IN SOMALIA TRA GRAZIANI E MUSULMANI Recensione del secondo romanzo di Giorgio Ballario, “Una donna di troppo” di Roberto Alfatti Appetiti Uno dei paesi più poveri del mondo, con un sistema sanitario praticamente inesistente, alle prese con una guerra civile di cui non si intravede la fine. Questa è la Somalia, oggi. Transitoria, com’è definito il suo governo, assediato dalle corti islamiche. Una transizione che sembra un’agonia. Senza prospettive rosee. Di missioni di pace, neanche a parlarne. L’ultima durò una manciata di mesi nei primi anni Novanta. Giusto il tempo necessario per prendere atto dell’ennesimo fallimento e ritirarsi senza guardarsi indietro di fronte alla violenza dei clan. Noi partecipammo a modo nostro, forti della nostra storica capacità di dialogo con la popolazione. Che però era già preda del furore tribale. Ne sa qualcosa il maggiore Gianfranco Paglia – dal 2008 deputato del PdL e all’epoca comandante del plotone di paracadutisti “Nembo” – che in terra somala ha perso l’uso delle gambe nella “battaglia del pastificio” del 2 luglio ’93, ricevendo una medaglia d’oro al valore militare. La sua storia ha ispirato la fiction Le ali, trasmessa con successo l’anno scorso su RaiUno. Oltretutto, molti somali, soprattutto giovani e donne, hanno lasciato via via il paese con direzione Gran Bretagna o Italia. La Mogadiscio raccontata nel film è molto diversa, ma altrettanto verosimile, dalla sonnolenta città coloniale tratteggiata, invece, da Giorgio Ballario nel suo secondo romanzo, da pochi giorni in libreria, Una donna di troppo (Edizioni Angolo Manzoni, pp. 416, € 16). Lo scrittore piemontese (classe ’64) – a distanza di un anno dal suo fortunato Morire è un attimo (Edizioni Angelo Manzoni, pp. 335, € 15) – ci riporta nel nostro sin troppo trascurato passato e per l’occasione richiama in servizio il quarantenne Aldo Morosini, maggiore dei reali carabinieri nell’Africa italiana degli anni Trenta. Se nell’opera precedente, però, l’ufficiale si era misurato con un duplice omicidio a Massaua, in Eritrea, stavolta un’indagine ben più complessa e politicamente delicata lo impegnerà proprio a Mogadiscio, sulla costa africana che si affaccia sul mar Indiano. Tra l'altro, va ricordato che proprio attraverso la Somalia il nostro paese ha storicamente stabilito i primi rapporti con l'Islam. La prima organizzazione musulmana fondata in Italia è stata infatti l'Associazione musulmana del littorio (Aml), sorta a Roma nel '37 in conseguenza della creazione dell'Impero nell'Africa Orientale Italiana. Ne furono fondatori un gruppo di cittadini italiani di origine somala, per lo più arruolati nell'esercito in qualità di Ascari (truppa) o Buluk-Bash (sottoufficiali), come Musa Haij Hamed, Mohallim Hussen e Osman Sabtiye. Scopo dell'associazione era quello di garantire i servizi religiosi essenziali a quei musulmani che giungevano in Italia provenendo dai territori dell'impero. Alcuni dei membri dell'associazione hanno avuto funzioni di capogiudici islamici (Qadi) cui era demandata la soluzione di controversie civili fra i figli abitanti dell'impero di religione musulmana, come pure la gestione di matrimoni, divorzi e altre questioni inerenti lo status personale. Con la fine del fascismo e il passaggio alla Repubblica l'associazione cadde in disuso anche se alcuni dei suoi aderenti proseguiranno la carriera militare e altrettanto faranno i loro figli, cui in connessione con la creazione dell'Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia (Afis) verranno aperte anche le accademie, con la possibilità di accedere al rango di ufficiali. Saranno alcuni di questi ufficiali, poi, a dare vita negli anni '80 alla prima associazione di musulmani italiani. Ora, nel romanzo di Ballario, la guerra con l’Abissinia - sì, proprio quella di Faccetta nera - è ormai alle porte, ma il morale delle truppe non è mai stato così basso. Morti misteriose allarmano la popolazione e rischiano di compromettere le nostre velleità militari. Cos’hanno in comune un fante impiccato e frettolosamente liquidato come suicida, un capomanipolo della milizia volontaria rinvenuto con la gola squarciata dal suo stesso coltello, un irreprensibile ascari libico improvvisamente impazzito e abbattuto dall’ufficiale di picchetto dopo che aveva ferito un fuciliere, un volontario italoargentino ricoverato per una grave forma di avvelenamento e una suora strangolata? Si tratta di azioni di sabotaggio condotte dalle spie del Negus, di incredibili coincidenze addebitabili a criminali comuni o, piuttosto, di oscure manovre politiche – magari ordite in Italia da ambienti conservatori e massonici – per ostacolare l’operato del generale più vicino a Mussolini, Rodolfo Graziani, e frenarne l’ascesa ai vertici delle forze armate? Sì, perché uno dei protagonisti del romanzo è proprio lui, così ben rappresentato dall’autore che sembra di vederlo, questo «omone imponente con il pesante accento ciociaro, il più mussoliniano tra gli alti papaveri dello stato maggiore». È Graziani, impegnato a curare in ogni dettaglio gli ultimi ritocchi dell’aspetto logistico dell’imminente attacco militare, ad aver sollecitato l’arrivo di rinforzi esterni per