RICERCA SULLA “LAPIS POLLAE” O “ELOGIUM”
“I Romani posero ogni cura in tre cose soprattutto,
che dai Greci furono trascurate,
cioè nell’aprire le strade, nel costruire acquedotti
e nel disporre nel sottosuolo le cloache”.
(Strabone -Geografia - v, 3.8)
Lo studio che qui si presenta ha preso l’avvio dalla semplicissima operazione di
leggere le pagine di un libro, il libro che la storia ha scritto nei secoli nel nostro
territorio. La pesante, quasi definitiva pagina scritta dai romani è stata sfogliata, e ci
si è presentato innanzi un panorama strano, inconsueto, spoglio. Ma non vuoto.
Non tutto è andato perduto: alcuni labili segni sono resistiti, ora un toponimo, ora
una lapide, ora una confinazione, poco più che una ruga nel volto della nostra
ampia campagna, poiché piccoli indici riconoscibili da appassionati ed esperti
ricordano l’era in cui a dominare non era il fondo romano, così abilmente tracciato,
ma un panorama palustre e silvestre in cui una civiltà umana aveva trovato il modo
di sopravvivere e di organizzarsi.
Un'iscrizione antica riassume in poche righe la storia di una vita: ogni singola
parola può celare vicende complesse, un'identità sociale pazientemente costruita o
un intero mondo di relazioni. È mio intento con questo contributo cercare di
ricostruire nella sua ricchezza la storia che ci è raccontata da uno dei più importanti
documenti epigrafici esistenti, il “Lapis Pollae” detto anche “Elogium”. È una pietra
miliare di origine romana, ubicata nel territorio del comune di Polla, che fornisce
informazioni sulle distanze intercorrenti tra le città che si incontrano lungo il suo
percorso, oltre che su aspetti logistici e storici di notevole importanza. Prima di
parlarne, vorrei però soffermarmi brevemente sul vastissimo sistema viario che i
romani crearono sull’intero territorio dell’impero. È noto che la prima vera
rivoluzione nei sistemi di comunicazione terrestre si ha in epoca romana, con la
trasformazione dei tracciati di epoca preistorica in vere e proprie strade. Nelle
regioni dell’Italia meridionale, come la Lucania, il Bruzio e la Campania, prima della
conquista romana non esisteva un sistema viario vero e proprio, stabile e regolare,
ma soltanto vie pastorizie, i tratturi, utilizzate per la transumanza stagionale delle
greggi e sentieri che mettevano in comunicazione le zone interne con le regioni
costiere tirreniche. Le piste naturali, ovviamente antichissime, servivano lo scambio
dei prodotti provenienti dai territori interni con i manufatti forniti dal commercio
marittimo, dalle fabbriche greche e da quelle indigene operanti sotto l’influsso
magno-greco. A partire dal II secolo a. C., dopo la conquista della Magna Grecia da
parte di Roma, i vecchi tratturi e le piste in genere furono trasformati gradualmente
in strade per la maggior parte pavimentate di ghiaia (glarea strata). A partire da
quella data, la romanizzazione dell’Italia meridionale si completò soprattutto grazie
a due grandi strade consolari di penetrazione: l’Appia, la regina viarum, e quella via
che da essa si originava nell’ager campanus, la Regio-Capuam, conosciuta
comunemente come via Popilia /Annia. La civiltà romana, nei mille anni che l’hanno
vista protagonista, è riuscita a creare un poderoso e ben strutturato sistema viario
di circa 100.000 Km., che, nel corso dell’Alto medioevo, è stato però oggetto di un
enorme degrado. Solo nel pieno Medioevo si realizzò una vera rinascita delle
comunicazioni terrestri. Anche se meno solido del tessuto viario romano, la rete
stradale, che attraversava l’Europa nel medioevo, era un insieme di fasci di tracciati
più o meno instabili: l’uso del carro viene meno, le strade seguono dei percorsi
tortuosi per evitare zone ormai paludose o seguono i crinali per evitare il ricorso ai
ponti.
L’espansione romana, dapprima tra le popolazioni del Lazio e poi nel resto d’Italia e
fuori da essa, è sempre stata accompagnata dalla creazione di una rete stradale a
cui affidare i rifornimenti e gli spostamenti degli eserciti. Da qui la necessità di
realizzare una viabilità distribuita in maniera capillare sul territorio; le strade
pertanto venivano realizzate per durare nei secoli e per questo richiedevano anche
una continua manutenzione1).
Sulla costruzione della strada Regio-Capua possediamo un documento di
eccezionale interesse, il cosiddetto Lapis Pollae, così chiamato perché rinvenuto
nella località di S. Pietro del Comune di Polla, nella parte settentrionale del Vallo di
Diano.
Lo storico Strabone nel suo “Geografia, libro Vl” della via Regio-Capua ne fa cenno,
così delineandone il tracciato, “Tertia via a Regio per Brutios, et Lucanos, et
Sammnium, ducit, et ad Campaniam Appiae jungitur (l’innesco con la via Appia
avveniva a Capua)”.
