ATTO AMMINISTRATIVO E LEGGE INCOSTITUZIONALE: PROFILI SOSTANZIALI E PROCESSUALI Giovagnoli Roberto Cons. Giust. Amm. Sic. (Ord.), 13 giugno 2001, n. 458 FONTE Urbanistica e appalti, 2002, 2, 223 Sommario: La condizione giuridica della legge incostituzionale prima della dichiarazione di incostituzionalità - Le posizioni intermedie: la natura «mista» della pronuncia di incostituzionalità - Gli effetti della pronuncia di incostituzionalità sui provvedimenti amministrativi: la tesi dell'annullabilità La tesi che distingue a seconda che la legge incostituzionale attribuisca il potere o ne disciplini l'esercizio - La c.d. illegittimità comunitaria dell'atto amministrativo - Processo cautelare e incidente di legittimità costituzionale - Tutela cautelare e incidente di costituzionalità nel rito abbreviato introdotto dall'art. 23-bis L. n. 1034/1971 L'ordinanza in esame si pronuncia sulla controversa questione dei rapporti tra incidente di costituzionalità e procedimento cautelare e, in particolare, sull'ammissibilità della tutela cautelare in favore di situazioni giuridiche minacciate da norme sospettate di incostituzionalità. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa riforma la pronuncia del giudice di primo grado - il quale si era limitato a sospendere il giudizio cautelare senza provvedere sulla domanda incidentale di sospensione dell'esecuzione del provvedimento - e ribadisce il principio, già affermato dall'Adunanza Plenaria nell'ordinanza n. 2 del 1999 (1), secondo cui nella fase cautelare del procedimento giurisdizionale, al fine di conciliare il carattere accentrato del controllo di costituzionalità delle leggi con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, spetta al giudice a quo, ove ne ricorrano i presupposti, il potere-dovere di concedere il provvedimento di sospensione, rinviando alla fase di merito - al quale l'ordinanza cautelare è strumentalmente collegata ed in funzione del quale soltanto può assumere rilevanza la questione di costituzionalità - il controllo della Corte Costituzionale con effetti erga omnes. Il problema, tuttavia, nonostante la soluzione cui sembra ormai orientato il Consiglio di Stato, rimane complesso e non ancora del tutto chiarito. L'interferenza tra i due istituti del giudizio cautelare e dell'incidente di costituzionalitàdetermina infatti un conflitto in apparenza insanabile, in cui, quale che sia la soluzione che si accoglie, si consuma comunque uno strappo alle regole: se il giudice rigetta la domanda cautelare applica la legge sospetta di incostituzionalità; se accoglie la domanda disapplica la legge, in contrasto con la struttura accentrata del sistema di controllo di legittimità costituzionale; se sospende semplicemente il giudizio senza somministrare la tutela cautelare finisce per vanificare le esigenze sottese all'esistenza stessa del giudizio cautelare volto ad evitare che la durata del processo vada a danno del ricorrente che ha ragione. Si profila allora per il giudice amministrativo «una tensione drammatica tra contrapposti doveri [...] perché pregiudizialità costituzionale vuol dire sindacato accentrato, dunque sospensione del giudizio a quo in attesa della pronuncia della Corte, mentre giudizio cautelare vuol dire periculum in mora, dunque lotta del ricorrente che ha ragione contro il tempo» (2). La soluzione al problema va ricercata nei principi, tenendo conto in particolare del dibattito che si è sviluppato intorno a due tematiche strettamente collegate a quella in esame: l'efficacia che deve riconoscersi alla legge incostituzionale prima che sia dichiarata tale, da un lato; le conseguenze che la pronuncia di incostituzionalità della legge produce sull'atto amministrativo emanato in base ad essa, dall'altro. La condizione giuridica della legge incostituzionale prima della dichiarazione di incostituzionalità La questione dell'efficacia da riconoscere alla legge incostituzionale prima della dichiarazione di incostituzionalità è stata, soprattutto in passato, al centro di un intenso dibattito dottrinale nell'ambito 1 del quale sono state sostenute, con grande varietà di argomentazioni, numerose tesi, da quella secondo cui la legge - benché invalida e quindi annullabile - è fino alla pronuncia della Corte efficace, a quella che la ritiene, invece, nulla e, quindi, anche per l'innanzi non obbligatoria. L'orientamento per il quale la legge incostituzionale, ancorché invalida, è fino alla pronuncia della Corte pienamente efficace ed operante è seguito dalla prevalente dottrina (3). A sostegno di questa posizione si rileva, in primo luogo, sul piano letterale, che l'art. 136 Cost., quando definisce l'effetto delle sentenze di accoglimento, si esprime in termini di cessazione dell'efficacia delle norme dichiarate incostituzionali, con ciò presupponendo logicamente che fino a quel momento una qualche efficacia esse abbiano avuto (4). Si afferma poi che un'invalidità che non può essere accertata se non da un solo organo, attraverso un determinato procedimento ad esclusione di ogni altro, si risolve in una forma di annullabilità e non di nullità (5). L'opposta tesi, invece, muovendo dal presupposto secondo cui può considerarsi efficace soltanto la legge la cui osservanza l'ordinamento consideri dovuta e la cui inosservanza consideri antigiuridica e suscettibile di dar luogo alla reazioni all'uopo predisposte dall'ordinamento medesimo, giunge alla conclusione secondo cui la legge incostituzionale è nulla e, pertanto, del tutto inidonea a produrre effetti, sicché la sentenza di accoglimento altro non farebbe se non accertare autoritativamente e definitivamente questa nullità (6). Si osserva, infatti, che riconoscere efficacia ad una legge contrastante con un precetto della Costituzione porterebbe a ritenere che l'efficacia di quest'ultimo rimanga in qualche modo sospesa nei limiti in cui la legge ordinaria ne disconosce la portata, sicché nel conflitto tra due norme potenzialmente applicabili entrambe alla stessa fattispecie finirebbe sia pure temporaneamente per prevalere non già, come la logica del sistema lascia intuire, la norma più resistente, bensì quella meno resistente (7). D'altra parte, secondo questa tesi, se la legge incostituzionale fosse obbligatoria prima della sentenza che ne dichiara l'illegittimità, dovrebbe concludersi che l'ordinamento avrebbe affidato in molti casi l'attuazione concreta della garanzia costituzionale alla eventualità che la legge - incostituzionale ma pur sempre obbligatoria - venga violata magari con l'esplicito intento di dar vita ad una lis ficta, instaurata al solo scopo di poter sollevare incidentalmente la questione di illegittimità costituzionale e di portarla davanti alla Corte Costituzionale. Il meccanismo per l'accertamento dell'incostituzionalità avrebbe allora come punto di partenza la violazione di un obbligo giuridico o, quanto meno, la contestazione circa l'esistenza di un obbligo, effettivo anche se discendente da una legge invalida. Le posizioni intermedie: la natura «mista» della pronuncia di incostituzionalità Tra queste due posizioni estreme - l'una volta ad affermare l'obbligatorietà della legge incostituzionale fino al momento della sentenza della Corte, l'altra che ne sostiene invece la radicale nullità - sono riscontrabili in dottrina delle soluzioni intermedie. Secondo alcuni Autori, ad esempio, la legge incostituzionale non è obbligatoria, ma non è obbligatoria neanche la disobbedienza ad essa, essendo tale disobbedienza solo consentita o ammessa, salvo i casi in cui i singoli si rappresentino con piena consapevolezza l'indiscutibile incostituzionalità della legge (8). In quest'ottica, le sentenze di accoglimento avrebbero natura sia di accertamento sia costitutiva. La decisione di incostituzionalità, oltre all'accertamento ufficiale ed erga omnes del vizio di legge, comporterebbe infatti l'eliminazione di quella possibilità di scelta che è consentita prima della decisione della Corte: «la decisione di incostituzionalità non elimina un presunto dovere di obbedienza, ma fa cadere la possibilità che ciascuno aveva di prestare obbedienza alla legge ed impone a tutti di considerarla priva di efficacia; per il futuro causa di possibili responsabilità sarà difatti l'obbedienza ad essa» (9). Un'altra parte della dottrina, invece, ha dato particolare rilievo al concetto di esecutorietà, distinguendolo da quello di obbligatorietà e validità della legge (10). Si è affermato che le norme 2 incostituzionali prima della dichiarazione della Corte non sono né valide né obbligatorie, ma esecutorie nel senso che solo la pubblica amministrazione ha il dovere di applicarle. Si evidenzia, in particolare, che i giudici, anche se non hanno fino alla sentenza di accoglimento il potere di disapplicare la legge incostituzionale, sono tanto poco obbligati ad applicare questa legge che, nel dubbio, sono tenuti a sollevare d'ufficio la questione di legittimità e a sospendere il giudizio. Anche i singoli, non sarebbero tenuti ad obbedire alla legge incostituzionale, ma al contrario avrebbero l'obbligo di non tenerne conto e, salvo la scusabilità dell'errore e l'inammissibilità di una resistenza agli atti delle autorità esecutivi della legge, risponderanno in ogni eventuale giudizio delle conseguenze dell'obbedienza prestata, una volta che la legge sia riconosciuta incostituzionale. Secondo l'orientamento in esame, tuttavia, le leggi incostituzionali sono esecutorie perché le autorità amministrative sono comunque tenute fino alla dichiarazione della Corte a darvi ciecamente esecuzione. In corrispondenza, la sentenza di accoglimento ha effetti costitutivi (è sentenza di accertamento costitutivo) solo in quanto priva tali leggi della loro esecutorità; per il resto essa non crea ma riconosce la loro invalidità, non le rende nulle ma rende certa la loro nullità (11). Nel senso che le sentenze di accoglimento abbiano natura «mista» si colloca anche quella dottrina (12) secondo la quale queste decisioni, da un lato, determinano ex nunc l'abrogazione della legge (e sotto questo aspetto hanno natura costitutiva), dall'altro, contengono ex tunc l'accertamento definitivo circa l'illegittimità (e in questo senso sono dichiarative). Le sentenze della Corte, per questa tesi, mentre cancellano la legge incostituzionale per il futuro, per il passato non sono efficaci erga omnes, ma esercitano esclusivamente un'efficacia panprocessuale, regolata dall'iniziativa degli interessati che potrebbero, volendolo, determinare la caducazione di tutti i rapporti sorti sulla base della legge illegittima, ivi compresi quelli stabilmente assestatisi. Si tratta di una linea ermeneutica che, come è stato evidenziato (13), è, per un verso, più limitata rispetto alla tesi dominante della annullabilità, in quanto non prevede l'operatività sostantiva erga omnes delle pronunce di accoglimento e, per un altro, è più penetrante, perché pretende che la retroattività della disapplicazione processualmente determinata si estenda anche ai rapporti esauriti. Gli effetti della pronuncia di incostituzionalità sui provvedimenti amministrativi: la tesi dell'annullabilità L'esame delle posizioni sostenute dalla dottrina in merito alla condizione giuridica della legge incostituzionale rappresenta il necessario punto di partenza per affrontare il tema degli effetti della pronuncia di accoglimento sul provvedimento amministrativo. È evidente, infatti, che la risoluzione di questo secondo problema può essere fortemente influenzata dalla natura che si riconosce alla legge incostituzionale. Invero, mentre la tesi della temporanea efficacia della norma incostituzionale ha consentito a parte della dottrina di sostenere che ai fini dell'esistenza dell'atto amministrativo assume rilievo solo ed esclusivamente la circostanza che «l'amministrazione abbia agito nell'esercizio di potestà attribuitele dalla legge vigente al momento in cui l'atto è stato emesso» (14) - quasi che l'effetto di attribuzione del potere amministrativo debba considerarsi cristallizzato - al contrario, la tesi della nullità della norma incostituzionale ha portato ad affermare, nel caso di norma fondante in via esclusiva la potestà di emanare l'atto, l'inesistenza dello stesso perché adottato in situazione di carenza di potere (15). Le opinioni espresse in dottrina e in giurisprudenza in ordine alle conseguenze della pronuncia di incostituzionalità sui provvedimenti amministrativi possono essere ricondotte nell'ambito di due orientamenti principali. Una prima tesi, accolta dalla giurisprudenza amministrativa (16) e prevalente in dottrina (17), ritiene che l'atto emanato in base ad una norma poi dichiarata incostituzionale sia soltanto annullabile ma che, pur portando al suo annullamento, il vizio dell'atto amministrativo fondato su norme incostituzionali non incontri né i limiti derivanti dal non essere stato denunciato tra i motivi di impugnazione - purché, però, 3 costituisca il presupposto di un vizio di legittimità tempestivamente dedotto nei confronti del provvedimento impugnato (18) - né quello del diverso apprezzamento espresso precedentemente dal giudice con una decisione parziale con cui la questione sia stata dichiarata manifestamente infondata, quando, al momento della decisione definitiva risulta che, su rimessione di altro giudice, la Corte Costituzionale l'ha accolta. Diversi gli argomenti addotti a sostegno di questa posizione. In primo luogo, si rileva, sul presupposto della temporanea efficacia della norma incostituzionale, che il provvedimento è stato emanato da un organo che esercitava le sue funzioni sulla base di una legge vigente al momento in cui ha l'atto è stato emesso, dal che discenderebbe la mera possibilità di eliminazione dell'atto medesimo per illegittimità divenuta ormai pienamente rilevabile. In secondo luogo, si evidenzia che tra legge e atto amministrativo non sussiste un rapporto di conseguenzialità analogo a quello ravvisabile fra atto preparatorio atto finale del procedimento amministrativo, in quanto l'atto amministrativo come manifestazione autonoma del potere esecutivo ha una sua vita ed una sua individualità propria e non resta direttamente travolto dalla cessazione di efficacia della norma. Si parla al riguardo di «autonomia del momento amministrativo» (19) e si fa riferimento all'identico fenomeno che si verifica nei rapporti tra atto e regolamento, per cui l'annullamento di una norma regolamentare non travolge senz'altro l'atto amministrativo che ne costituisce applicazione. Si invoca, poi, per tutta l'attività svolta in esecuzione delle leggi incostituzionali col rispetto di quelle forme che sono connesse all'emanazione degli atti dei pubblici poteri, «l'esigenza di tutelare l'affidamento che tali atti sono in grado di determinare nei cittadini e che è tutelato fino a rendere perfettamente validi anche gli atti posti in essere da chi successivamente non risulti affatto essere stato organo dei pubblici poteri, purché sia stato nell'effettivo possesso di una potestà pubblica» (20). Tale tesi, inoltre, è motivata anche da esigenze squisitamente pratiche, in particolare dalla necessità di concludere il giudizio, pur in presenza dell'intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale e del conseguente venir meno ex tunc della norma che in ipotesi fondava il potere, con una sentenza nel merito, satisfattiva dell'interesse del privato, piuttosto che con una pronuncia che dichiari il difetto di giurisdizione perché l'atto è stato emanato in carenza di potere (21). Come emerge dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, «altrimenti il giudice, rilevando fondatamente che l'atto impugnato si basa su una legge incostituzionale, recherebbe un danno al ricorrente, se si dovesse ritenere che il giudizio dovesse chiudersi con una formula diversa da quella di accoglimento, privandolo, cioè, del risultato positivo dell'azione di annullamento; oppure avrebbe soltanto sollevato una questione di costituzionalità irrilevante, poiché nessuna conseguenza se ne potrebbe trarre ai fini del giudizio» (22). La tesi che distingue a seconda che la legge incostituzionale attribuisca il potere o ne disciplini l'esercizio Un secondo filone interpretativo, invece, opera una distinzione a seconda che la disposizione di legge caducata per incostituzionalità attribuisca il potere sul quale si fondavano i provvedimenti emanati o semplicemente disciplini le modalità di esercizio del potere stesso. Mentre in quest'ultimo caso, l'atto sarebbe soltanto annullabile, con conseguente necessità di impugnarlo entro il termine di decadenza davanti al G.A., nella prima ipotesi, il provvedimento dovrebbe considerarsi nullo in quanto emanato nell'esercizio di un potere inesistente. Questa impostazione ha un duplice ordine di conseguenze: da un lato, stante il carattere insanabile della nullità, il cittadino potrebbe giovarsi della sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale senza incontrare la preclusione del mancato rispetto dei termini di decadenza, facendola accertare giudizialmente in qualsiasi momento; dall'altro, la relativa controversia dovrebbe essere devoluta non più al giudice amministrativo, ma al giudice ordinario, venendo in considerazione un'ipotesi di carenza 4 di potere A questa conclusione giungono, anche se con argomentazioni fra loro diverse, sia coloro che affermano la nullità della norma incostituzionale, sia coloro che la ritengono invece provvisoriamente efficace fino alla sentenza della Corte, ammettendo però che gli effetti della medesima vengano caducati ex tunc in virtù della retroattività della pronuncia di incostituzionalità. Nell'ambito della prima tesi, escluso che la p.a. sia vincolata ad applicare norme incostituzionali perché se così fosse si dovrebbe ammettere un dovere della p.a stessa di porre in essere atti illegittimi si è affermato che «se la legge incostituzionale è inefficace, cioè non produce gli effetti cui pretende, il potere che in essa dovrebbe trovare fondamento in realtà non esiste» (23), con conseguente nullità ab origine del provvedimento che sia stato emanato in base ad esso. Coloro che, al contrario, riconoscono un'efficacia temporanea alla norma incostituzionale, giungono a configurare una nullità sui generis, originaria quaoad causam, ma sopravvenuta quaod effectum. Si sostiene che l'atto medio tempore è esistito non