Malattie Autoimmuni
La funzione principale del sistema immunitario è quella di distinguere ciò che è
proprio dell’organismo (self) da ciò che è estraneo all’organismo (non self),
verso cui il sistema rivolge la sua azione.
Nelle patologie autoimmuni il sistema immunitario fallisce in questa sua
funzione, generando autoanticorpi e cellule T autoreattive che attivano la
risposta immune nei confronti di strutture ed organi dell’organismo stesso.
Nella patogenesi delle malattie autoimmuni interviene quindi una interruzione
della tolleranza immunologica.
Le malattie autoimmuni colpiscono circa il 2-5% degli individui nel mondo
occidentale ed evidenziano una correlazione con sesso ed età.

Sono più colpite le donne (forse in relazione al ruolo degli ormoni sessuali)

In genere interessano l’età adulta ( più frequenti dopo i 40 anni)
Tendono ad essere croniche e progressive (si auto-mantengono nel tempo).
Eziopatogenesi delle malattie
autoimmuni (1)
Sono su base autoimmune un numero crescente di patologie che vanno da
forme sistemiche come il LES (lupus eritematoso sistemico) a forme organospecifiche quali la tiroidite di Hashimoto.
 Nelle
forme organo-specifiche il danno immunopatologico è limitato ad
uno specifico organo o tessuto (reazioni di ipersensibilità di tipo II e
cellulo-mediata)
 Nelle
forme sistemiche il danno immunopatologico interessa in
maniera diffusa diversi tessuti ed organi (es. precipitazione di
immunocomplessi determina l’infiammazione attraverso diversi
meccanismi quali l’attivazione del complemento e di cellule
fagocitiche)
Nelle malattie autoimmuni, la presenza di autoanticorpi è la prova che il
processo autoimmunitario è l’agente causale delle lesioni.
Eziopatogenesi delle malattie
autoimmuni (2)
Le malattie autoimmuni hanno eziologia multifattoriale ed ad esse concorrono:
 Fattori genetici di predisposizione
 Fattori ambientale scatenanti (es. eventi infettivi).
La perdita della tolleranza al self è espressione di:
 Difetti nella selezione negativa e nell’editing dei recettori
 Perdita della condizione di anergia
 Inattivazione dei sistemi apoptotici
 Carenza o difetti nei linfociti Treg
Tireotossicosi neonatale
La tireotossicosi è caratterizzata dalla produzione di autoanticorpi diretti contro il
recettore per il TSH. Nella tireotossicosi neonatale le IgG della madre affetta, attraverso
la placenta, possono raggiungere il feto. Sono stati segnalati casi di bambini figli di
madri affette da tireotossicosi che, alla nascita, mostravano segni di ipereattività tiroidea
che scomparivano non appena gli anticorpi materni erano stati catabolizzati.
Miastenia grave
Un fenomeno simile si osserva per i figli di madri affette da miastenia grave
caratterizzata da autoanticorpi diretti verso il recettore per l’acetilcolina. Anche in questi
caso segni di debolezza muscolare, presenti alla nascita, sono attribuibili ad un
trasferimento passivo di autoanticorpi dalla madre al feto.
Eziopatogenesi delle malattie
autoimmuni (3)
Fattore non trascurabile è il ruolo del genotipo nella patogenesi delle malattie
autoimmuni. Studi di associazione nell’uomo hanno evidenziato che, nella
maggior parte dei casi il locus HLA contribuisce alla suscettibilità genetica.
Di particolare interesse è l’associazione tra alleli HLA di classe II (HLA-DR o
HLA-DQ) e patologie autoimmuni
 Il 95% dei pazienti con diabete mellito di tipo 1 esprime l’antigene HLA
DR3 e/o DR4, presente solo nel 40% dei soggetti normali. La
suscettibilità/resistenza alla patologia è però dipendente dalla variazione
dell’aminoacido in posizione 57 della catena beta dell’antigene DQ: la
presenza di ac. aspartico induce resistenza alla patologia.
Studi di associazione hanno anche identificato altre regioni del genoma
correlabili alle patologie autoimmuni
 Si tratta di solito di loci che includono geni che influenzano lo sviluppo e
la regolazione della risposta immunitaria.