“Labosum et lutosum”. Così, nella seconda metà del II secolo a.c., il poeta Lucilio
descriveva il percorso della via Regio-Capua. Dunque il tracciato era sdrucciolevole
e fangoso, probabilmente perché somigliava più ad una via campestre che alle altri
grandi vie romane conosciute nell’immaginario collettivo.
Se si pensa poi che la regione, attraversata dalla Regio-Capua, usciva provata dalla
guerra sociale, v’è da pensare che nell’età tardo-repubblicana essendo dotata di
scarse risorse economiche, non esercitava più tanta attrattiva su Roma, padrona
dell’Italia e dominatrice incontrastata dei commerci mediterranei. Se la viabilità
venne a trovarsi in uno stato di progressiva trascuratezza, la mancata manutenzione
di essa fece sì che, per i viaggi e per i commerci, all’itinerario terrestre venisse
spesso preferita la via del mare.
Peraltro, lo stato di abbandono di questa strada è già conosciuto dalle fonti antiche;
oltre Lucilio sopracitato anche Cicerone, in una lettera scritta nel 58 a.c. all’amico
Attico dalle Nares Lucanae (località corrispondente alla Frazione di Zuppino del
Comune di Sicignano degli Alburni), constatava le pessime condizioni della via: “so
che il viaggio è molesto ………”.
Al di là della sua frequente impraticabilità, specie nei periodi invernali, la RegioCapua costituiva indubbiamente uno dei più importanti assi viari dell’Italia
meridionale, al quale si collegavano un gran numero di vie secondarie e diverticoli,
che costituivano la base dell’organizzazione del territorio in età romana.
La situazione della strada nelle varie epoche ha registrato, però, un costante stato
di abbandono , che durò fino all’epoca di Carlo III2).
L’epigrafe, detta “Lapis Pollae” o “Elogium” e ubicata in località Taverne di
Polla,venne incastonata nel 1934 nel monumento che oggi possiamo ammirare nella
sua grandezza. Rappresenta, senza dubbio alcuno, il documento più importante
attestante la romanizzazione del luogo.
Polla: il Monumento della “Lapis Pollae”, detta anche “Elogium”
“Lapis Pollae”: rappresentazione grafica
Il testo della lapide è il seguente:
“Viam fecei ab Regio ad Capuam et / in ea via ponteis omneis, miliarios /
tabelariosque poseivei. Hince sunt Nouceriam meilia LI, Capuam XXCIIII, / Muranum
LXXIIII, Cosentiam CXXIII, / Valentiam CLXXX, ad Fretum ad / Statuam CCXXXI,
Regium CCXXXVII. / Suma af Capua Regium meilia CCCXXI / Et eidem praetor in /
Sicilia fugiteivos Italicorum / conquaeisivei redideique / homines DCCCCXVII
eidemque / primus fecei ut de agro poplico / aratoribus cederent paastores. / Forum
aedisque poplicas heic fecei”.
La traduzione che se ne ricava è la seguente:
“Feci la via da Reggio a Capua e in quella via posi tutti i ponti, i miliari e i tabellari.
Da questo punto a Nocera 51 miglia, a Capua 84 miglia, a Murano 74 , a Cosenza
123, a Vibo Valentia 180, allo Stretto, presso la stazione di Ad Statuam, 231, a
Reggio 237. Distanza totale da Capua a Reggio: 321 miglia. E io stesso, in qualità di
pretore in Sicilia, diedi la caccia e riconsegnai gli schiavi fuggitivi degli Italici, per
un totale di 917 uomini, e parimenti per primo feci in modo che sul terreno
appartenente al demanio pubblico i pastori cedessero agli agricoltori. In questo
luogo eressi un foro e un tempio pubblici”.
Dunque, partendo da Capua, l’antico tracciato attraversava il territorio della
provincia salernitana, toccando Nuceria Alfaterna, Salernum, Picentia, Eburum
(Eboli), Silarus (Ponte Sele), Acerronia (Auletta), Forum Popilii (Polla). La strada,
dopo aver attraversato il Vallo di Diano, entrava nella Lucania, raggiungendo Vico
Mendicoleo (Lagonegro), Nerulum (Rotonda) e di lì il Bruzio con Consentia
(Cosenza), Valentia (Vibo Valentia) per raggiungere infine Regium (Regio Calabria).
Il numero dei tabellarii indicati dalla stessa lapide sono otto, compresi i capi del
percorso, Reggio e Capua. I tabellari, dunque, erano aggiunti ai miliarii, così da
sostituirsi a questi negli otto punti in cui furono sistemati, al cadere esatto del
rispettivo miglio. Da ciò si deduce che, su 321 miglia, si avrebbe un totale di 313
cippi semplici a colonna. Di questi uno solo è noto e trovasi nella contrada di Vibo
Valentia e i restanti otto cippi sono a forma di tabella, dei quali è noto solo quello di
Polla.
