Differenze, disuguaglianze, identita, Ais Urbino

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Capire le differenze
Urbino, 13-15 settembre 2007
Differenze, disuguaglianze, identità: dalle politiche della
differenza a pratiche di multiculturalismo quotidiano
Enzo Colombo
La differenza, insieme all‟identità e alla cultura a cui risulta legata in modo
inestricabile, sembra costituire una cifra distintiva della contemporaneità occidentale.
Gran parte dei dibattiti, delle preoccupazioni, delle azioni politiche e dei conflitti
sembra ruotare intorno al tema della difesa, della rivendicazione o del riconoscimento
della differenza.
In questo intervento vorrei brevemente ricostruire la genesi e lo sviluppo delle
cosiddette politiche della differenza (o politiche dell‟identità), evidenziandone i legami
con le più ampie trasformazioni sociali – i nuovi movimenti sociali, il superamento del
modello fordista di produzione e di mercato, la svolta epistemologica nelle scienze
sociali alla fine degli anni sessanta e, successivamente, a partire dalla fine degli anni
ottanta quando il tema delle politiche della differenza si salda al tema del
multiculturalismo, la fine del bipolarismo e della Guerra fredda, il diffondersi della
prospettiva post-coloniale e post-strutturale, l‟intensificarsi dei processi di
globalizzazione.
Vorrei quindi affrontare una delle critiche principali che il diffondersi delle
politiche della differenza ha sollevato, cioè la controversa relazione che la differenza
mantiene nei confronti della disuguaglianza, per alcuni un necessario superamento di
una visione eccessivamente materialistica della società, per altri un occultamento delle
profonde determinanti della stratificazione sociale che garantisce un efficace
mantenimento dello status quo.
Infine, nell‟ultima parte dell‟intervento, se il tempo me lo concederà, vorrei
proporre alcuni elementi di riflessione per una definizione sociologica della differenza
che, a partire dalla vita quotidiana, ne evidenzi il carattere ambivalente – di vincolo e
risorsa – e consenta di concentrare l‟attenzione sui contesti empirici specifici di
relazione in cui la differenza assume sempre più il carattere di posta in gioco politica
per la definizione delle situazioni e per la definizione delle relazioni asimmetriche di
potere.
Le politiche della differenza
Sebbene molti autori – tra questi Melucci (2000) e Stuart Hall (2000) – tendano a
collegare l‟emergere delle politiche della differenza alla fine del bipolarismo e della
Guerra fredda, al consolidarsi del post-colonialismo e all‟intensificarsi dei processi di
globalizzazione avvenuti alla fine degli anni ottanta, ritengo utile, con altri come Bianca
Beccalli (1998) o Simonetta Piccone Stella (2003), rintracciare il seme di una
rielaborazione culturale della differenza alla fine degli anni sessanta, in connessione con
l‟azione dei nuovi movimenti sociali, con le trasformazioni postfordiste e con la
cosiddetta svolta epistemologica nelle scienze sociali, fenomeni che convergono nel
mettere in discussione un aspetto centrale della modernità occidentale: la possibilità –
l‟inevitabilità – di un modello unico, indiscusso, oggettivo e autorevole, da utilizzare
come unità di misura per la lettura della realtà, la sua valutazione e la costruzione di
progetti futuri.
A scopo analitico potrebbe essere utile cercare di suddividere in tre dimensioni il
percorso dell‟affermarsi del tema della differenza, senza per questo suggerire che esse si
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succedano cronologicamente in forma evolutiva, lasciando che la nuova dimensione
emerga solo dopo completo esaurimento o superamento della precedente. Come
osservano Bianca Beccalli e Simonetta Piccone Stella, l‟uso che i nuovi movimenti
sociali hanno fatto della differenza risulta faticoso, contraddittorio e polivalente, sfugge
quindi a ogni eccessiva semplificazione analitica.