Eziopatogenesi delle malattie
autoimmuni (3)
Tra i meccanismi patogenetici delle malattie autoimmuni occorre ricordare che
antigeni microbici cross-reattivi possono mimare epitopi self inducendo
l’attivazione di cellule T e B autoreattive. Nella febbre reumatoide, antigeni
glicidici dello streptococco cross-reagiscono con un autoantigene delle valvole
cardiache eludendo la tolleranza immunologica e attivando la produzione di
autoanticorpi.
Nelle malattie autoimmuni diversi possono essere i meccanismi effettori del
danno tissutale:
Inibizione della funzione recettoriale (miastenia grave, anemia perniciosa,
tireotossicosi, etc.)
 Reazioni citotossiche e citolitiche (anemia emolitica, tiroidite di Hashimoto etc.)
 Reazioni da immunocomplessi (LES, artrite reumatoide)
 Reazioni cellulo-mediate (tiroidite di Hashimoto, artrite reumatoide, epatiti
autoimmuni).

Tireopatie autoimmuni
Sono le meglio conosciute tra le malattie autoimmuni organo-specifiche con due forme
in particolare:
 La tiroidite di Hashimoto, principale causa di ipotiroidismo
 La tireotossicosi (morbo di Graves-Basedow), principale causa di
ipertiroidismo.
La presenza di autoanticorpi diretti contro la tiroide caratterizza queste patologie:
 Anticorpi anti-tireoglobulina (principalmente presenti ad alto titolo nei
pazienti affetti da tiroidite di Hashimoto e che probabilmente attivano le
reazioni citotossiche e citolitiche dirette contro il tireociti e determinando
ipotiroidismo )
 Anticorpi anti-TSH (presenti nei pazienti affetti da tireotossicosi in cui
l’anticorpo legandosi al recettore mima il ligando ed determina una
iperstimolazione responsabile dell’ipertiroidismo)
 Anticorpi anti-antigene microsomiale, di recente riconosciuto nella
perossidasi tiroidea, enzima che iodina la tireoglobulina (sono presenti sia
nella tiroidite di Hashimoto che nella tireotossicosi, con un ruolo ancora
non ben definito nella patogenesi delle tireopatie autoimmuni).
Lupus eritematoso sistemico (LES)
E’ la tipica malattia autoimmune sistemica in cui i
processi infiammatori sono a carico di più organi.
Autoanticorpi diretti contro il nucleo (in particolare antiDNA) sono caratteristici del LES.
Questi sembrano diretti principalmente contro i gruppi
fosfodiesterici della molecola di DNA e questi
determinanti sono presenti anche nei fosfolipidi di
membrana e nella parete di certi batteri. Ciò porta a
ipotizzare
che
un
possibile
meccanismo
eziopatogenetico per il LES sia ricercabile in fenomeni di
cross-reattività indotta da antigeni batterici.
Dal punto di vista immunopatologico, il LES è una
malattia da immunocomplessi: gli autoanticorpi legano
gli antigeni nucleari (DNA) formando immunocomplessi
che attivano il complemento e il processo infiammatorio.
Miastenia gravis
E’ una malattia della giunzione muscolare con debolezza muscolare che si
manifesta sotto sforzo è può teoricamente interessare tutti i muscoli. Anomalie
timiche (es. timoma) sono talora associate alla miastenia.
Nella miastenia grave si riconoscono autoanticorpi diretti contro il recettore per
l’acetilcolina.
Il meccanismo patogenetico più accreditato è che la produzione di questi
autoanticorpi sia risultato della risposta ad un virus che utilizza l’acetilcolina
come recettore, con gli anticorpi anti-virus che mimano l’acetilcolina.
Il danno immunopatologico sarebbe il risultato della lisi delle giunzioni
neuromuscolari e del rapido turnover dei recettori per l’acetilcolina indotti
dall’autoanticorpo.
Reazioni Immunopatogene
Nelle reazioni immunopatogene normali processi immunologici risultano in
manifestazioni patologiche.
Queste reazioni atipiche dell’organismo sono definite reazioni di ipersensibilità e, quando
determinate da antigeni autologhi (autoantigeni) concorrono alla patogenesi delle
malattie autoimmuni.