Il documento epigrafico è una lastra in marmo di 70 cm. di altezza e 74 cm. di
larghezza ed ha un carattere composito. Per mera scelta di metodo di studio si è
pensato di dividerlo in quattro sezioni. La prima parte dell’iscrizione ci informa della
realizzazione complessa di un’opera pubblica, la costruzione della via ab Regio ad
Capuam, con i suoi ponti e i suoi miliari; la seconda concerne una sezione che
potremmo definire itineraria, che riporta le distanze tra il punto in cui l'iscrizione era
collocata (Polla) e le città di Nuceria e Capua verso nord, Muranum, Cosentia,
Valentia, lo Stretto Ad Statuam (lo stretto, probabilmente corrispondente alla
mansio ad Columnam riferita dall'Itinerarium Antonini) terminando a Regium
(Reggio verso il versante sud); infine viene riportata la distanza totale da Capua a
Reggio. Nella terza parte del documento l'autore, elogiandosi, si vanta di aver
restituito ai legittimi proprietari, nella sua qualità di pretore della Sicilia, 917 schiavi
fuggitivi e di aver distribuito, per la prima volta, porzioni di terreno demaniale agli
agricoltori, sottraendoli ai pastori. Infine, nella quarta ed ultima sezione, l'anonimo
magistrato attesta di aver realizzato proprio nel luogo, in cui si trovava l’epigrafe, un
foro con pubblici edifici, intorno al quale era stato destinato un adeguato spazio
dedicato agli scambi commerciali, sufficiente a dargli quella caratteristica e tipicità
strutturale tale da poter fungere da polo di attrazione e di coagulo per una realtà
urbana.
Il documento si presenta con una rappresentazione grafica contenente numerosi
casi di ei per i puro ed impuro (FECEI bis, PONTEIS, OMNEIS, POSEIVEI, MEILIA,
EIDEM,
FVGITEIVOS,
CONQVAEISIVEI,
REDIDEIQVE,
EIDEMQVE,
HEIC)
accompagnati da un caso di geminatio vocalium (PAASTORES) e ad uno di aei per
ae (CONQVAEISIVEI). Tale composizione grafica ci fa ritenere che l’influenza
dialettale fosse stata rilevante nella zona e che, quindi, un diffuso e marcato idioma
di origine lucana, avesse tipizzato l’idioma del territorio, che però, in epoca
successiva, in seguito alla conquista romana, gradualmente doveva cedere le armi
alla lingua latina.
Un approfondimento di studio merita l’epiteto Tabellarii, cui fa riferimento l’Elogium.
Un canonico teologo della chiesa di Sarno, Nicol’Andrea Siani, nel suo Memorie
storico-critiche sulla città di Sarno, pubblicato a Napoli nel 1816, sull’argomento
così espone: “I Talellarii erano i corrieri, cioè coloro che portavano da luogo a luogo
e da città a città, specialmente per le strade pubbliche e consolari le lettere missive,
le quali perché negli andati tempi si scrivevano sopra tavolette incerate, erano
perciò chiamati Tabellarii questi corrieri, che da luogo in luogo le trasferivano”3).
Il problema maggiore del nostro documento è, però, dato dall'identificazione del suo
autore, il cui nome forse era ricordato su un altro blocco di testo, andato perduto,
identificazione da cui dipende la data di costruzione della strada. Molte sono le
ipotesi avanzate dagli studiosi a questo proposito.
Riproduzione topografica della Lucania del I^ sec. a.c.
Può sembrare risibile ritornare sulla questione del nome, ma non lo è, perché è
doveroso ogni volta fare la caratura di quello che sappiamo, cioè imporci il limite
metodico che deriva dalla precarietà di quello che sappiamo.
Il nome del costruttore della Regio-Capua è stato argomento alquanto discusso e
dibattuto dagli studiosi di epigrafia; la via è stata nel tempo attribuita dai vari
studiosi che se ne sono occupati a ben cinque personaggi diversi: P. Popilio Lenate
(console nel 132 a. C.), Manio Aquilio Gallo (proconsole nel 101 a. C.), T. Annio
Lusco (console nel 153 a.C.), T. Annio Rufo (pretore nel 131 e console nel 128 a.C.).