Nonostante queste precauzioni, è forse comunque utile separare una prima
dimensione – che potrebbe essere definita, seguendo Gergen (1999: 42), una
dimensione che enfatizza la resistenza – la quale segna una trasformazione nel modo di
considerare la differenza: da retaggio della tradizione che frena il pieno sviluppo e la
piena partecipazione alla società moderna a prodotto della costruzione del discorso
dominante che, foggiando in forma sminuita, incompleta e subordinata l‟immagine delle
minoranze riproduce e consolida il dominio.
Una seconda dimensione – che tende ad enfatizzare l‟autonomia – in cui alla
denuncia del carattere oppressivo prodotto della rappresentazione negativa della
differenza fatta dai gruppi maggioritari si affianca, nell‟azione collettiva delle
minoranze, la produzione di una propria auto-rappresentazione, che valorizza le
specificità e fonda la possibilità di un discorso “alternativo” rispetto a quello dominante.
Infine, una terza dimensione – che tende ad enfatizzare la performance – in cui la
definizione della differenza viene vista non come una caratteristica essenziale e
immutabile ma come una realizzazione pratica continua, la posta in gioco del confronto
politico; una possibile risorsa – nella sua irriducibile ambivalenza – orientata a
destabilizzare le opposizioni simboliche che sono alla base delle differenziazioni di
gruppo esistenti (Fraser 2007)
La prima dimensione – quella di resistenza – è caratteristica dell‟azione dei primi
movimenti sociali, una fase storica caratterizzata dalla comparsa sulla scena pubblica di
nuovi soggetti sociali – giovani, donne, neri, omosessuali – che utilizzano la differenza
come critica all‟elite dominate, sia evidenziando la distanza tra le affermazioni di
principio – l‟esistenza di una società egualitaria e la mancanza di vincoli strutturali al
successo dei più meritevoli e dei più capaci – e la realtà dei fatti – fatta di
emarginazione ed esclusione nei campi dell‟educazione, del lavoro e della
partecipazione alla vita sociale, sia evidenziando come la rappresentazione delle
minoranze fatta dal gruppo maggioritario sia carica di pregiudizi e veicoli un‟immagine
negativa che impedisce un pieno sviluppo dell‟autostima e una piena partecipazione
“alla pari” alla vita sociale (Fanon 1961). In questa fase i movimenti sociali tendono a
utilizzare la differenza come strumento critico che illumina il carattere iniquo e
asimmetrico della società: evidenziando la presenza della differenza mettono in
discussione sia l‟equità della società sia il carattere razzista e discriminatorio della
maggioranza, incapace di riconoscere gli aspetti positivi delle minoranze.
La differenza è qui utilizzata principalmente per veicolare richieste di inclusione e
di revisione delle regole vigenti in senso universalistico, atte a garantire un‟effettiva più
ampia partecipazione delle minoranze. Il movimento per il riconoscimento dei diritti
civili guidato da Martin Luther King (2000) manifestava per il riconoscimento per i neri
di eguali diritti basati su diritti civili, cioè sulla premessa di una cittadinanza eguale e
individuale (Baumann 2003: 9), la differenza era vista come il risultato delle pratiche
discriminatorie, come costruzione ideologica che legittima il dominio del gruppo
maggioritario dominante, occultandone l‟azione di potere. Anche il movimento
femminista e omosessuale avanzano richieste simili: utilizzano la differenza come
manifestazione evidente della volontà di esclusione del gruppo dominante, che
costruisce l‟altro come inferiore, incompleto, dipendente per giustificare il proprio
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dominio. L‟origine della discriminazione non è solo materiale, basata sui rapporti di
forza e sulle capacità di mercato, ma soprattutto simbolica, basata su un
misconoscimento dei gruppi minoritari che impedisce loro di sviluppare l‟autostima e
l‟autonomia necessaria a costituirsi come soggetti eterodiretti e di partecipare alla pari
alla vita sociale. Questa dimensione delle politiche della differenza tende a sottolineare
l‟inconsistenza della distinzione tra pubblico e privato, segnalando l‟importanza di
riconoscere il privato come problema pubblico, cioè di ottenere attenzione pubblica per
le particolarità, e di riconoscere la dimensione pubblica del vissuto privato,
trasformando i temi del corpo, della sessualità, dei desideri, delle scelte personali in
questioni di rilevanza pubblica (Zaretsky 1995).