solo come fatto storico, ma anche quale atto giuridico produttivo di effetti che cadono in virtù di una finzione, quella finzione caratteristica di ogni pronuncia costitutiva con effetto retroattivo. La nullità incontrerebbe quindi i limiti di questa finzione in relazione alle operazioni materiali con cui il provvedimento è stato portato ad esecuzione e delle altre conseguenze di fatto derivatene (24). La c.d. illegittimità comunitaria dell'atto amministrativo Questioni analoghe a quelle fino ad ora esaminate si ripropongono con riferimento alla c.d. illegittimità comunitaria dell'atto amministrativo, soprattutto nell'ipotesi di atto amministrativo emanato in applicazione di una norma interna contrastante col diritto comunitario immediatamente applicabile: pure in questo caso, infatti, la p.a. agisce in applicazione di una norma che è «cedevole» rispetto ad una di rango superiore (25). Così come per l'ipotesi di norma di legge incostituzionale, il problema dell'individuazione del regime di validità dell'atto amministrativo adottato sulla base di una norma nazionale incompatibile con la disciplina di origine comunitaria direttamente applicabile è fortemente influenzato dalla soluzione che si accoglie con riferimento al regime di validità e di efficacia di quella stessa norma interna contrastante con il diritto comunitario (26). La questione, in particolare, assume connotati diversi a seconda che si accolga la tesi, sostenuta dalla Corte Costituzionale, dell'appartenenza delle disposizioni comunitarie ad ordinamento separato e autonomo, anche se coordinato, ovvero quella, seguita dalla Corte di giustizia, secondo cui le disposizioni comunitarie concorrerebbero a comporre lo stesso ordinamento giuridico di cui fanno parte anche le norme di diritto interno. Come è stato sottolineato da un'autorevole dottrina (27), muovendo dall'indirizzo della separatezza degli ordinamenti, si deve coerentemente concludere che le norme comunitarie non si inseriscono nell'ordinamento interno, con la duplice conseguenza, da un lato, che il contrasto tra le stesse e le norme di diritto interno non determina l'invalidità di queste ultime, comportandone solo ed esclusivamente la disapplicazione (28), dall'altro, che la stessa norma comunitaria, in quanto estranea all'ordinamento, non potrebbe essere assunta né come parametro di legittimità dell'azione amministrativa né come fonte del potere che l'autorità amministrativa ha esercitato con l'emanazione dell'atto (29). Diversamente, accogliendo la tesi dell'integrazione dei due ordinamenti, si giunge a conclusioni opposte, sia per quanto riguarda il regime della norma di diritto interno, da ritenersi invalida e non semplicemente disapplicabile, sia per quanto concerne la possibilità di rinvenire nella stessa norma comunitaria il parametro di legittimità dell'atto amministrativo e la fonte attributiva del potere di emanarlo (30). Da quanto detto emerge, quindi, che una rigorosa applicazione della premessa teorica della separatezza degli ordinamenti potrebbe neutralizzare, proprio sul piano della regolamentazione dell'azione 5 amministrativa, il principio del primato del diritto comunitario, in quanto «induce a negare alle norme comunitarie direttamente applicabili qualsiasi efficacia diretta sull'operato amministrativo, non potendo le stesse costituire né il presupposto normativo fondante la potestà amministrativa di adozione dell'atto, né il parametro alla cui stregua valutarne l'eventuale illegittimità, o per converso, la legittimità di un provvedimento nonostante la sua contrarietà rispetto alla norma interna incompatibile con il dettato comunitario e quindi disapplicabile» (31). Proprio per questo si sono cercati, sia in dottrina che in giurisprudenza, percorsi alternativi che, pur allontanandosi dalla premessa teorica della autonomia degli ordinamenti accolta dal nostro Giudice costituzionale, risultano più aderenti al principio della primaute del diritto comunitario. Al riguardo, possono essere individuati quattro diversi orientamenti. Secondo una prima tesi (32), condivisa dalla prevalente giurisprudenza amministrativa (33), la violazione del diritto comunitario produce conseguenze analoghe alla violazione del diritto interno, dovendo, quindi, inquadrarsi nella nozione di invalidità-annullabilità. In tale ottica, rimarrebbero fermi i principi generali sull'invalidità degli atti amministrativi, sia in termini di configurazione dei vizi, sia di disciplina processuale per far valere tali vizi. Da qui la necessità di un tempestivo ricorso in assenza del quale l'atto diverrebbe inoppugnabile; di puntuali gravami sull'«anticomunitarietà» altrimenti non rilevabile d'ufficio dal giudice; di una sentenza di annullamento per privare l'atto della sua efficacia. A questa conclusione si è giunti in dottrina assumendo come premessa interpretativa che il contrasto tra norma interna e norma comunitaria debba essere risolto secondo i consueti canoni della dei rapporti tra norme appartenenti allo stesso sistema. In tale contesto, «la legge italiana, incompatibile con un regolamento comunitario risulterà abrogata se ad esso anteriore», mentre se successiva, risulterà affetta da «un vizio di invalidità (non già di nullità-inesitenza) qualitativamente analogo a quello che presenta la legge incostituzionale» (34). Partendo da tale inquadramento, si conclude «nel senso che l'atto amministrativo, allorché risulti inficiato da un vizio scaturente dall'inapplicabilità della legge nazionale, presenta una patologia valutabile alla stregua dei comuni canoni della illegittimità-annullabilità, come si reputa avvenga nel caso di applicazione di legge incostituzionale» (35). Una seconda tesi, invece, muovendo dall'assunto che la legge italiana «anticomunitaria» debba considerarsi nulla, perviene alla conclusione che l'atto amministrativo confliggente con il diritto comunitario vada ritenuto a sua volta nullo o inesistente per carenza di potere (36). In questo modo, per un verso, l'atto «anticomunitario» non sarebbe più suscettibile di divenire inoppugnabile e, per un altro, diventerebbe problematica la giurisdizione del g.a. in quanto, mancando l'effetto degradatorio ricollegabile al provvedimento, la controversia, secondo i principi del sistema di giustizia amministrativa, dovrebbe essere devoluta al G.O. (37). Un'opzione intermedia, cercando di coniugare i due precedenti indirizzi, distingue l'ipotesi in cui la noma interna si limiti esclusivamente a disciplinare le modalità di esercizio del potere rispetto a quella in cui la norma medesima sia l'unica ad attribuire il potere nel cui esercizio l'atto amministrativo è stato adottato. Mentre nel primo caso si avrebbe una semplice annullabilità, nel secondo, l'immediata non applicabiltà, o, secondo alcuni, nullità, della norma interna fondante in via esclusiva la potestà di emanare l'atto non potrebbe che risolversi nell'inesistenza dell'atto stesso perché adottato in situazione di carenza di potere (38). Una quarta linea ermeneutica (39), infine, ha ritenuto di qualificare l'atto amministrativo né nullo né annullabile, ma viceversa, al pari della legge contrastante, disapplicabile, anche dal giudice amministrativo e anche oltre il termine di decadenza. A sostegno di questa tesi, si rileva come non accettando il regime generale di disapplicabilità per gli atti amministrativi, si giungerebbe al paradosso di una loro capacità di resistenza agli effetti comunitari maggiore rispetto a quella degli atti normativi, i quali sono cedevoli (nel senso della disapplicabilità) in ogni caso si prospetti una loro anticomunitarietà. Si avrebbe allora «un'inversione del valore giuridico degli atti giuridici nazionali, non giustificata da nessun convincente argomento generale» (40). 6 Si sottolinea, inoltre, come il principio di disapplicazione degli atti nazionali in contrasto con il diritto comunitario abbia per gli atti amministrativi un'efficacia ben maggiore che per gli atti normativi. L'atto normativo, infatti, anche dopo la disapplicazione, conserva integra la sua generale efficacia per ogni caso diverso da quello esaminato e continua ad essere percepito dai soggetti dell'ordinamento come vigente; per questo, per eliminare la violazione del diritto comunitario sarebbe necessaria l'espressa abrogazione della norma nazionale anticomunitaria. Al contrario, per gli atti amministrativi, normalmente destinati alla disciplina di situazioni particolari, la disapplicazione produce effetti più rilevanti in quanto consente di risolvere la questione nella sua integrità, rendendo così l'annullamento dell'atto solo un incombente formale (41). Questo orientamento dottrinale, volto ad estendere il principio di disapplicabilità a tutte le situazioni di contrasto di atti giuridici nazionali, normativi e amministrativi, con il diritto comunitario è stato recentemente accolto dalla Corte di Giustizia (42). Nel rispondere a un quesito sollevato dal Tribunale superiore amministrativo austriaco (43), la Corte di Giustizia, dopo aver rilevato che tra le disposizioni di diritto interno in contrasto con la disposizione comunitaria possono figurare anche disposizioni amministrative, le quali non includono unicamente norme generali e astratte ma anche provvedimenti individuali e concreti, ha affermato l'importante principio secondo cui il provvedimento amministrativo individuale e concreto divenuto definitivo che sia in contrasto con il diritto comunitario va disapplicato, perché la tutela giurisprudenziale spettante ai singoli in virtù delle norme comunitarie aventi efficacia diretta non può dipendere dalla natura della disposizione di diritto interno contrastante con il diritto comunitario (44). In tal modo, l'invalidità comunitaria, secondo la ricostruzione fattane dalla Corte di Giustizia, viene a ricevere un trattamento che non riceve neppure l'atto amministrativo emanato in applicazione di una legge dichiarata incostituzionale. Questo, infatti, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, è semplicemente annullabile - e quindi soggetto allo stringente termine di decadenza pena l'inoppugnabilità - anche quando la norma incostituzionale sia la fonte attributiva del potere (45). In altri termini, mentre il decorso del termine impugnatorio viene ritenuto recessivo rispetto all'«anticomunitarietà» dell'atto amministrativo, in caso di norme interne dichiarate costituzionalmente illegittime la tutela contro la p.a. che a quelle norme abbia dato esecuzione incontra un limite nell'esigenza di certezza e stabilità assicurata dall'inoppugnabilità del provvedimento. Questa diversità di regime potrebbe rappresentare, come è stato rilevato, un indice «dell'esistenza di un rapporto gerarchico nel quale le norme comunitarie - direttamente applicabili - debbano ritenersi sovraordinate alle norme di rango costituzionale, qualora queste ultime non costituiscano espressione di principi di carattere fondamentale» (46). Ciò, d'altra parte, sarebbe in linea con quell'orientamento, prevalente in dottrina e accolto dalla Corte costituzionale, volto ad ammettere la derogabilità da parte alle norme comunitarie delle norme costituzionali che non siano principi fondamentali della Costituzione. A questo punto, però, pur non dimenticando la fondamentale differenza tra la disapplicazione della norma interna come forma del controllo diffuso della legittimità comunitaria e il carattere accentrato del controllo di costituzionalità (47), ci si deve chiedere quale sia la sorte dell'atto amministrativo in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione che rappresentano un controlimite allo stesso primato del diritto comunitario (48). Si tratta, in particolare, di verificare se anche per esso sia configuarabile una patologia, diversa della semplice annullabilità, che ne consenta un sindacato senza limiti temporali. Invero, se il provvedimento amministrativo che applica una norma interna contrastante con la norma comunitaria può essere ritenuto illegittimo, e di conseguenza disapplicato, pure dopo che è scaduto il termine di decadenza, potrebbe ritenersi che la stessa sorte debba toccare al provvedimento amministrativo emanato in attuazione di norma interna che viola i principi fondamentali della Costituzione, i quali nella gerarchia delle fonti si collocano ad un livello superiore rispetto alla norma comunitaria. Altrimenti opinando, si avrebbe un'ingiustificata inversione del valore delle fonti, perché 7 il contrasto con la fonte inferiore (la norma comunitaria) darebbe luogo ad una patologia più grave di quella che scaturisce dal contrasto con la fonte superiore (i principi fondamentali della Costituzione). Ammettere la sindacabilità anche oltre i termini impugnatori dei provvedimenti viziati da illegittimità comunitaria - e, secondo una possibile linea ricostruttiva, dei provvedimenti contrastanti con i principi fondamentali della Costituzione - impone, però, alcune riflessioni ulteriori. Si tratta in primo luogo di individuare l'autorità giudiziaria di fronte alla quale portare la controversia e, a tal fine, sarà necessario stabilire se l'atto anticomunitario o incostituzionale perda la sua capacità degradatoria o se, invece, il venire meno dell'inoppugnabilità incida solo sul regime processuale dell'atto (49). Accogliendo questa seconda alternativa, la disapplicazione dovrebbe esser praticata dal G.A., di fronte al quale pertanto diverrebbe esperibile un'azione difforme, per struttura ed oggetto, dalla consueta azione impugnatoria e più facilmente inquadrabile nell'ambito delle azioni di mero accertamento, in quanto diretta ad accertare l'efficacia o meno degli atti amministrativi, in base alla conformità dei medesimi alla normativa comunitaria direttamente applicabile o ai principi costituzionali (50). Processo cautelare e incidente di legittimità costituzionale Inquadrato in tal modo il regime giuridico dell'atto emanato in base ad una norma poi dichiarata incostituzionale, ed esaminatene analogie e differenze rispetto alla c.d. illegittimità comunitaria, resta da affrontare il problema, dal quale siamo partiti, dei rapporti tra incidente di costituzionaltà e giudizio cautelare. Come si è già evidenziato, viene qui in rilievo un conflitto tra polarità di segno opposto: da un lato, il carattere accentrato del sindacato di costituzionalità pare precludere al giudice la possibilità di pronunciare il provvedimento cautelare in quanto questo si tradurrebbe nella disapplicazione della norma di legge di cui si sospetta l'incostituzionalità; dall'altro, però, il principio dell'effettività della tutela giurisdizionale sembra imporre la concessione della tutela cautelare onde evitare che la pronuncia di merito intervenga quando ormai le ragioni del ricorrente sono definitivamente compromesse (51). Al riguardo deve rilevarsi che la Corte costituzionale è costante nel ritenere inammissibile la questione di legittimità costituzionale per difetto di rilevanza qualora essa venga sollevata dopo l'adozione del provvedimento cautelare, sul rilievo che in tal caso, la rimessione alla Corte è tardiva in relazione al giudizio cautelare ormai concluso e prematura in relazione al giudizio di merito in ordine al quale il collegio, in mancanza della fissazione della relativa udienza di trattazione, è privo di potestas decidendi (52) . Per risolvere la questione, allora, la giurisprudenza amministrativa, sul presupposto che il procedimento cautelare si possa temporalmente modulare in due fasi, ha sperimentato la soluzione della sospensione interinale del provvedimento impugnato fino alla camera di consiglio successiva alla restituzione degli atti da parte della Corte, cui fa seguito eventualmente la sospensione tipica (53). In tal modo, al fine di conciliare il carattere accentrato del sindacato di costituzionalità col principio di effettività della tutela giurisdizionale, si è ammessa, in pratica, la possibilità per il G.A. di disapplicare, sia pure nella sola fase cautelare e in via meramente provvisoria, la norma di legge di dubbia incostituzionalità su cui è fondato il provvedimento. Questo indirizzo è stato sostanzialmente recepito anche dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la quale, pur discostandosi dal tradizionale modus procedendi della sospensione interinale in attesa della decisione della Corte, ha comunque ribadito il potere del giudice di procedere ad una disapplicazione provvisoria della norma ritenuta incostituzionale. Con l'ordinanza n. 2 del 1999 (54), la Plenaria, infatti, ha concesso la sospensiva senza però rimettere la questione alla Corte costituzionale, ma rinviando alla fase di merito la formulazione del giudizio sulla fondatezza della questione di costituzionalità. In particolare, il Supremo Collegio ha rilevato che al fine di conciliare il carattere accentrato del controllo di costituzionalità delle leggi con il principio di effettività della tutela 8 giurisdizionale non può escludersi, quando gli interessi in gioco lo richiedano, una forma limitata di controllo diffuso che consenta la concessione del provvedimento di sospensione rinviando alla fase di merito, alla quale il provvedimento cautelare è strumentalmente collegato, il controllo della Corte costituzionale con effetti erga omnes. Inoltre, contrariamente a quanto aveva sostenuto nell'ordinanza di remissione la IV sezione (55), timorosa che la concessione della sospensiva si traducesse nella pratica disapplicazione della norma di legge sospetta di incostituzionalità, l'Adunanza plenaria ha affermato che «la concessione della misura cautelare non comporta la disapplicazione di una norma vigente, ma tende a conciliare la tutela immediata e reale, ancorché interinale, degli interessi in gioco con il carattere accentrato del controllo di costituzionalità delle leggi». La tesi secondo cui il giudice può concedere il provvedimento d'urgenza fondandosi sulla Costituzione e disapplicando la legge è sostenuta anche dalla prevalente dottrina (56). Gli argomenti addotti a sostegno di questa posizione possono essere così sintetizzati (57): - il procedimento cautelare ha ad oggetto non l'esistenza, ma l'apparenza del diritto e si limita ad un giudizio di probabilità e di verosimiglianza (58): esso quindi può avere ad oggetto anche una situazione soggettiva il cui accertamento è soggetto a pregiudizialità costituzionale; - i giudici sono