Caratteristica comune a tutte le reazioni immunopatogene è che, perché si verifichino,
l’organismo deve venire a contatto con l’antigene almeno due volte.
In tutte le reazioni di persensibilità, indipendentemente dal tipo di risposta attivata si
riconoscono 3 fasi:
 Sensibilizzazione (con il primo contatto)
 Periodo di latenza (selezionie di linfociti effettori e di memoria)
 Scatenamento della reazione (danno immunologico con il secondo o i successivi
contatti).
Le reazioni immunopatogene (o di ipersensibilità) vengono anche distinte in:
 di tipo immediato (con manifestazione a brevissima distanza di tempo dallo
scatenamento)
 di tipo ritardato (con manifestazione a distanza di ore o di giorni).
Reazioni Immunopatogene di I tipo
(anafilattiche e allergiche)
La reazione di ipersensibilità di I tipo o anafilattica si genera in risposta ad
antigeni ambientali molto diffusi, detti allergeni.
Gli allergeni inducono la produzione di IgE specifiche da parte dei linfociti
B.
La risposta dell’individuo sensibilizzato compare molto rapidamente e
quindi si parla anche di ipersensibilità immediata.
Gli individui predisposti alla produzione di IgE sono detti atopici e le
manifestazioni patologiche allergie o atopie.
Circa il 20% della popolazione occidentale soffre
allergia.
una o più forme di
La predisposizione a produrre IgE è influenzata da molti geni. E’ evidente
la natura poligenica di questa condizione di suscettibilità che convolge loci
per alcune interleuchine (cromosoma 5), alleli HLA di classe II, il locus per
la catena b del FceRI
Allergeni



Gli allergeni più comuni sono proteine o sostanze chimiche che si legano a
proteine
Allergeni comuni sono: polline, forfora di gatto, feci dell’acaro della polvere,
alimenti, farmaci, veleno d’insetti.
Introdotto per via sottocutanea, nei soggetti sensibilizzati, l’allergene provoca
rapidamente una reazione ponfo-eritematosa causata dalla degranulazione dei
mastociti.
Reazioni Immunopatogene di II tipo
(citolitiche o citotossiche)
Sono mediate da anticorpi prodotti contro antigeni espressi sulla superficie
delle cellule o apteni che si siano fissati stabilmente sulla superficie
cellulare. L’azione citotossica e citolitiche dipende dall’attivazione della via
classica del complemento.
Sono coinvolti anticorpi di classe IgM e IgG.
Possono essere responsabili di tale reazione:
 autoanticorpi
 alloanticorpi (cioè anticorpi diretti contro alloantigeni, antigeni di
individui geneticamente diversi ma appartenenti alla stessa specie)
 anticorpi diretti contro antigeni o apteni estranei che, penetrati
nell’organismo formano complessi stabili con proteine della superficie
di alcune cellule
I meccanismi patogenetici dell’ipersensibilità di II tipo sono:
• Opsonizzazione e fagocitosi delle cellule riconosciute dagli anticorpi
• Danno tissutale e infiammazione mediata dal complemento
• Interferenza con le normali funzioni cellulari
Reazioni Immunopatogene di III
tipo (da immunocomplessi)
L’immunocomplesso si forma ogni volta che un’antigene solubile incontra
lo specifico anticorpo, preferenzialmente di classe IgG.
Di norma gli immunocomplessi si trovano a bassa concentrazione e sono
efficacemente eliminati dal sistema reticolo endoteliale ma, se in eccesso,
possono depositarsi in vari tessuti ed organi attivando la risposta
infiammatoria:
 attivazione della via classica del complemento
 attivazione dei macrofagi che si legano agli immunocomplessi
tramite i recettori per il frammento Fc.
Per immunocomplessi circolanti il danno interessa le pareti dei vasi o
strutture filtranti dove restano intrappolati.
La patogenesi delle malattie da immunocomplessi comprende:
 Formazione dei complessi antige –anticorpo
 Deposizione di immunocomplessi in diversi distretti
 Inizio della risposta infiammatoria acuta
Reazioni immunopatogene di IV
tipo (o di ipersensibilità ritardata)
Sono così denominate in quanto le manifestazioni patologiche si
evidenziano non meno di 24 ore dopo il contatto con l’antigene e si
differenziano dalle altre manifestazioni di ipersensibilità in quanto non sono
mediate da anticorpi ma dai linfociti T, prevalentemente CD4+.