Qui, le politiche della differenza rimandano sostanzialmente a un lavoro di
decostruzione dei gruppi maggioritari e della loro idea di “normalità”: sono impegnate
nel mostrare il carattere discriminante – sessista, razzista e classista – di ogni cultura,
incluse le culture maggioritarie che tendono invece a rappresentarsi come universali,
aperte, eque. Nelle versioni più contemporanee, questa dimensione sembra
caratterizzare l‟uso della differenza come forma di pedagogia critica che consente di
decostruire le relazioni di potere e di dominio legando le dimensioni strutturali alle
intuizioni post-strutturaliste sulla natura della soggettività come soggetti e oggetti dei
discorsi e delle rappresentazioni, incorporando l‟interesse marxista per l‟azione politica
dei gruppi di opposizione (Berstein 2005).
La seconda dimensione – quella di autonomia – rimanda a un‟azione collettiva che
ha come obiettivo una più radicale critica al gruppo dominante. Non si tratta
semplicemente di denunciare uno iato tra le affermazioni di principio – eguaglianza,
equità tolleranza – e la realtà dei rapporti sociali che caratterizzano l‟ideologia e la
prassi di molti gruppi maggioritari ma di mettere in evidenza che la loro aspirazione
universalistica è necessariamente locale e particolare e che la loro dichiarata equità e
volontà di inclusione ha come costo implicito l‟omologazione al modello maggioritario.
In questo caso, la differenza non è più una rappresentazione negativa che deve essere
superata, perché il suo superamento ha come contropartita l‟omologazione nel modello
del gruppo dominante. La differenza deve invece essere intesa come specificità, come
differenza di valore rispetto al gruppo dominante. Riappropriarsi della propria
specificità e valorizzarla divengono i prerequisiti per l‟autonomia e il pieno sviluppo
della soggettività individuale e collettiva. Black is beautiful diviene lo slogan dominate
che riassume questo diverso aspetto delle politiche della differenza: la propria unica
differenza come orgoglio, come elemento caratteristico e costitutivo a cui non è
possibile rinunciare senza perdere la possibilità di essere se stessi.
In questa fase, le politiche della differenza divengono spesso sinonimo di
separazione, di costruzione di confini netti che distinguono qualitativamente da ogni
altro gruppo sociale. La richiesta principale non è il riconoscimento di diritti civili su
base individuale, né l‟inclusione “alla pari” alla vita sociale, ma il riconoscimento della
specificità comunitaria e di diritti collettivi (essere accettati per ciò che si è), spesso
orientati alla richiesta di autonomia (solo i neri sono autorizzati a parlare per i neri, solo
le donne a parlare per le donne). Si sottolinea l‟importanza di vedersi riconosciuti spazi
auto-organizzati, separati e sicuri, in cui trovarsi e confrontarsi tra soggetti che
condividono la condizione di esclusione costituisce un necessario momento di crescita e
di liberazione (gruppi di auto-coscienza).
Iris Marion Young (1996: 208) esprime chiaramente questa posizione:
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«una politica che affermi la positività della differenza di gruppo è liberatoria e
legittimante. Con il gesto di riappropriarsi dell‟identità che la cultura dominante ha
insegnato loro a disprezzare, proclamandola un‟identità da esaltare, gli oppressi si
liberano della loro doppia coscienza: sì, io sono ciò che loro dicono che sono, un
ragazzo ebreo, una ragazza di colore, una checca, una lesbica, una befana, e me ne
vanto! Non mi propongo più di cercare di diventare quello che non sono in una
situazione in cui il fatto stesso di provarci non fa che rammentarmi quello che sono. La
politica della differenza afferma che i gruppi oppressi hanno culture, esperienze e
ottiche distinte e dotate di un significato umano positivo, per alcuni aspetti forse
addirittura superiore alla cultura e all‟ottica della maggioranza. E che il rifiuto e la
svalutazione della propria cultura e della propria ottica non deve essere una condizione
necessaria per la partecipazione a pieno titolo alla vita della società»
La richiesta di riconoscimento della specificità porta spesso a enfatizzare le
differenze, favorendo forme di integralismo, e a favorire la loro proliferazione: diviene
plausibile e vantaggioso rivendicare specificità sempre più particolari favorendo una
moltiplicazione delle differenze.