soggetti soltanto alla legge, ai sensi dell'art. 101 Cost., ed anzitutto alla legge costituzionale; dunque, ogni volta che l'indipendenza dei giudice è messa in pericolo dalla soggezione ad una legge incostituzionale, il giudice ha il potere-dovere di evitarlo, in via generale - nei giudizi di merito - mediante l'incidente di legittimità costituzionale, in via eccezionale - nei procedimenti cautelari - mediante la preventiva disapplicazione della legge incostituzionale (59); - la legge incostituzionale e nulla e, quindi, vi è l'obbligo di disapplicarla per tutti tranne che per il giudice. Ora, dato che nel nostro ordinamento non vi è un'unica nozione di giudice e di giurisdizione perché si può essere giudici a certi fini e non ad altri - deve ritenersi che nel procedimento cautelare non vi sia giurisdizione in senso stretto, perché manca il giudicato che è una delle caratteristiche essenziali della giurisdizione in senso oggettivo. In questo procedimento, allora, non essendovi giurisdizione ai fini dell'art. 23 della legge n. 87/1953, non vi è neanche l'obbligo di sollevare sempre e comunque la questione di legittimità costituzionale e di non disapplicare la legge (60); - il sindacato di costituzionalità non è monopolio esclusivo della Corte costituzionale, considerato che i giudici ordinari e speciali danno luogo ad un sindacato di validità con effetti inter partes allorché reputino manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata da una della parti e dunque applichino la norma che ne era oggetto. Competendo alla Corte soltanto il sindacato accentrato con effetti erga omnes, la disapplicazione nel giudizio cautelare della legge di dubbia costituzionalità non rappresenta allora un elemento di rottura del sistema (61); - prima dell'entrata in vigore della Corte costituzionale, i giudici, in base al comma 2 della VII disp. transitoria della Costituzione, potevano disapplicare la legge incostituzionale; ma ciò che si poteva fare prima lo si deve poter fare anche oggi che la tutela della costituzionalità delle leggi è più piena, mentre allora era qualcosa di provvisorio e limitato (62); - nel processo amministrativo anche la proposizione dell'istanza di regolamento preventivo di giurisdizione non preclude l'esame della domanda di sospensione del provvedimento impugnato ai sensi dell'art. 30 legge n. 1034/71: se dunque anche il giudice eventualmente carente di giurisdizione è abilitato a somministrare la tutela cautelare, a fortiori, tale potere dovrebbe essere riconosciuto al giudice che promuove un incidente di costituzionalità (63); - il divieto che grava sul giudice di applicare e disapplicare le leggi ritenute incostituzionali può valere pienamente solo per il giudizio di merito che - esso sì - ha tempo per attendere l'esito della pregiuidiziale di costituzionalità e non anche per il giudizio cautelare nell'ambito del quale prevalgono i valori costituzionali sanciti dagli artt. 24, comma 1, Cost. e 101, comma 2, Cost., che nell'imporre al giudice di pronunciare immediatamente sulle domande cautelari con soggezione esclusiva alla legge 9 anche costituzionale, enucleano la regola speciale della disapplicabilità interinale delle leggi incostituzionali (64). Né, peraltro, è fondato il timore di favorire «derive anarchiche» mediante il sindacato diffuso, poiché la sospensione del provvedimento, e con esso della legge, è solo interinale e preordinata alla risoluzione della questione di legittimità da parte della Corte, che è l'unico orano giurisdizionale che può dichiarare l'incostituzionalità con effetto erga omnes (65). Ulteriori argomenti a sostegno di questa tesi sembrano inoltre potersi ricavare dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di tutela cautelare (66). Mossa dall'esigenza di assicurare ai singoli una tutela giurisdizionale effettiva, il Giudice comunitario, infatti, già con la sentenza Factortame (67), ha affermato che il giudice nazionale deve disapplicare le leggi che gli impediscano di emettere provvedimenti provvisori di indole cautelare a tutela di diritti fondati sulle norme comunitarie, quando ciò sia necessario al fine di garantire la piena efficacia satisfattiva della finale decisione di merito. L'efficacia dell'art. 177 del Trattato - si legge nella sentenza - sarebbe, infatti, attenuata «se il giudice nazionale che soprassiede a decidere finché la Corte abbia risposto alla questione pregiudiziale, non potesse concedere delle misure provvisorie fino al pronunciamento della propria decisione presa in seguito alla risposta della Corte». Traendo spunto da questa decisione, una parte della dottrina ha allora ritenuto che anche nel caso di pregiudiziale costituzionale al giudice debba essere riconosciuto il potere di adottare i provvedimenti cautelari più opportuni in quanto, in caso contrario, ne discenderebbe la violazione del fondamentale principio di uguaglianza, «che sarebbe ribaltato, essendo assicurato alle pretese misconosciute da norme primarie interne un trattamento di maggior favore quando fondino su norme comunitarie piuttosto che su norme costituzionali, se non su principi supremi, che giova ricordare, si pongono come controlimite allo stesso ingresso nel nostro ordinamento di fonti esterne» (68). Proseguendo nel suo sforzo di apprestare una tutela giurisdizionale effettiva per i singoli, la Corte di giustizia, con la sentenze Zuckerfabrik (69) e Atlanta (70), è poi giunta a riconoscere al giudice nazionale il potere di ordinare la sospensione dell'esecuzione di un provvedimento amministrativo nazionale basato su un regolamento comunitario che forma oggetto di rinvio pregiudiziale per l'accertamento di validità. Questa fattispecie presenta notevoli affinità con quelle situazioni nelle quali viene in gioco il rapporto tra processo cautelare e incidente di costituzionalità. In entrambi i casi, infatti, il giudice per concedere la tutela cautelare e apprestare una tutela giurisdizionale effettiva per i diritti dei singoli, esercita un potere di disapplicazione (ora della norma comunitaria, ora della legge incostituzionale) che in base ai principi gli sarebbe precluso e finisce per invadere la sfera di competenza di un altro giudice - la Corte costituzionale in un caso, la Corte di Giustizia nell'altro - al quale il controllo di quelle norme spetterebbe in via esclusiva. Proprio alla luce di questo parallelismo, le condizioni cui il giudice comunitario ha subordinato il potere di disapplicazione della normativa comunitaria del giudice nazionale risultano di particolare interesse in quanto possono essere utilizzate come base di partenza per delimitare l'analogo potere di disapplicazione che è ormai generalmente riconosciuto, nel procedimento cautelare, anche rispetto alla legge di sospetta incostituzionalità. Secondo la Corte di giustizia, il giudice nazionale può concedere provvedimenti provvisori in ordine ad un atto amministrativo nazionale adottato in esecuzione di un regolamento comunitario a condizione che nutra gravi riserve in ordine alla validità dell'atto comunitario; che ricorrano gli estremi dell'urgenza, nel senso che i provvedimenti provvisori siano necessari per evitare che la parte che li richiede subisca un danno grave e irreparabile; che provveda direttamente ad effettuare il rinvio pregiudiziale, nell'ipotesi in cui alla Corte non sia stata già deferita la questione di validità dell'atto impugnato: in ogni caso, infatti, la misura cautelare potrà essere mantenuta solo in via provvisoria, fino a che la Corte non abbia dichiarato che dall'esame delle questioni pregiudiziali non sono emersi elementi tali da inficiare la validità del regolamento. 10 L'iter procedimentale indicato dalla Corte di giustizia sembra, quindi, quello secondo cui il giudice nazionale non può sospendere e rinviare al merito la pregiudiziale di validità, ma deve rimettere subito la questione alla Corte e concedere la misura cautelare in via meramente provvisoria, fino alla decisione della questione pregiudiziale. Si tratta di un modus procedendi che si discosta dalla soluzione seguita dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nell'ordinanza n. 2 del 1999, la quale, al contrario, con riferimento all'analogo problema della sospensione del provvedimento amministrativo adottato in base norma di legge incostituzionale, ha ammesso la possibilità di concedere la sospensiva rimettendo alla fase di merito il giudizio sulla fondatezza della questione di legittimità costituzionale. La soluzione accolta dalla Plenaria si presta, però, ad alcune considerazioni critiche. Non può non rilevarsi, infatti, che la scelta di sospendere il provvedimento rimettendo la questione alla Corte costituzionale solo in fase di merito, avrebbe indubbi riflessi negativi sulla certezza delle posizioni giuridiche in gioco, considerato il notevole lasso di tempo che intercorre normalmente tra la decisione cautelare e quella definitiva. Tale modus procedendi, inoltre, arrecherebbe un ulteriore vulnus al sistema di sindacato di costituzionalità delle leggi, perché il giudice, non solo disapplica la legge di dubbia costituzionalità, ma si sottrae anche all'obbligo, di cui all'art. 23 legge n. 87/1953, di sospendere il giudizio e rimettere la questione alla Corte. Alla luce di queste considerazioni pare allora preferibile l'espediente, più volte praticato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, di una articolazione bifasica del procedimento cautelare, con una sospensione interinale del provvedimento impugnato fino alla camera di consiglio successiva alla restituzione degli atti da parte della Corte costituzionale, cui fa seguito eventualmente, la sospensione tipica. Oltre ad essere in linea con le condizioni dettate dalla Corte di giustizia con riferimento all'analogo problema della pregiudiziale di validità sul regolamento comunitario, questa soluzione pare anche quella che meno si allontana dai principi su cui si fonda il nostro sistema di giustizia costituzionale. Infatti, la circostanza che questi provvedimenti interinali non abbiano valore definitivo, perché non esauriscono il potere cautelare del giudice a quo, consente di affermare che essi non tradiscono la ratio di fondo del sindacato di costituzionalità accentrato che è quella di evitare che soggetti diversi dalla Corte Costituzionale possano, nei fatti, decidere definitivamente in relazione ad una concreta fattispecie la questione di costituzionalità. La disapplicazione della norma incostituzionale ha qui un valore transeunte e il sindacato della Corte non è escluso, né rinviato ad un diverso e successivo giudizio qual è quello di merito, ma si esercita nel corso di quello stesso giudizio cautelare, sia pure in maniera posticipata rispetto alla concessione della misura cautelare interinale. D'altra parte, se si considera che l'incidente di costituzionalità è stato creato «per impedire effetti costituzionali concreti ed immediati sulle posizioni soggettive controverse» (71), dovrà concludersi che la misura cautelare provvisoria, più che tradire le regole del sindacato accentrato di costituzionalità trova in esse la sua giustificazione, perché diviene lo strumento, per evitare che i lamentati effetti incostituzionali diventino ineliminabili. Deve infine rilevarsi che il processo amministrativo conosce altre ipotesi di misure cautelari meramente provvisorie. In primo luogo, nella prassi è ormai diffusa la sospensione interinale disposta a contraddittorio non integro (72). Escluso, da un lato, che il giudice amministrativo possa provvedere definitivamente sulla richiesta di sospensione prima che sia stato integrato il contraddittorio con tutte le parti necessarie del giudizio, ma, riconosciuto, dall'altro, che i tempi richiesti per l'integrazione del contraddittorio potrebbero essere incompatibili con l'urgenza della misura cautelare, si è scelta, per far fronte a queste opposte esigenze, la via della sospensione solo interinale, con la pronuncia definitiva rinviata a quando il contraddittorio sarà stato integrato (73). Inoltre, la possibilità di una misura cautelare meramente interinale, fino alla definitiva decisione del Collegio nella prima camera di consiglio, è ora espressamente prevista dalla legge 205/2000. L'art. 3 infatti ha introdotto la possibilità per il ricorrente, nei casi di estrema gravità e urgenza, di chiedere, contestualmente alla domanda cautelare o con separata istanza notificata alle controparti, al Presidente 11 del T.A.R. o della Sezione cui il ricorso è assegnato di disporre misure cautelari provvisorie, volte a tutelare la posizione del ricorrente fino alla trattazione collegiale della domanda (74). Tutela cautelare e incidente di costituzionalità nel rito abbreviato introdotto dall'art. 23-bis L. n. 1034/1971 Il problema dei rapporti tra incidente di costituzionalità e tutela cautelare assume connotati parzialmente diversi nel rito speciale introdotto dall'art. 23-bis legge n. 1034/71. Il comma 3 della norma citata prevede un particolare rito abbreviato che si innesta nell'ambito del processo cautelare: accertati i presupposti del periculum in mora e del fumus boni iuris - che nell'art. 23-bis assume un connotato particolare perché non è sufficiente la ragionevole probabilità di accoglimento del ricorso, ma occorre che il ricorso «evidenzi» l'illegittimità dell'atto - il giudice pronuncia un'ordinanza con cui fissa la data di discussione secondo cadenze temporali ravvicinate. Il successivo comma 5 prevede poi che con questa stessa ordinanza, in caso di estrema gravità ed urgenza, il giudice amministrativo possa disporre le opportune misure cautelari enunciando i profili che, ad un sommario esame, inducono ad una ragionevole probabilità sul buon esito del ricorso. La norma, quindi, sembrerebbe configurare la misura cautelare come una mera eventualità, da concedere solo in presenza di un periculum particolarmente stringente e selettivo, in assenza del quale la sola misura consentita sarebbe la fissazione dell'udienza di merito entro il termine di 30 giorni. Tale interpretazione, tuttavia, sia pure avvalorata dalla relazione governativa al disegno di legge (75), è stata criticata da autorevole dottrina, la quale ha invece evidenziato come l' ordinanza in esame non dovrà limitarsi a fissare la discussione del merito ma dovrà disporre anche le misure cautelari richieste dal ricorrente (76). A sostegno di questa tesi vengono portati tre argomenti: - il primo di carattere logico: «diversamente opinando» - si afferma - «si giungerebbe alla conclusione che il giudice, pur accertando il duplice requisito del periculum in mora e del fumus boni iuris, non accorderebbe alcuna tutela cautelare ma solo la modesta utilità dell'accelerazione dell'udienza di discussione»; - il secondo di carattere testuale: l'art. 4, comma 3, secondo periodo, legge n. 205/2000, nel prevedere che, in caso di accoglimento in appello di una istanza cautelare rigettata in primo grado, la pronuncia del Consiglio di Stato venga trasmessa al T.a.r. per la fissazione dell'udienza di merito, lascerebbe emergere con assoluta chiarezza che se il tribunale non ritiene di accogliere la domanda cautelare non può procedere al giudizio abbreviato; - il terzo di carattere sistematico: poiché il testo originario dell'articolo prevedeva che l'ordinanza di fissazione dell'udienza fosse emanata in luogo del provvedimento cautelare, ne deriverebbe che ora l'ordinanza di fissazione abbreviata non sostituisce la pronuncia cautelare. Accolta questa lettura della norma, si pone l'interrogativo se il giudice, con l'ordinanza con la quale accoglie l'istanza cautelare e fissa la discussione per il merito, possa anche rimettere alla Corte Costituzionale l'eventuale questione di legittimità, o se debba, invece, pure in questo caso, ricorrere all'espediente già visto della modulazione in due fasi del giudizio cautelare con una sospensione interinale del provvedimento impugnato, cui fa seguito, ma solo dopo la decisione della Corte, la sospensione tipica. La prima opzione in questo caso sembra preferibile né, in tal senso, appare ostativo l'orientamento più volte espresso dalla Corte Costituzionale, secondo cui la questione di legittimità costituzionale sollevata contestualmente all'adozione, senza alcuna riserva, del provvedimento cautelare è inammissibile per difetto di rilevanza perché tardiva in relazione al giudizio cautelare già concluso e prematura in relazione al giudizio di merito, in ordine al quale in assenza dei requisiti processuali prescritti (domanda di parte, assegnazione della causa per la trattazione) l'organo giurisdizionale è sprovvisto di potestà decisoria (77). Nel caso in esame, infatti, essendo già stata fissata l'udienza per la 12 discussione del merito, il giudice non più ritenersi, una volta emanato il provvedimento cautelare, privo di potestas decidendi. Questa conclusione è poi ulteriormente avvalorata alla luce del principio espresso dalla sentenza costituzionale n. 457 del 1993 (78), riguardante la giurisdizione ordinaria, in base al quale se il giudizio di merito è già pendente ed assegnato al medesimo giudice, la quaestio legitimitatis sollevata in sede cautelare deve ritenersi ammissibile anche se la fase cautelare si è già definitivamente conclusa con l'emanazione del provvedimento d'urgenza. Se quest'ultimo principio fosse esteso al processo amministrativo, invero, la questione di costituzionalità sollevata nel processo cautelare dovrebbe ritenersi sempre rilevante considerato che secondo la prassi interpretativa prevalente non è proponibile la domanda di sospensiva dell'atto amministrativo ove verso lo stesso non sia stata proposta impugnazione nel merito. ----------------------(1) Cons. Stato, Ad. Plen., ord. 20 dicembre 1999, n. 2, in Corr. Giur., 2000, 232, con nota di A. L. Tarasco, Quiz in magistratura e nomofilachia del Consiglio di Stato; in Giorn. Dir. Amm., 2000, 365, con nota di T. Nicolazzi, Preselezione per uditore giudiziario, quale tutela delle posizioni di controinteresse?; in Giur .It., 2000, 839. (2) S. Baccarini, Intervento, in Aa.Vv., La sospensione nel giudizio amministativo (Palazzo Spada, 12.13 dicembre 1997), Torino 1999, 35. (3) M. Cappelletti, La pregiudizialità costituzionale nel processo civile, Milano, 1957, 40; A.A. Cervati, Gli effetti della pronuncia di incostituzionalità delle leggi sull'atto