Malattie Autoimmuni La funzione principale del sistema immunitario è quella di distinguere ciò che è proprio dell’organismo (self) da ciò che è estraneo all’organismo (non self), verso cui il sistema rivolge la sua azione. Nelle patologie autoimmuni il sistema immunitario fallisce in questa sua funzione, generando autoanticorpi e cellule T autoreattive che attivano la risposta immune nei confronti di strutture ed organi dell’organismo stesso. Nella patogenesi delle malattie autoimmuni interviene quindi una interruzione della tolleranza immunologica. Le malattie autoimmuni colpiscono circa il 2-5% degli individui nel mondo occidentale ed evidenziano una correlazione con sesso ed età. Sono più colpite le donne (forse in relazione al ruolo degli ormoni sessuali) In genere interessano l’età adulta ( più frequenti dopo i 40 anni) Tendono ad essere croniche e progressive (si auto-mantengono nel tempo). Eziopatogenesi delle malattie autoimmuni (1) Sono su base autoimmune un numero crescente di patologie che vanno da forme sistemiche come il LES (lupus eritematoso sistemico) a forme organospecifiche quali la tiroidite di Hashimoto. Nelle forme organo-specifiche il danno immunopatologico è limitato ad uno specifico organo o tessuto (reazioni di ipersensibilità di tipo II e cellulo-mediata) Nelle forme sistemiche il danno immunopatologico interessa in maniera diffusa diversi tessuti ed organi (es. precipitazione di immunocomplessi determina l’infiammazione attraverso diversi meccanismi quali l’attivazione del complemento e di cellule fagocitiche) Nelle malattie autoimmuni, la presenza di autoanticorpi è la prova che il processo autoimmunitario è l’agente causale delle lesioni. Eziopatogenesi delle malattie autoimmuni (2) Le malattie autoimmuni hanno eziologia multifattoriale ed ad esse concorrono: Fattori genetici di predisposizione Fattori ambientale scatenanti (es. eventi infettivi). La perdita della tolleranza al self è espressione di: Difetti nella selezione negativa e nell’editing dei recettori Perdita della condizione di anergia Inattivazione dei sistemi apoptotici Carenza o difetti nei linfociti Treg Tireotossicosi neonatale La tireotossicosi è caratterizzata dalla produzione di autoanticorpi diretti contro il recettore per il TSH. Nella tireotossicosi neonatale le IgG della madre affetta, attraverso la placenta, possono raggiungere il feto. Sono stati segnalati casi di bambini figli di madri affette da tireotossicosi che, alla nascita, mostravano segni di ipereattività tiroidea che scomparivano non appena gli anticorpi materni erano stati catabolizzati. Miastenia grave Un fenomeno simile si osserva per i figli di madri affette da miastenia grave caratterizzata da autoanticorpi diretti verso il recettore per l’acetilcolina. Anche in questi caso segni di debolezza muscolare, presenti alla nascita, sono attribuibili ad un trasferimento passivo di autoanticorpi dalla madre al feto. Eziopatogenesi delle malattie autoimmuni (3) Fattore non trascurabile è il ruolo del genotipo nella patogenesi delle malattie autoimmuni. Studi di associazione nell’uomo hanno evidenziato che, nella maggior parte dei casi il locus HLA contribuisce alla suscettibilità genetica. Di particolare interesse è l’associazione tra alleli HLA di classe II (HLA-DR o HLA-DQ) e patologie autoimmuni Il 95% dei pazienti con diabete mellito di tipo 1 esprime l’antigene HLA DR3 e/o DR4, presente solo nel 40% dei soggetti normali. La suscettibilità/resistenza alla patologia è però dipendente dalla variazione dell’aminoacido in posizione 57 della catena beta dell’antigene DQ: la presenza di ac. aspartico induce resistenza alla patologia. Studi di associazione hanno anche identificato altre regioni del genoma correlabili alle patologie autoimmuni Si tratta di solito di loci che includono geni che influenzano lo sviluppo e la regolazione della risposta immunitaria. Eziopatogenesi delle