La filosofia moderna, l`uomo moderno e la Chiesa

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FILOSOFIA
La filosofia moderna,
l’uomo moderno
e la Chiesa
Intervento di mons. Peter Henrici
al Congresso internazionale
sulla modernità
La filosofia moderna – con la sua attenzione al singolo esistente «che Dio
crea per liberissima volontà amorosa e
continua ad amare nella sua singolarità» – come «la prima filosofia di origine specificamente cristiana». Così mons.
Peter Henrici, vescovo emerito di Coira e docente emerito di filosofia alla Gregoriana, ha aperto il suo intervento al
Congresso internazionale sulla modernità (cf. Regno-att. 22,2011,736ss) organizzato dalla stessa università dei
gesuiti. Rileggendo la storia sotto la prospettiva filosofica, Henrici ricostruisce in modo efficace – dalla svolta del cogito di Descartes alla «rivoluzione copernicana» di Kant – i tratti salienti dell’uomo moderno delineandone due figure tipiche, «l’imprenditore e lo scienziato, l’uomo del fare e del produrre, e
l’uomo del progettare la costruzione di
un mondo secondo le proprie idee», figure tra le quali si staglia l’homo religiosus moderno, «uomo dell’angoscia
esistenziale e della fede fiduciale, il
“singolo” che nella sua interiorità si trova confrontato con Dio in assoluta solitudine». La panoramica di Henrici mostra, spingendosi fino al Novecento, le direttrici lungo le quali si può parlare di
una «modernità recuperata dalla Chiesa», singoli fedeli e magistero.
È
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Sottotitoli redazionali.
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stato chiesto a un filosofo di riassumere e di
concludere in qualche modo i discorsi fatti in
questo Congresso su Chiesa e modernità. Il filosofo, si pensava, generalista per definizione,
potrà tirare le somme dei vari e ricchi contributi specialistici che sono stati proposti. Ciò evidentemente non sarà possibile, data l’ampiezza e la diversità
delle tematiche toccate. Quello che si potrà fare è riesaminare quasi a volo d’uccello il vasto territorio della
modernità per vedere poi come la Chiesa cattolica si è
mossa, si muove ancora e dovrà muoversi in futuro su
questo territorio. La visione proposta inevitabilmente
sarà parziale, nel doppio senso che potrà toccare soltanto una ristretta parte dei problemi e che la scelta di
quella parte sarà condizionata dalle preferenze e dalle
prospettive personali del relatore. In questi limiti si proporrà qui una specie di editoriale post textum, concepito con lo sguardo del filosofo.
I. La «via moderna»:
la prima filosofia di origine cristiana
Un’attenzione moderna e cristiana
1. Non è certamente fuori tema considerare la modernità in prospettiva filosofica. Non solo dal punto di
vista linguistico la modernità prese il suo avvio dalla «via
moderna», ma anche nelle sue strutture ideali. Dalla
«via moderna» dipende non solo quasi tutta la filosofia
moderna,1 ma anche quello che si potrebbe chiamare la
teologia specificamente moderna, cioè quella di Lutero
e di Calvino e dei loro seguaci fino a oggi.
Da parte di autori cattolici benpensanti si soleva
dire ogni male del cosiddetto «nominalismo» occamista – tanto perché si contrapponeva alla «via antiqua», più volte ringiovanita nei tempi moderni,
quanto a causa della riforma protestante che il nominalismo ha generato. A tale giudizio negativo sfuggono
però le premesse teologiche specificamente cristiane
della «via moderna». Mentre la filosofia dei cristiani
fino a quel tempo era stata un adattamento della filosofia antica alle esigenze della fede cristiana (in particolare alla concezione di Dio creatore del mondo ex
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nihilo), la «via moderna» partiva dall’idea specificamente cristiana che Dio crea ogni singolo essere finito
per liberissima volontà amorosa e continua ad amarlo
nella sua singolarità, idea già prefigurata nel pensiero,
ugualmente francescano, di Duns Scoto. In questo
senso, la «via moderna» sarebbe da stimarsi piuttosto
come la prima filosofia di origine specificamente cristiana.
Che questa filosofia di origine cristiana abbia poi
dato occasione a sviluppi tutt’altro che cristiani, questo sembra essere dovuto a quella caratteristica che la
distingue da ogni altra filosofia precedente e che la
rende specificamente «moderna» e «cristiana», vale
a dire l’attenzione per ogni singolo esistente. Per la
«via moderna» l’esistenza del singolo è il prototipo
dell’essere come tale. Tanto il platonismo quanto l’aristotelismo e lo stoicismo, come anche i loro derivati
cristiani avevano sempre considerato l’universale,
l’idea platonica, l’ordine cosmico o le idee divine
come fondamentali e primarie. L’universale è l’oggetto principale della mente umana, la quale si impegna a comprenderlo, costituendo la scienza e le
scienze, che saranno sempre scienza dell’universale.
Contro tale tradizione millenaria universalista e intellettualista, la «via moderna» proclamava il primato
del singolo come primo conosciuto e primo intento.
