potevano inviare petizioni alla Società delle Nazioni a Ginevra che, in presenza
di determinate condizioni, le avrebbe dibattute con i vari stati nazionali. Questo sistema per nulla
ideale né particolarmente efficace fu pur sempre in grado di impedire numerose rappresaglie che,
senza di esso, sarebbero state senza dubbio compiute. In modo particolare fu messo un freno
all'assimilazione forzata di minoranze e al trasferimento di popolazioni, vale a dire alla loro
espulsione o deportazione. Per farsi un'idea di quanto la tutela delle minoranze sia riuscita a
scongiurare basti pensare, per esempio, a come vennero trattate le minoranze nell'Italia fascista,
dove essa non era in vigore, o, più in generale, alla fine degli anni Trenta, quando il sistema della
tutela delle minoranze, così come l'efficacia della Società delle Nazioni, erano ormai tramontate19.
Nei brevi venti anni tra le due guerre mondiali, considerati a ragione un periodo fondamentale del
XX secolo anche dagli osservatori successivi, molte cose nella società europea subirono profonde
trasformazioni. Così come la Rivoluzione francese, pur non avendolo ancora fatto crollare del tutto,
aveva incrinato in modo determinante l'ancien régime del mondo basato sui ceti, per aprire la strada
a un nuovo ordine sociale di uomini “liberi e uguali”, allo stesso modo la Prima guerra mondiale
assestò un colpo decisivo al mondo del XIX secolo con il suo residuo di disuguaglianze, con il suo
mondo “borghese” e la condizione di classe inferiore dei “proletari”. L'alta borghesia era stata in
gran parte distrutta – ancora non molto tempo prima a seguito del collasso dell'economia nel
periodo dell'inflazione – la classe operaia ebbe via libera per l'ascesa sociale grazie a conquiste
quali la giornata lavorativa di otto ore, mentre le prime grandi riforme agrarie migliorarono la
situazione nelle campagne. In un primo momento, il trionfo del nazionalismo e le condizioni
imposte dalle grandi “potenze alleate e associate” ai nuovi stati fecero sì che questi assumessero
tutti una forma di governo democratica o, nei Balcani, per lo meno quella di una monarchia
costituzionale. Altrettanto conseguentemente, tuttavia, in tutti questi stati, a eccezione della
Cecoslovacchia, la democrazia entrò prima o poi in una crisi profonda, tale da provocare dovunque
(con la suddetta eccezione) l'instaurarsi di sistemi autoritari, a cominciare dal 1926 in Polonia e
Lituania, per proseguire con le monarchie a carattere dittatoriale nei Balcani a partire dal 1929, in
Europa centrale con il Reich tedesco nel 1933 e l'Austria nel 1934, e in questi anni anche con i paesi
baltici dell'Estonia e della Lettonia. I governi degli stati autoritari avevano tutti una forte impronta
nazionalista, con conseguenze notevoli sulla condizione delle minoranze nazionali, che variava da
stato a stato e da minoranza a minoranza, così come esistevano diversi gradi di partecipazione delle
minoranze al parlamentarismo di questi stati, esistente ormai solo in forma rudimentale. Per quanto
possa apparire paradossale, nonostante la temporanea democratizzazione e l'istituzione della tutela
delle minoranze, il periodo tra le due guerre mondiali favorì un tipo più duro di nazionalismo. Se
nell'età dei movimenti nazionali, che non avevano ancora raggiunto il loro obiettivo di creare stati
nazionali indipendenti, era esistito soprattutto il tipo del “nazionalismo risorgimentale”20, ossia una
variante di questi movimenti che si articolava piuttosto sul piano culturale e serviva al grande
gruppo etnico a trovare la sua identità, si affermò, negli stati nazionali più antichi, già
precedentemente alla Prima guerra mondiale e in alcuni stati nuovi solo successivamente ad essa,
una corrente molto più dura che è stata definita “nazionalismo integrale” e che vede nella nazione il
valore supremo, come evidenzia il motto: “Tu non sei nulla, il tuo popolo è tutto”. Il nazionalismo
integrale è in larga misura incline all'uso della violenza nei confronti di chi appartenga ad altre
nazionalità. Questi due tipi di nazionalismo sono identificabili con il binomio “emancipazione e
sciovinismo”21.