Reazioni di ipersensibilità ritardata possono essere determinate da diversi
antigeni:
 costituenti di microrganismi intracellulari (mycobacterium tuberculosis)
 composti vegetali
 molecole secrete da numerosi insetti
 agenti chimici
 antigeni di istocompatibilità (rigetto dei trapianti)
 agenti virionici associati a MHC di classe I
 autoantigeni nel caso di alcune patologie autoimmuni.
Reazioni immunopatogene di
IV tipo (2)
Sensibilizzazione
Gli antigeni sono captati e processati da cellule APC (macrofagi o
cellule di Langherans a livello cutaneo). I linfociti T CD4+
riconoscono l’antigene complessato a molecole MHC di tipo I eII e
proliferano determinando l’espansione del clone linfocitario.
Scatenamento
Ad una nuova penetrazione dell’antigene, i linfociti T sensibilizzati
migrano e si accumulano lentamente nel sito dove è localizzato
l’antigene associato a molecole MHC.
Essi si attivano producendo numerose citochine, alcune delle quali
stimolano le cellule endoteliali a produrre sostanze vasoattive (NO) e
molecole di adesione che guidano i leucociti verso il verso il focolaio
infiammatorio.
I Tumori
I tumori (neoplasie) sono costituiti da un insieme di cellule somatiche originatesi
solitamente da un’unica cellula in cui, l’accumulo sequenziale di alterazioni
genomiche (mutazioni), ha determinato importanti cambiamenti:
 autonomia moltiplicativa – incapacità a sottostare ai meccanismi preposti al
controllo della proliferazione cellulare;
 riduzione o perdita della capacità differenziativa;
 perdita della capacità di andare incontro a morte cellulare programmata
(apoptosi).
Tutti i citotipi possono andare incontro a trasformazione neoplastica sviluppando
molti tipi diversi di tumori, che tuttavia rispondono a questo schema generale.
Gli agenti eziologici dei tumori umani possono essere molteplici e di varia natura
(chimica, fisica, biologica) e spesso più fattori concorrono a creare le condizioni per
lo sviluppo di una neoplasia. Fattori esogeni possono talora aggiungersi a cause
endogene (es. mutazioni trasmesse dai genitori) che creano una maggiore
predisposizione allo sviluppo del tumore.
I tumori vengono solitamente distinti in due grossi gruppi:
 Tumori Benigni
 Tumori Maligni
Circa l’80% ha origine epiteliale, mentre il restante 20% ha origine mesenchimale.
Tumori benigni
Le cellule conservano un buon grado di
differenziazione
morfologica
e
funzionale, pur mostrando di non
rispondere ai meccanismi di controllo
della proliferazione cellulare.
Essi hanno uno sviluppo che non
prevede infiltrazione tra le cellule dei
tessuti circostanti. La massa tumorale si
espande ma risulta ben distinta e
distinguibile rispetto ai tessuti circostanti.
Talora una guaina fibrosa può delimitare
il tumore. Il danno è spesso correlato
alla compressione che la massa
tumorale può esercitare su tessuti ed
organi contigui. Nei tumori benigni di
ghiandole endocrine (adenomi) il danno
può risultare dalla iperproduzione
incontrollata di ormoni.
L’asportazione chirurgica è risolutiva e
non recidivante.
Tumori maligni
Le cellule sono tipicamente morfologicamente e
funzionalmente diverse dalle cellule del tessuto da cui
il tumore origina. Il grado di indifferenziazione è tanto
più elevato quanto più il tumore è in uno stadio
avanzato. Le alterazioni morfologiche riguardano la
forma, gli organuli cellulari e soprattutto il nucleo.
Il tumore maligno tende ad infiltrare i tessuti limitrofi
(invasività neoplastica).
Le cellule tumorali possono raggiungere e penetrare
la parete endoteliale dei vasi passando nel sangue.
Trasportate dal sangue possono raggiungere altri
tessuti ed organi dove attecchiscono e sviluppano il
tumore (metastasi).
La metastatizzazione rappresenta lo stadio più
avanzato di evoluzione di un tumore maligno.