amministrativo, in Giur. Cost., 1963, 1217; V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, L'ordinamento costituzionale italiano, Padova, 1984, 389. G. Lauricella, L'incostituzionalità dell'atto amministrativo, Milano, 1999, 20 ss.; F. Pierandrei, Corte costituzionale, in Enc. Dir., vol. X, Milano, 1962, 972; A. M. Sandulli, Natura, funzioni ed effetti delle pronunce della Corte costituzionale, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1959, 41. Più articolata la posizione di F. Modugno, Esistenza della legge incostituzionale e autonomia del «potere esecutivo», in Giur. Cost., 1963, 1729, il quale sembra ritenere che la legge incostituzionale fino alla pronuncia della Corte che ne dichiari l'illegittimità, dovrebbe ritenersi non solo efficace ma altresì valida. Dato il carattere accentrato del controllo di costituzionalità, infatti, di legge incostituzionale potrebbe parlarsi soltanto ex post, dopo l'esito nel senso dell'incostituzionalità del giudizio di fronte alla Corte. Prima di tale momento vi sarebbe l'impossibilità di dire incostituzionale qualsiasi legge, potendosi al massimo ammettere quell'apprezzamento, superficiale e limitato agli aspetti di prima apparenza, che compie il giudice nel controllare la non manifesta infondatezza della questione. (4) Cfr. A.A. Cervati, Gli effetti della pronuncia di incostituzionalità delle leggi sull'atto amministrativo, in Giur. Cost., 1963, 1217; V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., 389. (5) V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., 389. (6) Cfr. V. Onida, Pubblica amministrazione e costituzionalità delle leggi, Milano 1967, 41 ss.; V. Onida, Illegittimità costituzionale di leggi limitatrici di diritti e decorso del termine di decadenza, in Giur. cost., 1965, 515 ss. (7) V. Onida, Illegittimità costituzionale di leggi limitatrici di diritti e decorso del termine di decadenza, cit., 526; id., Pubblica amministrazione e costituzionalità delle leggi, cit., 163. (8) V., in questi termini, G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 276; Id., Processo costituzionale, in Enc. Dir., vol. XXXVI, 1987, 636: nel senso che la sentenza di accoglimento della Corte determini la cessazione della irresponsabilità per l'esecuzione della legge illegittima v. L. Montesano, Leggi incostituzionali, processo e responsabilità, in Foro It., 1952, IV, 146. (9) G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, cit., 278. (10) È la posizione di C. Esposito, Il controllo giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia, in Riv. Dir. Proc., 1950, 298; id., Illegittimità costituzionale e abrogazione, in Giur. Cost., 1958, 831. Tale tesi ha poi trovato autorevoli consensi in A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, Milano, 1997, 13 131; E. T. Liebman, Contenuto ed efficacia delle decisioni della Corte costituzionale, in Scritti giuridici in memoria di Piero Calamandrei, vol. III, Padova, 1958, 540 ss.; N. Lipari, Orientamenti in tema di effetti delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, in Giust. civ., 1963, I, 2238; A. Sandulli, Legge (diritto costituzionale), in Noviss. Dig. It., vol. IX, Torino, 1963, 648. (11) In questi termini cfr. C. Esposito, Il controllo giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia, cit., 298. (12) Cfr. G. Guarino, Abrogazione e disapplicazione delle leggi illegittime, in Jus, 1951, 356 ss. (13) N. Lipari, Orientamenti in tema di effetti delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, cit., 2232. (14) A.A. Cervati, Gli effetti della pronuncia di incostituzionalità delle leggi sull'atto amministrativo, in Giur. Cost. 1963, 1225. In senso analogo cfr. F. Della Valle, La retroazione della pronuncia di incostituzionalità sui provvedimenti e sugli adempimenti amministrativi, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1963, 884 ss. (15) Cfr. V. Onida, Conseguenze processuali della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge attributiva di potestà alla Pubblica Amministrazione, in Giur It., 1966, I, 1, 1035; id., Pubblica amministrazione e costituzionalità delle leggi, Milano 1967, 41 ss.; id., Illegittimità costituzionale di leggi limitatrici di diritti e decorso del termine di decadenza, cit., 532 ss. (16) Cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 8 aprile 1963, n. 8, in Giur. It., 1964, III, 1, 66, con nota critica di F. Valle, La rilevanza nel giudizio amministrativo della questione di legittimità costituzionale delle leggi; nonché in Giur. Cost., 1963, con nota adesiva di A.A. Cervati, Gli effetti della pronuncia di incostituzionalità delle leggi sull'atto amministrativo; Cons. Stato 8 marzo 1964, n. 247, in Giur. It., 1964, III, 6, nonché in Foro Amm., 1964, I, 2, 388, con ivi 1964, II, 135, nota di A. Romano, Pronuncia di illegittimità costituzionale di una legge e motivo di ricorso giurisdizionale amministrativo; Cons Stato 10 dicembre 1965, n. 1108, in Foro Amm., 1965, I, 2. Cons. Stato 5 giugno 1970, n. 496, in Giur. It., 1972, III, 42; Cons. Stato, 4 marzo 1980, n. 289, in Cons. Stato, 1980, I, 318. Tra i giudici di primo grado cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, 19 febbraio 1998, n. 126, in Foro It., 1989, III, 37. (17) Cfr. A.A. Cervati, Gli effetti della pronuncia di incostituzionalità delle leggi sull'atto amministrativo, cit., 1222; C. Esposito, «Inesistenza» o «illegittima esistenza» di uffici ed atti amministrativi per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme organizzatrie?, cit., 332; G. Lauricella, L'«incostituzionalità» dell'atto amministrativo, cit., 24 ss.; F. Modugno, Esistenza della legge incostituzionale e autonomia del «potere esecutivo», cit., 1750; Perez, I vizi dell'atto amministrativo conseguenti alla pronuncia di incostituzionalità delle leggi, in Foro It., 1964, III, 340 ss. (18) In un primo momento il Consiglio di Stato (Ad. plen. 8 aprile 1963, n. 8, cit.) aveva ritenuto che la questione di legittimità costituzionale potesse essere sollevata d'ufficio indipendentemente dai motivi di ricorso. Questo orientamento era stato avversato dalla prevalente dottrina sulla base della considerazione che la regola della rilevabilità d'ufficio andava letta nel quadro del sistema processuale e, dunque, nell'ambito del principio dispositivo. In parte recependo queste critiche, la giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato 23 gennaio 1986, n. 47, in Cons. Stato, 1986, I, 44) e della Cassazione (cfr. Cass. 15 gennaio 1994, n. 344, in Riv. Inf. Mal. Prof., 1994, II, 25; Cass. 29 marzo 1984, n. 2061, in Giur. It. Rep., voce Corte costituzionale, 1984, 33) ora avvertono che l'eccezione di legittimità costituzionale è rilevante purché abbia portata strumentale rispetto a questioni sostanziali o processuali non precluse dal giudicato. Su tutta la vicenda v. Baccarini, Intervento, cit., 37. (19) Cons. Stato, Ad. plen., 8 aprile 1963, n. 8, cit. (20) A.A. Cervati, Gli effetti della pronuncia di incostituzionalità delle leggi sull'atto amministrativo, cit., 1222. (21) La dottrina e la giurisprudenza, infatti, negano quasi unanimemente che un atto nullo sia suscettibile di impugnativa davanti al giudice amministrativo sia perché la giurisdizione di questo è di solo annullamento, sia perché l'eventuale decisione si risolverebbe in una pronuncia dichiarativa che, 14 eccezion fatta per casi limitati, si ritiene inammissibile. (22) Cons. Stato, Ad. Plen., 8 aprile 1963, n. 8, cit., 80. (23) Così V. Onida, Conseguenze processuali di una legge attributiva di potestà alla Pubblica Amministrazione, cit., 1037. (24) Cfr. F. La Valle, La retroazione della pronuncia d'incostituzionalità sui provvedimenti e sugli adempimenti amministrativi, cit., 888. (25) Sottolineano il parallelismo tra le due tematiche, fra gli altri, F. Astone, Integrazione giuridica europea e giustizia amministrativa, Napoli, 1999, 84; R. Caranta, Inesistenza (o nullità) del provvedimento amministrativo adottato in forza di norma nazionale contrastante con il diritto comunitario?, in Giur. It., 1989, III, 1, 155; R. Garofoli, Annullamento di atto amministrativo contrastate con norme CE self-executing, in questa Rivista, 1997, 336; R. Murra, Contrasto tra norma nazionale e norma comunitaria: nullità assoluta degli atti amministrativi di applicazione della norma nazionale? in Dir. Proc. Amm., 1990, 284 ss. In senso critico verso eventuali parallelismi v., invece, M. Cafagno, L'invalidità degli atti amministrativi emessi in forza di direttiva Cee immediatamente applicabile, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1992, 545-546, il quale rileva che mentre la legge incostituzionale, benché invalida, rimane vigente ed efficace fino al suo eventuale annullamento, il contrasto con la normativa Cee ingenera una situazione per certi versi opposta, poiché da un lato la legge difforme rimane valida, dall'altro ne viene imposta la disapplicazione; E. Ferrari, Cittadinanza italiana e cittadinanza europea tra disapplicazione a causa di invalidità e non applicazione per il principio di specialità, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1991, 1084, il quale sottolinea l'impossibilità di comparare il procedimento logico-giuridico che induce alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma con quello che porta alla non applicazione della legge interna, nonché di porre sullo stesso piano il carattere della norma che funge da parametro. (26) Cfr. R. Garofoli, Annullamento di atto amministrativo contrastate con norme CE self-executing, cit., 336. (27) R. Garofoli, Annullamento di atto amministrativo contrastate con norme CE self-executing, cit., 338. (28) In ordine alla situazione in cui viene a trovarsi la norma interna confliggente con quella comunitaria, la giurisprudenza costituzionale ha mostrato qualche oscillazione prima affermando la «non rlevanza» della norma interna (sentenza 8 giungo 1984, n. 170, in Giur. Cost., 1984, I, 1098 ss.), poi la sua «disapplicazione» (sentenza 11 luglio 1989, n. 389, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1991, 1065) e, infine, la «non applicazione» (sentenza 18 aprile 1991, n. 168, in Giur. It, 1992, I, 1, 1652). (29) Per una rigorosa applicazione della tesi della separatezza degli ordinamenti cfr. T.A.R. Piemonte, 8 febbraio 1989, n. 34, in Giur. It., 1989, III, 1, 148, con nota di R. Caranta, Inesistenza (o nullità) del provvedimento amministrativo adottato in forza di norma nazionale contrastante con il diritto comunitario?; in Dir. Proc. Amm. 1990, 284 ss., con nota di R. Murra, Contrasto tra norma nazionale e norma comunitaria: nullità assoluta degli atti amministrativi di applicazione della norma nazionale?; in Foro It., 1989, III, 444, ed ivi 1990, III, 204, L. Torchia, Il giudice disapplica ed il legislatore reitera: variazioni in tema di rapporti fra diritto comunitario e diritto interno. In quell'occasione il T.A.R. piemontese, considerando, per un verso, che la norma interna in contrasto con la norma comunitaria è priva di effetti e, per un altro, che la norma comunitaria confliggente con quella interna non entra a far parte del sistema delle fonti, ha ritenuto «l'inesistenza del necessario parametro per la valutazione della legalità dell'azione amministrativa e siccome non esiste attività amministrativa legibus soluta» ha dichiarato la nullità assoluta del provvedimento amministrativo. (30) In questi termini R. Garofoli, Annullamento di atto amministrativo contrastate con norme CE selfexecuting, cit., 338. (31) R. Garofoli, Annullamento di atto amministrativo contrastate con norme CE self-executing, cit., 339. 15 (32) Cfr. G. Greco, Incidenza del diritto comunitario sugli atti amministrativi italiani, in M. P. Chiti, G. Greco, Trattato di diritto amministrativo europeo, vol. I, Parte generale, Milano, 1997, 601; id., Fonti comunitarie e atti amministrativi, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1991, 36 ss. (33) Cfr. Cons. Stato 6 aprile 1991, n. 452, in Riv. It. Dir. Pubbl. comunitario, 1992, 530 ss.; T.A.R. Marche 16 gennaio 1986, n. 1, in TAR., 1986, I, 101; T.A.R. Campania, 13 aprile 1989, n. 196, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1991, 209; T.A.R. Lombardia, 25 novembre 1989, n. 389, in TAR, 1990, I, 116; T.A.R. Lazio, 25 agosto 1988, n. 1185, in Rass. Tar, 1988, I, 2945; T.A.R. Lombardia, ord. 24 marzo 1988, n. 1823, in Foro Amm. 1989, 1067, con nota di Cogliandro, Il rinvio pregiudiziale sull'interpretazione del diritto comunitario. (34) Greco, Trattato di diritto amministrativo europeo, cit., 601. (35) V. nota precedente. (36) Cfr. T.A.R. Piemonte, 8 febbraio 1989, n. 84, cit. (37) Sul punto cfr. M. Antonioli, Inoppugnabilità e disapplicabilità degli atti amministrativi, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1999, 1371; R. Caranta, Inesistenza (o nullità) del provvedimento amministrativo adottato in forza di norma nazionale contrastante con il diritto comunitario?, il quale evidenzia come il sistema di giustizia amministrativa sembra presentare una lacuna laddove si dimentica «di predisporre forme di tutela per il privato che, [...] titolare di un semplice interesse legittimo, sia danneggiato [...] da un provvedimento amministrativo, inesistente perché emesso in carenza di potere, in assenza o nell'inefficacia delle norme che prevedono il potere, ma pur sempre in grado di ledere l'interesse sostanziale del privato». In altri termini, secondo l'Autore, «il sistema non risponde alla domanda: quid iuris se il privato, che si duole dell'atto inesistente non ha, perché non ha mai avuto, una situazione di diritto soggettivo, essendo titolare ab origine di un mero interesse legittimo?». (38) Cfr. G. Cocco, Le» liasons dangereuses» tra norme comunitarie, norme interne e atti amministrativi, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 698 ss.; R. Garofoli, Annullamento di atto amministrativo contrastate con norme CE self-executing, cit., 340. (39) M. P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, 1999, 355 ss.; id., I signori del diritto comunitario: la Corte di Giustizia e lo sviluppo del diritto amministrativo europeo, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1991, 824 ss. (40) M. P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, cit., 356. (41) In questi termini cfr. M. P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, cit., 356. (42) Corte di Giustizia, 29 aprile 1999, in causa 224/97, Ciola, in Riv. Dir. Pubbl. comunitario, 1999, 1347, con nota di M. Antonioli, Inoppugnabilità e disapplicabilità degli atti amministrativi, e di V. Stigliani, Atti amministrativi nazionali e norma comunitarie. (43) Il Tribunale austriaco si trovava a valutare la legittimità di un'ammenda irrogata per la violazione dell'obbligo, imposto da un provvedimento amministrativo, di limitare al numero massimo di 60 i posti barca da concedere in locazione ai proprietari di imbarcazioni residenti in altro Stato. Ritenendo tale obbligo in contrasto con il principio della libera prestazione dei servizi contemplato dall'art. 49 Trattato CE avente efficacia diretta, il Tribunale austriaco chiedeva alla Corte di giustizia se dovesse essere disapplicato il divieto posto non da una norma generale e astratta, ma da un provvedimento amministrativo individuale e concreto. (44) In senso critico, verso la tesi della disapplicabilità, cfr. F. Caringella, Il diritto amministrativo, Napoli, 2001, 663, secondo il quale «è da escludere che l'atto amministrativo non tempestivamente impugnato sia suscettibile di disapplicazione da parte del G.A. anche nel caso di mancata impugnazione nel termine di decadenza. L'ordinamento comunitario lascia infatti alla competenza delle legislazioni nazionali l'individuazione delle forme processuali di tutela, e quindi non incide sulla scelta legislativa italiana di assoggettare l'impugnazione di provvedimenti amministrativi, anche in caso di violazione del diritto comunitario, al termine di decadenza». Nella giurisprudenza amministrativa italiana, la tesi della disapplicazione è stata fatta propria da T.A.R. Lombardia, ord. 8 agosto 2000, n. 16 234. (45) Rilevano la diversità di regime giuridico in cui si trovano l'atto amministrativo adottato sulla base di norma di diritto interno contrastante con il diritto comunitario direttamente applicabile e quello, invece, proprio dell'atto posto in essere alla stregua di una norma di legge incostituzionale, M. Antonioli, Inoppugnabilità e disapplicabilità degli atti amministrativi, cit., 1374; G. Cocco, Le «liasons dangereuses» tra norme comunitarie, norme interne e atti amministrativi, cit., 691 ss.; R. Garofoli, Annullamento di atto amministrativo contrastate con norme CE self-executing, cit., 340. (46) M. Antonioli, Inoppugnabilità e disapplicabilità degli atti amministrativi, cit., 1375. (47) Cfr. V. Stigliani, Atti amministrativi nazionali e norme comunitarie, cit., 1413. (48) Sui principi fondamentali come contolimiti al primato del diritto comunitario cfr. M. Cartabia, Principi inviolabili e integrazione europea, Milano, 1995, 95 ss.; L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, 440. Nella giurisprudenza costituzionale l'esigenza di preservare nell'impatto con il diritto comunitario i principi e i diritti fondamentali è espressa già nella sentenza 27 dicembre 1965, n. 98 (in Giur. Cost. 1965, 1322) e poi, più compiutamente, nelle sentenze 27 dicembre 1973, n. 183 (in Giur. cost. 1973, 2045, con commento di P. Barile, Il cammino comunitario della Corte), e 8 giugno 1984, n. 170, cit. In particolare, in quest'ultima pronuncia la Corte, riprendendo letteralmente un passo della decisone n. 173 del 1973, afferma: «in base all'art. 11 della Costituzione sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; deve quindi escludersi che siffatte limitazioni [...] possano comunque comportare per gli organi Cee un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana. Ed è ovvio che qualora dovesse mai darsi all'art. 189 una sì aberrante interpretazione, in tale ipotesi sarebbe assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con detti principi fondamentali». (49) Sul punto v. le considerazioni svolte da M. Antonioli, Inoppugnabilità e disapplicabilità degli atti amministrativi, cit., 1374. (50) In questo senso sembra orientato M. Antonioli, Inoppugnabilità e disapplicabilità degli atti amministrativi, cit., 1376. Sul tema cfr. M. P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, cit., 451, il quale, nell'evidenziare i possibili sviluppi della sentenza Ciola, come il superamento del termine di impugnazione a pena di decadenza, rileva che l'incidenza comunitaria sta facendo saltare progressivamente l'impianto della tutela impugnatoria a favore della tutela piena, con che il giudice diverrà a pieno titolo giudice del rapporto. (51) Sulla questione, che si ripropone in termini analoghi anche nel processo civile, cfr. G. Arieta, I provvedimenti di urgenza, Padova 1982, 88 ss.; Baccarini, Intervento, cit., 40 ss.; Borrè, Questione di costituzionalità e provvedimento d'urgenza, in Aa. Vv., I processi speciali. Studi in onore di V. Andrioli, Napoli, 1979, 115 ss.; G. Campanile, Procedimento d'urgenza e incidente di legittimità costituzionale, in Riv. Dir. Proc., 1985, 124; M. Cappelletti, La pregiudizialità costituzionale nel processo civile, Milano 1957, passim; L. Chieffi, Tutela cautelare e diritti di «rilievo costituzionale» (aspetti problematici), in Giur. Cost., 1986, I, 2577 ss.; E. A. Dini, Questione di costituzionalità e art. 700 c.p.c., in Nuovo Dir., 1980, 273; M. Esposito, Giudizio incidentale di legittimità costituzionale e misure incidentali, in Giur. Cost., 1997, 1833; F. Lubrano, Il giudizio cautelare amministrativo, Roma, 1997, 73; M. Montanari, Provvedimento d'urgenza e questione di costituzionalità sollevata dal ricorrente a fondamento della sua istanza cautelare: un problema che si ripropone, in Giur. It., 1988, I, 2, 151 ss.; A. Proto Pisani, I provvedimenti d'urgenza ex art. 700 c.p.c., in Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, 353 ss.; C. Ribolzi, La sospensione dell'atto impugnato in pendenza del giudizio di incostituzionalità, in Riv. Amm. Rep. It, 1985, 767; A. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 1463; G. Silvestri, Procedimenti cautelari e questioni di costituzionalità: una vecchia questione che si trascina, in Giur. Cost., 1994, 452; G. Verde, Considerazioni sul processo d'urgenza (come è e come si vorrebbe che fosse), in Aa. Vv., I processi speciali. Studi in onore di V. Andrioli, cit. 17 446-449 e 464; G. Virga, La mozione di sfiducia ed i poteri cautelari dei Giudici amministrativi in pendenza delle questioni di legittimità costituzionale, in www. giust.it; A. Vuolo, L'accesso al giudizio costituzionale nella fase cautelare del processo amministrativo e la tutela delle situazioni giuridiche soggettive, in A. Anzon, P. Caretti, S. Grassi, Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale, Atti del seminario di Firenze svoltosi il 28-29 maggio 1999, Milano, 2000, 693; G. Zagrebelsky, La tutela d'urgenza, in L. Carlassare (a cura di), Le garanzie giurisdizionali dei diritti fondamentali, Padova, 1988, 39. (52) Cfr.Corte cost. 22 luglio 1976, n. 186, in Giur. Cost., 1976, I, 1159 ss.; Corte cost. 20 dicembre 1993, n. 451, ivi, 1993, 3694; Corte cost. 23 dicembre 1993, n. 457, ivi, 1993, 3719, secondo la quale però, se il giudizio di merito è già pendente, il problema della rilevanza deve ritenersi risolto. (53) La Corte costituzionale ha ritenuto corretto questo modus procedendi del giudice amministrativo: cfr. Corte cost. 12 ottobre 1990, n. 440, in Giur. Cost., 1990, 2652; Corte cost. 11 luglio 1991, n. 367; Corte cost. 27 gennaio 1995, n. 30, ivi, 1995, 331 ss.; Corte cost. 18 giugno 1997, n. 183, ivi, 1997, con nota di M. Esposito, Giudizio incidentale di legittimità costituzionale e misure cautelari; Corte cost. 1998, n. 185; Corte cost. 10 gennaio 2000, n. 4, ivi, 2000, 14. (54) Cons. Stato, Ad. Plen., ord. 20 dicembre 1999, n. 2, cit. (55) Cons. Stato, sez. IV, ord., 7 dicembre 1999, n. 2275, in www.giust.it (56) Cfr., fra gli altri, S.Baccarini, Intervento, cit., 40 ss.; Borrè, Questione di costituzionalità e provvedimento d'urgenza, cit., 115 ss.; Vuolo, L'accesso al giudizio costituzionale nella fase cautelare del processo amministrativo e la tutela delle situazioni giuridiche soggettive, cit. 710 ss; G. Zagrebelsky, La tutela d'urgenza, cit., 39. Secondo G. Arieta, I provvedimenti d'urgenza, cit., 88 ss., è necessario distinguere il caso di assenza totale di tutela nella legge ordinaria, che dovrebbe portare al rigetto della domanda cautelare, e il caso della lesione di un diritto già riconosciuto da una legge e messo in pericolo da una legge successiva in contrasto con la Costituzione, che consentirebbe invece la tutela d'urgenza (57) Per una completa disamina degli argomenti a favore e contro la tesi della disapplicabilità in sede cautelare della norma incostituzionale v., per tutti, S. Baccarini, Intervento, cit., 40 ss. (58) P. Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, 63; E. T. Liebman, Unità del procedimento cautelare, in Riv. Dir. Proc., 1954, 252. In senso critico su questo punto v. A. Vuolo, L'accesso al giudizio costituzionale nella fase cautelare del processo amministrativo e la tutela delle situazioni giuridiche soggettive, cit., 707, il quale rileva che «se al giudice non compete in linea generale la valutazione delle legittimità delle leggi, a maggior ragione occorre escludere che esso possa conoscere della fondatezza prime facie della questione di legittimità costituzionale, se non al limitato fine di rimettere la questione alla Corte». (59) Cfr. G. Campanile, Procedimento d'urgenza e incidente di legittimità costituzionale, cit., 124. L'argomento che fa leva sull'art. 101 Cost. è sottolineato anche da Borré, Questione di costituzionalità e provvedimento d'urgenza, cit. 121 e da A. Proto Pisani, I provvedimenti d'urgenza ex art. 700 c.p.c., cit., 398. (60) Così G. Zagrebelsky, La tutela d'urgenza, cit., 39. (61) In questi termini v. A. Vuolo, L'accesso al giudizio costituzionale nella fase cautelare del processo amministrativo e la tutela delle situazioni giuridiche soggettive, cit., 712. In senso analogo cfr. S. Baccarini, Intervento, cit., 41. Sul punto v. anche V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, cit., 263, che, che con riferimento allapossibilità per il giudice a quo di ritenere la questione manifestamente infondata, parla di sistema «eclettico». (62) Cfr. Borré, Questione di costituzionalità e provvedimento d'urgenza, cit., 137; A. Vuolo, L'accesso al giudizio costituzionale nella fase cautelare del processo amministrativo e la tutela delle situazioni giuridiche soggettive, cit., 713. (63) Così ancora S. Baccarini, Intervento, cit., 41. 18 (64) S. Baccarini, Intervento, cit., 42. A. Vuolo, L'accesso al giudizio costituzionale nella fase cautelare del processo amministrativo e la tutela delle situazioni giuridiche soggettive, cit., 711. (66) Per un quadro completo della giuriprudenza comunitari ain ateria di tutela cautelare cfr. G. Barbagallo, Influenze dell'ordinamento comunitario sulla tutela giurisdizionale, in Aa.Vv, Sovranazionalità europea: posizioni soggettive e normazione, Torino, 2000, 32 ss. (67) Coste di giustizia Ce, sentenza 19 giugno 1990, in causa 213/89, Factortame, in Foro Amm., 1991, 185, con nota di R. Caranta, Effettività della garanzia giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione e diritto comunitario: il problema della tutela cautelare; in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1991, 402, con nota di M. Muscardini, Potere cautelare dei giudici nazionali in materie disciplinate dal diritto comunitario,: in Dir. Proc. Amm., 1991, 255, con nota di C. Consolo, L'ordinamento comunitario quale fondamento per la tutela cautelare del giudice nazionale (in via di disapplicazione di norme legislative interne). (68) A. Vuolo, L'accesso al giudizio costituzionale nella fase cautelare del processo amministrativo e la tutela delle situazioni giuridiche soggettive, cit., 715. (69) Corte di giustizia, 21 febbraio 1991, Zuckerfabrik, (70) Corte di giustizia 9 novembre 195, in causa 465/93, Atlanta, in Giorn. Dir. Amm., 1996, 333, con nota di M. P. Chiti, Misure cautelari positive ed effettività del diritto comunitario. Con questa sentenza in particolare la Corte ha esteso alle misure cautelari atipiche la tutela riconosciuta nel caso Zuckerfabrik. (71) G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, cit., 194. (72) V., ad esempio, Cons. Stato, sez. IV, ord. 21 ottobre 1997, n. 2011, in Guida al dir., 1998, n. 5, 100. (73) Sul tema cfr. S. Baccarini, Intervento, cit., 36; A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2000, 258; A. Vuolo, L'accesso al giudizio costituzionale nella fase cautelare del processo amministrativo e la tutela delle situazioni giuridiche soggettive, cit., 715. (74) Sul provvedimento cautelare concesso dal Presidente cfr. F. Caringella, Il diritto amministrativo, Napoli, 2001, 1164; D. De Carolis, Il nuovo assetto della tutela cautelare, in F. Caringella, M. Protto, Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2001, 228 ss.; R. Depiero, Commento all'art. 3, in Aa.Vv., La giustizia amministrativa. Commento alla L. 21 luglio 2000, n. 205, Milano, 2001, 32 ss.; C. E. Gallo, Presidente e collegio nella tutela cautelare, in La nuova tutela cautelare nel processo amministrativo, Atti del convegno, Roma, Palazzo Spada, 18 maggio 2001, 20 ss.; A. Panzarela, Il processo cautellare, in B. Sassani, R. Villata (a cura di), Il processo davanti al giudice amministrativo. Commento sistematico alla legge 205/2000, Torino, 2001, 19 ss.; M. Sannino, Il processo cautelare, in V. Cerulli Irelli (a cura di), Verso il nuovo processo amministrativo, Torino, 2000, 270. Va, peraltro, rilevato che il T.A.R. Lombardia, sez. IIII, ord. pres. 15 febbraio 2001 (in questa Rivista., 2001, 7, 770, con nota di F. F. Tuccari, Tutela cautelare preventva e processo amministrativo riformato: una quérélle ancora irrisolta) ha sollevato questione di legittimità costituzionale del nuovo art. 21 legge n. 1034/71 nella parte in cui, in contrasto con il principio costituzionale del diritto di difesa, non prevede lo strumento della tutela cautelare ante causam di cui agli artt. 669-bis ss. e 700 c.p.c. (75) Lo si veda citato in M. Lipari, I riti abbreviati, in F. Caringella, M. Protto, Il nuovo processo amministrativo, cit., 339. (76) Cfr. M. Lipari, I riti abbreviati, 338 ss. (77) Corte cost., 20 dicembre 1993, n. 451, cit. In senso critico verso tale rigore «separatista» cfr. G. Silvestri, Procedimenti cautelari e questioni di costituzionalità: una vecchia questione che si trascina, cit., 452 sss. (78) Corte cost. 23 dicembre 1993, n. 457, cit. (65) 19 LO STATUTO DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO A VENT'ANNI DALL'APPROVAZIONE DELLA LEGGE N. 241/90, OVVERO DEL NESSO DI STRUMENTALITÀ TRIANGOLARE TRA PROCEDIMENTO, ATTO E PROCESSO (*) Diritto Processuale Amministrativo, fasc.2, 2010, pag. 459 Margherita Ramajoli Classificazioni: ATTO AMMINISTRATIVO - In genere Sommario: 1. Alla ricerca di un criterio di bilancio. - 2. La legge n. 241/90 come critica a un modello non di azione amministrativa, ma di tutela giurisdizionale. - 3. L'istruttoria come cuore del procedimento amministrativo. - 4. La motivazione sostanziale come summa dello statuto del provvedimento amministrativo. - 5. Dalla legge n. 241/90 alla legge n. 15/05: modelli di statuto del provvedimento amministrativo a confronto. - 6. La giurisprudenza sul sindacato di legittimità delle scelte amministrative come vera erede dello statuto provvedimentale della legge n. 241/90. - 7. Bilancio e prospettive. 1. Per fare un bilancio dell'azione amministrativa a vent'anni dalla legge n. 241/90 dal punto di vista del provvedimento occorre avere la «previsione» iniziale su cui parametrare i risultati della «gestione». Il criterio di bilancio della legge n. 241 non può che essere la sua intenzionalità originaria, così come si esprimeva nelle dichiarazioni del suo ispiratore e cioè di Mario Nigro. Questo vale in particolare per il provvedimento amministrativo, perché l'intenzionalità della legge n. 241 è tutta rivolta al provvedimento: nella visione di Nigro, l'oggetto della disciplina è il procedimento, ma lo scopo della disciplina stessa è di produrre una trasformazione profonda dello statuto del provvedimento. Riferirsi alla visione di Nigro è necessario anche per tracciare le prospettive, le quali hanno sempre un orizzonte ideale di riferimento. Ma l'orizzonte ideale della legge n. 241 è stato alterato in maniera significativa dalla legge n. 15/2005, che ha introdotto nel testo originario una disciplina formale dello statuto del provvedimento; quest'ultima appare largamente ispirata proprio a quella legge generale sull'azione amministrativa tedesca dalle cui critiche aveva preso invece le mosse il progetto della cd. Commissione Nigro (1). Infatti con la legge n. 15, da un lato, il provvedimento amministrativo è diventato oggetto esplicito e diretto di disciplina, laddove invece nel testo originario era lo scopo della disciplina, cioè il risultato di lungo periodo che ci si attendeva dall'applicazione della nuova disciplina del procedimento; dall'altro, il provvedimento amministrativo è stato «codificato», cioè irrigidito in una forma, laddove invece la Commissione Nigro riteneva che imbrigliare il provvedimento in uno «statuto» formale avrebbe significato renderlo meno sensibile alla trasformazione cui si mirava. La legge n. 15 ha quindi alterato la filosofia complessiva della legge n. 241 proprio nella parte in cui ha introdotto uno statuto formale del provvedimento. In quale orizzonte allora dobbiamo collocare le «prospettive» della legge n. 241 riguardo al provvedimento amministrativo: in quello originario o in quello introdotto dalla legge n. 15? Anche per questa ragione risulta dunque importante riportare davanti a noi con la maggiore precisione possibile la ratio originaria della proposta della Commissione Nigro e cioè l'intenzionalità profonda della legge n. 241. Credo che in un «bilancio» sia anzitutto un dovere ripensare con attenzione al punto di partenza, soprattutto perché dell'esperienza deve essere fatto tesoro; essa deve servire di insegnamento sia per controllare se si era capito bene l'intento originario, sia per verificare se quell'intento si basasse su corrette ipotesi e presupposizioni. 2. Si è soliti ritenere che il testo originario della legge n. 241 non contenga un vero e proprio statuto del provvedimento. Nel contesto storico in cui si forma il progetto Nigro emerge con prepotenza la necessità di affermare come l'attività amministrativa si svolga non solo ed esclusivamente mediante 20 provvedimenti amministrativi, ma altresì attraverso strumenti consensuali, piani e programmi, e sia addirittura possibile, talvolta, sostituire un provvedimento amministrativo permissivo con un atto dichiarativo del soggetto privato interessato. Tuttavia se riconsideriamo il genuino progetto di Nigro ci si rende conto di quanto in esso fosse centrale ed assorbente anche e proprio l'esigenza di contribuire all'affermazione di un nuovo statuto del provvedimento amministrativo. Trarrò le mie considerazioni da tre fonti dell'Autore: l'intervento Procedimento amministrativo e tutela giurisdizionale contro la pubblica amministrazione (il problema di una legge generale sul procedimento amministrativo), all'incontro di studio organizzato dal Formez a Roma nel 1980, poco prima della nomina della Commissione Nigro, l'intervento Il procedimento amministrativo fra inerzia legislativa e trasformazioni dell'amministrazione (A proposito di un recente disegno di legge), al convegno organizzato a Messina-Taormina nel 1988, quando la legge 241 attendeva solo di essere approvata, e la Giustizia amministrativa, la cui stesura definitiva si colloca temporalmente giusto a metà strada tra gli altri testi (1984). Il punto da cui prendere le mosse è che per Nigro il valore e gli effetti di una legge sul procedimento amministrativo devono essere considerati nella prospettiva della tutela giurisdizionale. L'essenza della politica del diritto da concretizzarsi nella legge sul procedimento è espressa dall'affermazione secondo cui: «il dispiegarsi del procedimento si rivela strettamente funzionale alla completezza e profondità della cognizione giudiziale» (2). Nell'intervento del 1980 si mettono uno di fronte all'altro due modelli di rapporto tra procedimento e processo amministrativo, il modello della separazione e quello dell'alternatività. Il primo concepisce il procedimento esclusivamente come servente rispetto all'atto finale e ritiene che il procedimento sia «indifferente rispetto ai problemi della tutela giurisdizionale». Il secondo concepisce all'opposto il procedimento stesso, dotato di una struttura paragiurisdizionale, come sede della tutela del cittadino e comporta un recedere in secondo piano, cioè in una dimensione puramente formale ed esteriore, della tutela giurisdizionale (3). Però, dal momento che secondo Nigro la nostra Costituzione rende impossibile rinunciare sia «alla costruzione di un efficiente sistema giurisdizionale [art. 24], sia ad una disciplina del procedimento che consenta a questo di concorrere alla realizzazione di valori di giustizia [art. 97]», occorre optare per un terzo, diverso, modello, e cioè quello dell'integrazione tra procedimento amministrativo e processo giurisdizionale. In particolare, un'ipotetica legge sul procedimento è volta a favorire l'affermarsi di una nuova legalità: «non una legalità-legittimità, ma una legalità-giustizia, perché non si tratta più soltanto di controllare e assicurare la conformità dell'attività amministrativa all'ordine normativo preesistente, ma di dare vita, con la partecipazione e attraverso il confronto di tutti gli interessi coinvolti, ad un giusto e originale assetto di tali interessi» (4). In concreto, dunque, una disciplina del procedimento deve servire a spostare il baricentro dell'azione amministrativa dall'atto finale all'istruttoria procedimentale, con il fine precipuo di rendere più sostanziale il controllo giurisdizionale sul corretto esercizio del potere amministrativo. La legge sul procedimento nasce quindi come critica non a un modello di azione amministrativa, ma a un modello di tutela giurisdizionale il quale, essendo incentrato esclusivamente sull'atto formalisticamente inteso, impedisce al sindacato giurisdizionale di attingere la sostanza dell'assetto di interessi posto in essere dall'amministrazione. Nel momento in cui scrive Nigro «procedimento e giurisdizione sono due specchi che si rimandano reciprocamente, ingigantendola sempre più, l'immagine dell'atto amministrativo: il modo di esercizio della giurisdizione conferma, dunque, che il procedimento serve esclusivamente a dar vita all'atto, che esso appartiene al mondo dell'atto» (5). Di contro, l'importanza del procedimento si rivela non nel suo risultato finale e cioè nell'atto, ma 21 nell'istruttoria che lo sostanzia. Il suo centro si trova nella complessa istruttoria che, verificando i fatti, consente l'identificazione, la valutazione e la comparazione degli interessi in gioco e la definizione dell'interesse pubblico. 