Nella sua versione meno radicale, questa dimensione è caratteristica dei nuovi
movimenti sociali che puntano soprattutto sulle dimensioni espressive dell‟azione e
fanno dell‟identità uno dei fini dell‟azione politica (Melucci 1982, 1996). La differenza
serve come elemento critico da cui partire per sostenere ed esplorare l‟identità
individuale e collettiva dei soggetti e per sperimentare nuove forme di espressione e di
comunicazione; serve come strumento per contrastare la colonizzazione del mondo della
vita da parte delle strutture, riflesso dei gruppi dominanti, e trasformare così la società
civile (Bernstein 2005: 54). Le politiche della differenza servono dunque non solo ad
ampliare lo spazio della partecipazione e dell‟inclusione ma anche a rendere politici
spazi di vita precedentemente considerati dominio privato, escluso dalla politica
(sessualità, relazioni interpersonali, stili di vita, dimensioni simboliche e culturali).
Queste due dimensioni sembrano caratterizzare soprattutto le rivendicazioni
collettive di riconoscimento della differenza negli anni sessanta e settanta e, oltre
all‟azione dei nuovi movimenti sociali, sono sicuramente connesse alle trasformazioni
del modello produttivo fordista; all‟affermarsi di forme di produzione e di consumo
centrate sul cliente che enfatizzano la sua capacità di scelta e l‟unicità dei suoi
comportamenti di consumo. Influente è pure lo sviluppo della prospettiva
fenomenologica (Berger e Luckmann 1966), della teoria etnometodologica (Garfinkel
1967) e di quella drammaturgica (Goffman 1959) che mettono in luce come la realtà
sociale sia il risultato di pratiche e procedure che la costituiscono come realtà data e non
problematica. Evidenziano che ciò che appare come ontologico e universale è, in realtà,
il risultato di una costruzione sociale, di una continua opera di revisione, modifica,
aggiustamento che è profondamente radicata nella condizione storica e culturale
particolare di ogni specifico gruppo sociale e trova il suo ambito principale di
espressione nell‟esperienza del mondo della vita quotidiana. L‟antropologia
interpretativa (Geertz 1973), inoltre, sottolinea che valori, conoscenze e verità sono
relative, dipendono cioè dal contesto sociale e culturale entro cui sono prodotte.
Alla fine degli anni ottanta nuove trasformazioni sociali contribuiscono a riorientare
le politiche della differenza saldandole con le discussioni sulle società multiculturali. Il
primo elemento è dato dal crollo del muro di Berlino e dalla fine della Guerra fredda
(Melucci 2000, Hall 2000): il declino di un modello alternativo allo sviluppo
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occidentale ha lasciato riemergere, sul piano culturale, antiche tensioni irrisolte e ha
moltiplicato le faglie di contrapposizione. Privato di una controparte a cui opporsi
nettamente traendone identità e unità, il modello occidentale risulta indebolito e lascia
spazio a una molteplicità di riarticolazioni e contestazioni locali. Un secondo elemento è
dato dall‟intensificarsi dei processi di globalizzazione che alimentano nuovi flussi
culturali globali (Appadurai 2001: 52) e colorano in modo nuovo l‟esperienza
migratoria. La differenza diviene un‟esperienza quotidiana e la contrazione delle
dimensioni spazio temporali rende sempre più complesso identificare un luogo centrale
che possa fungere da modello e da punto di riferimento. La molteplicità e la variabilità
diventano un elemento ricorrente dell‟esperienza quotidiana lasciando spazio all‟idea
che siano i soggetti stessi, e non un modello precostituito, a definire le scelte e gli
orientamenti delle loro azioni pratiche, oppure sollecitando nostalgiche aspirazioni a
recuperare una stabilità e un‟unità che si immaginano perdute. In ogni caso, la
differenza – in quanto vincolo o risorsa, come distinzione da raggiungere o da difendere
– diventa una preoccupazione costante. Non marginale è anche l‟influenza delle
prospettive post-coloniali (Robert J.C. Young 2005) e post-strutturaliste (Hall 2006,
Belsey 2002) che sottopongono a critica i modi dominanti di pensare i rapporti tra
mondo occidentale e non occidentale, decostruiscono le categorie che definiscono il Noi
e il Loro e pongono al centro della riflessione il tema dell‟Alterità. L‟attenzione centrale
data al linguaggio e, più in generale, ai discorsi e alle rappresentazioni evidenzia il
carattere costruito delle categorizzazioni e la loro capacità performativa, nonché la
stretta relazione tra modi di narrare, modi di conoscere e potere.
