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BEAT MAGAZINE ONLINE
http://www.beatmag.it/beat_receinterna.php?id=1745
David Stith è una scommessa di casa Kitty che su di lui ha puntato dopo aver ascoltato un demo con due
sole canzoni. Ex designer cresciuto in una famiglia di musicisti, si presenta oggi con un EP di sei tracce ma in
cantiere c’è già un album ascoltabile in streaming sul sito dell’etichetta da cui traspare appieno la sua
bravura e i riferimenti. Che si muovono nel mondo di Shara Worden (My Brightest Diamond) ma anche tra
ruvidità ed asprezze alla Sonic Youth ed espressività vocali tipo Caetano Veloso. Il tutto tessuto su canzoni
che sembrano brevi colonne sonore o suite ricche di invenzioni che evitano accuratamente il modello strofaritornello-strofa per creare un pop altamente sofisticato.
NEWSIC
http://www.newsic.it/album/dett.php?id=2113
Se state cercando per sonorità ´weird´, allora siete nel posto giusto! Cori spettrali, beat e percussioni
strambe, arrangiamenti e orchestrazioni in dissonanza che strizzano l´occhio a Thelonius Monk e arpeggi di
chitarra acustica inquietanti rendono "Heavy Ghost" eccentrico e unico. David Michael Stith, residente della
prolifica Brooklyn, ci offre della musica folk ma registrata con arrangiamenti molto particolari. Quando il
mélange musicale funziona come nel caso di Thanksgiving Moon i risultati possono essere positivamente
celestiali come appunto la maggior parte della buona musica psichedelica. Di certo non è pieno di melodie
pop orecchiabili, ma per quello c´è sempre la radio! (7/10)
INDIE-EYE (interview)
http://www.indie-eye.it/recensore/2009/02/intervista-a-dm-stith/
Heavy Ghost è il debutto full lenght per David Stith ovvero DM Stith, uno degli acquisti più recenti per
Asthmatic Kitty Records, di cui abbiamo parlato recentemente scrivendo a proposito del suo primo Ep
intitolato “curtain speech”. Heavy Ghost conferma le aspettative, Stith ci consegna una raccolta di brani
fortemente visionari, sempre in bilico tra estasi e oscurità, sfiorando reminiscenze gospel e un’ossessione per
il ritmo apparentemente contrastata da un notevole talento per l’orchestrazione, elementi che sembrano
provenire da un insieme ricchissimo di influenze. Mixato da Rafter Roberts e realizzato con il supporto di
Shara Worden, Heavy Ghosts è un album assolutamente personale e per certi versi sorprendente. Invece di
recensirlo, abbiamo incontrato DM Stith a Milano e gli abbiamo fatto alcune domande sulla sua musica e
sulla realizzazione di Heavy Gost, in uscita a Marzo…
Prima ancora di parlare del tuo debutto full length, che troviamo molto bello e ricco, vorrei tu raccontassi ai
lettori di IE il tuo percorso musicale considerando anche la quantità di brani ancora inediti che sono presenti
sul tuo sito ufficiale…
Vengo da una famiglia che ha vissuto in mezzo alla musica; mio nonno era il preside della facoltà di musica
alla Cornell University e un direttore d’orchestra; anche mio padre è un direttore, mentre mia madre suona il
piano e le mie sorelle cantano. Quando ero piccolo ho preso lezioni di piano, tromba e chitarra, ma non ho
intrapreso la carriera musicale, unico nella mia famiglia. Forse ho abbandonato perché di solito ci esibivamo
tutti in chiesa, poiché la mia famiglia è molto religiosa, e io odiavo questa cosa. Crescendo mi sono
interessato alla visual art e alla scrittura e le ho scelte come modo per esprimermi, pur continuando ad
ascoltare e ad interessarmi di musica. Ho continuato per la mia strada artistica, arrivando ad insegnare
scultura al college, cosa che faccio ancora. Poi, 5 anni fa, mi sono trasferito a New York e ho incontrato
Shara Worden; grazie a lei mi sono sentito a mio agio nel proporre la mia musica, iniziando il percorso che
mi ha portato fino ad Heavy Ghost. >>> segue
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Per quanto riguarda il materiale presente sul mio sito, si tratta più che altro di esperimenti, registrati col mio
computer negli scorsi anni. Invece la scelta di fare un disco è più recente, ciò che appare sull’Ep “Curtain
Speech” e su “Heavy Ghost” è stato scritto nel periodo tra dicembre 2007 e giugno 2008.