Questa scelta sembra risultare dal primato attribuito
all’amore e dalla conseguente prospettiva volontarista. L’amore e la volontà si rivolgono infatti sempre
al singolo esistente e non sanno che fare con un universale lontano e astratto. Sul piano della conoscenza
tale prospettiva comporta però il pericolo del sensismo, perché soltanto i sensi sono in grado di cogliere
il singolo nella sua concretezza. Nella modernità, il
sensismo si camufferà non di rado da «interiorismo»
sentimentale.
terraneo, diviso in due territori, cristiano e islamico.
Quasi contemporaneamente2 lo stesso universo, finora
pacificamente tolemaico, scoppiava in un universo infinito, senza limiti, spostando la terra dalla sua posizione centrale e immobile. Questi cambiamenti, sopravvenendo l’uno dopo l’altro, possono spiegare una
certa insicurezza esistenziale dell’uomo moderno, a
differenza dell’uomo medievale che trovava la sua sicurezza nella cristianità e in pratiche religiose o parareligiose.
Tale insicurezza esistenziale era fomentata in sottofondo da due aspetti teologici della «via moderna».
Dalla concezione che Dio abbia creato ogni singolo essere per liberissima sua volontà, si poteva dedurre una
responsabilità di Dio per tutto ciò che accade nel
mondo, sia in bene che in male. Nasceva il problema
della teodicea, imponendosi in modo tanto più incalzante per il fatto che la volontà di Dio, immensa per natura sua, non poteva limitarsi a quello che Dio effettivamente creava (la sua voluntas ordinata), ma doveva estendersi, come voluntas absoluta, a un’infinità di
altri possibili oggetti del suo volere, ovvero a un’infinità
di altri mondi possibili. Tra questi, l’«ottimismo» leibniziano cercherà di dimostrare che il mondo realmente
esistente è il migliore possibile. Il gesuita Boscovich, di
cui ricordiamo quest’anno il tricentenario della nascita,
poteva invece dedurne l’uguale attendibilità di un universo copernicano coesistente con un universo tolemaico, aprendo così la strada per la riabilitazione del
Galilei.3 Comunque sia, per i teologi moderni, dietro
quello che è manifesto di Dio per la creazione e per la
rivelazione, può celarsi un «Dio nascosto» la cui «onnipotenza» ispira più apprensione che fiducia. Anche questo aspetto poteva rendere profondamente insicura la
vita dell’uomo moderno.
Insicurezza esistenziale e salvezza personale
Nel frantumarsi della prospettiva universale
2. Contemporaneamente al venir meno della prospettiva universalista nella filosofia, anche l’ambiente di
vita dell’uomo moderno andava man mano frantumandosi. L’unità (più ideale che reale) dell’Impero romano-germanico perdeva d’importanza di fronte agli
stati nazionali, in primo luogo la Spagna e il Regno di
Francia. Poi, con il venir meno del latino come mezzo
di comunicazione, anche le diverse culture e le varie filosofie nazionali si separarono sempre più l’una dall’altra. La filosofia italiana, la filosofia francese, la filosofia inglese e la filosofia tedesca del Seicento,
Settecento e Ottocento avranno sempre meno in comune tra loro, malgrado un crescente scambio letterario. L’uomo moderno vivrà in un ambiente culturale
più limitato rispetto a quello medievale, in un’esistenza
per così dire «isolare», circondata da un mare intellettuale straniero e talvolta anche estraneo per lui. Il sentimento di estraneità (che poteva anche mutarsi in curiosità) veniva rafforzato dalle notizie che arrivavano
dai continenti e dalle culture che venivano via via scoperte. Queste notizie distruggevano definitivamente
l’illusione di un mondo chiuso, essenzialmente medi-
3. Tale insicurezza esistenziale ha trovato la sua
espressione più famosa e più influente nella domanda
di Lutero: «Wie kriege ich einen gnädigen Gott?»,
«Come posso ottenere io un Dio clemente?». È una domanda tipicamente moderna. Il problema della mia salvezza, il mio destino di singolo individuo: ecco il problema religioso fondamentale dell’uomo moderno.
Soltanto in un secondo momento egli si interessa anche
della redenzione dell’intera famiglia umana o del giusto culto da rendere a Dio. La risposta a questa sua domanda, Lutero non la cercava più, come l’uomo tardomedievale, in un moltiplicarsi di sforzi rituali per
rendersi gradito a Dio e per meritarsi la salvezza, ma
al contrario nella pura interiorità della sua fede personale. Tale interiorità aveva già caratterizzato il movimento spirituale che si è definito, anch’esso, «moderno»: la devotio moderna. Nella sua interiorità l’uomo
luterano si trova in contatto con Dio e ciò in modo immediato senza mediazione della Chiesa o dei sacramenti. Si va verso il pietismo e la «fede» di Jacobi e di
Kierkegaard.