Queste trasformazioni favoriscono una nuova sfumatura nelle politiche della
differenza, che evidenzia il carattere di costruzione sociale della differenza e ne
evidenzia lo stretto legame con il potere. Questa terza dimensione – quella della
performance – parte da una critica all‟essenzialismo che caratterizza le dimensioni
presentate in precedenza. In questo caso la critica è spesso interna i gruppi minoritari:
sono, ad esempio, le donne di colore o i transessuali che mettono in discussione la
possibilità di “una” specifica differenza che caratterizzi tutte le donne e denunciano
l‟opera di reificazione di modelli di femminilità o di differenze di genere che sono in
realtà socialmente costruiti e rappresentativi di una parte ben specifica di individui (bell
hooks 1998).
Le politiche della differenza che enfatizzano l‟autonomia sono accusate di
rafforzare le logiche di esclusione che stanno alla base di ogni demarcazione di
differenza piuttosto che ridefinire le componenti culturali e simboliche che le
costituiscono: rovesciare le categorie dicotomiche, considerando positivo ciò che la
maggioranza considera negativo, non ha che l‟effetto di consolidare il valore della
distinzione, costituita e funzionale alla maggioranza, non è in grado di sfidare in modo
fondamentale il potere, mettendone in discussione la logica e i processi attraverso cui da
forma di naturalità alla propria costruzione della realtà. L‟unico modo efficace per
incidere sulle fonti dell‟oppressione e del dominio è un lavoro continuo di messa in
discussione delle categorie, dei confini e delle logiche della costruzione delle differenze.
Nella sua versione postmoderna più radicale, la differenza costituisce un potente
strumento di decostruzione delle categorie sociali: l‟azione sociale efficace consiste in
un gioco continuo di spiazzamento, in una miscelazione dei confini, in una produzione
senza fine di ibridi come unico modo per sfuggire alle convenzioni e ai vincoli del
potere maggioritario. Le politiche queer, l‟azione performativa trasgressiva che rimette
in discussione le categorie che creano la norma (Butler 1990, 1993) costituiscono un
esempio paradigmatico di queste nuove forme di uso della differenza.
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Al di là di alcuni eccessi postmoderni, evidenziare la dimensione delle performance
consente di porre in primo piano due elementi centrali: la dimensione del potere e il
carattere di costruzione sociale di ogni differenza.
Il primo elemento consente di evidenziare come le differenze che hanno rilevanza
sociale, lontano dall‟essere semplice riflesso di distinzioni naturali e necessarie,
costituiscono il modo in cui il potere arriva a costituirsi e a stabilizzarsi. La differenza
diviene un elemento indispensabile per dare forma all‟infinità priva di senso del
divenire del mondo, per parafrasare Weber (1958), il gancio che consente al potere di
fissarsi e di esercitare forme di dominio e di esclusione. Un‟efficace lotta alla
discriminazione e al dominio consiste nel continuo interrogare l‟apparente naturalezza
delle strutture, sfidandole dove essere si radicano e si nascondono: nel senso comune,
negli habitus, nelle pratiche quotidiane più banali e abitudinarie.