malattie autoimmuni (3) Tra i meccanismi patogenetici delle malattie autoimmuni occorre ricordare che antigeni microbici cross-reattivi possono mimare epitopi self inducendo l’attivazione di cellule T e B autoreattive. Nella febbre reumatoide, antigeni glicidici dello streptococco cross-reagiscono con un autoantigene delle valvole cardiache eludendo la tolleranza immunologica e attivando la produzione di autoanticorpi. Nelle malattie autoimmuni diversi possono essere i meccanismi effettori del danno tissutale: Inibizione della funzione recettoriale (miastenia grave, anemia perniciosa, tireotossicosi, etc.) Reazioni citotossiche e citolitiche (anemia emolitica, tiroidite di Hashimoto etc.) Reazioni da immunocomplessi (LES, artrite reumatoide) Reazioni cellulo-mediate (tiroidite di Hashimoto, artrite reumatoide, epatiti autoimmuni). Tireopatie autoimmuni Sono le meglio conosciute tra le malattie autoimmuni organo-specifiche con due forme in particolare: La tiroidite di Hashimoto, principale causa di ipotiroidismo La tireotossicosi (morbo di Graves-Basedow), principale causa di ipertiroidismo. La presenza di autoanticorpi diretti contro la tiroide caratterizza queste patologie: Anticorpi anti-tireoglobulina (principalmente presenti ad alto titolo nei pazienti affetti da tiroidite di Hashimoto e che probabilmente attivano le reazioni citotossiche e citolitiche dirette contro il tireociti e determinando ipotiroidismo ) Anticorpi anti-TSH (presenti nei pazienti affetti da tireotossicosi in cui l’anticorpo legandosi al recettore mima il ligando ed determina una iperstimolazione responsabile dell’ipertiroidismo) Anticorpi anti-antigene microsomiale, di recente riconosciuto nella perossidasi tiroidea, enzima che iodina la tireoglobulina (sono presenti sia nella tiroidite di Hashimoto che nella tireotossicosi, con un ruolo ancora non ben definito nella patogenesi delle tireopatie autoimmuni). Lupus eritematoso sistemico (LES) E’ la tipica malattia autoimmune sistemica in cui i processi infiammatori sono a carico di più organi. Autoanticorpi diretti contro il nucleo (in particolare antiDNA) sono caratteristici del LES. Questi sembrano diretti principalmente contro i gruppi fosfodiesterici della molecola di DNA e questi determinanti sono presenti anche nei fosfolipidi di membrana e nella parete di certi batteri. Ciò porta a ipotizzare che un possibile meccanismo eziopatogenetico per il LES sia ricercabile in fenomeni di cross-reattività indotta da antigeni batterici. Dal punto di vista immunopatologico, il LES è una malattia da immunocomplessi: gli autoanticorpi legano gli antigeni nucleari (DNA) formando immunocomplessi che attivano il complemento e il processo infiammatorio. Miastenia gravis E’ una malattia della giunzione muscolare con debolezza muscolare che si manifesta sotto sforzo è può teoricamente interessare tutti i muscoli. Anomalie timiche (es. timoma) sono talora associate alla miastenia. Nella miastenia grave si riconoscono autoanticorpi diretti contro il recettore per l’acetilcolina. Il meccanismo patogenetico più accreditato è che la produzione di questi autoanticorpi sia risultato della risposta ad un virus che utilizza l’acetilcolina come recettore, con gli anticorpi anti-virus che mimano l’acetilcolina. Il danno immunopatologico sarebbe il risultato della lisi delle giunzioni neuromuscolari e del rapido turnover dei recettori per l’acetilcolina indotti dall’autoanticorpo. Reazioni Immunopatogene Nelle reazioni immunopatogene normali processi immunologici risultano in manifestazioni patologiche. Queste reazioni atipiche dell’organismo sono definite reazioni di ipersensibilità e, quando determinate da antigeni autologhi (autoantigeni) concorrono alla patogenesi delle malattie autoimmuni. Caratteristica comune a tutte le reazioni immunopatogene è che, perché si verifichino, l’organismo deve venire a contatto con l’antigene almeno due