Come sei arrivato ad Asthmatic Kitty?
E’ stato grazie a Shara Worden. L’ho incontrata la prima settimana dopo essere arrivato a New York. Era
amica del mio coinquilino; l’ho conosciuta in salotto, non sapevo fosse una musicista e lei non sapeva nulla
di me; poi mi ha fatto conoscere i Clogs e altri personaggi della scena musicale della città. Ho iniziato a
collaborare con lei come visual artist, creando l’artwork per “Bring Me The Workhorse” e “A Thousand
Shark’s Teeth”; in questo modo sono entrato in contatto con Sufjan Stevens, Michael Kaufmann e il resto
dell’etichetta.
Nella tua musica sono presenti molte influenze, ma in un certo senso le forme predominanti sembrano tutte
derivazioni dello spirito e dell’anima, penso al gospel, al blues, alla musica brasiliana…
Tra i miei generi musicali preferiti ci sono quelli appena elencati, specialmente quelli che tramite la voce
riescono a metterci in contatto con il nostro spirito. Per esempio mi piacciono Nina Simone, Caetano Veloso,
Violeta Parra; sono gli autori che cerco di emulare maggiormente, ma non solo. Infatti ascolto anche molta
musica classica.
Come è intervenuto Rafter Roberts sui brani che compongono Heavy Ghost?
Gli ho portato le canzoni registrate e finite e lui le ha mixate. E’ stato un grande, un amico. Ho lavorato con
lui due settimane durante le quali mentre lui mixava io passavo anche 8 ore al giorno a lavorare sulle
canzoni in un altro studio.
Ho letto che la registrazione dell’album è stata effettuata in luoghi non convenzionali, sfruttando per lo più
riverberi naturali come quelli di una chiesa, o di una camera, o di una cucina, come mai questa scelta?
Lavoravo e registravo con un laptop; il mio appartamento è molto piccolo, quindi non avevo altra scelta. Ho
dovuto registrare le parti di archi in uno studio, che era piccolo, ma sicuramente più grande del mio
appartamento, e spostarmi in altri luoghi, per esempio in una chiesa per le parti di piano.
Quanto ti ha influenzato un certo tipo di musica “classica contemporanea”? Penso alla struttura pianistica di
Isaac’s songs, ai Drones di WIG…
Penso di essere il maggior ascoltatore di musica classica nella mia famiglia, intesa come musica per
orchestra e corale. Sono interessato dalle forme come le fughe e le sinfonie, da compositori come Mahler
che esprimevano le loro qualità attraverso queste composizioni. Per me è molto naturale muovermi
attraverso le canzoni e agire sulla loro struttura.
Un esempio può essere “Just once”, il brano tratto dal tuo precedente EP; è una traccia dalla struttura molto
complessa e spiraliforme; ha un incedere epico e allo stesso tempo oscuro, apocalittico, ma è la tua voce
che connette tutta l’orchestrazione, dilatando tempo e spazio dell’ascolto; sei d’accordo su questo?
Sì, mi piace sentire le interpretazioni di altre persone su ciò che faccio, perché quando lavoro seguo quello
che sento in quel momento e che mi viene naturale. Così posso inserire parti di archi o momenti corali,
anche seguendo il mood in cui mi trovo in quel momento: allo stesso modo mi trovo ad utilizzare strutture
circolari, come se fossi fermo ed ossessionato da un’idea ben precisa.
Restando sul discorso della voce, come hai sviluppato una vocalità cosi particolare?
Cantavo con la mia famiglia quand’ero piccolo e anche in un coro intorno ai 10 anni. Non mi piaceva però
esibirmi, non mi trovavo bene nel condividere la mia voce con qualcuno che ascoltasse. Poi, al liceo, la mia
voce è cambiata, come è naturale, ed è diventato molto difficile per me, non controllavo i toni bassi; in
pratica cantavo da solo, mai in pubblico, trovandomi meglio col falsetto o comunque su toni alti. Quando poi
la voce si è stabilizzata ho ritrovato fiducia anche nel cantare davanti ad altre persone. >>> segue
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Sempre a proposito di voce, sono incuriosito da un brano come Creekmouth; lo trovo molto bello e sembra
riferirsi ad un altro aspetto della tua musica, quello della ricerca ritmica, tribale e preformale che in parte fa
pensare ad Animal Collective ma anche alle cose più sperimentali di Peter Gabriel..
