PETER BROWN, Tarda Antichità, in PHILIPPE ARIÈS, GEORGES DUBY (a cura di), La vita privata. I: La vita privata dall’Impero romano all’anno Mille, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 173-232. AUTORE Peter Robert Lamont Brown (Dublino, 1935) è professore emerito di Storia alla Princeton University. Di origini irlandesi, lo studioso ha conseguito il titolo di laurea nel 1956 sotto la guida di Arnaldo Momigliano – con il quale il dialogo intellettuale è poi proseguito – ad Oxford, dove ha successivamente insegnato Storia tardo-romana e bizantina. Assunta, nel 1975, una cattedra al Royal College di Londra, già tre anni più tardi era chiamato ad insegnare negli Stati Uniti, prima a Berkeley e infine, dal 1986, a Princeton. Diversi prestigiosi atenei hanno conferito la laurea honoris causa allo storico dublinese, che nel 2008 ha vinto il Kluge Prize e nel 2011 il Premio Balzan. Peter Brown è tra i massimi esponenti della scuola storica anglo-americana. Oggetto privilegiato delle sue ricerche è la tarda antichità, il cui concetto ha contribuito a ridefinire, imprimendogli nuove sfumature semantiche: dall’iniziale accezione di “decadenza della società antica”, l’espressione passa ad indicare il volgersi di un mondo verso nuove forme. Agli occhi dello storico importanti trasformazioni fanno dell’età tardoantica un periodo foriero di cambiamenti, cominciato nel tardo impero e proseguito dopo le invasioni barbariche, senza brusche soluzioni di continuità. Convinto assertore della centralità della dimensione religiosa nell’indagine storica, Brown fa del passaggio dal paganesimo al cristianesimo il nodo essenziale per la comprensione dei fenomeni culturali, tralasciando le consuete speculazioni politico-istituzionali. Sviluppa il tema della formazione della cristianità attraverso approcci ermeneutici ispirati ai metodi delle scienze sociali e della psicologia storica, che permeano i suoi più significativi lavori, tra cui The world of late antiquity (1971), The Cult of the Saints (1982), The Body and Society (1988), Authority and the Sacred (1995), The Rise of Western Christendom (1996) e Poverty and Leadership in the Later Roman Empire (2002). Lo storico vi propone e rilancia idee tuttora dominanti negli indirizzi storiografici: un interesse privilegiato rivolto alla storia della cultura; l’identificazione della cristianità con una realtà geopolitica che travalica i confini dell’attuale Europa occidentale; il superamento dello stereotipo che fondava su una profonda alterità la relazione tra Oriente e Occidente; l’estensione della tarda antichità fino a toccare il IX secolo. Peter Brown ha dunque il merito di aver ridisegnato il mondo tardoantico su un orizzonte geografico e cronologico più ampio. CONTENUTO «In tutti i tempi e dappertutto nel vocabolario si è espresso il contrasto, chiaramente avvertito dal senso comune, che oppone il privato al pubblico, aperto al popolo come comunità e sottoposto all’autorità dei suoi magistrati. Un’area particolare, nettamente delimitata, è assegnata a questa parte dell’esistenza che in tutte le lingue è detta privata» (Duby, p. VI). Questo spazio vitale di immunità rispetto alle convenzioni e ai ruoli da rispettare sulla scena pubblica è al centro de La vita privata, monumentale impresa in cinque volumi – curata dagli storici francesi Georges Duby e Philippe Ariès – che si propone di ripercorrere i mutamenti intervenuti nella nozione e negli aspetti “materiali” e “ideologici” della vita privata, dall’antichità classica all’età contemporanea. Il contributo di Peter Brown trova posto nel primo volume della collana, curato da Paul Veyne, volto a tracciare un affresco storico esauriente del vissuto quotidiano della società romana e altomedievale. Lo storico irlandese cura il capitolo dedicato alla Tarda Antichità. I secoli compresi tra Marco Aurelio (161180) e Giustiniano (527-565) sono densi di trasformazioni in gran parte riconducibili, secondo lo studioso, alla lenta evoluzione da una forma di comunità pubblica – la città antica – ad un’altra – la Chiesa cristiana. Il percorso euristico di Peter Brown prende infatti le mosse da un assioma di fondo: l’esigenza del civis di far parte di una comunità pubblica, i cui valori permeavano l’esperienza personale del singolo. Ne consegue che la metamorfosi dei contesti sociali investiva la vita privata dell’individuo e del nucleo famigliare, innescando cambiamenti che Brown dichiara programmaticamente di voler presentare e interpretare. Nell’intento d’illuminare tali aspetti, l’autore evidenzia le peculiarità degli atteggiamenti sociali alla luce della dialettica conflittuale tra privato e pubblico e, all’interno del primo, tra i ceti, tra laici ed ecclesiastici, tra uomo e donna. Il cambiamento dell’orizzonte