volte. In tutte le reazioni di persensibilità, indipendentemente dal tipo di risposta attivata si riconoscono 3 fasi: Sensibilizzazione (con il primo contatto) Periodo di latenza (selezionie di linfociti effettori e di memoria) Scatenamento della reazione (danno immunologico con il secondo o i successivi contatti). Le reazioni immunopatogene (o di ipersensibilità) vengono anche distinte in: di tipo immediato (con manifestazione a brevissima distanza di tempo dallo scatenamento) di tipo ritardato (con manifestazione a distanza di ore o di giorni). Reazioni Immunopatogene di I tipo (anafilattiche e allergiche) La reazione di ipersensibilità di I tipo o anafilattica si genera in risposta ad antigeni ambientali molto diffusi, detti allergeni. Gli allergeni inducono la produzione di IgE specifiche da parte dei linfociti B. La risposta dell’individuo sensibilizzato compare molto rapidamente e quindi si parla anche di ipersensibilità immediata. Gli individui predisposti alla produzione di IgE sono detti atopici e le manifestazioni patologiche allergie o atopie. Circa il 20% della popolazione occidentale soffre allergia. una o più forme di La predisposizione a produrre IgE è influenzata da molti geni. E’ evidente la natura poligenica di questa condizione di suscettibilità che convolge loci per alcune interleuchine (cromosoma 5), alleli HLA di classe II, il locus per la catena b del FceRI Allergeni Gli allergeni più comuni sono proteine o sostanze chimiche che si legano a proteine Allergeni comuni sono: polline, forfora di gatto, feci dell’acaro della polvere, alimenti, farmaci, veleno d’insetti. Introdotto per via sottocutanea, nei soggetti sensibilizzati, l’allergene provoca rapidamente una reazione ponfo-eritematosa causata dalla degranulazione dei mastociti. Reazioni Immunopatogene di II tipo (citolitiche o citotossiche) Sono mediate da anticorpi prodotti contro antigeni espressi sulla superficie delle cellule o apteni che si siano fissati stabilmente sulla superficie cellulare. L’azione citotossica e citolitiche dipende dall’attivazione della via classica del complemento. Sono coinvolti anticorpi di classe IgM e IgG. Possono essere responsabili di tale reazione: autoanticorpi alloanticorpi (cioè anticorpi diretti contro alloantigeni, antigeni di individui geneticamente diversi ma appartenenti alla stessa specie) anticorpi diretti contro antigeni o apteni estranei che, penetrati nell’organismo formano complessi stabili con proteine della superficie di alcune cellule I meccanismi patogenetici dell’ipersensibilità di II tipo sono: • Opsonizzazione e fagocitosi delle cellule riconosciute dagli anticorpi • Danno tissutale e infiammazione mediata dal complemento • Interferenza con le normali funzioni cellulari Reazioni Immunopatogene di III tipo (da immunocomplessi) L’immunocomplesso si forma ogni volta che un’antigene solubile incontra lo specifico anticorpo, preferenzialmente di classe IgG. Di norma gli immunocomplessi si trovano a bassa concentrazione e sono efficacemente eliminati dal sistema reticolo endoteliale ma, se in eccesso, possono depositarsi in vari tessuti ed organi attivando la risposta infiammatoria: attivazione della via classica del complemento attivazione dei macrofagi che si legano agli immunocomplessi tramite i recettori per il frammento Fc. Per immunocomplessi circolanti il danno interessa le pareti dei vasi o strutture filtranti dove restano intrappolati. La patogenesi delle malattie da immunocomplessi comprende: Formazione dei complessi antige –anticorpo Deposizione di immunocomplessi in diversi distretti Inizio della risposta infiammatoria acuta Reazioni immunopatogene di IV tipo (o di ipersensibilità ritardata) Sono così denominate in quanto le manifestazioni patologiche si evidenziano non meno di 24 ore dopo il contatto con l’antigene e si differenziano dalle altre manifestazioni di ipersensibilità in quanto non sono mediate da