Amo entrambi gli artisti che hai citato; in particolare trovo fantastici gli Animal Collective. Credo che abbiano
un approccio alla musica simile al mio, come un’esperienza emotiva che vogliono trasmettere a chi ascolta.
Inoltre ho sempre apprezzato artisti di musica elettronica, come Aphex Twin, Chris Clark e gran parte dei
lavori della Warp. In generale ho sempre amato il ritmo, mio padre è anche un percussionista, anche per
questo ho sempre avuto a che fare con il ritmo. Spesso mi ritrovo a tamburellare aritmicamente sul volante
mentre guido, il ritmo è sempre con me, in pratica.
La tua musica mi sembra che stia in un confine molto particolare tra la ricchezza dell’orchestrazione e
un’estrema sintesi ed essenzialità; quasi come se ci fossero delle reminiscenze glam (Marc Bolan, Bowie) e
allo stesso tempo la voglia di spazzarle via con un approccio rigoroso, minimalista…
Credo che dipenda dal fatto che ascolto molti generi musicali differenti; per esempio amo le dissonanze dei
Sonic Youth così come le melodie senza tempo di Mahler o Strauss. Per me non c’è quindi un’unica via
nell’approccio alla musica, è giusto che ci rientri ogni influenza.
Come fai a rendere questo contrasto dal vivo? Ovvero, come presenti i tuoi brani su un palco, da solo o con
un ensemble?
Finora ho sempre suonato da solo, ma sto preparando un tour per l’estate in cui suonerò con altre due
persone; ho scelto due musicisti molto flessibili, in grado di suonare vari strumenti e anche di giocare con la
voce. Cercherò di stare lontano da quanto ho registrato, dare nuove interpretazioni ai brani. Verrò anche in
Europa e in Italia, anche se non so ancora esattamente quando.
L’ultima domanda riguarda invece il tuo ruolo di disegnatore di copertine ed artwork. Come ti approcci ad un
disco su cui devi lavorare? Cerchi di rendere visivamente ciò che la musica ti trasmette mentre la ascolti?
Sì, è quello che tento di fare. E’ sempre molto difficile però; con My Brightest Diamone ho lavorato molto a
contatto con l’artista, Shara stessa mi considerava come un membro vero e proprio della band; lei colleziona
artwork e stampe di varia provenienza e quello è stato un punto di partenza. E’ stato difficile anche
disegnare la copertina del mio stesso disco, ho faticato a rendere lo spirito della musica, anche se ne ero io
stesso l’autore.
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BAND: DM STITH
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ONDAROCK
http://www.ondarock.it/recensioni/2009_dmstith.htm
David Michael Stith, nato e cresciuto nella contea di New York ma ora traslocato a Brooklyn, è un obliquo
cantastorie proveniente da una famiglia di musicisti. Quell’ambiente fertile gli ha permesso di sperimentare
nelle sue prime canzoni a base di folktronica, poi raccolte in “Ichabod And Apple” (2005). Shara Worden, il
nome che sta dietro a My Brightest Diamond, lo ha quindi incoraggiato a comporre le canzoni per “Curtain
Speech” (2008), Ep di debutto per Asthmatic Kitty; ma la sua vera rivelazione è “Heavy Ghost”, il suo primo
album lungo.
In questo eclettico ciclo di canzoni, in cui tutto rimanda al tema della fantasmagoria, non esiste un semplice
concept, ma una sorta di “mood concettuale”. Dalla sua voce, monoespressiva e eterea, bassa e sfuggente,
al flipper di registri e umori (burlesco, affabile, apocalittico), il disco si muove tra invenzione e invenzione
attraverso snodi difficili e l’uso di una produzione talvolta prossima alla non-musica (“Spirit Parade”,
“Thanksgiving Moon”, “Creekmouth”, “BMB”).
Le canzoni, che assonano e dissonano una con l’altra, più che vere e proprie canzoni sono sofisticati
assemblati digitali basati sul processo di studio, pur con un occhio di riguardo alla contemporaneità
dell’estetica weird-rock (da Animal Collective a Safety Scissors, da Four Tet a Black Dice). La sottigliezza
delle soluzioni di Stith, da “Morning Glory Cloud” a “Pity Dance”, richiama persino la follia immaginaria di
Wyatt e le composizioni libere a collage dell’era pre-psichedelica.