Con ciò si tocca quello che è senza dubbio l’aspetto
più caratteristico della cultura moderna e l’effetto più
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visibile della «via moderna»: la bipartizione religiosa
del mondo europeo tra le sue regioni cattoliche e
quelle marcate dalla Riforma protestante. Tale bipartizione, dapprima geografica, avrà le sue conseguenze
ben presto anche nel mondo della cultura. Dalla metà
del Cinquecento in poi, ogni sviluppo e fenomeno culturale europeo sarà inevitabilmente o cattolico o protestante. Man mano che i decenni andranno avanti,
questi due mondi moderni si distingueranno sempre
di più – fino a che, più vicino a noi, le differenze confessionali si attenueranno, non certo per un effetto di
riconciliazione, ma a causa di un crescente disinteresse
per la dimensione religiosa, vale a dire per la dilagante
secolarizzazione. Anche la breve panoramica sulla figura (o le figure) dell’uomo moderno, che adesso si
tratterà di abbozzare, sarà marcata dalla bipartizione
confessionale.
II. La «via moderna» figlia del suo tempo
È relativamente facile abbozzare tale panoramica
partendo dalla storia della filosofia moderna. Ogni filosofia, osserva Hegel, è «figlia del suo tempo», lo rispecchia nel pensiero e ne spiega le cause più profonde
e talvolta lo precorre. «La filosofia è il suo tempo
espresso nel pensiero».4
Il cogito cartesiano
1. In genere si fa partire la filosofia moderna da
René Descartes e dal suo cogito. Il cogito cartesiano non
fu il capriccio di un filosofo solitario in cerca di originalità, ma la risposta precisa a un problema specificamente moderno: l’urgenza di far accettare dal pubblico
e dalla Chiesa la scienza galileiana insieme con il modello copernicano del sistema solare che questa scienza
implicava. La nuova scienza galileiana, basata su modelli matematici, era in contraddizione troppo aperta
con l’evidenza dei sensi per essere facilmente accettata.
L’aristotelismo tradizionale sembrava «salvare i fenomeni» molto meglio. Si trattava dunque, per Descartes,
di scardinare l’aristotelismo e l’apparenza dei sensi, per
poi stabilire l’applicabilità della matematica anche al
mondo fisico e non soltanto all’astronomia. Al primo di
questi due compiti serviva il dubbio metodico, che lasciava di certo e indubitabile soltanto il cogito, il puro
esser-cosciente, e quei contenuti di coscienza (o «idee»)
che si rivelano assolutamente innegabili, come la matematica. Con ciò Descartes operò, simultaneamente,
la svolta moderna alla soggettività e a una visione
«scientifica» del mondo, ossia a un mondo matematizzabile, «ideale», trasparente al pensiero e meccanicamente manipolabile.
Tale concezione scientifico-matematica del mondo
rafforzava ancora l’importanza che la «via moderna»
aveva attribuito al singolo, riducendo l’universale, non
più a un flatus vocis, ma a una struttura matematica.
Galilei aveva considerato la struttura matematica del
mondo ancora in modo oggettivo, come un «libro della
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natura», scritto da Dio in lingua matematica.5 La svolta
cartesiana invece invitava a considerare la struttura
matematica della res extensa soggettivamente, come
puro contenuto di coscienza. Bisognerà però aspettare
Kant per vedere chiaramente proposta tale conclusione, peraltro ovvia. Se i più importanti successori di
Descartes, i Malebranche, Spinoza, Leibniz, Berkeley
e Newton, fondavano ancora la struttura matematicoscientifica del mondo (di un mondo sempre meno oggettivamente esistente) immediatamente in Dio,
reminiscenza moderna dell’idealismo platonico, la
«svolta copernicana» di Kant attribuiva all’uomo lo
stesso ruolo di garante della scienza che finora si era
attribuito a Dio, potenziando all’estremo l’importanza
dell’individuo umano.
Fichte e Schelling cercarono di evitare tale conseguenza estrema del pensiero kantiano, sottolineando
vuoi l’importanza di un’Anstoss, vuoi la prevalenza di
un «empirismo superiore» o di una «filosofia positiva»
sopra la «filosofia negativa», puramente speculativa.
Nella filosofia hegeliana, invece, il ruolo del soggetto
pensante («un io che è un noi, e un noi che è un io»6)
come centro costitutivo del mondo troverà la sua
espressione più perfetta. La logica umana, dirà Hegel,
è identica all’essenza trinitaria di Dio «prima della
creazione del mondo»7 – curioso ritorno a una teologia
intellettualistica di tipo pre-moderno.
Che cosa risulta da questi sviluppi di un filosofare
apparentemente lontano da ogni realtà vissuta per la
figura dell’uomo moderno? La crisi galileiana aveva
spostato l’uomo dalla sua posizione tranquilla nel centro del cosmos, dotandolo invece di una scienza matematica destinata a favorire le sue attività tecnicopratiche. Le meditazioni cartesiane sulla scienza
galileiana presentavano poi il mondo, la res extensa,
non più come creatura di Dio, da rispettare come
tale, ma come una specie di materiale da adattare e
trasformare con l’aiuto della scienza secondo il volere
umano. Tale visione del mondo, caratteristica per
l’uomo moderno, sottendeva già le imprese di coloro
che avevano scoperto nuovi continenti, e Galilei e
Descartes non avevano fatto che formalizzarla, dotandola di un fondamento teoretico.