All'inizio degli anni Trenta vennero a intrecciarsi diverse circostanze sfavorevoli: da un lato il
ricambio generazionale, con la sostituzione di quella generazione, la cui socializzazione era
avvenuta prima della guerra, da parte dei “giovani” che, forgiati piuttosto dall'esperienza del
conflitto mondiale, erano più fortemente inclini a tendenze di nazionalismo autoritario; dall'altro un
crescente orientamento delle minoranze più numerose negli stati nazionali verso la rispettiva
madrepatria, specialmente verso il Reich tedesco e l'Ungheria, pionieri del revisionismo. Il clima
negativo dovuto alle conseguenze della crisi economica mondiale colpì in modo particolare quelle
minoranze nazionali che attribuivano la responsabilità della loro oggettiva condizione di miseria
alla politica di discriminazione degli stati nazionali. In questa situazione, e ancora di più sotto
l'influenza della presa del potere di Hitler in Germania, persino là dove si dibatteva per una
rappresentanza internazionale delle minoranze, al Congresso Europeo delle Nazionalità, gli ebrei
vennero sempre più emarginati, così come, in questo stesso periodo, anche gli ebrei assimilati nelle
singole nazioni e nazionalità furono progressivamente “dissimilati”, ossia respinti in una posizione
al di fuori delle “nazioni circostanti” [Umgebungsnationen ]. Verso la metà degli anni Trenta
proprio le rappresentanze della minoranza con la forza numerica maggiore al Congresso Europeo
delle Nazionalità, e cioè quella tedesca, furono strumentalizzate in misura crescente dalla politica
nazionalsocialista del Reich22.
Si venne così a creare in generale un clima che si trasmise anche alle potenze occidentali: pur
avendo, meno di vent'anni prima, contribuito in maniera essenziale all'ordine stabilito alla Pace di
Parigi, esse cominciavano ora ad avere la sgradevole sensazione che l'ordinamento degli stati
nazionali del 1919 necessitasse, con tutta probabilità, di una modifica a favore della posizione delle
minoranze, anche tramite provvedimenti sino a quel momento fortemente proibiti dal sistema di
Parigi (spostamento dei confini, scambio di popolazioni).
0001000080 ‣ Prospettive: la Seconda guerra mondiale e il dopoguerra . La “questione dei Sudeti”,
nell'autunno del 1938, con cui Hitler aveva già quasi spinto l'Europa sull'orlo di una guerra, sembrò
salvare ancora una volta, con i risultati della Conferenza di Monaco, la pace, decretando tuttavia la
separazione dei territori di lingua tedesca dalla Repubblica Cecoslovacca e la loro annessione al
Reich tedesco. In questo caso, come già pochi mesi prima in occasione dell'Anschluss [annessione]
dell'Austria al Reich, ci si sottomise al principio nazionalista di “un popolo, un Reich”. Tutti gli
appartenenti alla nazione tedesca andavano riuniti nello stato nazionale tedesco, anche a scapito
dell'esistenza degli stati vicini e del sistema internazionale. Una “soluzione” di questo genere al
problema delle minoranze nazionali, vale a dire lo spostamento dei confini, non fu consentita però
nel caso dell'Alto Adige, regione di lingua tedesca annessa all'Italia, a causa dell'alleanza dell'Italia
fascista con la Germania nazionalsocialista. Per questo motivo l'obiettivo dell'omogeneizzazione
etnica degli stati nazionali fu qui perseguito in altro modo, e precisamente tramite il reinsediamento
della popolazione germanofona nel Reich. Si diede così inizio a un'ondata di accordi bilaterali sul
reinsediamento di popolazioni sulla base del motto “ritorno a casa nel Reich”, che Hitler – già dopo
l'inizio della Seconda guerra mondiale – motivò in chiave programmatica con il suo discorso del 6
ottobre 1939: “frammenti dell'elemento nazionale tedesco” [Splitter deutschen Volkstums ] non
hanno possibilità di vita nei paesi vicini dell'Europa orientale, e devono quindi essere rimossi
attraverso un reinsediamento nel Reich, dando luogo in questo modo a “linee di demarcazione
migliori di quelle odierne”23.