anticorpi ma dai linfociti T, prevalentemente CD4+. Reazioni di ipersensibilità ritardata possono essere determinate da diversi antigeni: costituenti di microrganismi intracellulari (mycobacterium tuberculosis) composti vegetali molecole secrete da numerosi insetti agenti chimici antigeni di istocompatibilità (rigetto dei trapianti) agenti virionici associati a MHC di classe I autoantigeni nel caso di alcune patologie autoimmuni. Reazioni immunopatogene di IV tipo (2) Sensibilizzazione Gli antigeni sono captati e processati da cellule APC (macrofagi o cellule di Langherans a livello cutaneo). I linfociti T CD4+ riconoscono l’antigene complessato a molecole MHC di tipo I eII e proliferano determinando l’espansione del clone linfocitario. Scatenamento Ad una nuova penetrazione dell’antigene, i linfociti T sensibilizzati migrano e si accumulano lentamente nel sito dove è localizzato l’antigene associato a molecole MHC. Essi si attivano producendo numerose citochine, alcune delle quali stimolano le cellule endoteliali a produrre sostanze vasoattive (NO) e molecole di adesione che guidano i leucociti verso il verso il focolaio infiammatorio. I Tumori I tumori (neoplasie) sono costituiti da un insieme di cellule somatiche originatesi solitamente da un’unica cellula in cui, l’accumulo sequenziale di alterazioni genomiche (mutazioni), ha determinato importanti cambiamenti: autonomia moltiplicativa – incapacità a sottostare ai meccanismi preposti al controllo della proliferazione cellulare; riduzione o perdita della capacità differenziativa; perdita della capacità di andare incontro a morte cellulare programmata (apoptosi). Tutti i citotipi possono andare incontro a trasformazione neoplastica sviluppando molti tipi diversi di tumori, che tuttavia rispondono a questo schema generale. Gli agenti eziologici dei tumori umani possono essere molteplici e di varia natura (chimica, fisica, biologica) e spesso più fattori concorrono a creare le condizioni per lo sviluppo di una neoplasia. Fattori esogeni possono talora aggiungersi a cause endogene (es. mutazioni trasmesse dai genitori) che creano una maggiore predisposizione allo sviluppo del tumore. I tumori vengono solitamente distinti in due grossi gruppi: Tumori Benigni Tumori Maligni Circa l’80% ha origine epiteliale, mentre il restante 20% ha origine mesenchimale. Tumori benigni Le cellule conservano un buon grado di differenziazione morfologica e funzionale, pur mostrando di non rispondere ai meccanismi di controllo della proliferazione cellulare. Essi hanno uno sviluppo che non prevede infiltrazione tra le cellule dei tessuti circostanti. La massa tumorale si espande ma risulta ben distinta e distinguibile rispetto ai tessuti circostanti. Talora una guaina fibrosa può delimitare il tumore. Il danno è spesso correlato alla compressione che la massa tumorale può esercitare su tessuti ed organi contigui. Nei tumori benigni di ghiandole endocrine (adenomi) il danno può risultare dalla iperproduzione incontrollata di ormoni. L’asportazione chirurgica è risolutiva e non recidivante. Tumori maligni Le cellule sono tipicamente morfologicamente e funzionalmente diverse dalle cellule del tessuto da cui il tumore origina. Il grado di indifferenziazione è tanto più elevato quanto più il tumore è in uno stadio avanzato. Le alterazioni morfologiche riguardano la forma, gli organuli cellulari e soprattutto il nucleo. Il tumore maligno tende ad infiltrare i tessuti limitrofi (invasività neoplastica). Le cellule tumorali possono raggiungere e penetrare la parete endoteliale dei vasi passando nel sangue. Trasportate dal sangue possono raggiungere altri tessuti ed organi dove attecchiscono e sviluppano il tumore (metastasi). La metastatizzazione rappresenta lo stadio più avanzato di evoluzione di un tumore maligno. La tendenza ad infiltrare i tessuti circostanti (invasività) comporta la comparsa di recidive dopo