Il razionalismo e l’empirismo
2. Comunemente si presenta la storia della filosofia
moderna distinta in due correnti, il razionalismo e
l’empirismo. Fin qui si è seguito lo sviluppo del razionalismo moderno che sfocia nel pensiero onninclusivo,
quasi divino di Hegel. Tale linea di pensiero era però
troppo ardua, troppo distante dal vivere quotidiano per
aver presa sulla maggioranza dell’umanità moderna.
Perciò il pensiero empirista, che va da Francis Bacon a
David Hume e a Thomas Reid, e che sfocerà nell’Illuminismo, Les Lumières francesi e la Aufklärung tedesca, è ancora più caratteristico della mentalità moderna.
L’empirismo prese l’avvio da un altro topos della
«via moderna», la preminenza della conoscenza sensibile di dati concreti – un modo di vedere ovvio per
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l’uomo della strada. Tale modello epistemologico
molto semplice, per non dire semplicistico, sarebbe
però rimasto insoddisfacente se non fosse servito a fini
pratici – dapprima socio-politici in Hobbes e Locke,
e poi per la produzione materiale, anzi industriale di
beni utili per la vita. Il successo editoriale della Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts
et des métiers fu merito soprattutto dei sette magnifici
volumi di Tavole, che svelavano tutti i segreti delle attrezzature meccaniche per una produzione pre-industriale. Peraltro anche l’idea della divisione del lavoro,
che ha reso possibile la produzione propriamente industriale, sembra derivare, in ultima analisi, dalla
frantumazione del mondo materiale nel pensiero empirista. L’uomo moderno sarà sempre più un homo industrialis – fino a diventare, nei nostri giorni, homo
finanziarius, il cui contenuto di vita sono cifre di affari, astrazione estrema ed estremamente manipolabile del mondo materiale.
Tale sviluppo economico, avvenuto principalmente in ambiente empirista, non sarebbe però stato
possibile senza la precedente valorizzazione razionalista del pensare umano. Da una parte, infatti, il progresso tecnico presupponeva anche un progresso della
scienza, dall’altra, era la coscienza del proprio valore
di esseri pensanti, autonomi e capaci di realizzare i
propri progetti, che animava i pionieri industriali e gli
imprenditori. L’uomo della Aufklärung, borghese e
intraprendente, sicuro di sé, e critico di ogni autorità,
era il prodotto di quel movimento di pensiero che
aveva preso il suo avvio dalla filosofia di Descartes.
Non a caso è proprio Kant ad aver dato la migliore
definizione di tale uomo moderno: «La Aufklärung,
l’Illuminismo, è l’emancipazione dell’uomo dalla sua
condizione minorile, di cui egli stesso è responsabile.
La condizione minorile è l’incapacità di servirsi della
propria ragione senza la guida di un altro. L’uomo
stesso è responsabile di tale condizione se essa non risulta dalla mancanza di ingegno, ma dalla mancanza
di coraggio e di decisione per servirsene senza la
guida di un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria ragione: ecco dunque la parola
d’ordine dell’Illuminismo».8
pongono continuamente in modo diverso. Per percepirle nella loro purezza è bene rivolgersi alla letteratura,
perché la letteratura, ancora più della filosofia, ci presenta la realtà in modo idealizzato.
Nella letteratura tedesca della fine del Settecento si
trovano due figure emblematiche per quanto si cerca di
analizzare, e che sono entrate nel patrimonio culturale
universale: il Faust di Goethe per l’uomo del fare e, in
simmetria quasi contemporanea, il Wallenstein di
Schiller come modello dell’uomo che vive per le sue
sole idee. Faust, nella seconda parte del dramma, intraprende e realizza iniziative tecniche per il bene dell’umanità (come peraltro anche il dottor Faust storico
e lo stesso Goethe), mentre Wallenstein si perde sempre
più nel suo pensiero di potere, fino a rinnegare il suo
Signore, l’imperatore, e persino il proprio destino che
pure crede iscritto nelle stelle. La realtà però non si
piega alle sole idee, e la trilogia drammatica del Wallenstein finisce nello scacco più assoluto, mentre il
Faust, che si dà da fare, alla fine viene salvato: «Wer
immer strebend sich bemüht, den können wir erlösen»,
«Chi senza sosta si dà premura, può essere da noi salvato».9
Queste due figure dei tempi moderni, che la letteratura ci presenta nella loro purezza archetipica, si ritrovano anche nella filosofia post-hegeliana. Da una
parte Karl Marx, teorico dell’homo industrialis, che voleva «cambiare il mondo invece di spiegarlo soltanto
in modo diverso».10 Dall’altra parte Friedrich Nietzsche, il pensatore pseudo-eroico, che pensava di poter
far avvenire una nuova umanità per la sua «volontà di
potenza». Ma tra i due si trova una terza figura, che il
nostro discorso finora non ha toccato: Søren Kierkegaard, figura dell’homo religiosus moderno, uomo dell’angoscia esistenziale e della fede fiduciale, il «singolo»
che nella sua interiorità si trova confrontato con Dio
in assoluta solitudine – vale a dire senza la mediazione
di una Chiesa.