Se già durante la questione dei Sudeti i problemi legati alle minoranze avevano costituito un
pretesto per far quasi scoppiare una guerra, questo stesso argomento fu più volte avanzato in forma
esasperata da Hitler nell'autunno del 1939 nei confronti della Polonia. Nel frattempo il modello dei
reinsediamenti era talmente in voga che la diplomazia britannica, a una sola settimana dallo scoppio
del conflitto, tentò ancora di persuadere Hitler a ridurre la tensione attraverso uno scambio di
popolazioni nelle regioni critiche della Prussia Occidentale e dell'Alta Slesia. Ma questa volta Hitler
non si lasciò impressionare. Voleva la guerra, e la ottenne.
Già allora, ma in modo ancora più marcato nei primi anni Quaranta, fu chiaro che la tutela delle
minoranze aveva fatto il suo tempo. Durante la Seconda guerra mondiale, dinanzi alla brutalità della
politica nazionalsocialista dei reinsediamenti nel frattempo gestita dalle SS, che nell'ambito di una
politica espansionistica senza limiti e del delirio razzista si era gettata alle spalle ogni principio
umanitario e che già da tempo aveva abbandonato l'obiettivo di formare stati nazionali omogenei, i
progetti alleati per il dopoguerra – in un primo momento soprattutto britannici – si configurarono
piuttosto in chiave tradizionalista, rifacendosi al periodo prebellico. Alla base di tali progetti vi era
la convinzione che le minoranze nazionali costituissero di per sé un motivo di conflitto: dopo la
guerra, gli stati, soprattutto quelli dell'Europa orientale, grazie a un processo di “ricomposizione”
[Entmischung ] nazionale non avrebbero più dovuto contenere minoranze, sarebbero dovuti essere
resi omogenei dal punto di vista etnico attraverso trasferimenti coatti di popolazioni, realizzati in
modo conseguente; questi trasferimenti furono subito presi in considerazione anche nel caso dello
spostamento di confini su vasta scala, come per esempio il previsto spostamento verso ovest dei
confini polacchi, al solo scopo di evitare che continuassero a esistere minoranze in futuro24.
Uno scambio epistolare avvenuto tra l'aprile e il maggio del 1942 tra il direttore dell'Istituto di studi
ebraici (YIVO) di New York, Max Weinreich, e il ministro degli Esteri del governo cecoslovacco in
esilio, Jan Masaryk, evidenzia i timori che questo modo di pensare dovesse alla fine riguardare
anche nuovamente gli ebrei. In queste lettere Weinreich esprimeva il timore che i piani resi noti di
Edvard Beneì per il trasferimento delle minoranze dalla Cecoslovacchia potessero interessare anche
gli ebrei, già sottoposti, in quel momento, a un'atroce persecuzione nella Germania hitleriana.
Masaryk garantì in nome di Beneì “nero su bianco” che quei piani non riguardavano gli ebrei25.
Come fu poi dimostrato dall'espulsione e dal trasferimento delle minoranze nazionali dalla
Cecoslovacchia dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i timori di Weinreich erano del tutto
giustificati: gli ebrei, appena scampati da Terezin o Auschwitz, furono trasferiti se considerati
“tedeschi”.