dipanare una situazione che rischia di intralciarne gli ambiziosi piani. Il disegno criminale che si nasconde dietro agli omicidi deve essere smascherato. Al più presto. Per questo c’è bisogno di una persona con le note caratteristiche di Morosini, che lo stesso Graziani mostra di apprezzare: «Buon ufficiale, ottimo investigatore, persino onesto. Però un po’ strano, solitario, quasi asociale, spesso rompiscatole e poco rispettoso dei superiori». A lui – «minuscolo ingranaggio del pachidermico congegno militare italiano» – viene affidata un’indagine dal cui esito potrebbe dipendere la politica espansionistica dell’Africa italiana. Può avvalersi quasi esclusivamente dei due preziosi collaboratori che l’hanno seguito in Somalia – il fedele sottoufficiale Eusebio Barbagallo e Tesfaghì, lo sciumbasci, graduato delle truppe indigene – in una generalizzato clima di diffidenza. Di sicuro non si mostrano collaborativi i colleghi della locale compagnia dei carabinieri, che sino a quel momento non hanno cavato un ragno dal buco, né tantomeno i militi per la sicurezza nazionale, volontari fedeli prima di tutto al pnf. «Fegatacci forgiati dalle esperienze squadriste che non avevano molta simpatia per i carabinieri perchè – racconta Morosini – ci consideravano poco fascisti e troppo appiattiti su posizioni monarchiche». Anche se, quando la voce «familiare» di Mussolini, da seimila chilometri di distanza, farà irruzione nella caserma dei carabinieri del Corno d’Africa per annunciare la dichiarazione di guerra all’Etiopia, l’entusiasmo esploderà così contagioso da provocare festeggiamenti tutt’altro che tiepidi per le strade di Mogadiscio e la commozione dello stesso Morosini. Che non è, ricordiamolo, un eroe fascista né uno Sherlock Holmes, ma soltanto un uomo e un ufficiale del suo tempo. C’è da dire, al riguardo, che la ricostruzione del clima storico è ineccepibile e solo a volte la realtà viene lievemente adattata alle esigenze narrative, senza mai distorcerla né piegarla a intenti “revisionistici”. E una delle principali fonti attraverso le quali l’autore – giornalista a La Stampa, con una lunga esperienza di cronaca nera – si è documentato, è proprio Fronte Sud di Rodolfo Graziani. Libro pubblicato da Mondadori nel ’38, con la prefazione dello stesso Mussolini, che con le oltre duecentomila copie vendute sarà un vero e proprio bestseller dell’epoca. Nelle pagine del libro Graziani rievoca la sua guerra d’Africa al comando del corpo di spedizione in Somalia rivelando importanti informazioni di carattere politico e strategico. E aneddoti godibili quanto veri, che nel romanzo sono stati resi con efficacia. Come il caso dei fanti mandati da Graziani a sfilare in mutande nelle vie di Mogadiscio. Pantaloni corti color cachi e le scarpe da ginnastica. Perché con le divise regolamentari sudavano come fontane. «Ridicolo fargli mettere giubba, pantaloni, scarponi e basco. I generaloni erano verdi di rabbia, ma con i nostri concittadini e con la popolazione hanno fatto un figurone, perché sembravano guerrieri d’altri tempi. Forti, muscolosi, abbronzati. E i somali a queste cose ci badano, eccome». Così come corrispondono alla verità storica le trattative segrete con i capo-clan dell’Ogadén per facilitare l’avanzata italiana in quella regione. Oppure la pubblicazione, su una rivista ebraica stampata in Egitto, della notizia falsa che il generale fosse di religione israelita, episodio che mandò Graziani su tutte le furie. Se c’è un elemento caratterizzante dell’intero impianto narrativo, infatti, è proprio la verosimiglianza della narrazione. Persino quando si parla di zombi, sì, proprio dei morti viventi resi famosi dal grande cineasta americano George Romero. Superstizione, in larga parte, ma anche prassi antiche e tuttora presenti in determinate culture. Perché ridurre l’uomo in stato catatonico simile alla morte è possibile con il ricorso a sostanze psicotrope in grado di annullarne la volontà. Tanto che nel codice penale della repubblica di Haiti c’è il reato di avvelenamento per chi somministra sostanze in grado di indurre una morte apparente e di omicidio per chi avesse seppellito una persona sottoposta a tale stato letargico. Come nel primo romanzo, anche stavolta il nostro Morosini riuscirà a risolvere il caso, dovendo amaramente riconoscere come gli insegnamenti dell’amato Seneca – le cui Lettere a Lucilio accompagneranno il protagonista durante l’intero arco delle indagini – non facciano breccia in un animo umano inaridito dalla ricerca del facile guadagno. «Non c’è male che non prometta un compenso. L’avidità promette denaro, la lussuria numerosi e svariati piaceri, l’ambizione cariche e favori. I vizi ti allettano con una ricompensa – ammoniva il filosofo, drammaturgo e politico romano – mentre al servizio della virtù devi vivere gratuitamente». Per dirla con le parole di Chicco Albertenghi, personaggio senza scrupoli de Una donna di troppo: «Lo sanno tutti che è l’oro a far girare il mondo». Chissà se questa frase spiega (anche) perché in Somalia, a differenza di altri luoghi non meno “inospitali” o difficili che dir si voglia, non c’è alcuna missione di pace. Secolo d’Italia 7 novembre 2009