III. La «via moderna» e la Chiesa
3. Così, nella retrospettiva, si delineano due figure
tipiche dell’uomo moderno: l’imprenditore e lo scienziato, l’uomo del fare e del produrre, e l’uomo del progettare la costruzione di un mondo secondo le sue idee
– due figure che nella realtà si intrecciano e si sovrap-
Qui riappare, verso la fine dell’epoca moderna, ciò
che è stato il tema complessivo del Congresso:
«L’uomo moderno e la Chiesa». Quale risposta ha trovato o potrebbe trovare l’uomo moderno in quello che
la Chiesa gli può offrire? E qual è il rapporto della
Chiesa cattolica romana con tutto ciò che si è detto
sull’uomo moderno? Prima di dare una risposta a que-
1
Da questo assunto partiva J. Maréchal per il suo aggiornamento
del tomismo all’èra post-kantiana, cf. J. MARÉCHAL, Précis d’histoire de
la philosophie moderne.
2
Il libro di N. COPERNICO De revolutionibus orbium caelestium è
del 1543, e la cosmologia di G. BRUNO, De l’infinito, universo e mondi,
del 1584.
3
Cf. Ž. DADIĆ, «Bošković and the Question of the Earth’s Motion»,
in The Philosophy of Science of Rud̄er Bošković, Zagreb 1987, 131-138.
4
G.W.F. HEGEL, «Vorrede», in Grundlinien der Philosophie des
Recht, 1821, in Werke VIII, 1833, 18.
5
Cf. G. GALILEI, Il Saggiatore, 1623, n. 6, in Opere V, 232.
6
HEGEL, «IV. Die Wahrheit der Gewissheit seiner selbst», in Die
Phänomenologie des Geistes, 1807, Hoffmeister, Leipzig 1937, 140.
7
HEGEL, «Einleitung. Allgemeiner Begriff der Logik», in Wissenschaft der Logik, 1812, in Werke III, 1833, 36.
8
I. KANT, Beantwortung der Frage. Was ist Aufklärung? 1784, in
Ausgabe der Preußischen Akademie der Wissenschaften, Berlin 1900ff,
AA VIII, 35.
9
J.W. VON GOETHE, «5. Akt, Bergschluchten, Engel», in Faust.
Der Tragödie zweiter Teil.
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K. MARX, Thesen über Feuerbach. These 11, in Marx-EngelsGesamtausgabe (MEGA) V, 533.
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sti quesiti occorre chiarire che cosa si intende con
«Chiesa». Si parla della gerarchia, del magistero, o si
intende tutta la Chiesa, il popolo di Dio in cammino,
fedeli e gerarchia insieme? Per considerare la «modernità ritrovata dalla Chiesa»11 sarà bene tener conto, in
primo luogo, di tutte le persone, fedeli e gerarchia, che
compongono la Chiesa, perché sono soprattutto i fedeli che hanno vissuto in prima persona i tempi moderni. Articolo questo tentativo di risposta in quattro
punti.
nieri di diverse scienze moderne. L’influsso più profondo e durevole di sant’Ignazio è però da ricercare in
un altro campo: negli Esercizi spirituali, strumento di formazione cristiana dell’uomo moderno, ossia del singolo
di fronte alla volontà di Dio.
Altri esempi di santi altrettanto «moderni» sarebbero
san Filippo Neri, con i suoi oratori – l’Oratorio è complemento quasi necessario dell’opera di sant’Ignazio –,
san Francesco di Sales, san Vincenzo de’ Paoli; e tra le
sante santa Teresa d’Avila, mistica e attivissima insieme,
e non pochi altri e altre.
I santi nella modernità
1. Dapprima saranno da considerare quelle persone
– ovvero quei «singoli» – che più intensamente hanno
vissuto la vita della Chiesa, al fine di vedere come loro
hanno visto e vissuto la modernità. Queste persone sono
i santi e le sante. Tra essi si trovano non pochi che erano
uomini e donne esplicitamente moderni che vivevano
in piena consonanza con il loro tempo, accettando e
promuovendo la cultura moderna.
Serva d’esempio sant’Ignazio di Loyola con la triplice
dimensione della sua fondazione: l’evangelizzazione dei
nuovi continenti scoperti, la promozione della riforma
cattolica e la fondazione di Collegi per la formazione dei
giovani e del clero nelle scienze anche moderne. Basti ricordare che Descartes ha ricevuto la sua formazione nel
Collegio di La Flèche che teneva in alta stima. Del Collegio romano sarebbero da menzionare Clavius e Scheiner e più tardi Ruder Boscovich e Angelo Secchi, pio-
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Il moderno ritrovato nella cultura barocca
2. Un secondo esempio della modernità ritrovata
dalla Chiesa può essere la cultura e l’arte barocca, ultima cultura forgiata dal cattolicesimo, che fiorì dalla
metà del Seicento alla metà del Settecento. Il Barocco
è anche l’epoca di una nuova fioritura della mistica,
mistica soggettiva, dell’interiorità, iniziata già con la
devotio moderna, che si espandeva in Spagna e in Francia e un po’ meno in Germania. È l’epoca della musica barocca, che per lo più è musica sacra, e dei
drammi cristiani di un Calderón, un Corneille e un
Racine, per non dire di Shakespeare, drammi che
spesso presentano un «singolo» confrontato con l’universale, sia questo il suo ruolo sociale, il suo destino o
l’ordine pubblico.