Oggi, l’attribuzione più diffusa è relativa al console del 132 a.C., ovvero P. Popilio
Lenate, collega di P. Rupilio e noto avversario dei Gracchi; tale identificazione,
sostenuta dallo storico tedesco Mommsen, si basa essenzialmente su tre
argomenti: il primo che riguarda la menzione nella Tabula Peutingeriana di un
Forum Popili nelle vicinanze di Polla, il secondo che è in relazione alla probabile
derivazione del nome del forum da quello del costruttore della via ed, infine, il terzo
che si rifà all’anno del consolato di Popilio, il quale sarebbe intervenuto su
quell’agro pubblico immediatamente dopo l’inizio dell’applicazione della lex agraria
del 133a.c.. Inoltre, sempre secondo lo storico tedesco, Popilio aveva ricoperto la
carica di pretore pochi anni prima e avrebbe potuto benissimo operare in Sicilia
contro i rivoltosi della prima guerra servile. Le critiche rivolte all’identificazione
sostenuta dal Mommsen vertono su un errore di trascrizione dell’autore della
Tabula Peutingeriana, che citerebbe come Forum Popili (la località trascritta
sull’antica mappa stradale è Foro Popili) quello che in realtà sarebbe Forum Populi
come viene ricordato da un geografo medievale, Guidone. Quindi si tratterebbe del
foro del popolo, poiché in quel luogo pianeggiante ubicato nel Vallo di Diano, le
popolazioni della zona evidentemente si radunavano in occasione di riunioni, fiere o
festività solenni. Dobbiamo anche dire che al centro della città di Capua già esisteva
un Forum Populi, denominazione questa che la troviamo nella toponomastica di
alcune città federate, come di Forlinpopoli, (da Forum Popilii) presso Forli (Forum
Iulii), che rappresentava un avamposto di notevole importanza nella strategia
militare delle regioni del nord-est dell’Italia.
Sull’ipotesi avanzata dal Momsen che attribuiva la paternità al console P. Popilio
Lenate nel 132a.c., oltre ai motivi precedentemente citati, se ne aggiungerebbero
altri due. Il primo mira a sostenere che, in un solo anno (132a.c.), non fosse stato
possibile la realizzazione di un’arteria stradale così lunga come è la via RegioCapua, la seconda, invece, è deducibile dalla notizia che ci viene fornita dalla “Lapis
Pollae”, a proposito della riforma agraria. La sua attuazione e le opere pubbliche
realizzate (i Ponti, le stazioni di accoglienza, le bonifiche dei terreni, ecc..) ci fanno
ragionevolmente ritenere che, in così breve tempo, non potessero essere state
eseguite.
Ma c’è ancora un altro motivo che suffragherebbe quanto sostenuto. L’epoca in cui
vennero a delinearsi le fasi di attuazione della riforma agraria, riferita dalla lapide,
combacia con quella di Caio e non con quella di Tiberio. La testimonianza di ciò ci
viene fornita da Diodoro Siculo (XXXIV – XXXV, 26, 27), il quale ci informa che C.
Gracco, dopo aver constatato la vittoria di misura sull’approvazione della legge
agraria (18 tribù votarono a favore e 17 contro), abbia esclamato nell’eccitazione:
“La spada ora impende sui nemici; ci accontenteremo di ogni evento che la fortuna
ci manderà”. Tra i grandi oppositori, il plebiscito fece condannare proprio il console
Popilio Lenate, il quale, nel sostenere e ratificare la morte di Tiberio, aveva fatto
condannare illegalmente alcuni dei suoi fautori. P. Popilio Lenate, infatti, in seguito
al precipitare degli eventi, fu costretto a fuggire. Se Popilio viene citato da Diodoro
come uno tra i più acerrimi nemici di C. Gracco, ci si chiede come sia possibile
ritenerlo il fautore della riforma agraria ed anche l’autore della strada. il magistrato
romano, infatti, si vanta di aver voluto l’attuazione della riforma agraria, quando
orgogliosamente afferma, nel “Lapis Pollae”,che “per primo feci in modo che sul
terreno appartenente al demanio pubblico i pastori cedessero agli agricoltori”.
Tra le altre, una diversa identificazione, avanzata dallo studioso Vittorio Bracco,
nativo di Polla ed esperto di storia, porta al nome di T. Annius Luscus, console nel
153 a.C., poggiandosi su tre dati: il primo si riferisce ad un frammento delle storie di
Sallustio, che, descrivendo la ritirata di Spartaco attraverso la Lucania nel 73 a.c.,
menziona l’esistenza di un Forum Anni nel luogo, dove l’armata di rivoltosi giunse
attraverso i iuga Eburina (le colline di Serre) e le Nares Lucanae (Zuppino, frazione
di Sicignano). Il secondo dato è offerto dal cippo miliare CCLX, ritrovato a nord di
Vibo Valentia, con incisi il nome di un Tito Annio pretore e il calcolo del miglio a
partire da Capua.
Il cippo rinvenuto nei pressi di Vibo Valentia
Il Miliare riporta il semplice testo: CCLX. / T(itus) Annius T(iti) f(ilius) / pr(aetor) e la
cifra 260 fa riferimento al numero di miglia di distanza da quel punto fino a Capua.
Per il tipo di caratteri impressi, l’iscrizione viene datata in torno al II sec. a.C. ed è la
prova, secondo il Bracco, per identificare la Capua-Regio con la via Annia.