asportazione chirurgica del tumore che non garantisce la totale eliminazione delle cellule tumorali. Nomenclatura e classificazione dei tumori (1) Nella classificazione e nomenclatura dei tumori un parametro che viene valutato è l’analisi istologica che tende ad identificare il tessuto di origine della neoplasia. Nei tumori altamente indifferenziati può non essere possibile riconoscere i segni del tessuto d’origine del tumore (tumori anaplastici). Epiteli di rivestimento (cute e mucose) Tumori benigni - si presentano con l’aspetto di protuberanze che emergono dal tessuto (polipi e papillomi) Tumori maligni – irregolari e scarsamente limitati rispetto al tessuto circostante, spesso duri e con fenomeni emorragici e ulcerativi (epitelioma basocellulare o basalioma; epitelioma spinocellulare). Epitelio ghiandolare Tumori benigni – sono detti adenomi e ripropongono in maniera abbastanza fedele l’architettura della ghiandola da cui originano. Tumori maligni – adenocarcinomi se sufficientemente differenziati così da riprodurre la struttura ghiandolare e carcinomi nelle forme più indifferenziate. Tessuto connettivo Tumori benigni - indicati dal suffisso oma. Tumori maligni – indicati dal termine sarcoma. Nomenclatura e classificazione dei tumori (2) Tessuto emolinfopoietico I tumori che originano da cellule staminali emopoietiche del midollo osseo sono definiti leucemie mentre quelli che sviluppano da linfociti maturi sono detti linfomi. La classificazione è in continua evoluzione. Nelle leucemie si riscontrano due caratteristiche principali: abnorme proliferazione delle cellule staminali trasformate (neoplastiche) blocco maturativo – le cellule non sono capaci di differenziare e quindi si accumulano nel midollo o passano nel sangue come elementi immaturi incapaci di svolgere la loro funzione. Tessuto nervoso Classificazione complessa che si basa sul tipo di cellule coinvolte, con tumori sia benigni che maligni. Gradazione e Stadiazione La gradazione è la valutazione del grado di malignità del tumore in funzione dell’ analisi del grado di differenziazione delle cellule tumorali rilevabile dall’analisi anatomo-istopatologica del tessuto tumorale. Utile ai fini prognostici e terapeutici è anche la valutazione dello stadio di sviluppo della neoplasia (stadiazione) che viene oggi effettuata secondo precisi schemi di classificazione dettati dall’OMS. Il sistema di classificazione TNM tiene conto: delle dimensioni del tumore primario (Tn) dello stato dei linfonodi regionali (Nn) dell’assenza o presenza di metastasi (Mn) Quali sono i fattori responsabili dell’invasività delle cellule neoplastiche? Metastatizzazione (1) La metastasi è espressione di una capacità di autotrapianto acquisita dalle cellule neoplastiche. Esse sono cioè capaci di distaccarsi dal tumore primitivo e impiantarsi in una sede diversa, dove danno origine ad un tumore secondario. La metastatizzazione rappresenta un ulteriore evoluzione della malignità del tumore. Come per altre caratteristiche descritte, anche la capacità di dare metastasi è espressione dell’acquisizione di nuove caratteristiche fenotipiche da parte della cellula neoplastica come prodotto di un ulteriore riarrangiamento del suo genoma che si somma alle mutazioni preesistenti. Perché la metastasi si realizzi è necessario che alcune cellule neoplastiche acquisiscano il fenotipo metastatico, esse devono cioè essere in grado di: distaccarsi dal tumore primario Invadere tessuto connettivo, capillari sanguigni e linfatici Sopravvivere nel sangue e nella linfa Arrestarsi aderendo alle cellule endoteliali (espressione di specifiche molecole di adesione quali le integrine) Attraversare la parete endoteliale del vaso Moltiplicarsi e invadere il tessuto colonizzato (espressione di molecole di adesione specifiche di quel tessuto) Produrre fattori angiogenetici che consentano la vascolarizzazione e quindi l’accrescimento del tumore