La tendenza ad infiltrare i tessuti circostanti
(invasività) comporta la comparsa di recidive dopo
asportazione chirurgica del tumore che non
garantisce la totale eliminazione delle cellule tumorali.
Nomenclatura e classificazione dei
tumori (1)
Nella classificazione e nomenclatura dei tumori un parametro che viene valutato è
l’analisi istologica che tende ad identificare il tessuto di origine della neoplasia. Nei
tumori altamente indifferenziati può non essere possibile riconoscere i segni del
tessuto d’origine del tumore (tumori anaplastici).
Epiteli di rivestimento (cute e mucose)
 Tumori benigni - si presentano con l’aspetto di protuberanze che emergono
dal tessuto (polipi e papillomi)
 Tumori maligni – irregolari e scarsamente limitati rispetto al tessuto
circostante, spesso duri e con fenomeni emorragici e ulcerativi (epitelioma
basocellulare o basalioma; epitelioma spinocellulare).
Epitelio ghiandolare
 Tumori benigni – sono detti adenomi e ripropongono in maniera
abbastanza fedele l’architettura della ghiandola da cui originano.
 Tumori maligni – adenocarcinomi se sufficientemente differenziati così da
riprodurre la struttura ghiandolare e carcinomi nelle forme più
indifferenziate.
Tessuto connettivo
 Tumori benigni - indicati dal suffisso oma.
 Tumori maligni – indicati dal termine sarcoma.
Nomenclatura e classificazione dei
tumori (2)
Tessuto emolinfopoietico
I tumori che originano da cellule staminali emopoietiche del midollo osseo sono
definiti leucemie mentre quelli che sviluppano da linfociti maturi sono detti linfomi. La
classificazione è in continua evoluzione.
Nelle leucemie si riscontrano due caratteristiche principali:
 abnorme proliferazione delle cellule staminali trasformate (neoplastiche)
 blocco maturativo – le cellule non sono capaci di differenziare e quindi si
accumulano nel midollo o passano nel sangue come elementi immaturi
incapaci di svolgere la loro funzione.
Tessuto nervoso
Classificazione complessa che si basa sul tipo di cellule coinvolte, con tumori sia
benigni che maligni.
Gradazione e Stadiazione
La gradazione è la valutazione del grado di malignità del tumore in
funzione dell’ analisi del grado di differenziazione delle cellule
tumorali rilevabile dall’analisi anatomo-istopatologica del tessuto
tumorale. Utile ai fini prognostici e terapeutici è anche la valutazione
dello stadio di sviluppo della neoplasia (stadiazione) che viene oggi
effettuata secondo precisi schemi di classificazione dettati dall’OMS.
Il sistema di classificazione TNM tiene conto:

delle dimensioni del tumore primario (Tn)

dello stato dei linfonodi regionali (Nn)

dell’assenza o presenza di metastasi (Mn)
Quali sono i fattori
responsabili
dell’invasività delle
cellule neoplastiche?
Metastatizzazione (1)
La metastasi è espressione di una capacità di autotrapianto acquisita dalle cellule
neoplastiche. Esse sono cioè capaci di distaccarsi dal tumore primitivo e impiantarsi
in una sede diversa, dove danno origine ad un tumore secondario.
La metastatizzazione rappresenta un ulteriore evoluzione della malignità del tumore.
Come per altre caratteristiche descritte, anche la capacità di dare metastasi è
espressione dell’acquisizione di nuove caratteristiche fenotipiche da parte della
cellula neoplastica come prodotto di un ulteriore riarrangiamento del suo genoma
che si somma alle mutazioni preesistenti.
Perché la metastasi si realizzi è necessario che alcune cellule neoplastiche
acquisiscano il fenotipo metastatico, esse devono cioè essere in grado di:
 distaccarsi dal tumore primario
 Invadere tessuto connettivo, capillari sanguigni e linfatici
 Sopravvivere nel sangue e nella linfa
 Arrestarsi aderendo alle cellule endoteliali (espressione di specifiche molecole
di adesione quali le integrine)
 Attraversare la parete endoteliale del vaso
 Moltiplicarsi e invadere il tessuto colonizzato (espressione di molecole di
adesione specifiche di quel tessuto)
 Produrre fattori angiogenetici che consentano la vascolarizzazione e quindi
l’accrescimento del tumore secondario.