comunitario implicava il rinnovamento dei valori espressi dalla collettività e, dunque, lo slittamento dell’etica dominante dalla moralità della “distanza sociale” a quella della “semplicità di cuore”, che Brown affronta: il codice di comportamento classico si fondava sullo status e comportava l’assimilazione di regole che governassero i rapporti tra i “ben nati” e i loro inferiori; l’evangelizzazione delle masse, all’opposto, determinò l’insorgenza di una nuova antropologia della solidarietà, che esigeva il superamento degli egoismi, l’onestà interiore, la fedeltà reciproca, la sensibilità verso i socialmente vulnerabili. Lo studioso sostiene, inoltre, che tali inediti principi etici abbiano favorito il superamento della scissione, intrinseca alla società romana, tra l’élite di dotti e filosofi e il popolo; ora invece, tramite la predicazione cristiana, la speculazione filosofica si sedimentava, costituendo il substrato delle idee morali dell’ampia popolazione. I valori comunitari incidevano poi sulle dimensioni più intime del matrimonio, della sessualità e della nudità. Ne è consapevole Brown, che mette in risalto gli atteggiamenti comuni verso il corpo e la vita sessuale, la pratica degli affetti coniugali, il rapporto con la religione e le gerarchie emergenti, la considerazione dei meno abbienti, le credenze legate alla morte. Lo storico indugia sulla morale sessuale, distinguendo le ragioni del civis romano e quelle del cristiano nella scelta di praticare la moderazione: il rischio di perdite di slancio negli officia vitae per il primo, l’assimilazione del piacere alla dimensione peccaminosa da assoggettare al fine procreativo per il secondo. Brown ne conclude che il controllo della sessualità era uno dei simboli della permeabilità della vita privata alle pubbliche richieste della nuova comunità religiosa. Il tema dell’affrancamento dalle pulsioni della carne costituisce la chiave di lettura attraverso cui lo storico dublinese introduce le figure del cristianesimo secolare e regolare, in un’ottica di differenziazione culturale Oriente/Occidente: sebbene il rifiuto della sessualità avesse assunto contorni più marcati nella pars orientis dell’Impero per influenza del paradigma monastico, in ambedue le realtà il celibato ecclesiastico è il contrassegno dell’uomo nuovo cristiano, dedito a Dio e ai fratelli, e la sessualità giunge a configurarsi come una «tara universale e primigenia» (p. 231). OSSERVAZIONI Peter Brown opera un’attenta ricostruzione della rivoluzione spirituale e ideologica indotta dal cristianesimo in quello spazio «dove ognuno può deporre le armi e le difese di cui gli conviene munirsi quando si avventura nello spazio pubblico» (Duby, p. VI), vale a dire il privato. La sua analisi storica ha il pregio di una duplice lettura. In prima istanza si rivolge agli aspetti “istituzionali” della società e della famiglia, dacché per sviscerare a fondo l’identità privata del civis romano non si può trascurare l’incontro/scontro con la dimensione pubblica; in questo l’autore si allinea al fil rouge che interconnette i volumi della collana di Duby e Ariès. A questo Brown unisce l’interesse per gli aspetti “ideologici”, vale a dire il modo in cui gli individui sentivano, pensavano e agivano in contesti intimi; rifugge, dunque, da una ricostruzione aneddotica dei costumi privati, per addentrarsi nei processi storici con un’attenzione tutta rivolta alla storia sociale, che conferisce al contributo il carattere di uno studio di antropologia comparata. L’attenzione congiunta agli aspetti istituzionali e ideologici si evince da quell’intreccio di verticalità e orizzontalità che caratterizza lo studio: in senso verticale Brown analizza il cambiamento dei rapporti tradizionali tra i ceti e il costituirsi di nuove gerarchie; in senso orizzontale osserva il manifestarsi di una diversa sensibilità diffusa verso i temi della carnalità, della sessualità e della morte, che coinvolge parimenti le vecchie élites e i gruppi socialmente vulnerabili. Si affaccia qui l’idea – comune a Michel Foucault – che la materialità del corpo abbia influenzato i codici comportamentali nel matrimonio e nella comunità. Accogliendo, da una parte, le sollecitazioni di William Lecky sull’opportunità di ricostruire una storia della morale europea e, dall’altra, la lezione di Arnaldo Momigliano sul cristianesimo quale mutamento più rilevante della tarda antichità, Brown mostra come le elaborazioni etiche e religiose – affatto secondarie alla storia politica e pubblica – esercitassero un forte influsso sul costume e la famiglia tardoantichi. In questo Peter Brown raggiunge lo scopo di porre in risalto quello che Paul Veyne definisce «il dramma del passaggio dall’“uomo civico” all’“uomo interiore”» (p. IX). Maria Boccuzzi