Il secondo elemento consente di evidenziare che ogni differenza ha un carattere
storico, contingente, non assoluto; è il risultato di pratiche situate di soggetti storici
specifici, assemblaggi di materiali, discorsi e simboli irriducibili a un‟essenza stabile e
universale (Moore et al. 2003: 3). Questo consente di concentrare l‟attenzione
sull‟utilizzo “pratico” – specifico, situato – della differenza piuttosto che disquisire sul
suo carattere essenziale o di prodotto sociale, sulla sua presunta verità o falsità.
La sfida posta da questa terza dimensione delle politiche della differenza appare più
radicale. Non si tratta solo, come per la dimensione di resistenza, di richiedere una più
efficace inclusione e un superamento delle barriere formali, né, come per la dimensione
di autonomia, di sostenere la possibilità di decidere autonomamente il proprio destino e
di avere spazi protetti e isolati entro cui coltivare la propria specificità, ma della
richiesta di rimettere in discussione le regole stesse dello stare insieme: la richiesta non
è più “rispettami per ciò che sono”, ma “rivediamo le regole su cui si fonda il nostro
vivere comune e i privilegi che consentono le posizioni di dominio” (Hall 2006; Piccone
Stella 2003). Le dimensioni del conflitto tra posizioni e visioni del mondo e della lotta
per l‟egemonia culturale diventano elementi costitutivi di una società multiculturale.
Differenze e disuguaglianze
Una delle critiche ricorrenti nei confronti delle prospettive che utilizzano la
categoria di differenza è quella di occultare il tema della disuguaglianza (Gitlin 1995;
Procacci 1998, 1999). L‟ampiezza del dibattito e la rilevanza della questione non
consentono, qui, che un accenno irrimediabilmente semplicistico. Le posizioni neomarxiste sottolineano che lo spostamento sul piano culturale favorito dall‟idea di
differenza occulta le dimensioni strutturali, principalmente materiali, delle asimmetrie
sociali e del dominio, inoltre un‟insistenza sulla particolarità frantuma il fronte degli
oppressi, esaltandone le differenze e occultandone gli interessi comuni, impedendo loro
di agire in modo comune contro il gruppo dominante. Le posizioni liberali evidenziano
come una precoce e sbrigativa liquidazione di un orizzonte di eguaglianza universale, a
favore di un‟esaltazione delle differenze, rischi di condurre verso un relativismo
radicale in cui la mancanza di parametri condivisi rende impossibile non solo
interrogarsi su qualsiasi statuto di verità ma rende altresì impossibile un dialogo e un
confronto tra posizioni concepite come sostanzialmente incommensurabili. Eliminare
l‟orizzonte di una uguaglianza universale significa inoltre eliminare una delle possibili
fonti che hanno permesso e incoraggiato le lotte sociali per l‟affermazione dei diritti e
della democrazia.
Al di là di queste critiche, soprattutto rivolte a una politica della differenza che
rimanda alla dimensione dell‟autonomia, le studiose e gli studiosi contemporanei
sembrano concordare nel sottolineare la falsità e la non necessità di una distinzione
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radicale tra differenza e disuguaglianza (Piccone Stella 2003; Cooper 2004). Il
riconoscimento che disuguaglianza e differenza costituiscono spesso due facce della
medesima medaglia è comunque bel al di là dal fornire un quadro teorico e strumenti
empirici adeguati all‟analisi delle reali condizioni delle discriminazioni nelle società
contemporanee. Le argomentazioni più note che orientano in questa direzione sono
quelle di Nancy Fraser nonché il dibattito che evidenzia l‟intersezione tra classe, genere
e etnicità.