D’altronde la musica di Stith (supportata dal padrino Stevens) sembra all’insegna di un’indeterminatezza
radicale di generi e di notazione, il cui virtuosismo inventivo può anche irritare, ma che ha una dimensione
irreale che ancora saldamente intenzioni di profondità epigrammatica. Nemmeno si possono negare
influenze a tutto tondo, senza distinzioni o senza gerarchie. La voce è funzionale al discorso, l’arrangiamento
ha un misterioso carisma, sebbene qua e là sia colto in una nudità impietosa. Solo un dubbio: Stith è un
cantautore che disprezza il suo habitat o un esiliato che reinventa il suo canzoniere in terra straniera? (7/10)
INDIE FOR BUNNIES
http://www.indieforbunnies.com/2009/03/30/dm-stith-heavy-ghost/
“Heavy Ghost” va ascoltato con grande attenzione, lasciandolo fluire come sfondo non si riesce ad andare
oltre lo strisciare di suoni caleidoscopici ed inusuali che lo compongono. E’ come se questa creatura di DM
Stith, smembrata delle sue componenti ad una ad una, perdesse ogni significato risultando come un collage
difettoso. Ci vuole dedizione ed orecchio per amalgamarne al meglio ogni singolo passaggio e quel che viene
fuori è un album spiazzante, geniale nel suo essere dannatamente freak.
Le canzoni strisciano su partiture orchestrali talvolta sghembe, altre più solenni, galleggiando tra intimità ed
oscura fragilità. Il corpo dei brani non è facilmente individuabile, ogni passaggio parte da direzioni diverse
che confluiscono, di volta in volta, in un punto di incontro. Il tutto non accade per caso, ma sembra costruito
con la sfrontatezza di un piccolo genio che riesce a raffigurarsi come un cappellaio matto del pop d’autore.
Un po’ Antony quando si abbandona a partiture di piano, un po’ Andrew Bird nell’utilizzo delle influenze jazz
e di certi suoni fluttuanti e anche quel pizzico di genialità à la Sufjan Stevens che conferisce all’album
quell’aura di inafferrabilità a suo modo unica. Un disco morbido, di difficile cifratura, in cui le melodie sono
solamente accennate. Tutto il resto è un flusso di fascinazioni sublimi e soffuse che emergono quando
attorno a chi le ascoltà vige il silenzio assoluto. (4/5)
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BAND: DM STITH
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PAG. 34
STORIA DELLA MUSICA
http://www.storiadellamusica.it/DM_Stith_-_Heavy_Ghost_(Asthmatic_Kitty,_2009).p0-r2204
Che David Stith fosse un tecnico della musica lo si poteva intuire dalla collaborazione, grafica ma non solo,
che offrì a Shara Worden, alias My Brightest Diamond, nel suo esordio “Bring Me The Workhorse” (un disco,
per chi non avesse avuto la fortuna di ascoltarlo, non propriamente banale). Qui, al debutto sulla lunga
distanza, l’americano dell’Indiana lo dimostra una seconda volta, partorendo un lavoro artatamente
complesso che potrebbe fare da paradigma all’indefinibilità di molta musica recente.
“Heavy Ghost” si contorce tra folk e avanguardia, si insinua in un intimismo cameristico per poi complicarsi
di concettosità, divagazioni a-melodiche, cacofonie, overdubbing furioso di voci ed effetti, rimandi classici.
Sicché, alla fine della fiera, è un disco inqualificabile. E non si pensi che la sua sfuggevolezza alle etichette
sia necessariamente il migliore dei pregi: in questo caso, a ben vedere, si trascina anche non trascurabili
difetti, in quanto nasce da un farraginoso elefantismo in fase di registrazione segno di una certa confusione
di fondo. Troppi bizantinismi, insomma, accanto al sangue vero.
Così “Isaac’s Sons” e “Spirit Parade” sono due interludi caotici dominati dai vocalismi spiritati di Stith, mentre
“BMB” e “GMS” (mannaggia l’ermetismo...), entrambe guidate dal piano, non decollano, soprattutto la prima,
intruppata nel finale in una serie di disturbi rumoristico-dissonanti. Meglio, e molto, dove Stith sporca senza
eccessi le proprie creature introverse: “Pity Dance”, folk pshichedelico dalle sfumature cupe con arpeggi
labirintici ed effetti visionari, esplode in un crescendo orchestrale emozionante, e “Pigs”, nello sfogo
lamentoso del falsetto sopra una chitarra di nylon, avvolge anche nel finale quasi ambient.