La testimonianza più evidente dello spirito insieme
moderno e religioso del Barocco si trova però nell’architettura. A differenza delle basiliche paleocristiane e
delle chiese romaniche e gotiche, le chiese barocche palesano immediatamente la soggettività dei loro costruttori. Questi giocano liberamente con la materia,
formandola a loro gusto e non più secondo canoni tradizionali. Lo stesso vale degli scultori e dei pittori. Basti
pensare a un Borromini per l’archittetura, un Bernini
per la scultura e un Andrea Pozzo per la pittura. L’edificio come tale perde d’importanza, si riduce a essere
un involucro per l’interno riccamente decorato.
Quando il fedele entra in questa «interiorità» architettonica, vi trova una visione della gloria celeste e una liturgia che colma tutti i suoi sensi. La facciata, ricca e
movimentata, preannuncia quello splendore, invitando
a entrarvi. Il Barocco infatti è anche l’epoca dell’apologetica, che intende far accettare dall’uomo moderno
una fede da cui egli sempre più si distanzia, ed è anche
l’epoca della propagazione della fede, particolarmente
nelle colonie spagnole e portoghesi, con un vistosissimo
Barocco. Testimone principale dell’apologetica moderna è Pascal, ma sarebbero da menzionare anche
Mersenne e persino Descartes e, da parte anglicana,
Berkeley.
Se si comparano però le chiese barocche o barocchizzate a Roma con quelle a Nord delle Alpi, si nota
nelle chiese romane una certa esitazione, per non dire
un certo imbarazzo. Il loro esterno, talvolta proprio
brutto, non combacia con le decorazioni interne, e la
facciata, spesso sproporzionata, si presenta come un
corpo estraneo artificialmente appiccicato all’edificio.
Espressione questa, ci si potrebbe domandare, di un
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certo malessere romano di fronte a una cultura moderna?
Di fatto, dopo la cultura barocca, insieme moderna
e cristiana, si constata dalla seconda metà del Settecento
una crescente alienazione tra Chiesa e mondo moderno.
È l’epoca del deismo e dell’Illuminismo, che sfocerà
nella Rivoluzione francese con le sue persecuzioni anche
religiose. Come conseguenza, gran parte dell’Ottocento
sarà marcata da una diffidenza dei cattolici e della gerarchia verso la società post-rivoluzionaria, accompagnata non di rado da una nostalgia dell’Ancien régime.
Eppure all’inizio dell’Ottocento non è mancata
un’altra cultura europea con netta affinità cattolica, il
romanticismo. Basti citare il nome di Chateaubriand in
Francia e il movimento di conversione o di ritorno al
cattolicesimo in Germania per convincersi di tale affinità cattolica del Romanticismo, nato, è vero, da altre
radici. La sua nostalgia dei tempi pre-moderni lo portava a rivalutare, idealizzandola, la cristianità medievale.
Sintomatico lo scritto del luterano Novalis La cristianità
ossia l’Europa; sintomatica anche l’architettura che produce di preferenza edifici neo-gotici, nonché la pittura
nazarena e preraffaellita. Quasi tutto l’Ottocento sarà
anche nella Chiesa un’epoca di nostalgie. Nel campo
dell’arte sacra questa situazione è cambiata soltanto
negli anni Venti e Trenta del Novecento. Da allora si è
imposta un’architettura sacra decisamente moderna che
talvolta, come nel primo Barocco, ha preso persino la
guida di un più ampio rinnovamento architettonico, seguito poi da altri rami dell’arte sacra.
La riconciliazione tra fede cattolica e spirito moderno
3. Eppure si poteva già notare, sin dall’inizio dell’Ottocento e da parte di autori cattolici, l’elaborazione
di una serie di nuovi tentativi teologici e filosofici intesi
a riconciliare la fede cattolica con lo spirito moderno. È
facile elencare alcuni nomi ben conosciuti di tali autori:
in Italia Gioberti e Rosmini, in Francia de Lamennais
(prima maniera), Bautain, de Bonald, in Germania la
scuola di Tubinga e Hermes, Günther e Döllinger. Nomi
di fronte ai quali non si può che notare come la fama
derivi anzitutto dalle censure ricevute dal magistero.
Solo verso la fine del secolo appaiono due autori il
cui influsso positivo non solo perdura, ma va aumentando: Newman in Inghilterra e Blondel in Francia. Ma
anche su questi, se non furono esplicitamente censurati,
incombevano diffusi sospetti – indizio questo che la riconciliazione della fede cattolica con lo spirito moderno
non era certo facile, ma forse anche un indizio delle difficoltà che provava il magistero ad approvare tale aggiornamento.