Dell’ipotesi che fosse T. Annio Lusco l’autore della strada, possiamo osservare che
l’anno del suo consolato (153 a.c.) non coincide con il periodo della riforma agraria
(133 o 123 a.c.)ed anche perché prima dell’epoca graccana non si ha notizia in tal
senso. Del resto il cippo militare CCLX ritrovato nel territorio di Vibo Valentia fa
riferimento ad un tale T. Annius T.f. pretore, il quale, per la stessa carica ricoperta,
svolgeva compiti esclusivamente di tipo militare, mentre sappiamo che solo chi
avesse rivestito la carica di console poteva non solo realizzare una strada (detta
appunto consolare), ma costruire le opere pubbliche ed attuare la riforma agraria di
cui parliamo.
Inoltre, sempre a riprova della sua ipotesi,si citano due dediche fatte a Caracalla da
parte dei funzionari del cursus publicus ritrovate a Roma negli ultimi anni del XIX
secolo:
1) CIL, VI 31338a (=ILS, I, 452). Anno 214 d. C.:
MAGNO ET INVICTO / AC SUPER OMNES PRIN / CIPES FORTISSIMO /
FELICISSIMOQUE / IMP CAES M AVRELLIO / ANTONINO PIO FEL AVG / PARTH
MAX BRIT MAX / GERMAN MAX / PONT MAX / TRIB POTEST XVII IMP III / COS IIII
P P / MANCIPES ET IVNCTORES / IVMENTARII VIARUM / APPIAE TRAIANAE
ITEM /ANNIAE CVM RAMVLIS DIVINA / PROVIDENTIA EIVS REFOTI AGENTES /
SVBCURA CL SEVERIANI MAMILI SVPERSTITIS / MODI TERVENTINI PRAEFFF
VEHICVLORVM
2) CIL, VI, 31370:
pro-consuL IPP/ mancipes et iVNCTORES / iumentari viarVM / APPIAE ANNIAE /
traianae? aurELIAE NOVAE CVM / ramulis a GENTES SVB CVRA / ? ulpicELERIANI
/… NIANI .
Come si è visto nel primo documento si menzionano le vie Appia (Roma-Capua),
Traiana (Capua-Brindisi) e Annia con relative diramazioni (cum ramulis); una via
Annia è ricordata anche nell’altra dedica insieme con l’Appia e l’Aurelia Nova (la via
costiera da Salerno a Paestum e Velia). Le due iscrizioni di Roma che citano una via
Annia accanto alle note arterie della rete stradale meridionale, l’Appia e la Traiana,
stanno a dimostrare che l’Annia doveva essere la terza arteria del Mezzogiorno
italico e quindi andrebbe identificata inequivocabilmente con la Regio-Capua.
Anche la paternità della strada che si vuole attribuire di T. Annio Lusco dell’epoca
Tiberiana non regge, perché, ai tempi del suo tribunato, Annio, come ci riferisce
Plutarco (Tib. Gr. 13, 3-14,2), fu il massimo sostenitore dell’accusa per la violata
potestà tribunizia. Anche Festo (p. 314 M) ci ricorda che lo stesso T. Annio Lusco, in
un’orazione contro Tiberio Gracco, ebbe ad accusare il Tribuno per aver sovvertito
una magistratura che il popolo aveva concepito come collegiale per eccellenza (per
saturam).
Al di là delle varie attribuzioni finora ipotizzate è ragionevole considerare che 475
chilometri di strada in un territorio tormentato dal punto di vista orografico avranno
sicuramente richiesto lunghi tempi di lavoro, per cui è molto probabile che i lavori
siano stati iniziati ed ultimati da consoli diversi.
La strada da Regio a Capua, dunque, continua ad essere chiamata nella letteratura
scientifica via Annia o via Popilia. Ma non mancano, a dire il vero, le ipotesi
alternative: alcuni studiosi, ancora, ritengono che l'iscrizione, per i suoi caratteri
paleografici e linguistici (in particolare la comparsa del dittongo ei per i lunga e di
ou per u; le consonanti non geminate, come per esempio in suma per summa; e
ancora la forma arcaica af per ab), vada posta nella prima metà del II sec. a.C. e
identificano il costruttore con un M. Popilio che fu console nel 173 a.c.. Questa
ipotesi la riterrei assolutamente improbabile, perché in quell’epoca non c’erano le
condizioni storiche e sociali per la distribuzione sul territorio lucano dell’ager
pubblicus.
Un'altra ipotesi, probabilmente più attendibile, è quella che attesta che porta ad
identificare l’autore della strada consolare, o quantomeno l’ultimazione di essa, nel
proconsole Manio Aquilio Gallo (console del 101 a.c. e, poi, proconsole del 100 a.c.
in Sicilia). Infatti, questi, terminata una strada così lunga e importante, dovette,
subito dopo, porre mano all’attuazione della riforma agraria, decidendo anche di
fondare un foro, con annessi edifici pubblici, sul luogo ove venne ubicata la “Lapis
Pollae”, ad imperitura testimonianza delle sue azioni di guerra e del suo forte
attaccamento alla Res Pubblica. Il periodo temporale della costruzione della via
Regio-Capua farebbe pensare allo stesso periodo della seconda guerra servile del
104-99a.c. esplosa in Sicilia, con gli episodi di fuga di schiavi, riferiti dalla lapide, ed
anche agli interventi effettuati sull'ager publicus e alle sue distribuzioni che, a
seguito della legge agraria di Tiberio Gracco prima e del fratello Caio poi, sono
attestati con certezza nella regione.