E in tutto il disco si alternano momenti bui con qualche titolo di gratuità in cui lo Stith tecnico affoga la
sensibilità del cantautore (“Wig”, di nuovo tra drones e ambient, con la sponda dei Sigur Rós, e la coda
nonsense di “Morning Glory Cloud”) e passaggi intensi in cui la passione deborda. lasciando incantati
(“Thanksgiving Moon”, “Braid Of Voices”, mini-suite con atmosfera incorporea, sovrapposizioni vocali quasi
da Enya al maschile e un crescendo orgasmico: eccellente).
Sicché “Heavy Ghost”, soprattutto dopo ascolti ripetuti, lascia addosso qualcosa del suo ipnotismo
vagamente ascetico (e persino festoso nel trionfo di hand-clapping e violini tremuli di “Fire Of Birds”), pur
costringendo l’ascoltatore a un lavoro di setaccio e disimbrogliamento non irrisorio. Meno confusione, la
prossima volta, man, e il capolavoro arriverà. (3,5/5)
ALL ABOUT JAZZ
http://italia.allaboutjazz.com/php/article.php?id=3713
Dopo un Ep d'esordio, sempre per la Asthmatic Kitty per cui presta anche opera di grafico, David Michael detto DM - Stith approda al primo disco importante, splendida occasione per conoscerne il songwriting
obliquo e inafferrabile, figlio di un'inquietudine espressiva che trova sfogo in un sovrapporsi di forme e di
spiritualità quasi arcana.
L'incipit di "Isaac's Song" è allucinato e wyattiano, ma anche nella successiva "Pity's Dance,"
apparentemente più "inquadrata" in una weirdness di matrice folk, spirano brezze fantasmatiche e oscure
presenze. Ormai gli ormeggi con la tradizione si sono definitivamente rotti e i fili spezzati si attorcigliano alle
gambe come filamenti di un blues primordiale la cui memoria si perde nel buio dei tempi.
Ecco dunque ritmiche scheletriche e incalazanti, tentativi di gospel amorfo, cosette struggenti come "Pigs"
che stanno tutte in un paio di arpeggi ma ti prendono alla gola, il sabba rugginoso di "Spirit Parade" e le
ipnosi malate di "Thanksgiving Moon," inchiostrate di psichedelia e di dilaniati spiazzamenti, quasi in una
terra di nessuno tra Devendra Banhart e Sufjian Stevens, ma già così incredibilmente lontana da ciascuno di
questi due poli esemplificativi, quasi splamata sullo sfondo stellato.
Ne vengono fuori ogni tanto di questi dischi, che non sai bene se sono geniali oppure hanno magari solo il
merito di darci qualche colpetto che ci risveglia dal piattume ormai generalizzato in ogni angolo del mercato
musicale. Vengono fuori così, come fiori dal colore improbabile e malsano, ma sono una vera delizia e non ci
chiediamo il perché.