Più fortunati furono gli altri che, nella scia del Romanticismo, tentavano di riproporre in chiave moderna
la filosofia e la teologia del Medioevo. Quasi in parallelo col neogotico, nasceva così un neotomismo e una
neoscolastica. Fu un’autentica riscoperta, perché estintasi la seconda scolastica, la tradizione era caduta in to11
«La modernità ritrovata dalla Chiesa» era il tema e il titolo dell’ultima seduta del Congresso (durante la quale la relazione è stata pronunciata; ndr).
tale dimenticanza nelle scuole cattoliche.12 Ciò che si insegnava allora era un mitigato lockianismo o, peggio ancora, un’«ideologia» alla Destutt de Tracy, combinato
con una specie di atomismo. Contro queste tendenze i
neotomisti proponevano la loro dottrina come antidoto
allo spirito del loro tempo, considerato deleterio. Così
per esempio il Liberatore, così più tardi l’enciclica Aeterni Patris. Ma si trova tra i neoscolastici anche chi,
come Kleutgen, rilegge la filosofia e la teologia del Vorzeit con occhi moderni. Lo stesso fece il più famoso discepolo del Kleutgen, Joseph Matthias Scheeben, e più
vicini a noi, un Gilson, il domenicano Sertillanges e i
gesuiti Rousselot e Maréchal.
Questi nomi, che appartengono già al primo Novecento, sono testimoni di una nuova dimensione dell’incontro cattolico con la modernità, legato agli studi storici
che fecero scoprire il vero volto del Medioevo, più diversificato di quanto ci si sarebbe aspettato. Tra i pionieri
tedeschi di tale riscoperta sono da menzionare il card.
Ehrlé e mons. Grabmann. Alla riscoperta della vera scolastica medievale si aggiungeva poi quella dell’età patristica e della sua ricca teologia. Paradossalmente, furono
proprio gli studi storici a promuovere un aggiornamento
della filosofia e della teologia cattoliche alla modernità.
Fecero scoprire nel passato tratti ed elementi non tanto
distanti dalle preoccupazioni moderne che permettevano
un autentico dialogo con la modernità. I promotori più
influenti di tale aggiornamento teologico furono le Sources chrétiennes e la théologie nouvelle con il card. de Lubac
e i suoi discepoli più famosi, il card. Daniélou e Hans
Urs von Balthasar, i domenicani Congar e Chenu, nonché il più prestigioso seguace del p. Maréchal, Karl Rahner. Altri non meno meritevoli sarebbero da aggiungere,
un Joseph Ratzinger e, in un’altra disciplina e area culturale, un Karol Wojtyla con il suo tomismo fenomenologico. Fu questa tendenza, innovatrice grazie a una più
illuminata fedeltà alla tradizione, che divenne determinante al concilio Vaticano II.
Il magistero di fronte alla modernità
4. Come quarto e ultimo punto rimane da esaminare
l’atteggiamento del magistero di fronte alla modernità.
Sfogliando l’Enchiridion symbolorum del Denzinger, ci
si rende facilmente conto che per quasi tre secoli, dal
concilio Tridentino fino al secondo terzo dell’Ottocento, il magistero guardò alla modernità con sospetto
e rimase distante, se non addirittura polemico. Con il
concilio Vaticano I cominciò ad aprirsi qualche spiraglio. Questo concilio, che lo si voglia o no, appare effettivamente marcato dallo spirito moderno, e non
solo in chiave negativa. Se si rilegge oggi la costituzione Dei Filius sulla fede e sul rapporto tra ragione e
fede, si nota che propone un’apologetica specificamente moderna con il ricorso a prove tangibili, offerteci da un Dio «qui nec falli nec fallere potest» – che è
una citazione quasi testuale di Descartes.13 La definizione dell’infallibilità pontificia respira lo stesso spirito
12
Serva d’esempio un libro di testo del primo Ottocento, conservato nella biblioteca del Collegio germanico, che dai padri della Chiesa
passa direttamente a René Descartes.
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tudi e commenti
cartesiano, preoccupandosi più della certezza soggettiva che della verità oggettiva dei pronunciamenti del
magistero pontificio. Indizi questi del fatto che anche
i vescovi, riuniti in concilio, non potevano sottrarsi allo
spirito della modernità, più o meno involontariamente.
Poco dopo il concilio Vaticano I iniziava il lungo pontificato di Leone XIII, èra di una cauta riconciliazione
della Chiesa con la cultura moderna, nella qual veniva
riconosciuta alla cultura e anche allo stato moderno una
certa autonomia. La politica leoniana del ralliement è
tanto più apprezzabile in quanto da parte degli stati, già
largamente secolarizzati, mancava la reciprocità. Si pensi
al laicismo in Francia e in Italia, al Kulturkampf tedesco
e alla questione romana. L’atto più importante del pontificato di Leone XIII rimane però l’enciclica Rerum novarum che inaugurava la dottrina sociale della Chiesa
dimostrando che il magistero aveva preso coscienza dello
stato socio-economico reale del suo tempo. Effettivamente la dottrina sociale è stato il contributo forse più importante che la Chiesa ha potuto offrire al nostro mondo
moderno e post-moderno.
Si noterà anche che gli interventi del magistero non
riguardano più tanto le dottrine teologiche, quanto le circostanze di vita delle persone. La Chiesa sta raggiungendo il mondo moderno facendosi più pastorale.