3. Emerge dunque con chiarezza la ragione in base alla quale l'istruttoria è il cuore del procedimento amministrativo. Infatti, «l'istruttoria procedimentale non riguarda soltanto l'operazione di individuazione e raccolta dei fatti rilevanti per la decisione, ma l'intero processo di formazione di essa, processo che tocca sia il diritto che il fatto. Nell'esercizio delle sue potestà l'amministrazione non cala nel fatto o sul fatto un diritto prefabbricato, ma tesse per così dire una trama che va dal diritto al fatto e dal fatto al diritto per precisare l'uno attraverso l'altro e viceversa. È quasi un luogo comune che nell'attività discrezionale (che è quella che soprattutto interessa), il diritto che l'amministrazione applica è il diritto del caso concreto, il diritto che trova nel fatto stesso al quale lo applica» (6). La famosa tesi del provvedimento come riepilogo preformato del procedimento, espressa per prima dalla dottrina tedesca (7) assume un significato peculiare per Nigro. Essa significa che «diritto e fatto dell'episodio in cui amministrazione e amministrato entrano in contatto si colgono più ampiamente e significativamente dietro l'atto, negli atti e nelle operazioni che l'hanno preceduto, nei rapporti e negli apporti organizzativi, i quali ... costituiscono la parte essenziale del procedimento» (8). Questa considerazione ha tanto più valore in quanto, sottolinea Nigro nell'intervento del 1988, l'amministrazione agisce non più come entità esecutiva, bensì come «una forza di governo», «sulla base spesso di prescrizioni legislative (o normative in genere) ponenti soltanto regole formali o, comunque, obiettivi molto scarni» (9). Sempre nel 1988 Nigro osserva che sempre più importante appare «il contributo che dall'impianto di un'adeguata struttura procedimentale» può «venire per l'efficienza del processo amministrativo»: «solo dal procedimento amministrativo possono scaturire gli elementi necessari al giudice per la verifica dei fatti così come posti a base del provvedimento» e «solo il procedimento amministrativo può rendere noti al giudice i parametri di ragionevolezza, di giustizia e di efficienza concretamente assunti nella vicenda dall'amministrazione ... senza i quali il giudice difetta degli elementi essenziali per una verifica dell'eccesso di potere che non si contenti di un riscontro di illogicità ed ingiustizia astratte» (10). Quindi, ai fini di una scelta amministrativa «giustificata e ragionevole», «momento decisivo dell'attività diventa ... l'istruttoria dalla quale l'atto finale necessariamente discende e che dell'atto finisce poi per condizionare il significato e la sorte», al punto che «nella denuncia di eccesso di potere sotto accusa in definitiva non è l'atto ma il procedimento» (11). Interessa puntare l'attenzione non tanto sull'atto in sé e per sé considerato, quanto sul farsi dell'atto, ribaltando l'impostazione tradizionale secondo cui il procedimento è nato al servizio dell'atto per spiegarne la nascita ed esaltarne la signoria (12). Infine troviamo compiutamente espresso nella Giustizia amministrativa il disegno di trasformazione del processo amministrativo che fa da sfondo all'idea della legge sul procedimento amministrativo. La funzione del processo amministrativo non è tanto di «verificare una realtà sostanziale esterna e definita (il diritto soggettivo)», ma piuttosto è di «concorrere a creare l'oggetto stesso della verifica», «fissando la regola del concreto operare dell'amministrazione in relazione all'interesse sostanziale dell'amministrato, stabilendo così il giusto rapporto tra interesse sostanziale e potere amministrativo» (13). La crisi del modello di impugnazione spinge verso la trasformazione del processo nel senso di aprirlo alla considerazione/conformazione del modo di esercizio del potere amministrativo, allo scopo di soddisfare l'interesse materiale del ricorrente. L'ampliamento del contenuto (di accertamento e ordinatorio) della sentenza del giudice amministrativo e la correlata funzione del giudizio di ottemperanza, attraverso cui tale contenuto (regola del futuro esercizio del potere amministrativo) diventa effettivo, giocano a favore dell'emersione del conflitto sostanziale di interessi, con conseguente arricchimento della situazione giuridica soggettiva del ricorrente e espansione del vincolo sull'esercizio 22 della potestà amministrativa (14). 4. In definitiva l'intenzionalità originaria della legge n. 241/90 non ignora affatto lo statuto del provvedimento amministrativo, anzi mira all'affermazione di un nuovo statuto, nel quale siano messi in primo piano non gli aspetti formali dell'autorità (efficacia, esecutorietà, autotutela), ma gli aspetti sostanziali del rapporto tra interesse del singolo e interesse pubblico concretamente posto in essere dal provvedimento. Ciò al fine di consentire non semplicemente un più profondo e penetrante sindacato giurisdizionale, bensì anche un più deciso orientamento della tutela verso la protezione dell'interesse sostanziale fatto valere dal ricorrente. In altri termini, con un paradosso solo apparente, nella visione originaria della legge n. 241 lo statuto del provvedimento è il procedimento stesso, nella misura in cui ciò che conta è la disciplina del contenuto dell'atto, non della sua forma esteriore. In questa logica lo statuto del provvedimento nella legge n. 241 è tutto contenuto nell'art. 3, dove la motivazione è definita secondo un modo che esprime compiutamente la visione di Nigro, e cioè come indicazione delle ragioni sostanziali che, nella prospettiva del rapporto tra diritto e fatto, sorreggono la scelta dell'amministrazione, così come emergono dalle risultanze dell'istruttoria («la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria»). È doveroso sottolineare che la visione espressa da Nigro non è il punto di vista di un singolo studioso, ma esprime il culmine di un'intera epoca. Frutto di decenni di riflessione critica sulla teoria tradizionale dell'atto amministrativo, inteso ad affermare il carattere sostanziale dell'interesse legittimo, l'orizzonte da cui è scaturita la legge n. 241 concepisce il procedimento come sede di emersione degli interessi in gioco e come strumento essenziale di garanzia del privato nei confronti dell'arbitrio del potere amministrativo (15). Il procedimento amministrativo diviene così uno strumento di diluizione del potere amministrativo e di legittimazione dell'amministrazione stessa. Ma l'accentuazione del momento procedimentale comporta, in questo orizzonte, non il tentativo di rimozione dell'atto amministrativo, bensì il passaggio da una visione formalistica, in cui contavano l'imperatività e l'efficacia del provvedimento, ad una visione sostanzialistica, di giustificazione razionale delle scelte dell'amministrazione. Assume importanza nevralgica, oltre all'istruttoria procedimentale, che diviene il contesto di giustificazione dei risultati di un'azione, anche la motivazione, intesa quest'ultima in senso sostanziale. Infatti l'obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi esisteva già prima dell'entrata in vigore della legge n. 241, essendo stato da tempo riconosciuto dalla giurisprudenza per talune categorie di atti amministrativi. Solo che esso era un obbligo di tipo formale, che spesso si accontentava di una motivazione purchessia, e non era inserito in un più ampio tessuto di trasformazione dell'agire amministrativo e della relativa tutela giurisdizionale. Di contro l'art. 3 della legge 241 obbedisce ad un'impostazione sostanziale, chiedendo che la motivazione, introdotta obbligatoriamente per tutte le tipologie di provvedimento amministrativo, debba indicare presupposti di fatto e ragioni giuridiche a fondamento della decisione, in relazione ai risultati istruttori. Occorre così esplicitare la ragione giuridica di un provvedimento, la quale deve fondarsi necessariamente sui fatti, sulla realtà (16). L'art. 3 rappresenta dunque la summa dell'idea di statuto provvedimentale secondo la legge n. 241, tant'è che si tratta di disposizione contenuta nel Capo I, relativo ai principi: lo statuto del provvedimento amministrativo coincide con la sua motivazione e quindi con la sindacabilità delle scelte operate dall'amministrazione. Ma soprattutto l'art. 3 contiene il codice genetico per lo sviluppo futuro di uno statuto generale del provvedimento amministrativo ordinato secondo il punto di vista della garanzia dei singoli nei 23 confronti dell'arbitrio del potere amministrativo. Questo particolare statuto del provvedimento amministrativo ha una sua energia espansiva, una produttività in grado di divenire fonte inesauribile di materiale nuovo. Ciò nella misura in cui la regola dell'azione amministrativa, come sottolineava Nigro in un passaggio della Giustizia amministrativa sopra ricordato, è sempre necessariamente una regola concreta, cioè la regola di un particolare rapporto tra l'esigenza di cura dell'interesse pubblico e l'esigenza di protezione dell'interesse del singolo che nascono in relazione ad una determinata configurazione fattuale. Così la motivazione, intesa in senso sostanziale, è lo strumento imprescindibile al fine di consentire al giudice di cooperare - come sempre diceva Nigro - alla costruzione di una regola che realizzi un giusto assetto degli interessi. 5. Se passiamo ora al «bilancio» della legge n. 241 dal punto di vista del provvedimento amministrativo, la prima impressione è che le aspettative riposte nella legge siano andate tradite. L'art. 3 non è diventato affatto il veicolo di una concezione più sostanziale della motivazione, ma anzi ha prodotto l'effetto contrario, cioè la trasformazione del difetto di motivazione in un vizio puramente formale. Non a caso questa tendenza è diventata esplicita nel momento in cui la legge n. 15 ha introdotto nella legge n. 241 una disciplina del provvedimento. La legge n. 15 ha inserito nel corpo originario del testo un capo apposito (Capo IV-bis) contenente otto nuovi articoli (dall'art. 21-bis all'art. 21-nonies); essi mirano dichiaratamente a codificare la disciplina del provvedimento amministrativo, obbedendo ad una concezione formale del provvedimento stesso, nonché recependo alcuni, non pacifici, orientamenti giurisprudenziali (17). La matrice originaria di questo differente modello si trova nella legge sul procedimento amministrativo della Repubblica Federale di Germania del 1976, che dopo avere dedicato una parte prima all'ambito di applicazione della legge e una parte seconda alle disposizioni generali sul procedimento amministrativo, presenta una parte terza sull'atto amministrativo, le cui disposizioni si occupano di formazione, di validità e di effetti dell'atto; si tratta di diciannove paragrafi, quasi tutti molto estesi, che regolano in modo dettagliato l'atto amministrativo (18). In più riprese si era tentato di importare in Italia questo modello, il cui debito nei confronti della pandettistica e della postpandettistica è ben evidente, in quanto volto ad elaborare una disciplina dell'atto amministrativo sulla falsariga di quella del negozio giuridico (19). Noti sono i lavori della Commissione Forti (1944-1948) e delle quattro proposte di legge presentate rispettivamente da De Francesco, da Lucifredi, Resta e Codacci Pisanelli, dal solo Lucifredi, e da Cossiga e altri, che intendevano fissare legislativamente prescrizioni sulla formazione e sulla validità del provvedimento amministrativo (20). Ma, come è altrettanto noto, questi tentativi italiani sono tutti falliti e scientemente la Commissione Nigro ha scartato l'impostazione cd. post-pandettistica, perché essa finisce con il porre essenzialmente fuori causa il processo di formazione della decisione amministrativa. Del resto, quanto sia lontana l'ispirazione della Commissione Nigro da una disciplina di carattere formale è testimoniato da una disposizione che compariva nell'articolato originario (art. 1, comma 1) e poi soppressa ad opera degli uffici della Presidenza del Consiglio; in base ad essa l'attività amministrativa «si ispira al principio della libertà delle forme», in maniera da evitare che il provvedimento amministrativo sia vincolato da forme determinate e, ancor prima, che l'intera attività amministrativa sia sottoposta a formalismo e tipicità (21). E non è un caso che in Francia manchino a tutt'oggi leggi generali sull'azione amministrativa e sul procedimento, ma da tempo, a far data dal 1978 (l. n. 79-587, dell'11 luglio 1979), sia previsto normativamente l'obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi o, meglio, di alcuni provvedimenti amministrativi, obbedendo così alla medesima visione dello statuto del provvedimento amministrativo fatta propria dal testo originario della legge n. 241 (22). 24 Ora, invece, la legge n. 15 si ricollega idealmente alla risalente sistematica tedesca, emanando una serie di norme di disciplina dell'efficacia, dell'esecuzione, dell'invalidità del provvedimento, nonché dei provvedimenti amministrativi di secondo grado. In questa maniera si stempera l'idea che l'atto conclusivo del procedimento abbia il carattere di un riepilogo preformato nelle considerazioni precedenti e che sia fondamentale cercare di rendere trasparente e controllabile il processo decisorio. Si riafferma inoltre l'assoluta centralità del provvedimento amministrativo quale strumento dell'agire dell'amministrazione, come dimostra il comma 4-bis dell'art. 11 che impone che la stipulazione degli accordi sia preceduta da una determinazione dell'organo che sarebbe competente per l'adozione del provvedimento. Ma soprattutto la legge n. 15 decostruisce la legge n. 241 e il suo significato ultimo, perché con il secondo comma dell'art. 21-octies i vizi procedimentali sono dequotati al punto da ritenere che essi possano divenire irrilevanti in un giudizio sulla legittimità dell'atto amministrativo («non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento ... qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato»). Si assiste alla degradazione di molte ipotesi di violazione di legge a forme di illegittimità non invalidanti, con la conseguenza di far considerare inutile formalismo anche il rispetto di regole che hanno una valenza che va al di là della tutela degli interessi specifici di un singolo. L'esempio è proprio offerto dalla regola dell'obbligo di motivazione, che riveste un'indubbia importanza anche in termini di giustificazione sostanziale delle scelte amministrative, oltre che in termini di responsabilità dell'amministrazione di fronte a tutti i cittadini e, in definitiva, in termini di civiltà giuridica. In questa maniera si giunge a configurare uno statuto del provvedimento amministrativo diametralmente opposto rispetto a quello in origine concepito. Dal canto suo, una parte della giurisprudenza amministrativa ha contribuito a rafforzare questo nuovo modello di statuto provvedimentale, ad esempio, riconoscendo all'amministrazione la facoltà di spiegare anche nel corso del processo le ragioni a fondamento della propria decisione. Più precisamente in giurisprudenza si trova la seguente concatenazione logica: anzitutto si giunge a configurare il difetto di motivazione alla stregua di vizio formale, anche se è oltremodo dubbio che nella previsione dell'art. 21-octies, comma 2, prima parte, rientri il vizio di omessa motivazione. Infatti esso ha natura sostanziale e non meramente formale o procedurale, al pari del vizio di omessa istruttoria (23), e secondo la giurisprudenza comunitaria un difetto o un'insufficienza di motivazione, fatti sempre rientrare nella violazione delle «forme sostanziali», costituiscono addirittura motivo di ordine pubblico da sollevarsi d'ufficio ad opera del giudice comunitario (24). Il giudice amministrativo, dopo avere ricompreso il difetto di motivazione tra i vizi formali, afferma che tale vizio può condurre all'annullamento del provvedimento solo ove sia palese che il contenuto dispositivo del medesimo non sarebbe stato diverso e, più esattamente, che «il vizio formale non può condurre all'annullamento dell'atto amministrativo ove l'interesse pubblico sia stato in ogni caso soddisfatto», interpretando in maniera piuttosto libera il principio secondo cui l'art. 21-octies, comma secondo, troverebbe applicazione solo in presenza di provvedimenti di natura vincolata. Infine il giudice ammette la motivazione postuma del provvedimento in sede giudiziale sulla base dell'art. 21-octies, consentendo all'amministrazione intimata di rappresentare in corso di giudizio gli eventuali elementi utili per evidenziare la palese infondatezza della pretesa della parte ricorrente, depositando atti istruttori idonei ad integrare il provvedimento impugnato o individuando, ad integrazione della motivazione mancante, gli elementi istruttori (25). Ma vi è un'evidente circolarità nel ragionamento svolto dalla giurisprudenza in esame, che prima forza la portata normativa dell'art. 21-octies per ricomprendervi il difetto di motivazione e poi ritorna alla norma stessa per giustificarne l'integrazione postuma. Si assiste così ad una duplice alterazione, sia sul piano sostanziale, sia sul piano processuale: da un lato, 25 si trasforma in un vuoto simulacro l'obbligo di motivazione, rendendolo evanescente e sostanzialmente inutile, dall'altro, si configura il processo come una sorta di procedimento di riesame condotto sotto mentite spoglie processuali. In tal modo si sovverte l'ordine logico e cronologico tra procedimento e processo, con il rischio che l'amministrazione si limiti ad individuare il dispositivo del provvedimento, rinviando l'esplicitazione delle motivazioni, e costringa il privato ad attivare lo strumento della tutela giurisdizionale al solo scopo di essere reso partecipe delle ragioni alla base della decisione (26). Il tipo di integrazione che viene qui in rilievo, e cioè il riconoscimento della facoltà dell'amministrazione di depositare atti istruttori idonei ad integrare il provvedimento impugnato o di individuare, ad integrazione della motivazione mancante, ulteriori elementi istruttori, è ben diverso dall'integrazione tra procedimento amministrativo e processo giurisdizionale configurata da Nigro. Quando quest'ultimo affermava che il processo si trova inevitabilmente inserito nel flusso dell'attività amministrativa intendeva con ciò che il processo è un momento intermedio fra l'esercizio passato e l'esercizio futuro della potestà amministrativa e non che il processo potesse divenire un improprio succedaneo del procedimento amministrativo. 