Negli anni della spaccatura tra l'Est e l'Ovest del mondo, dopo il parossismo della violenza
nazionalista nel catastrofico decennio tra il 1938 e il 1948, si ebbe l'impressione che altre grandi
ideologie dominanti, non certo sempre più attente alla dignità umana, avessero superato il
nazionalismo. Eppure, a partire dagli anni Novanta e a dispetto di un mondo sempre più
globalizzato, è risultato evidente che il nazionalismo è tornato a manifestarsi in regioni critiche
dell'Europa orientale e che le “pulizie etniche” hanno nuovamente assunto il triste ruolo di
strumento della politica e dell'arbitrio terroristico. Note al saggio
1 - Per informazioni generali sull'argomento cfr. Handbuch der europäischen Geschichte, a c. di
Theodor Schieder, voll. 5-7, Klett-Cotta, Stuttgart 1968-1981.2 - Per una trattazione del mutamento
del concetto cfr. Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache
in Deutschland, a c. di Otto Brunner et al., 8 voll., Klett-Cotta, Stuttgart 1972-1997.3 - Hans
Lemberg, Der Weg zur Entstehung der Nationalstaaten in Ostmitteleuropa, in Osteuropa zwischen
Nationalstaat und Integration, a c. di Georg Brunner, Berlin Verlag Arno Spitz, Berlin 1995, pp.
45-71.4 - Per la sequenza classica (A-B-C) dei movimenti nazionali cfr. Miroslav Hroch, Social
Preconditions of National Revival in Europe. A Comparative Analysis of the Social Composition of
Patriotic Groups Among the Smaller European Nations, Cambridge University Press, Cambridge-
New York 1985.5 - JircÕ Korcalka, Tschechen im Habsburgerreich und in Europa 1815-1914.
Sozialgeschichtliche Zusammenhänge der neuzeitlichen Nationsbildung und der
Nationalitätenfrage in den böhmischen Ländern. Oldenbourg Verlag, München-Verlag für
Geschichte und Politik, Wien 1991.6 - Benedict Anderson, Imagined Communities. Reflections on
the Origin and Spread of Nationalism, Verso, London 1983 [trad. it. Comunità immaginate: origini
e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma 1996]. Un atteggiamento critico nei confronti
della traduzione tedesca del concetto è contenuto in Dieter Langewiesche, Was heißt ``Erfindung
der Nation'' Nationalgeschichte als Artefakt - oder Geschichtsdeutung als Machtkampf, in
Historische Zeitschrift 277, Oldenbourg Verlag, München 2003, pp. 593-617.7 - Ulrich Scheuner
oralmente nella discussione su: Ulrich Scheuner, Nationalstaatsprinzip und Staatenordnung seit
dem Beginn des 19. Jahrhunderts, in Staatsgründungen und Nationalstaatsprinzip, a c. di Theodor
Schieder e Peter Alter, Oldenbourg Verlag, München-Wien 1974, pp. 9-37.8 - Carl Schirren,
Livländische Antwort an Herrn Juri Samarin, Duncker & Humblot, Leipzig 18693, p. 160. Reinhard
Wittram, Baltische Geschichte. Die Ostseelande Livland, Estland, Kurland 1180-1918, Oldenbourg
Verlag, München 1954, pp. 188-93.9 - Nella lingua ceca entrambi i significati sono contenuti nella
parola “cesky”.10 - Hans Lemberg, Polnische Konzeptionen für ein neues Polen in der Zeit vor
1918, in Staatsgründungen und Nationalitätsprinzip cit., pp. 85-104.11 - Sulla situazione delle
minoranze cfr. Wolfgang Kessler, Die gescheiterte Integration. Die Minderheitenfrage in
Ostmitteleuropa 1919-1939, in Ostmitteleuropa zwischen den beiden Weltkriegen (1918-1939).
Stärke und Schwäche der neuen Staaten, nationale Minderheiten, a c. di Hans Lemberg, Verlag
Herder-Institut, Marburg 1997; l'opera contiene anche altri contributi sulla questione delle
minoranze.12 - Hans Lemberg, Unvollendete Versuche nationaler Identitätsbildung im 20.
Jahrhundert im östlichen Europa: die ``Tschechoslowaken'', die ``Jugoslawen'', das ``Sowjetvolk'',
in Nationales Bewußtsein und kollektive Identität. Studien zur Entwicklung des kollektiven
Bewusstseins a c. di Helmut Berding, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1994, pp. 581-607.13 Jüdische Sprachen in deutscher Umwelt. Hebräisch und Jiddisch von der Aufklärung bis ins 20.