secondario. Metastatizzazione (2) L’espressione di specifiche molecole di adesione è responsabile dell’organotropismo delle metastasi, per cui un certo tipo di tumore metastatizza in particolari tessuti ed organi ma non in altri. Il trasporto delle cellule tumorali dalla sede di sviluppo del tumore primario alla localizzazione metastatica avviene attraverso diverse vie: Ematica – le cellule tumorali penetrano nel sangue attraverso la parete endoteliale dei vasi e vengono rivestite dalla fibrina e da aggregati piastrinici. Fenomeni coagulativi innescati dalle alterazioni dell’endotelio ne possono favorire l’adesione Linfatica – attraverso il sistema linfatico le cellule neoplastiche possono raggiungere il linfonodi regionali o il sangue. Transcelomatica – seguita dai tumori che si sviluppano in organi contenuti nelle cavità celomatiche Canalicolare – per i tumori di ghiandole dotate di dotti escretori per cui la metastatizzazione può avere luogo in organi e tessuti serviti da queste. Genetica dei Tumori Studi sulla relazione età – tumore hanno evidenziato che sarebbero necessarie una media di sei o sette mutazioni successive per convertire una cellula normale in un carcinoma invasivo. La probabilità che ciò accada è trascurabile, tuttavia esistono due meccanismi generali che possono favorire la progressione neoplastica. Alcune mutazioni aumentano la proliferazione cellulare, creando una popolazione espansa di cellule bersaglio per la mutazione successiva. Altre mutazioni intaccano la stabilità dell’intero genoma, facendo aumentare il tasso di mutazioni complessivo. I geni dei tumori Esistono tre gruppi di geni che risultano frequentemente mutati nelle neoplasie: Gli oncogeni - la cui azione promuove positivamente la proliferazione cellulare. Nella forma normale, non mutata sono indicati come protooncogeni. La forma mutata è attiva in modo improprio o eccessivo. Un singolo allele mutante può influenzare il fenotipo dell’intera cellula. I geni soppressori dei tumori (TS) - la cui funzione è quella di inibire la proliferazione cellulare. Nelle cellule tumorali, la forma mutata perde la sua funzione. Per cambiare il comportamento di una cellula devono essere inattivati entrambi gli alleli di un gene TS. I geni mutatori - responsabili del mantenimento dell’integrità del genoma e della fedeltà di trasferimento dell’informazione. La loro inattivazione aumenta la possibilità che la cellula possa commettere errori, e questi possono coinvolgere oncogeni o geni TS. Virus oncogeni Alcune forme di tumori negli animali (incluso l’uomo) possono essere causate da virus. I virus tumorali rientrano in tre ampie classi: I virus a DNA, che normalmente infettano la cellula con modalità litiche, possono causare tumori mediante anomale integrazioni del DNA virale in cellule ospiti non permissive. L’integrazione innesca segnali di attivazione della trascrizione o di replicazione virali nell’ospite attivando la proliferazione cellulare incontrollata. I retrovirus, che hanno il genoma a RNA, si replicano mediante un intermedio di DNA, prodotto da una trascrittasi inversa virale. Questi virus in genere non uccidono la cellula ospite e raramente la trasformano in cellula neoplastica. I retrovirus a trasformazione acuta, a differenza dei retrovirus normali, trasformano rapidamente e ad alta efficienza la cellula ospite in neoplastica. Il loro genoma contiene un gene aggiuntivo l’oncogene virale, che solitamente sostituisce alcuni geni essenziali del virus. Per potersi replicare, essi richiedono quindi la coinfezione di un virus helper che svolge le funzioni mancanti. Gli oncogeni Lo studio dei retrovirus e dei loro oncogeni ha rapidamente chiarito che le cellule normali contengono degli equivalenti di tutti gli oncogeni virali che in realtà sono geni cellulari trasdotti. Gli oncogeni virali differiscono dai loro equivalenti cellulari (proto-oncogeni) per sostituzioni e tagli