Di certo la riforma agraria dei fratelli Tiberio e Caio Gracco, i cui segni sono visibili
nel nostro territorio, fu voluta dall’autore della “Lapis Pollae”, il quale non poteva
essere altri che il proconsole M. Aquilio Gallo, appartenente alla famiglia Aquilia e
luogotenente di C. Mario che si era distinto nelle guerre contro i Cimbri e i Teutoni.
Vediamo cosa ci dice la storia.
Le guerre vittoriose avevano procurato allo Stato nuove terre, ma avevano
paurosamente impoverito i contadini.
L’economia in Italia conobbe sviluppo e prosperità dopo la guerra annibalica grazie
alla spinta venuta dalle ricchezze affluite con prede e indennità di guerra e con i
tributi delle province. Sintomi di un rallentamento si hanno invece verso la metà del
II secolo a.c. con i prezzi che tendono a contrarsi e la ragione è da cercarsi, oltre
che nell’esaurirsi naturale di un ciclo espansivo, pure nel fatto che, anche se
continuavano ad affluire con regolarità i tributi provinciali, prede e indennità di
guerra non avevano più la consistenza dei primi decenni del II secolo e per di più
venivano a riversarsi in un’economia satura.
La rapida espansione economica aveva avuto come effetto vistoso la costituzione di
grandi tenute agricole a danno della piccola proprietà contadina. Altro fenomeno
che si stava sviluppando era quello della formazione del latifondo nel Meridione. Il
fenomeno dovette presto preoccupare la classe dirigente romana per le
conseguenze che ne potevano derivare sul piano demografico. Da più parti si
reclamavano distribuzioni di terre per ricostruire la piccola proprietà contadina.
Nelle grandi tenute lavoravano tantissimi schiavi, riversati in Italia dalle vittoriose
guerre, con danno quindi della manodopera libera, portata per questo ad inurbarsi,
quando addirittura non si dava al brigantaggio, con i conseguenti pericoli e disagi
sociali. Basti pensare che nel 135 a.c. si ebbe in Sicilia una vera e propria
sollevazione armata, quasi 200.000 uomini, con a capo Euno, oriundo siriano. La
repressione delle rivolte in Sicilia richiese un notevole sforzo militare da parte dei
romani che ebbero la meglio sui rivoltosi, dopo che ben tre eserciti consolari vi si
erano alternati nelle operazioni. A rimuovere una situazione che sembrava
immodificabile furono prima Tiberio e poi Caio Gracco, nonostante i forti dissensi
che serpeggiavano nella società, una che si identificava con i Popolari e l’altra con
gli Ottimati. I Populares, ovvero i plebei ricchi, chiedevano riforme per migliorare le
condizioni del popolo, mentre gli Optimates, nobili proprietari terrieri (patrizi),
volevano conservare i loro privilegi.
T. Gracco cercò di porre rimedio a questo grave problema. Appena eletto Tribuno
della Plebe nel 133 a.c., propose una riforma agraria che limitava la quantità di terra
che un cittadino romano poteva possedere, favorendo la distribuzione anche ai
piccoli proprietari terrieri e ai contadini poveri, affinché avessero di che vivere. Tale
proposta scatenò le ire dei senatori che possedevano gran parte della terra
pagando allo Stato un affitto molto basso. Naturalmente i Senatori si opposero
cercando di fermare Tiberio contrapponendogli un altro tribuno della Plebe, Marco
Ottaviano. Questi pose il veto alle riforme di Tiberio, ma quando Tiberio riuscì a
deporre Ottaviano, i Senatori lo accusarono di comportarsi come un dittatore e,
organizzata contro Tiberio una sommossa, lo uccisero. Gli obiettivi di Tiberio furono
ripresi dal fratello Gaio Gracco eletto tribuno della Plebe nel 123a.c.. Egli propose
una legge che prevedeva la distribuzione del grano a basso prezzo, con l’intento di
controllare l'operato dei Governatori ed ottenne che i giudici incaricati di
controllarne l'operato fossero scelti tra i Cavalieri e non tra il ristretto gruppo che
controllava il potere (patrizi e ricchi plebei). Inoltre propose la formazione di nuove
colonie nelle terre conquistare da distribuire a chiunque avesse accettato di
trasferirsi. Ma sappiamo che anche queste riforme incontrarono l'opposizione del
senato che decretò Caio nemico di Roma. Assediato in casa sua, Caio si fece
uccidere da uno schiavo. Queste erano le vicende legate ai fratelli T. e C. Gracco. La
riforma, che essi auspicavano venisse realizzata, a quei tempi, purtroppo, sembrava
avveniristica e, comunque, cozzava contro gli interessi dei ricchi patrizi e dei grandi
proprietari terrieri.