Metastatizzazione (2)
L’espressione
di
specifiche
molecole
di
adesione
è
responsabile
dell’organotropismo delle metastasi, per cui un certo tipo di tumore metastatizza in
particolari tessuti ed organi ma non in altri.
Il trasporto delle cellule tumorali dalla sede di sviluppo del tumore primario alla
localizzazione metastatica avviene attraverso diverse vie:
 Ematica – le cellule tumorali penetrano nel sangue attraverso la parete
endoteliale dei vasi e vengono rivestite dalla fibrina e da aggregati piastrinici.
Fenomeni coagulativi innescati dalle alterazioni dell’endotelio ne possono
favorire l’adesione
 Linfatica – attraverso il sistema linfatico le cellule neoplastiche possono
raggiungere il linfonodi regionali o il sangue.
 Transcelomatica – seguita dai tumori che si sviluppano in organi contenuti
nelle cavità celomatiche
 Canalicolare – per i tumori di ghiandole dotate di dotti escretori per cui la
metastatizzazione può avere luogo in organi e tessuti serviti da queste.
Genetica dei Tumori
Studi sulla relazione età – tumore hanno evidenziato che sarebbero
necessarie una media di sei o sette mutazioni successive per convertire
una cellula normale in un carcinoma invasivo. La probabilità che ciò
accada è trascurabile, tuttavia esistono due meccanismi generali che
possono favorire la progressione neoplastica.
 Alcune mutazioni aumentano la proliferazione cellulare, creando una
popolazione espansa di cellule bersaglio per la mutazione successiva.
 Altre mutazioni intaccano la stabilità dell’intero genoma, facendo
aumentare il tasso di mutazioni complessivo.
I geni dei tumori
Esistono tre gruppi di geni che risultano frequentemente mutati nelle
neoplasie:
 Gli oncogeni - la cui azione promuove positivamente la proliferazione
cellulare. Nella forma normale, non mutata sono indicati come protooncogeni. La forma mutata è attiva in modo improprio o eccessivo. Un
singolo allele mutante può influenzare il fenotipo dell’intera cellula.
 I geni soppressori dei tumori (TS) - la cui funzione è quella di inibire la
proliferazione cellulare. Nelle cellule tumorali, la forma mutata perde la
sua funzione. Per cambiare il comportamento di una cellula devono
essere inattivati entrambi gli alleli di un gene TS.
 I geni mutatori - responsabili del mantenimento dell’integrità del genoma
e della fedeltà di trasferimento dell’informazione. La loro inattivazione
aumenta la possibilità che la cellula possa commettere errori, e questi
possono coinvolgere oncogeni o geni TS.
Virus oncogeni
Alcune forme di tumori negli animali (incluso l’uomo) possono essere
causate da virus. I virus tumorali rientrano in tre ampie classi:
 I virus a DNA, che normalmente infettano la cellula con modalità
litiche, possono causare tumori mediante anomale integrazioni del
DNA virale in cellule ospiti non permissive. L’integrazione innesca
segnali di attivazione della trascrizione o di replicazione virali
nell’ospite attivando la proliferazione cellulare incontrollata.
 I retrovirus, che hanno il genoma a RNA, si replicano mediante un
intermedio di DNA, prodotto da una trascrittasi inversa virale. Questi
virus in genere non uccidono la cellula ospite e raramente la
trasformano in cellula neoplastica.
 I retrovirus a trasformazione acuta, a differenza dei retrovirus
normali, trasformano rapidamente e ad alta efficienza la cellula
ospite in neoplastica. Il loro genoma contiene un gene aggiuntivo
l’oncogene virale, che solitamente sostituisce alcuni geni essenziali
del virus. Per potersi replicare, essi richiedono quindi la coinfezione
di un virus helper che svolge le funzioni mancanti.
Gli oncogeni
Lo studio dei retrovirus e dei loro oncogeni ha rapidamente chiarito che le
cellule normali contengono degli equivalenti di tutti gli oncogeni virali che in
realtà sono geni cellulari trasdotti.
Gli oncogeni virali differiscono dai loro equivalenti cellulari (proto-oncogeni)
per sostituzioni e tagli aminocidici che attivano il proto-oncogene (lo
trasformano cioè in oncogene).