aminocidici che attivano il proto-oncogene (lo trasformano cioè in oncogene). Lo studio dei retrovirus ha consentito di identificare più di 50 oncogeni, evidenziando come essi fossero coinvolti proprio in quelle funzioni cellulari che si era previsto fossero perturbate nei tumori. Possiamo distinguere cinque classi principali di oncogeni: Fattori di crescita secreti Recettori della superficie cellulare Componenti di sistemi intracellulari di trasduzione del segnale Proteine nucleari che si legano al DNA (fattori di trascrizione, ecc.) Componenti del circuito delle cicline, chinasi ciclina-dipendenti e inibitori delle chinasi (che governano la progressione del ciclo cellulare). Attivazione dei proto-oncogeni (1) L’attivazione dei proto-oncogeni può essere: Quantitativa - con un aumento cioè della produzione di un prodotto non modificato. Qualitativa - con produzione di un prodotto leggermente modificato in seguito ad una mutazione o alla formazione di un nuovo prodotto da un gene chimerico creato da un riarrangiamento cromosomico. Questi cambiamenti sono dominanti e normalmente interessano solo uno degli alleli di un gene. Negli oncogeni le mutazioni attivanti sono quasi invariabilmente mutazioni somatiche, in quanto mutazioni costituzionali sarebbero probabilmente letali. Attivazione a seguito di mutazioni puntiformi Un esempio è il gene HRAS, che appartiene alla famiglia dei geni ras, coinvolti nella trasduzione del segnale a partire da recettori accoppiati alla proteina G. Il segnale che perviene al recettore attiva il legame del GTP a RAS ed il complesso GTP-RAS trasmette il segnale ad altri fattori a valle di questo sistema. RAS ha attività GTPasica e rapidamente converte il complesso GTP-RAS in GDP-RAS funzionalmente inattivo. Mutazioni puntiformi che alterano la funzione GTPasica di RAS ne limitano l’inattivazione determinando una eccessiva risposta della cellula al segnale proveniente dal recettore. Attivazione dei proto-oncogeni (2) Traslocazioni cromosomiche che possono creare geni chimerici Tipicamente le cellule tumorali hanno cariotipi grossolanamente alterati. La maggior parte di questi cambiamenti sono casuali è riflettono una generica instabilità del genoma che è componente normale della carcinogenesi. Sono stati tuttavia caratterizzati riarrangiamenti tumore-specifici. Il più conosciuto produce il cromosoma Filadelfia (Ph1), un piccolissimo cromosoma acrocentrico presente nel 90% dei pazienti con leucemia mieloide cronica. Il cromosoma Filadelfia è il prodotto di una traslocazione bilanciata (9;22). Sul cromosoma 9 il punto di rottura è in un introne dell’oncogene ABL. La traslocazione lo unisce al gene BCR sul cromosoma 22 creando un gene chimerico il cui prodotto è una proteina di fusione, una tirosina chinasi correlata ad ABL ma con anomale proprietà trasformanti (non risponde più ai normali controlli). Si conoscono molti riarrangiamenti che producono geni chimerici o anche pongono oncogeni in un contesto cromatinico attivamente trascritto come ad esempio i geni per le immunoglobuline nei linfociti. Geni oncosoppressori Esperimenti di fusione in vitro tra cellule neoplastiche e cellule normali, ha evidenziato che, in alcuni casi, il fenotipo trasformante può essere corretto. Ciò ha fornito la prova che lo sviluppo dei tumori non dipende solo da oncogeni attivati dominanti, ma anche da mutazioni recessive che conducono alla perdita di funzione di altri geni. Questi sono appunto i geni soppressori dei tumori (tumor suppressor TS gene). Il meccanismo con cui i geni TS vengono inattivati è spiegato dall’ipotesi del doppio colpo di Knudson (1971), confermata da studi successivi che hanno interessato in particolare il retinoblastoma, un raro e aggressivo tumore infantile della retina. Per questo esiste un 60% di casi sporadici unilaterali e un 40% di casi ereditari. Nei casi familiari non sono infrequenti i tumori bilaterali.