Nonostante l'attività di redistribuzione delle terre negli anni Trenta e Venti del II sec.
a.C. sia ben documentata in questa area della Lucania dai diversi termini graccani
che vi sono stati ritrovati, sembra chiaro che la riforma, qui come in altri luoghi,
sostanzialmente fallì e che il Vallo rimase per tutta l'età tardo repubblicana un'area
dominata da medie e grandi proprietà terriere, largamente coltivata da una
numerosa manodopera servile. Particolarmente interessante a questo proposito è
un passo delle Historiae di Sallustio, dal quale emerge che Spartaco, passato nel
Vallo del Diano, riuscì a sollevare contro i loro padroni molti schiavi, tanto che in
pochi giorni riuscì a raddoppiare gli effettivi del suo esercito di ribelli; con queste
forze Spartaco riuscì a mettere in fuga i coloni, i coltivatori liberi che vivevano nella
zona.
Lo strumento attraverso cui i Romani espressero la loro espansione imperialistica
fu la centuriazione. Infatti, i romani potenziarono, affinarono e universalizzarono la
suddivisione territoriale in uno strumento di controllo e di produzione che
caratterizzò il loro imperialismo. Si può dire, senza esagerare, che la centuriazione
fu la strumento attraverso cui i Romani in espansione capirono quanto fosse
importante fondare colonie e organizzare il territorio nelle zone di fresca
acquisizione. Le colonie erano, di fatto, presidi militari e formavano una fitta rete di
contatti e di controllo territoriale. Colonia e centuriazione erano inserite
nell’ingranaggio statale. Infatti, gli ex soldati, trasformati in coloni, garantivano
anche il controllo politico, consolidando, allo stesso tempo, le tradizioni e le
istituzioni romane, permettendo all’habitus romanus di farsi strada. Del resto, la
colonizzazione diede anche sollievo da un punto di vista sociale, perché fornì terre
ai piccoli contadini italici, in crisi dal II sec. a.c.. La legge agraria, di Tiberio nel 133
a.c. e di Caio nel 123, era proprio funzionale a sanare questa crisi, con l’intento di
espropriare i grandi latifondisti dei loro vasti appezzamenti, in modo da poterli
ripartire. Il controllo della suddivisione terriera si traduceva in grande potere
politico, perché non aveva solo come conseguenza immediata quella di poter
controllare direttamente il territorio, ma anche gli eserciti.
Infatti, la suddivisione territoriale e la deduzione di colonie ebbero anche la funzione
di sistemare i veterani, che, una volta congedati dopo anni di campagne militari,
tornavano a casa. Per dare ai militari un incentivo a combattere a lungo,
un’occupazione e un compenso una volta tornati si pensò di assegnare loro delle
proprietà terriere, trasformando così gli ex-soldati in coloni. Ovviamente c’erano
ulteriori benefici: i soldati portavano con sé la loro cultura romana, i loro usi e
costumi, che si diffondevano nei nuovi territori in modo molto naturale, e inoltre
garantivano un certo tipo di controllo sul territorio. In questo modo, veniva data una
soluzione a una molteplicità di problemi, di tipo sociale e militare insieme, in un
unico momento.
I politici del tempo capirono in fretta che incredibile potere potesse dare loro il
controllo delle suddivisioni e assegnazioni territoriali, in termini di fedeltà degli
eserciti e di appoggio da parte di intere zone territoriali.
Il primo a capirlo pienamente fu Mario, a cui seguirono Silla, Cesare (considerato,
non a caso, il padre dell’agrimensura) e Augusto (responsabile di nuove deduzioni,
o rideduzioni e di nuove centuriazioni o zone ricenturiate).
Considerato erede immediato della politica dei Gracco e del loro partito, Gaio Mario
è una figura pubblica, indissolubilmente legata a quella dell’esercito. Rispetto ai
fratelli Gracco, figure più di impronta rivoluzionaria e idealista, egli ci appare
decisamente più pragmatico e realista, riuscendo a farsi eleggere per ben sei volte
nella carica di console, cosa che non era riuscita ad altri.
Infatti, nel 107°a.c., Gaio Mario attuò, rispondendo appieno ai concetti cardini delle
leggi agrarie volute dai fratelli Gracco, una riforma dell'esercitò, con cui i soldati
romani non vennero più arruolati per censo ma si presentavano volontari,
ricevendone in cambio uno stipendio e la promessa di terreni appartenenti all’ager
pubblicus, al momento del congedo. Gli eserciti, eccitati da queste allettanti
prospettive, fino ad allora impensabili, iniziarono a rivolgere la loro fedeltà più ai
loro generali che allo stato e finirono per essere usati da questi come strumenti per
raggiungere e conservare il potere. I soldati, a loro volta, si sentivano più legati ai
loro comandanti che alla Repubblica. Ogni singolo generale (Imperator) avendo, in
questo modo, a disposizione un proprio esercito acquistava sempre più potere.