Lo studio dei retrovirus ha consentito di identificare più di 50 oncogeni,
evidenziando come essi fossero coinvolti proprio in quelle funzioni cellulari
che si era previsto fossero perturbate nei tumori.
Possiamo distinguere cinque classi principali di oncogeni:
 Fattori di crescita secreti
 Recettori della superficie cellulare
 Componenti di sistemi intracellulari di trasduzione del segnale
 Proteine nucleari che si legano al DNA (fattori di trascrizione, ecc.)
 Componenti del circuito delle cicline, chinasi ciclina-dipendenti e
inibitori delle chinasi (che governano la progressione del ciclo
cellulare).
Attivazione dei proto-oncogeni (1)
L’attivazione dei proto-oncogeni può essere:
 Quantitativa - con un aumento cioè della produzione di un prodotto non
modificato.
 Qualitativa - con produzione di un prodotto leggermente modificato in seguito ad
una mutazione o alla formazione di un nuovo prodotto da un gene chimerico
creato da un riarrangiamento cromosomico.
Questi cambiamenti sono dominanti e normalmente interessano solo uno degli alleli
di un gene.
Negli oncogeni le mutazioni attivanti sono quasi invariabilmente mutazioni
somatiche, in quanto mutazioni costituzionali sarebbero probabilmente letali.
Attivazione a seguito di mutazioni puntiformi
Un esempio è il gene HRAS, che appartiene alla famiglia dei geni ras, coinvolti nella
trasduzione del segnale a partire da recettori accoppiati alla proteina G. Il segnale
che perviene al recettore attiva il legame del GTP a RAS ed il complesso GTP-RAS
trasmette il segnale ad altri fattori a valle di questo sistema. RAS ha attività
GTPasica e rapidamente converte il complesso GTP-RAS in GDP-RAS
funzionalmente inattivo. Mutazioni puntiformi che alterano la funzione GTPasica di
RAS ne limitano l’inattivazione determinando una eccessiva risposta della cellula al
segnale proveniente dal recettore.
Attivazione dei proto-oncogeni (2)
Traslocazioni cromosomiche che possono creare geni chimerici
Tipicamente le cellule tumorali hanno cariotipi grossolanamente alterati. La
maggior parte di questi cambiamenti sono casuali è riflettono una generica
instabilità del genoma che è componente normale della carcinogenesi.
Sono stati tuttavia caratterizzati riarrangiamenti tumore-specifici.
Il più conosciuto produce il cromosoma Filadelfia (Ph1), un piccolissimo
cromosoma acrocentrico presente nel 90% dei pazienti con leucemia
mieloide cronica.
Il cromosoma Filadelfia è il prodotto di una traslocazione bilanciata (9;22).
Sul cromosoma 9 il punto di rottura è in un introne dell’oncogene ABL. La
traslocazione lo unisce al gene BCR sul cromosoma 22 creando un gene
chimerico il cui prodotto è una proteina di fusione, una tirosina chinasi
correlata ad ABL ma con anomale proprietà trasformanti (non risponde più
ai normali controlli).
Si conoscono molti riarrangiamenti che producono geni chimerici o anche
pongono oncogeni in un contesto cromatinico attivamente trascritto come
ad esempio i geni per le immunoglobuline nei linfociti.
Geni oncosoppressori
Esperimenti di fusione in vitro tra cellule neoplastiche e cellule normali, ha
evidenziato che, in alcuni casi, il fenotipo trasformante può essere corretto.
Ciò ha fornito la prova che lo sviluppo dei tumori non dipende solo da
oncogeni attivati dominanti, ma anche da mutazioni recessive che
conducono alla perdita di funzione di altri geni. Questi sono appunto i geni
soppressori dei tumori (tumor suppressor TS gene).
Il meccanismo con cui i geni TS vengono inattivati è spiegato dall’ipotesi
del doppio colpo di Knudson (1971), confermata da studi successivi che
hanno interessato in particolare il retinoblastoma, un raro e aggressivo
tumore infantile della retina. Per questo esiste un 60% di casi sporadici
unilaterali e un 40% di casi ereditari. Nei casi familiari non sono infrequenti
i tumori bilaterali.