Jahrhundert, a c. di Michael Brenner, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2002.14 - Qui e in
seguito: Ernst Schulin, Doppel-Nationalität? Die Integration der Juden in die deutsche
Kulturnation und die neue Konstruktion der jüdischen Geschichte, in Die Konstruktion der Nation
gegen die Juden, a c. di Peter Alter et al., W. Fink, München 1999, pp. 243-59; qui p. 243; Id., The
Most Historical of All Peoples'. Nationalism and the New Construction of Jewish History in
Nineteenth Century Germany, German Historical Institute: The 1995 Annual Lecture, London
1996.15 - Schulin, Doppel-Nationalität? cit., p. 257.16 - Hans Lemberg, Grenzen und Minderheiten
im östlichen Mitteleuropa – Genese und Wechselwirkungen, in Grenzen in Ostmitteleuropa im 19.
und 20. Jahrhundert. Aktuelle Forschungsprobleme, a c. di Hans Lemberg, Verlag Herder-Institut,
Marburg 2000, pp. 159-81.17 - Qui e in seguito: Erwin Viefhaus, Die Minderheitenfrage und die
Entstehung der Minderheitenschutzverträge auf der Pariser Friedenskonferenz 1919. Eine Studie
zur Geschichte des Nationalitätenproblems im 19. und 20. Jahrhundert, Holzner-Verlag, Würzburg
1960, pp. 49-51.18 - Cfr. i contributi in: Ostmitteleuropa zwischen den beiden Weltkriegen, cit.;
Hans Lemberg, Kulturautonomie, Minderheitenrechte, Assimilation. Nationalstaaten und
Minderheiten zwischen den beiden Weltkriegen in Ostmitteleuropa, in Auf dem Weg zum ethnisch
reinen Nationalstaat? Europa in Geschichte und Gegenwart, a c. di Mathias Beer, Attempto
Verlag, Tübingen 2004, pp. 91-117.19 - Per un approfondimento sul sistema della tutela delle
minoranze cfr. Martin Scheuermann, Minderheitenschutz contra Konfliktverhütung? Die
Minderheitenpolitik des Völkerbundes in den zwanziger Jahren, Verlag Herder-Institut, Marburg
2000 (Materialien und Studien zur Ostmitteleuropa-Forschung, vol. 6).20 - Eugen Lemberg,
Nationalismus, 2 voll., Rowohlt Verlag, Reinbek bei Hamburg 1964, passim [trad. it. Il
Nazionalismo, Jouvence, Roma 1981].21 - Per una visione d'insieme sugli ultimi sviluppi della
ricerca sul nazionalismo cfr. Dieter Langewiesche, Nation, Nationalismus, Nationalstaat:
Forschungsstand und Forschungsperspektiven, in “Neue Politische Literatur” 40, 1995, pp. 190236; Id., Nation, Nationalismus, Nationalstaat in Deutschland und Europa, Beck, München 2000
(Beck'sche Reihe 1399); Nationalismen in Europa: West- und Osteuropa im Vergleich, a c. di
Ulrike von Hirschhausen et al., Wallstein-Verlag, Göttingen 2001.22 - Sabine BambergerStemmann, Der Europäische Nationalitätenkongreß 1925 bis 1938. Nationale Minderheiten
zwischen Lobbyistentum und Großmachtinteressen, Verlag Herder-Institut, Marburg 2000.23 - Qui
e in seguito Hans Lemberg, ``Ethnische Säuberung'': Ein Mittel zur Lösung von
Nationalitätenproblemen?, in “Aus Politik und Zeitgeschichte”, supplemento del settimanale “Das
Parlament”, B 46/92, Berlin, 6 novembre 1992, pp. 27-38.24 - Detlef Brandes, Der Weg zur
Vertreibung 1938-1945. Pläne und Entscheidungen zum ``Transfer'' der Deutschen aus der
Tschechoslowakei und aus Polen, Oldenbourg Verlag, München 20052.25 - Mark Vishniak, Dos
transferirn bafelkerungen vi a mitl tsu farentfern di problem fun minoritetn (I trasferimenti di
popolazioni come strumento per risolvere i problemi delle minoranze), YIVO, New York 1942.
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