Poiché gli alleati italici di Roma avevano contribuito assieme ai contadini alle sue
vittorie, Mario in cambio promise loro la concessione della cittadinanza romana con
tutti i privilegi che questo comportava. Com’era ovvio, i romani non ne vollero
sapere. Gli italici scatenarono così una guerra sociale contro Roma. Furono però
battuti. Per vincere, Roma fu costretta a riconoscere la cittadinanza a chi le era
rimasto fedele e a chi aveva deposto le armi. Ma le sue imprese più importanti, quali
le azioni difensive contro i tentativi di invasione da parte delle popolazioni
germaniche dei Cimbri e dei Teutoni, furono rese possibili grazie all’importante
riforma dell’esercito, non tanto per la sua portata “effettiva” quanto per le
implicazioni che genererà.
Non si può comprendere, infatti, il meccanismo delle guerre civili e degli eserciti
che le combatterono, se non si fa cenno a questo speciale provvedimento di Mario,
il quale ebbe modo di arruolare ed inquadrare nella sua armata parecchi volontari,
senza considerare la loro condizione patrimoniale, prendendo con sé anche dei
nullatenenti, i cosiddetti capite censi, equipaggiandoli a spese dello stato.
In ogni caso, le conseguenze di questa decisione furono di capitale importanza.
Questi volontari, affluiti in gran quantità nelle schiere di Mario, essendo
nullatenenti, miravano soprattutto alle ricompense promesse dal loro generale,
sotto forma di terreni agricoli. Perciò, forte fu il legame di dipendenza che univa i
soldati ai propri generali. Loro, solo loro, e non lo stato, potevano infatti garantire
che i propri uomini avrebbero regolarmente ricevuto le terre ed i compensi
promessi.
Mario, invero, aveva un estremo bisogno di truppe fresche e tutte le riforme agrarie
dei Gracchi si basavano sul principio per cui erano esclusi dal servizio di leva i
cittadini il cui reddito era inferiore a quello della V classe di censo.
I Gracchi avevano cercato di favorire i piccoli proprietari terrieri, ma la crisi del
sistema di arruolamento, come si era visto nelle guerre puniche del sec. precedente,
rimase. Allora Mario pensò inizialmente di abbassare la soglia minima di reddito
della V classe da 11.000 a 3.000 sesterzi e successivamente introducendo la leva
volontaria fece entrare nell'esercito i proletari rurali. Nel suo quinto consolato egli fu
affiancato da AQUILIO GALLO. Scorriamo brevemente la sua vita.
Figlio di Manlio Aquillio (console nel 129 a.C.) e nipote di Manlio Aquillio, fu collega
di Mario nel suo quinto consolato del 101 a.C. e suo luogotenente nella guerra
contro i Cimbri. Fu incaricato di domare la Guerra servile in Sicilia (104-100 a.C.),
causata dalla rivolta degli schiavi diretta dal cilicio Atenione: avendo sottomesso
completamente gli insorti, tornò a Roma nel 100 a.C., celebrando un trionfo. Nel 98
a.C. Lucio Fufio lo accusò di cattiva amministrazione in Sicilia. Nel processo che ne
seguì, fu difeso da Marco Antonio Oratore: malgrado l'esistenza di prove
schiaccianti della sua colpevolezza, venne prosciolto in considerazione del suo
valore nella guerra servile. Nell'89 a.C. fu inviato in Asia come legato consolare a
condurre
la
guerra
contro Mitridate
VI e
i
suoi
alleati.
Sconfitto
presso Protophachium insieme all'alleato bitino Nicomede IV, venne catturato poco
dopo e consegnato a Mitridate dagli abitanti di Mitilene: Mitridate lo trattò
inumanamente, facendolo poi morire colandogli dell'oro fuso in gola.
Destò scalpore il processo celebrato in Sicilia contro di lui: quanta influenza, quanta
efficacia ebbe nel processo di Manio Aquilio il discorso di Marco Antonio! Questi,
dal momento che era non solo abile ma anche energico nell’arte del dire, afferrò egli
stesso, quasi conclusa l’arringa, Manio Aquilio e lo pose alla vista di tutti e gli
strappò la tunica dal petto, affinché il popolo romano e i giudici rivolgessero lo
sguardo sulle cicatrici lì ricevute. E contemporaneamente parlò diffusamente di
quella ferita che egli aveva ricevuto in testa dal capo dei nemici e mise in una tale
condizione coloro che stavano per emettere il giudizio che questi temettero
fortemente che si avesse l’impressione che egli, uomo che la sorte aveva sottratto
alle armi dei nemici, nonostante non si fosse risparmiato, si fosse salvato non per
ricevere l’elogio del popolo romano, ma per cadere vittima della crudeltà dei giudici.
“Ora da parte loro viene tentata la medesima strategia difensiva, si persegue lo
stesso obiettivo. Sia pure un ladro, sia pure un empio, sia pure il promotore di ogni
scelleratezza e vizio: ma è un buon generale, ma è un fortunato e da conservare in
vista di tempi difficili per lo Stato”.