All’inizio del Novecento, però, le aperture leonine
entravano in crisi nella lotta contro il modernismo, eresia in parte reale in parte costruita, che prese il suo avvio
dallo sconsiderato zelo per la modernità dell’esegeta
Loisy e dall’incrocio di questo zelo con la questione romana. Ma il principale danno che il modernismo ha recato alla Chiesa non sta nelle sue piuttosto vaghe
posizioni dottrinali, ma nella polarizzazione antimodernista dell’insegnamento teologico che ha provocato e
che è persistita fin verso la metà del secolo scorso. Soltanto allora, con le tre grandi encicliche di Pio XII, Mystici Corporis, Divino afflante Spiritu e Mediator Dei, fu
preparata la via per quell’«aggiornamento» che Giovanni XXIII propose come programma al concilio Vaticano II. Il giovane Giuseppe Roncalli aveva vissuto in
prima persona la crisi modernista, poiché il presbyter assistens per la sua prima messa era stato lo stesso Buonaiuti. Forte delle aperture piane poteva poi convocare il
concilio Vaticano II, inteso soprattutto in senso pastorale. A questo punto, forse un po’ tardi, il magistero
della Chiesa stava ritrovando la modernità.
Nelle sue prime tre costituzioni, il Concilio riprese e
sviluppò le tematiche delle tre encicliche pacelliane, la liturgia, la Chiesa e la rivelazione, aggiungendo poi, quasi
in extremis, una quarta costituzione specificamente pastorale, che risponde in chiave cristologica alle problematiche dell’uomo e del mondo moderno. Lo stesso
fanno anche, puntualmente, i decreti e le dichiarazioni
sull’ecumenismo, sulle religioni non cristiane, sulla libertà religiosa. Non è necessario, in questa sede, riprendere più in dettaglio questi «aggiornamenti», che
rimangono ancora ben presenti.
Da storico della filosofia moderna mi permetto soltanto un’ultima osservazione, che può aprire una pro-
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spettiva su futuri compiti di ulteriori aggiornamenti.
Nell’enciclica Fides et ratio, testo peraltro in larga consonanza con la modernità, si nota una strana reticenza
verso la filosofia moderna, che nella parte storica dell’enciclica viene descritta soprattutto in chiave negativa.
Ma alcune pagine più in là, discutendo il concetto di «filosofia cristiana» (tema caro a p. Tilliette), il testo rileva
che i filosofi moderni si sono occupati «dell’importanza
che ha anche per la filosofia l’evento storico, centro della
rivelazione», nonché della «necessità di esplorare la razionalità di alcune verità espresse dalla sacra Scrittura,
come la possibilità di una vocazione soprannaturale dell’uomo e anche lo stesso peccato originale». Onde il
testo conclude: «Si può dire che, senza questo influsso
stimolante della parola di Dio, buona parte della filosofia moderna e contemporanea non esisterebbe». Soggiungendo poi cautamente che «il dato conserva tutta
la sua rilevanza, pur di fronte alla deludente costatazione dell’abbandono dell’ortodossia da parte di non
pochi pensatori di questi ultimi secoli».14
«Chiesa e modernità»: una questione aperta
Da ciò si può ricavare una triplice conclusione, una
«conclusione aperta» in senso blondeliano per la problematica «Chiesa e modernità»:
a. La filosofia moderna, da cui derivano alcune delle
idee direttrici della modernità, era di fatto largamente
ispirata, anzi resa possibile da idee cristiane. Si tratterà
dunque di riscoprire e di rimettere in auge queste idee.
b. Di fatto però, la maggior parte dei pensatori precursori o emblematici della modernità furono o precursori della Riforma protestante o protestanti essi stessi. Ciò
potrebbe spiegare almeno in parte la riservatezza e il sospetto del magistero riguardo alla modernità. Ritrovare la
modernità da parte della Chiesa cattolica sarà pertanto
anche e forse in primo luogo un problema ecumenico.
c. La breve e necessariamente approssimativa panoramica sui tempi moderni, che qui si è cercato di
proporre, sembra aver dimostrato che la modernità fu
ritrovata non tanto dalla Chiesa come tale, ossia dal
magistero, ma prima di tutto da singole persone, siano
questi santi o sante, artisti o pensatori, persone comunque che influivano sulla cultura del loro tempo.
Da questa osservazione si potrebbe desumere che il
compito di ritrovare la modernità non si può devolvere
alla Chiesa come tale né alla sola gerarchia. Il compito,
che sembra essere una vera missione, incombe invece
a ogni singola persona cattolica, che dovrà compierlo
nella sua vita, al suo posto e con la sua propria competenza. Da questo, è permesso sperare, nascerà una
nuova e variegata cultura cattolica moderna o piuttosto post-moderna.
PETER HENRICI
13
Cf. R. DESCARTES, «Meditatio IV. De vero et falso», in Meditationes de Prima Philosophia, in Œuvres, ed. C. Adam, P. Tannery, Cerf,
1897-1913, 13 voll.; nuova ed. completa, Vrin-CNRS, 1964-1974, 11
voll. (edizione di riferimento), VII, 53.
14
GIOVANNI PAOLO II, lett. enc. Fides et ratio circa i rapporti tra
fede e ragione, 14.9.1998, n. 76; EV 17/1331-1335.
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