Fraser (1997, 2004; Dahl et al. 2004) ricorre alla proposta di sviluppare uno
sguardo integrato che consenta di distinguere analiticamente, ma di riconoscerne i
legami reciproci nella realtà empirica, la dimensione materiale (connessa a ciò che
Fraser definisce il problema della redistribution), la dimensione culturale (il problema
della recognition) e la dimensione politica (il problema della representation, cioè del
frame che definisce il senso delle richieste di redistribuzione e di riconoscimento, i
soggetti autorizzati ad avanzare tali richieste, nonché le regole valide per le domande e
per le soluzioni). Per Fraser, la divisione tra una politica culturale di riconoscimento e
una politica sociale di giustizia ed eguaglianza – su cui si basa la discussione sulla
politica della differenza – ignora le interconnessioni dell‟ingiustizia socioeconomica
radicata in modelli sociali di rappresentazione, interpretazione e comunicazione.
Etnicità e genere costituiscono collettività “ambivalenti”, cioè gruppi influenzati sia
dall‟economia politica sia dalle strutture di valutazione culturale della società, nonché
dalle lotte politiche per la definizione delle regole comuni (Berstein 2005: 53).
L‟interconnessione tra le dimensioni economiche, culturali e politiche assunte dalla
disuguaglianza nel mondo contemporaneo che Fraser sviluppa su un registro normativo,
sono ulteriormente sviluppate in direzione analitica dalle riflessioni sulle relazioni tra
classe, genere ed etnicità (Gimenez 2001). In questo caso il concetto centrale è quello di
collocazione sociale (social location) (Anthias 2002: 284) che assume l‟esistenza delle
differenza ma senza considerarle fisse; esse sono invece concepite come dinamiche,
dipendono dai contesti e dai significati. Le differenze di classe, di genere e di
appartenenza etnica sono realizzazioni pratiche, performance; un mezzo sia per
giustificare le più fondamentali divisioni della società, sia per dare senso alla realtà
quotidiana (West, Fenstermaker 1995). Non si tratta di categorie analitiche indipendent i
i cui effetti possono essere semplicemente sommati, nella loro articolazione
costituiscono piuttosto un “luogo” da cui si parla e si fa esperienza della realtà.
In quest‟ottica, le politiche della differenza non costituiscono una negazione delle
disuguaglianze materiali, costituiscono piuttosto una forma specifica, valutabile nella
sua dimensione pratica, di costruzione di disuguaglianza o di contestazione e resistenza.
Piuttosto che costituire degli a priori che determinano le condizioni e le azioni dei
soggetti, le differenze sono considerate sia dei vincoli imposti dai contesti e dalle
situazioni storico-sociali in cui si agisce, sia il risultato concreto di pratiche continue di
differenziazione e di definizione di confini.
Forme di multiculturalismo quotidiano
La concezione delle differenze come pratiche situate, come performance e come
elementi che definiscono il frame delle interazioni, contemporaneamente il risultato
dell‟interazione e la cornice che consente di dare senso all‟interazione – aprendo e
chiudendo possibilità di azione –, consente di superare sia una visione reificata della
differenza – qualcosa che si ha e che determina i comportamenti – sia una visione
eccessivamente fluida – qualcosa che può essere fatto o disfatto senza costi.
Questo consente di pensare alle politiche della differenza in modo diverso rispetto
alle dimensioni evidenziate in precedenza. Mentre le dimensioni della resistenza e
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dell‟autonomia tendono a reificare le differenze, considerandole qualcosa di essenziale
e favorendo l‟idea che siano gli elementi costitutivi di base della nostra attuale identità,
qualcosa che abbiamo ottenuto come bagaglio dalla natura o dalla nostra più antica e
sacra storia collettiva e che abbiamo l‟obbligo di sviluppare e di proteggere dal degrado
e dalla dissoluzione, la dimensione della performance rischia di trasformare le
differenze in qualcosa di puramente contingente e, alla fine, irrilevante, un gioco
continuo che non può avere soluzione ne stabilizzazione, se non in relazioni di dominio.