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BAND: DM STITH
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PAG. 35
XL ONLINE
http://xl.repubblica.it/recensionidettaglio/76191
Camere da letto, chiese, cucine e sale da concerto dismesse. I brani inafferrabili del disco di debutto di DM
Stith sono stati registrati in posti così, lungo la costa Est degli USA. Proveniente da una famiglia di insegnanti
e musicisti, David è partito come poeta e pittore («La mia prima band preferiva colorare le chitarre che
suonarle»), e si è scoperto musicista grazie agli amici Shara Worden/ My BrightestDiamond e Sufjan
Stevens. Heavy Ghost vive in uno spazio etereo tra il Tim Buckley sperimentale e Antony, tra il folk onirico di
Devendra Banhart e quello ludico delle CocoRosie. A tratti, in Pigs, appare/scompare come un Jeff Buckley
acustico: rischierete di innamorarvene subito. (4/5)
IL MUCCHIO ONLINE
http://www.ilmucchio.it/contents.php?sezione=recensioni&id=331
L’ascolto del magnifico album - perché, chiariamolo subito, “Heavy Ghost” è davvero magnifico - con cui
esordisce David Michael Stith, lascia due interrogativi. Il primo, assolutamente fisiologico anche se questa
dozzina di composizioni dovesse essere ascoltata con la testa sotto la sabbia, porta a chiederci se senza il
successo planetario di un artista così fuori dalle convenzioni come Antony Hegarty questo disco sarebbe
stato ugualmente pubblicato oppure sarebbe finito sul fondo del cassetto di qualche sprovveduto label
manager. Al dubbio - che, ovviamente, resterà senza risposta - se ne aggiunge, immediatamente, un
secondo: se, cioè, l’opera di Stith debba essere intesa come pura e semplice rivisitazione (parlare di plagio
mi sembrerebbe offensivo…) di quella dell’autore di “The Crying Light” o se, al contrario, possiede valenza
artistica individuale. Chi scrive propende, senza dubbio, per la seconda ipotesi: nonostante alcuni passaggi di
“Heavy Ghost”, in modo particolare quelli segnati da andatura eterea e dalle note di un pianoforte (vengono
in mente “Pigs e Pity Dance” ma pure “Thanksgiving Moon”), non avrebbero affatto sfigurato su “I Am A Bird
Now” (e in ciò non v’è nulla di cui vergognarsi, ci mancherebbe), è pur vero che il musicista di stanza a New
York possiede tutte le carte in regola per farsi apprezzare esclusivamente in virtù del proprio repertorio. Che
spazia, con assoluta maestria, dal gospel come lo si deve intendere nel terzo millennio ai cori da chiesa che
si intrecciano con il dramma del distacco sottolineato dagli archi e dal pianoforte (“Fire Of Birds”, “Morning
Glory Cloud”), fino alla chitarra acustica e a movimenti da jazz club in un caleidoscopio che mira alla
perfezione (e, a ben vedere, ci si avvicina non poco) e che finisce, addirittura, per scomodare i suoni
dell’Africa (“Spirit Parade”) in un dolce arcobaleno di vellutate sensazioni. Un po’ Joe Jackson (“Isaac’s
Song”), un po’ The Housemartins (“GMS”), David Michael Stith dimostra di possedere un talento tanto
cristallino che è impossibile immaginare dove lo possa condurre.
OUTUNE
http://www.outune.net/dischi/medium/indie-folk-dm-stith-heavy-ghost-2009.html
David Stith ovvero DM Stith. E la sua voce. eterea e sfuggente. Sta tutto qui il suo disco d'esordio. Ci aveva
acceso i cuori con l'ep d'esordio "Curtain Speech".
Avevamo parlato della sua famiglia di musicisti e dell'aiuto prestatogli da My Brightest Diamond in fase di
spinta emotiva/tecnica per uscire allo scoperto, e dell'amicizia/collaborazione con Surfian Steven.
Se l'ep era molto variegato e svelava un genio in divenire qui sembra tutto più focalizzato ad una strada
dritta e già asfaltata. Il disco vive di una musicalità scarna, fantasma, nuda e misteriosa. Un'ambientazione
sulfurea con la voce che conduce l'ascoltatore per dodici tracce in meandri irreali. Certo, non aspettatevi
canzoni da sentire tranquillamente in una programmazione radiofonica.
Lui, graphic designer, ha anche illustrato un libro per bambini. E c'è un sapore da favola in tutto questo
disco. Quasi un regno nebuloso in cui entrare. Ci sono nuvole che non si riescono ad acchiappare e
stringere, poi arrivano dei cori quasi parrocchiali e tutto è condotto con bacchetta magica da un folksinging
con forti reminiscenze di Antony And The Johnsons.
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SENTIREASCOLTARE
http://www.sentireascoltare.com/preview.php?s=review&review_id=2072
Padronanza. Ricerca calcolata di un effetto e costruzione di particolari per arrivarci. Non voglio essere troppo
prolisso per introdurre questo disco che coglie la freschezza di una bravura che si esprime con una facilità
imbarazzante. A volte oscurando meccanismi meno controllabili ma forse più incisivi nella musica.
DM Stith inserisce nel suo esordio sulla lunga durata le tecniche che da piccolo ha imparato e poi ha
metabolizzato negli anni per poi sfruttarle grazie alla conoscenza di figure dell’indie di particolare potere
trascinante. Heavy Ghost ci mostra anzitutto le sue capacità, dunque. Prendete Pity Dance. Una canzone che
a ben vedere non è una canzone; ma una lunga preparazione a basso tasso di crescendo che accompagna al
tema corale della fine. In mezzo una capacità di perseguire un effetto strabiliante, con tocchi che ricordano i
Black Heart Procession come Devendra (presente anche in Pigs). Si notava fra l’altro nella monografia allo
Stith dedicata che nella sua musica si coglie un’oscillazione tra flusso e forma canzone, tra ambient e soul,
ovvero tra ambiente e anima. David Stith è anzitutto un grande cesellatore di quella soglia che fa di una
canzone – anche a toni soul, anche che citi i cori degli anni ’50 – un processo (ascoltate Creekmouth, che è
un messaggio per noi di potenzialità di orchestrazione ritmica); in definitiva una composizione; come Mahler
stressò la sinfonia fino al limite, Heavy Ghost gioca con i piccoli stratagemmi delle canzoni pop per dipingere
ciò che Stith vuole esprimere – come per la perfezione armonica di Thanksgiving Moon.
Che può succedere a DM Stith? Di non toccare, neanche sfiorare la nostra anima. A un certo punto a volte la
padronanza e il calcolo stroppiano e risultano artificiosi. Non è il caso di Heavy Ghost, e come esempio
conclusivo – non casuale – si potrebbe citare la pseudo-poliritmia di Spirit Parade. Un soffio corposo. Una
melodia vocale che minaccia trasparenza. Coltre spessa di spiriti; fantasmi pesanti.
LIVEROCK
http://www.liverock.it/tuttarec.php?chiave=995&chiave2=DM^Stith
David Stith ha di certo un merito: nelle sue canzoni riversa tutto se stesso. La sua storia personale, il suo
vissuto, il suo mondo spirituale e la sua religiosità. Non tanto nei contenuti o nei testi delle sue canzoni: in
questo, no, Stith non è un cantautore classico. Stith interviene direttamente sulla forma dei suoi brani,
sviscerandosi un pezzo alla volta, raccontandosi in forme nuove di pezzo in pezzo. C’è una famiglia che sin
da piccolo lo ha indirizzato alla musica e all’arte (è anche disegnatore per conto dell’etichetta che lo pubblica,
la Asthmatic Kitty), c’è un vissuto personale complesso, fatto di crisi e rinascite, c’è una forte religiosità di
fondo che non si può non percepire nel modo in cui DM Stith affronta alcuni passaggi delle sue canzoni.
Volendo banalizzare si potrebbe fare in fretta a bollare questo autore di Buffalo come un nuovo adepto di
quel folk “delle origini” che molto spesso abbiamo visto in auge negli ultimi anni di rock indipendente: Stith
ha poco a che vedere con un Andrew Bird, per intenderci; il suo approccio è più etereo, più aperto alla
divagazione e ad una sorta di misticismo che, molto spesso, lo costringe ad uscire dai paletti della forma
canzone più classica. Certo non mancano episodi di folk puro, come la concisa Pity dance o l’ottima e
pianistica Thanksgiving moon, ma il meglio Stith lo relega a quei passaggi dove a prendere piede è una vena
più ancestrale ed eterea, come nelle inafferrabili Spirit parade e BMB dove, come in occasione di Isaac’s
song, il pianoforte funge da contraltare di quanto Stith vuole dirci, arricchendo le sfumature più fumose del
suo essere un cantautore. L’ottima voce di Stith spinge le carte in tavola dalle parti di Nick Drake (in Fire of
birds più che altrove), mentre l’approccio coraggioso e divagante della sua scrittura riporta alla memoria il
più grande ed indimenticabile innovatore folk, John Martin, pur senza replicarne le esplorazioni jazz e
cosmiche. Il disco di Stith presenta però i medesimi punti deboli dell’ep che lo aveva anticipato qualche mese
fa, “Curtain speech”. Stith non sembra ancora completamente padrone dei mezzi che utilizza, dimostrandosi
ancora incompleto quando si tratta di chiudere perfettamente i suoi brani: tutto sembra infatti pervaso da un
gusto per il non finito che rischia, al contempo, di svilire lo statuto di canzone di molti brani. Stith deve
sicuramente lavorare su questo aspetto: decidere da che parte stare. Ispirazione e spiritualità diventano
presto armi a doppio taglio se non accompagnate da un’adeguata consapevolezza di scrittura.