Questo porta ad esaltare la portata innovatrice dell‟ibrido e della trasgressione, a
considerare ogni trasformazione sempre progressista, ignorando il possibile carattere
reazionario e regressivo di nuove forme di distinzione d i nuovi confini (West 1992;
Anthias 2001).
La prospettiva delle pratiche situate consente di mantenere una visione
costruzionista della differenza – che dipende quindi dalle condizioni storiche e sociali e
su questo terreno può essere contestata e trasformata – ma prendendo sul serio la
rilevanza e gli effetti concreti che tale costruzione produce – considerando cioè la
produzione sociale della differenza come produzione di “fatti sociali”, che come tali
hanno implicazioni reali nella vita delle persone. Riconosce cioè che i processi di
produzione sociale di distinzione e di definizione di confini hanno rilievo sociale nel
momento in cui producono effetti e si presentano come stabili, il più possibile naturali e
indiscussi. Questa aspirazione a una posizione egemonica è tuttavia sempre precaria e
raggiungibile in forma provvisoria: ogni costruzione di differenza può essere utilizzata e
confermata o, potenzialmente, essere contestata e modificata. È in questo spazio di
utilizzo e di resistenza che si manifesta la capacità di azione individuale e collettiva.
Questa prospettiva consente un approccio che tratta la cultura stessa come un luogo
di battaglia politica, uno strumento analitico che enfatizza potere, processo e pratiche.
Le pratiche culturali hanno effetti politici tangibili: forgiano comunità, riproducono
disuguaglianze, giustificano esclusioni. Tuttavia forniscono anche i mezzi per mettere in
discussione questi stessi effetti. Le politiche della differenza insistono sul fatto che
questi conflitti sono contemporaneamente materiali e simbolici, prendendo sul serio i
legami che uniscono segni fugaci a pratiche incorporate e a corpi viventi (Moore et al.
2003).
Come sottolinea Melucci (2000), l‟autonomia individuale è oggi una risorsa
centrale perché il modo di definire/nominare i problemi è già parte della loro possibile
soluzione, il conflitto si sposta dal possesso materiale dei beni e della risorse alle
modalità simboliche con cui si definisce la realtà, si nomina ciò che costituisce un bene
o una risorsa, e il modo in cui si nominano i soggetti che ne possono (o meno) disporne.
In questo contesto, in cui risultano rilevanti le capacità personali, cioè le risorse a
disposizione dei singoli per pensarsi e per agire come soggetti autonomi, la differenza
assume il carattere di risorsa politica, che gli attori individuali e collettivi possono
utilizzare od occultare in base agli obiettivi e agli interessi, nel tentativo di confermare o
contestare le differenze significative che strutturano un particolare contesto sociale.
Questo consente di mantenere il carattere ambivalente della differenza – capace di
veicolare esclusioni e richieste di riconoscimento – e il suo carattere aperto – in base ai
contesti e ai modi in cui se ne fa esperienza genere, etnicità, classe e ogni altra forma di
distinzione possono assumere significati diversi che possono essere confermati o
contestati, pur senza rinunciare a riconoscere il suo carattere vincolante:
un‟affermazione di differenza ha successo quando traccia un confine socialmente
significativo, definisce categorie e discriminazioni, limita le possibilità e vincola i
comportamenti.
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L‟attenzione alle dimensioni di risorsa politica assunte dalla differenza nella società
contemporanea orienta l‟analisi verso situazioni di multiculturalismo quotidiano
(Colombo, Semi 2006), cioè verso situazioni empiriche in cui la differenza viene
utilizzata – in modo tattico, strategico e come forma di resistenza – per dare senso alle
interazioni che avvengono in contesti già strutturati da definizioni della differenza che
tracciano confini e distribuiscono in modo asimmetrico le possibilità di azione.
Le politiche della differenza, così riviste, costituiscono uno spazio specifico e
rilevante di interazione nella società contemporanea, uno spazio di comunicazione e di
conflitto che ha come posta in gioco sia la definizione della situazione e dei suoi attori,
sia la regolazione degli accessi a beni materiali e simbolici.
Bibliografia
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