6. Il panorama tracciato può sembrare sconsolante e indurre a pensare che Nigro peccasse d'ingenuità, oppure (e le due cose non sono necessariamente in contraddizione, nella misura in cui la legge n. 15 nasce proprio da una prassi giurisprudenziale di rifiuto della visione di Nigro) che avesse ragione a temere che l'introduzione di una disciplina dell'atto nella legge sul procedimento avrebbe sviluppato tendenze formalistiche, recidendo nuovamente il nesso di cooperazione tra procedimento e processo. Tuttavia quello appena delineato non è il quadro completo. Per operare un bilancio corretto della legge n. 241 occorre allargare lo sguardo fino a comprendere tutto il lavoro giurisprudenziale che in questi decenni è stato svolto nel senso dell'approfondimento del sindacato di legittimità delle scelte amministrative, proprio attraverso un uso dei principi di completezza dell'istruttoria e di adeguatezza della motivazione che traduce perfettamente l'idea espressa a più riprese da Nigro. Questa elaborazione è tanto più importante quanto più avviene quasi inavvertitamente, perché si presenta nella forma classica del sindacato sull'eccesso di potere, talvolta senza riferirsi direttamente all'art. 3 della legge n. 241. Ma è questa giurisprudenza la vera erede dell'impostazione di Nigro: in essa la motivazione appare come il vero statuto sostanziale del provvedimento amministrativo, il nesso di strumentalità tra procedimento e processo è portato al massimo grado e l'esercizio del potere va sempre puntualmente sorretto dall'esplicazione di elementi di fatto, di specifici dati istruttori e di peculiari esigenze giustificative sottese alla decisione assunta, dando atto della ponderazione di interessi effettuata. Una motivazione fornita in ragione delle risultanze dell'istruttoria, come richiede lo statuto nigriano del provvedimento amministrativo, è il ponte che conduce alla cognizione diretta dei motivi, ripercorrendo l'intero procedimento in quanto dimostrativo della genesi del provvedimento e considerando la vera e propria valutazione compiuta dall'amministrazione, sia pure partendo dagli elementi formali attraverso la quale si esprime. Il difetto di motivazione, quale strumento di verifica del corretto esercizio del potere, acquista evidenza per il contestuale ricorrere di altre figure, quale, ad esempio, il difetto di istruttoria. Incompletezza dell'istruttoria e insufficienza della motivazione spesso procedono di pari passo, il difetto di motivazione si lega quasi sempre ad un vizio nell'accertamento del fatto, nel senso che la cattiva percezione di elementi del fatto si riflette sulla motivazione nel suo complesso. L'obbligo di motivazione concepito in siffatta maniera amplia l'ambito sostanziale della tutela che il giudice è in grado di offrire al ricorrente. Così si procede all'annullamento di provvedimenti aventi una motivazione giudicata insufficiente laddove essa si incentri solo su talune esigenze e non consideri tutti gli interessi in gioco. Su questa scia si colloca la giurisprudenza che reputa insufficiente, a giustificazione di un'ordinanza sindacale di regolamentazione degli orari delle attività produttive, una motivazione tutta incentrata su 26 esigenze preventive di sicurezza (27); o, a giustificazione di un diniego di autorizzazione di un istituto di vigilanza, una motivazione che si limiti a concentrare il proprio interesse sul numero e sull'importanza degli istituti già autorizzati, «occorrendo invece dimostrare in modo puntuale che il numero e le dimensioni degli istituti operanti è tale per cui l'autorizzazione di un ulteriore operatore sortirebbe effetti negativi certi per l'interesse pubblico» (28); oppure, a giustificazione di un provvedimento di diniego del riconoscimento della dipendenza di una patologia da causa di servizio, una motivazione che «non consideri sufficientemente le condizioni di lavoro del dipendente» (29). Interessante è poi la giurisprudenza che annulla i provvedimenti di acquisizione sanante di aree di proprietà private illegittimamente occupate ex art. 43 T.U. sull'espropriazione per pubblica utilità, nel caso in cui l'amministrazione si limiti a considerare solo l'astratta idoneità dell'opera a soddisfare esigenze di carattere generale, senza compiere una valutazione comparativa tra l'interesse pubblico e quello privato, quest'ultimo inteso come interesse alla tutela di un diritto costituzionalmente garantito, dandone poi conto con una congrua motivazione. Il provvedimento «deve perciò trovare la sua giustificazione nella particolare rilevanza dell'interesse pubblico posto a raffronto con l'interesse privato, con la conseguenza che la motivazione dell'atto o della richiesta di acquisizione dovrà essere, quindi, particolarmente esaustiva della valutazione degli interessi in conflitto, e conseguentemente più stringente dovrà essere il sindacato giurisdizionale». In particolare, la motivazione «deve porre in luce esattamente i motivi di interesse alla realizzazione dell'opera, indicando anche la non percorribilità di soluzioni alternative; deve dare preciso conto della urgenza che ha imposto di obliterare le procedure corrette, ovvero delle contingenze che hanno interrotto, sospeso, annullato o comunque non hanno condotto a buon fine il giusto procedimento espropriativo; della assoluta necessità, e non mera utilità, che l'immobile sia acquisito nello stato in cui si trova; infine della natura della trasformazione subita e dunque del fatto che la mancata acquisizione costituirebbe uno spreco di risorse pubbliche» (30). Questa giurisprudenza mostra come il giudice, nel caso in cui riconosca l'esistenza di una motivazione carente, si spinga anche a chiarire e esplicitare l'adeguato contenuto che avrebbe dovuto avere la motivazione stessa (31). Vi è poi una giurisprudenza, anche se tutt'altro che pacifica, che ritiene illegittimi i provvedimenti di demolizione che non contengano l'indicazione delle norme che si assumono violate e soprattutto della consistenza dell'abuso e della sua collocazione in relazione ai dati catastali dell'immobile (32). Questa giurisprudenza si pone sulla medesima scia di quella, precedente all'entrata in vigore dell'art. 21-octies, comma 2, secondo alinea, favorevole a riconoscere la sussistenza dell'obbligo di avviso dell'avvio del procedimento anche nell'ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, sulla scorta della considerazione che la pretesa partecipativa del privato riguarda anche l'accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa (33). In definitiva quel che rileva è la complessità dell'accertamento da effettuare, perché, se la mancanza di motivazione non produce illegittimità allorché i presupposti fattuali dell'atto risultano assolutamente incontestati, evitando così formalismi inutili, non altrettanto può dirsi quando invece esistono margini di incertezza. Sul versante opposto si afferma che anche atti espressione di ampia discrezionalità necessitano di una motivazione adeguata, perché sempre il potere discrezionale va esercitato nel rispetto dei canoni della logicità e della razionalità, «aspetti sindacabili solo attraverso la lente della motivazione». Così, un provvedimento di qualificazione urbanistica di un terreno che ha respinto l'istanza di classificazione dell'area del ricorrente come «edificabile» in considerazione del fatto che il vecchio piano regolatore generale e la sua revisione in itinere la qualificano «verde agricolo» è illegittimo per motivazione insufficiente e tautologica (34). Talvolta si è giunti ad annullare anche i cd. atti di alta amministrazione, come gli atti di nomina e di revoca di assessori, fondati su motivazioni apparenti, generiche e non idonee a consentire il controllo giurisdizionale finalizzato a verificare la non arbitrarietà dell'esercizio del potere, perché l'ampiezza di 27 potere riconosciuta all'amministrazione «non deve però debordare in arbitrio decisionale»; è solo mediante l'adempimento dell'obbligo motivazionale che si consente di evitare che l'amministrazione eserciti il suo potere per scopi diversi da quelli ricavabili dal contesto normativo in cui il potere si colloca (35). Ma la giurisprudenza si è spinta ancora più in là reclamando una motivazione non generica anche per gli atti che concretizzano scelte programmatorie. Così le scelte di rideterminazione delle circoscrizioni territoriali delle sedi farmaceutiche richiedono una motivazione calibrata sulle singole situazioni locali e quindi, ancora prima, una previa istruttoria delle effettive esigenze della popolazione locale, occorrendo fornire una «logica e convincente motivazione sul nesso di causalità esistente tra l'aumento della popolazione in determinate zone e la necessità di revisionare le altre circoscrizioni delle farmacie» (36), e, soprattutto, la sintesi espressa nella finale statuizione di un piano regolatore generale deve essere sorretta da un'adeguata esposizione delle ragioni sottese alla graduazione degli interessi coinvolti, la cui mancanza provoca l'annullamento dell'atto («ove la norma che esonera dall'obbligo di motivazione gli atti di pianificazione potesse estendersi a procedimenti condotti all'insegna del rispetto del contraddittorio e del tentativo di pervenire a soluzioni concordate fra le parti coinvolte nella progettata pianificazione, il principio di effettività della tutela giurisdizionale resterebbe un mero flatus vocis») (37). In questa maniera si valorizza il legame tra motivazione e manifestazione degli interessi dei partecipanti al procedimento, con la conseguenza che è ritenuto illegittimo per difetto di motivazione il provvedimento che non rechi alcuna valutazione o non faccia neppure menzione degli apporti forniti dai soggetti partecipanti al procedimento e pertinenti rispetto al suo oggetto, oppure che si fondi su motivi di diniego sul quale l'interessato non abbia potuto interloquire secondo il procedimento disciplinato dall'art. 10-bis(38). Da ultimo questa giurisprudenza si riallaccia all'orientamento in base al quale l'obbligo di motivazione dei provvedimenti negativi in merito al rilascio di atti ampliativi non solo richiede l'indicazione delle specifiche disposizioni normative ritenute ostative, ma si deve estendere altresì ad «una concomitante valutazione delle condizioni apposte dall'amministrazione per l'esito positivo dell'istanza»: «in queste ipotesi infatti, oltre alla necessità di rispettare il dovere imposto dall'art. 3 l. 241 del 1990, si tratta anche di rendere edotto il titolare dell'interesse legittimo di carattere pretensivo sulle circostanze rilevanti nel caso di specie, nonché di mettere lo stesso soggetto in condizione di provvedere, laddove possibile, ad adeguare, ove possibile, l'intervento alla normativa vigente» (39). 7. Si potrebbe allora pensare che la legge n. 241 abbia tradito le aspettative e che l'evoluzione auspicata da Nigro si stia realizzando contro o quantomeno a prescindere dalle norme di legge, come mostra la sentenza da ultimo citata, in cui il rafforzamento contenutistico dell'obbligo di motivazione avviene non in virtù dell'art. 3, bensì affermando di volere andare al di là di quanto in esso stabilito. Credo però che sia possibile fornire una diversa interpretazione del fenomeno, nel senso che la legge n. 241 abbia cooperato in maniera determinante all'affermazione di un sindacato più profondo e sostanziale sull'azione amministrativa, ma non direttamente e in positivo, bensì indirettamente. Nigro osservava nell'intervento del 1988 che «i giudici in generale amano stabilire da sé i principi di vita e le regole d'azione dell'amministrazione e graduare così discrezionalmente il loro potere di incidenza in tale azione» (40). Non si può quindi pensare che il suo fosse un progetto ingenuo. Ritengo piuttosto che la legge n. 241 abbia spinto i giudici a percorrere con maggior decisione la via che già la migliore giurisprudenza aveva imboccato e che Nigro aveva colto con acuta sensibilità come il vero motore della trasformazione del diritto amministrativo (41). Questo fenomeno però, come si è già accennato, ha riguardato solo una parte della giurisprudenza, con la conseguenza che attualmente convivono statuti distinti del provvedimento amministrativo, i quali obbediscono a ispirazioni opposte, una maggiormente sensibile al processo di formazione della 28 decisione, l'altra irretita nella concezione dell'atto amministrativo come atto conclusivo puntuale. Oltretutto nella presente era di de-costruzione manca un chiaro e generale riconoscimento della necessità di mettere ordine in una realtà positiva fortemente irrazionale e si rinuncia a cercare un minimo comune denominatore dei diversi, variegati atti amministrativi, abdicando così a ricercare la giusta combinazione tra specializzazione e generalizzazione. Inoltre non si coltiva un'interazione stabile tra legislazione, giurisprudenza e dottrina, anzi predomina la scissione di prospettive tra i tre formanti dell'ordinamento. Basti pensare all'ambiguo atteggiamento della dottrina nei confronti dell'originaria legge n. 241: essa, da una parte, ha interpretato il testo normativo in modo da preparare il terreno alla legge n. 15, dall'altra, ha enfatizzato le regole sul procedimento come regole autonome, autofondate e autosufficienti di garanzia, creando i cd. diritti procedimentali (42). Questo processo di mitizzazione della legge n. 241 ha reciso il nesso di strumentalità triangolare tra procedimento, atto e processo prefigurato invece da Nigro, secondo cui l'integrazione tra procedimento e processo serve a rendere più sostanziale il controllo di legittimità sull'atto amministrativo. Tuttavia, se di prospettive si vuole parlare, occorre favorire il combinarsi virtuoso dei tre formanti del diritto, riprendendo il filo della costruzione graduale della disciplina sostanziale dell'agire amministrativo (43). Compito della dottrina è creare le condizioni per agevolare la spinta di sviluppo della giurisprudenza e ciò può avvenire solo recuperando l'intenzionalità originaria della legge n. 241. La Commissione Nigro, infatti, si proponeva di elaborare una legge strategica, volta a far penetrare, attraverso l'uso giurisprudenziale dei principi da essa dettati, il punto di vista dei cittadini nella disciplina dell'azione amministrativa, coniugando così garanzia per gli interessati e migliore perseguimento dell'interesse pubblico. Del legislatore e della giurisprudenza si è qui già abbondantemente parlato, ma conviene ricordare che l'imminente riforma del processo amministrativo dovrebbe essere l'occasione per introdurre regole rispondenti al modello nigriano di integrazione tra procedimento e processo. In particolare, una riforma del processo dovrebbe valorizzare la sostanza sociale dell'opera del giudice amministrativo come solutore di conflitti, con tutte le conseguenze sul piano del sindacato sul fatto, dell'invenzione del diritto e dei poteri decisori che da tale posizione derivano. Da ultimo, riprendendo ancora le parole di Nigro al fine di chiudere il cerchio inizialmente aperto, occorre avere la consapevolezza che le garanzie poste dalla legge n. 241 sono destinate ad acquistare rilievo solamente in un Paese in cui «l'amministrazione abbia un elevato senso di giustizia (e si consideri essa la prima fonte di tale giustizia), il cittadino piena coscienza dei suoi diritti, e, a custodia di tutti (amministrazione compresa), operi un giudice indipendente» (44). Note: (*) Il testo rielabora la relazione Lo statuto del provvedimento amministrativo svolta al Convegno L'azione amministrativa a venti anni dall'approvazione della Legge n. 241. Bilancio e prospettive, tenutosi a Perugia il 19 marzo 2010. (1) Sulla legge tedesca sul procedimento amministrativo (Verwaltungsverfahrensgesetz) del 25 maggio 1976 cfr. infra. (2) M. Nigro, Procedimento amministrativo e tutela giurisdizionale contro la pubblica amministrazione (Il problema di una legge generale sul procedimento amministrativo), in L'azione amministrativa tra garanzia ed efficienza, Napoli, 1981, 21 ss., spec. 42. (3) M. Nigro, Procedimento amministrativo, cit., 23 ss., spec. 24, 27 e 29. (4) M. Nigro, Procedimento amministrativo, cit., 33 ss. (corsivi aggiunti). (5) M. Nigro, Procedimento amministrativo, cit., 27. (6) M. Nigro, Procedimento amministrativo, cit., 41. (7) Cfr. W. Schmitt Glaeser, Pretese, speranze e realizzazioni. Il procedimento amministrativo e la sua 29 legge - un'osservazione introduttiva, in La codificazione del procedimento amministrativo nella Repubblica federale di Germania, a cura di A. Masucci, Napoli, 1979, 377 ss., 428, ma, ancor prima, W. Brohm, Die Dogmatik des Verwaltungsrechts vor den Gegenwartaufgaben der Verwaltung in Veröffentlichungen der Vereinigung der Deutschen Staatsrechtslehrer, Helft 30, Berlin, 1972, 290 ss.; la tesi del riepilogo preformato è stata non a caso sostenuta proprio in critica alla legge tedesca sul procedimento che, come si vedrà infra, dà prevalenza ai problemi dell'atto finale. (8) M. Nigro, Procedimento amministrativo, cit., 41-42. (9) M. Nigro, Il procedimento amministrativo fra inerzia legislativa e trasformazioni dell'amministrazione (a proposito di un recente disegno di legge), in Il procedimento amministrativo fra riforme legislative e trasformazioni dell'amministrazione, a cura di F. Trimarchi, Milano, 1990, 3 ss., spec. 13. (10) M. Nigro, Il procedimento amministrativo, cit., 19-20. (11) M. Nigro, Il procedimento amministrativo, cit., 14-15. (12) Per la tesi secondo cui il procedimento amministrativo è nato al servizio dell'atto cfr., per tutti, A. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Milano, 1940; per una sua critica cfr. M. Nigro, È ancora attuale una giustizia amministrativa?, in Foro it., 1983, V, 249 ss.; Id., Diritto amministrativo e processo amministrativo nel bilancio di dieci anni di giurisprudenza, ivi, 1985, V, 121 ss., spec. 125. (13) M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, III ed., 313-314 (corsivi aggiunti). (14) M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., 293-319. (15) Basti pensare agli apporti dottrinali di F. Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1950, 1 ss.; G. Pastori, Introduzione generale a La procedura amministrativa, Milano, 1964, spec. 14 ss.; Id., Procedimento amministrativo tra vincoli formali e regole sostanziali, in Diritto amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurisprudenza, II, Rimini, 1987, 806 ss.; G. Berti, Procedimento, procedura, partecipazione, in Studi in memoria di E. Guicciardi, Padova, 1975, 779 ss.; D. Sorace, Promemoria per una voce «atto amministrativo», in Scritti in onore di M.S. Giannini, III, Milano, 1988, 745 ss.; F. Ledda, La concezione dell'atto amministrativo e dei suoi caratteri, in Diritto amministrativo e giustizia amministrativa, cit., II, 777 ss.; sul carattere sostanziale dell'interesse legittimo cfr. M. Nigro, Ma che cos'è questo interesse legittimo? Interrogativi vecchi e nuovi spunti di riflessione, in Foro it., 1987, V, 470 ss.; sul procedimento come «luogo» di emersione degli interessi e di individuazione dei soggetti interessati cfr. E. Cardi, La manifestazione d'interessi nei procedimenti amministrativi, Città di Castello, I, 1983, II, 1984, ma, ancor prima, F. Levi, L'attività conoscitiva della pubblica amministrazione, Torino, 1967. Si ricordi poi che la Commissione Nigro era composta, oltre che dal suo presidente, dai proff. Giorgio Pastori, Giuseppe Pericu, Francesco Pugliese, dai consiglieri del Consiglio di Stato Salvatore Giacchetti e Luigi Cossu e dal consigliere della Corte dei Conti Onorato Sepe. (16) A tal proposito si è parlato (G. Corso, voce Motivazione dell'atto amministrativo, in Enc. dir., aggiorn., Milano, 2001, 776) di una struttura di tipo sillogistico, per cui la motivazione descrive la relazione tra le ragioni giuridiche (premessa maggiore), i presupposti di fatto (premessa minore) e la decisione. (17) Emblematico è l'art. 21-octies, comma 2, il quale si ispira all'orientamento giurisprudenziale che, facendo applicazione del principio del raggiungimento dello scopo, aveva interpretato le disposizioni originarie della legge n. 241/90 in maniera tale che la loro violazione non desse luogo necessariamente all'annullamento dell'atto impugnato; cfr. sul punto R. Villata - M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2006, 515 ss. (18) Cfr. W. Schmitt Glaeser, Pretese, cit., 422 ss. (19) Sulla tradizionale lettura in senso negoziale del provvedimento amministrativo cfr. R. Villata - M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, cit., 7 ss. 30 (20) Cfr. G. Pastori (a cura di), La procedura amministrativa, cit., 563 ss.; L. Acquarone, Il problema della disciplina generale dell'azione amministrativa: dai primi tentativi alle leggi in vigore, in La disciplina generale dell'azione amministrativa, a cura di V. Cerulli Irelli, Napoli, 2006, 1 ss. (21) Critico nei riguardi di questa soppressione si mostra naturalmente M. Nigro, Il procedimento amministrativo, cit., 7-8. (22) In tema cfr. J-B. Auby, Rapport introductif français, in Il procedimento amministrativo, a cura di V. Cerulli Irelli, Napoli, 2007, 53 ss.; P. Gonod, La codification de la procédure administrative, ivi, 67 ss.; R. Scarciglia, La disciplina generale dell'azione amministrativa in Europa, in La disciplina generale dell'azione amministrativa, cit., 21 ss., spec. 27 ss. (23) Nel senso che il difetto di motivazione abbia natura sostanziale e non meramente formale o procedurale, al pari del difetto di istruttoria, cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 28 maggio 2009, n. 3336; in senso contrario Cons. Stato, Sez. IV, 18 giugno 2009, n. 4017. (24) Da ultimo, Corte giustizia CE, 2 dicembre 2009, C-89/08 P, Commissione/Irlanda e a., punto 34, ma cfr. anche Corte giustizia CE, 20 febbraio 1997, C-166/95 P, Commissione/Daffix, punto 24. (25) Cons. Stato, Sez. VI, 8 novembre 2005, n. 6220; T.A.R. Abruzzo, Pescara, 13 giugno 2005, n. 394; T.A.R. Lombardia, Sez. II, 8 maggio 2006, n. 1173; T.A.R. Campania, Salerno, 14 luglio 2009, n. 4022. (26) Sul punto cfr. R. Villata - M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, cit., 279.Risponde alla medesima ratio decostruttiva dell'obbligo di motivazione la giurisprudenza secondo cui, «anche se nel provvedimento finale non risultino chiaramente e compiutamente rese comprensibili le ragioni sottese alla scelta fatta dalla pubblica amministrazione» è sufficiente che esse siano «intuibili» sulla base della parte dispositiva del provvedimento impugnato (Cons. Stato, Sez. VI, 3 marzo 2010, n. 1241; Cons. Stato, Sez. IV, 30 novembre 2009, n. 7502; Cons. Stato, Sez. V, 9 ottobre 2007, n. 5271). A sua volta, siffatta giurisprudenza presenta un nesso con l'orientamento in base al quale per la piena conoscenza dell'atto, da cui decorre il termine di impugnazione, è sufficiente la cognizione degli «elementi essenziali del provvedimento», tra i quali non è compresa la motivazione, che rileva solo ai fini della proposizione dei motivi aggiunti (da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 22 gennaio 2010, n. 292). Per una critica nei riguardi di questa posizione cfr. S. Baccarini, Motivazione ed effettività della tutela, in Foro amm.-T.A.R., 2007, 3311 ss.; L. Ferrara, Motivazione e impugnabilità degli atti amministrativi, ivi, 2008, 1193 ss.; ma cfr. altresì la particolare posizione di B.G. Mattarella, Il declino della motivazione, in Giorn. dir. amm., 2007, 617 ss. (27) T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 3 novembre 2009, n. 10780. (28) Cons. Stato, Sez. VI, 11 novembre 2008, n. 5599. «Perché la concorrenza può alimentare le migliori condizioni di fruibilità del servizio e una più idonea e razionale organizzazione e gestione delle risorse e ciò può determinare anche un incremento dei posti di lavoro e della sicurezza dei cittadini»: così Cons. Stato, Sez. VI, 4 agosto 2008, n. 3875. (29) Cons. Stato, Sez. VI, 19 ottobre 2009, n. 6366. (30) Cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 26 febbraio 2009, n. 1136; Cons. Stato, Sez. IV, 17 febbraio 2009, n. 915; C.g.a.r.S., 29 maggio 2008, n. 490, ma sulla necessità di motivazione stringente già Ad. plen., 29 aprile 2005, n. 2. (31) Analogamente il provvedimento con cui la motorizzazione civile dispone la revisione della patente di guida manca di un supporto motivazionale minimo se l'amministrazione si limita a fare menzione dell'infrazione contestata: esso «deve contenere una valutazione dei fatti nel loro complesso, una adeguata motivazione circa la gravità dei danni e della condotta tenuta dall'interessato e infine specifiche considerazioni in base alle quali si è formato il dubbio in ordine alla perizia e alla capacità del conducente» (Cons. Stato, Sez. VI, 1 settembre 2009, n. 5116; T.A.R. Liguria, Genova, Sez. II, 22 ottobre 2009, n. 2953; 18 dicembre 2008, n. 2146; T.A.R. Piemonte, Torino, Sez. I, 5 giugno 2009, n. 1598; Sez. II, 30 aprile 2009, n. 1188). 31 (32) T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 11 marzo 2009, n. 1386; in senso contrario T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VI, 24 settembre 2009, n. 5071. (33) «Non sarebbe rinvenibile alcun principio di ordine logico e giuridico che possa impedire al privato, destinatario di un atto vincolato, di rappresentare all'amministrazione l'inesistenza dei presupposti ipotizzati dalla norma, esercitando preventivamente sul piano amministrativo quella difesa delle proprie ragioni che altrimenti sarebbe costretto a svolgere unicamente in sede giudiziaria»; così Cons. Stato, Sez. IV, 4 febbraio 2004, n. 396; Sez. V, 22 febbraio 2004, n. 2307. (34) T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 22 ottobre 2009, n. 1691. (35) T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. II, 16 marzo 2009, n. 285 e 17 febbraio 2009, n. 154; T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 22 novembre 2007, n. 3958; in senso opposto, però, il giudice di secondo grado, secondo cui «sarebbe contrario a qualsiasi logica che, dopo aver dato alla figura sindacale una autonomia e una personificazione del potere di rara incidenza nell'assetto istituzionale, si debbano poi assoggettare i profili più squisitamente organizzativi dell'azione di quel soggetto a una serie di vagli di tipo esclusivamente formale, quale è in fondo l'esternazione di un discorso giustificativo» (Cons. Stato, Sez. V, 12 ottobre 2009, n. 6253). (36) C.g.a.r.S., 28 aprile 2008, n. 370; T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. I, 24 aprile 2008, n. 758. (37) T.A.R. Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 23 novembre 2009, n. 287. (38) T.A.R. Umbria, Perugia, 1 settembre 2009, n. 502; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 27 maggio 2008, n. 5113; T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. II, 5 febbraio 2008, n. 140. (39) T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 28 maggio 2009, n. 2998. (40) M. Nigro, A proposito di un disegno di legge, cit., 7, ma altro passo rilevante in proposito è in Procedimento e tutela, cit., 53: «va escluso che una legge sul procedimento possa limitarsi o trovare la sua ragion d'essere nella enunciazione di principi generali reggenti l'azione amministrativa. Non che neghi la validità di tali principi, ma non credo che ad essi si possa assicurare vitalità attraverso la loro mera enunciazione e fidando nell'attuazione spontanea di essi nell'azione amministrativa». (41) «Se la norma vive solo nella interpretazione della giurisprudenza (pratica), anche questa giurisprudenza vive solo nell'immagine che ne dà chi la interpreta ... L'interprete, dovremmo averlo imparato, non è fuori del gioco, ma dentro» (M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., 7). (42) Che era proprio quel che Nigro intendeva evitare, cioè la caduta nella concezione puramente giudiziale del procedimento secondo il modello austriaco (M. Nigro, Procedimento amministrativo, cit., 27 ss.). (43) Su quest'ultimo tema cfr., se si vuole, M. Ramajoli, L'esigenza sistematica nel diritto amministrativo attuale, in corso di pubblicazione in Riv. trim. dir. pubbl. (44) M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., 86. 32 SULLA DISCIPLINA DELLA NULLITÀ DEI PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI (ART. 21 SEPTIES DELLA L. N. 241 DEL 1990, INTRODOTTO CON LA L. N. 15 DEL 2005) Diritto Processuale Amministrativo, fasc.3, 2006, pag. 543 LEOPOLDO MAZZAROLLI Classificazioni: ATTO AMMINISTRATIVO - Nullità ed inesistenza - - in genere Sommario: 1. Nullità, annullabilità e inesistenza nel diritto privato e nel diritto pubblico prima della legge n. 15 del 2005. - 2. Casi di nullità di provvedimenti amministrativi espressamente previsti dalla legge o individuati dalla giurisprudenza e dalla dottrina. - 3. La «codificazione» da parte della legge n. 15 del 2005 dell'istituto della nulltià dei provvedimenti amministrativi. - 4. Atto nullo perché: a) mancante di un elemento essenziale. - 5. (Segue): b) viziato di difetto assoluto di attribuzione. - 6. (Segue): c) adottato in violazione o elusione del giudicato. - 7. d) Atti nulli per espressa disposizione di legge. 1. Una delle novità più appariscenti - pur se non tra le più significative - della l. n. 15 del 2005 è quella che è stata chiamata (tra altri, dal Cerulli Irelli, che di quella legge è stato uno degli iniziatori e dei più fervidi sostenitori) la «codificazione» dell'istituto della nullità anche per quel che riguarda il provvedimento amministrativo. Per cercare di comprendere al meglio la nuova disciplina, credo opportuno riandare - ancorché brevemente - alla situazione precedente, con riguardo sia alla normativa, sia allo stato della dottrina e della giurisprudenza. Come si sa, fino alla l. n. 15 del 2005, è solo in diritto privato che risulta espressa una disciplina dell'invalidità (del contratto), basata sulla dicotomia nullità-annullabilità: la nullità come forma più grave, l'annullabilità come forma meno grave dell'invalidità (1). Nel diritto pubblico invece risultava prevista e disciplinata - per l'ipotesi che un provvedimento non si presentasse, o non si presentasse pienamente, in ogni suo aspetto, quale secondo la legge avrebbe dovuto essere - unicamente l'annullabilità. Ciò spiega perché sia in special modo dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrative - e molto meno invece dai privatisti (2) - che viene dato rilievo al concetto di inesistenza (del provvedimento). Ma inesistenza e nullità non sono concetti equivalenti. Quando si parla di inesistenza, il riferimento è a una condizione di fatto, per precisare che essa esprime una realtà che non si presta ad essere sussunta da qualsivoglia fattispecie normativa; e perciò non può avere alcuna rilevanza giuridica sotto qualunque profilo. Si tratta dunque di una nozione di carattere sostanziale, con la quale (relativamente al diritto amministrativo) si vuol indicare che in un'operazione che venga presa in considerazione al fine di stabilire se essa sia riconducibile a una fattispecie astratta, configurata dalla legge come un provvedimento amministrativo - non sono presenti (o lo sono in modo del tutto insufficiente, tale da doverli considerare come se non ci fossero) i caratteri necessari per consentire di affermare tale riconducibilità. È una teorica che si collega all'elaborazione della nozione (e della categoria) degli elementi essenziali del provvedimento (e del negozio giuridico): perché si possa affermare che esiste un provvedimento (o un negozio), occorre - anatomizzando, per così dire, la fattispecie di cui è dubbio se concretizzi o meno un atto di tal genere - che in ciò che viene fatto oggetto di valutazione siano presenti alcuni elementi, in mancanza dei quali quell'atto non può dirsi esistente, e che perciò a ragione si prestano ad essere qualificati come essenziali. Nullità è invece una nozione formale, una creazione normativa, per esprimere la previsione - per atti che risultano gravemente difformi dal paradigma normativo - di conseguenze negative di particolare 33 rilievo, che possono considerarsi tutte come conseguenti alla qualificazione primaria di essi quali tamquam non essent. La disciplina della nullità, in diritto privato, è - com'è noto - dettata negli artt. 1418 ss., c.c.: nell'art. 1418 sono elencate quelle che vengono definite le cause di nullità (del contratto); nei successivi articoli risulta stabilito il regime degli atti nulli, che si può sintetizzare nel modo che segue. La nullità del contratto, che comporta l'inidoneità, fin dall'origine, a produrre i suoi effetti (cioè gli effetti che caratterizzano il tipo di contratto cui quello preso in esame si riporta): a) opera di diritto, e può quindi essere rilevata d'ufficio dal giudice; b) non è soggetta a prescrizione; c) può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse. Invece l'annullabilità del contratto: a) non inibisce la produzione degli effetti dell'atto; b) può essere fatta valere solo da chi risulti legittimato; c) deve essere fatta valere entro precisi termini (di decadenza); d) la sua pronuncia comporta il venir meno ex tunc dell'atto. Poiché la disciplina della nullità, stabilita dalla legge (le disposizioni del c.c. prima richiamate), rende plausibile l'affermazione che l'atto affetto da nullità è come se non esistesse, appare comprensibile che una parte della dottrina privatistica risulti orientata a considerare nullità e inesistenza nozioni sostanzialmente equivalenti e quindi a non contemplare, per i negozi giuridici, accanto alla nullità e all'annullabilità, anche l'inesistenza (3). Ma è una tesi che non ritengo possa essere accolta. Appare invero difficilmente contestabile l'opinione che per ogni operazione posta in essere da un soggetto, di cui si possa dubitare se configuri o meno un dato contratto, si ponga prima di tutto il problema della sussistenza di quanto necessita perché possa dirsi esistente quella fattispecie giuridica che corrisponde a quel tipo di contratto; come ben è stato detto, la disciplina del contratto nullo trova il suo limite quando il contratto non esiste, e cioè quando manchi una situazione qualificabile come contratto. In proposito, appare degna di essere fatta oggetto di considerazione la puntualizzazione compiuta da Trabucchi, nelle sue Istituzioni: che è da parlare di inesistenza per i casi in cui manchino gli elementi materiali dell'atto; mentre la nullità si riferisce ai casi nei quali sono bensì presenti gli elementi materiali, ma mancano gli elementi giuridici dell'atto (4). Guardando alla dottrina amministrativistica, essa ha continuato ad essere prevalentemente orientata a dare rilievo, per quanto concerne gli atti amministrativi, alla distinzione tra inesistenza e nullità (5). Con riguardo a tali atti, mi sembra si impongano all'attenzione le considerazioni espresse - da ultimo da Villata. Con riferimento ai contratti (di diritto privato), l'autore aderisce all'opinione secondo la quale, mentre la nullità «presuppone la sussistenza di un'operazione denominabile contratto, cui sia riferibile la qualifica di nullo, la categoria dell'inesistenza è caratterizzata dalla mancanza di un fatto o di un atto rispondente alla nozione di contratto» (6); per quanto invece concerne i provvedimenti amministrativi, condivide l'osservazione che in diritto amministrativo l'ipotesi dell'atto non esistente e l'ipotesi dell'atto nullo sembrano coincidere sotto il profilo effettuale, sì che la distinzione fra nullità e inesistenza finisce col perdere rilievo, tanto che da essa si può anche prescindere. Restando peraltro fermo come sia difficilmente contestabile che v'è differenza tra la situazione dell'atto che non acquista rilevanza giuridica e quella dell'atto rilevante cui è applicata la sanzione della nullità (7). Ma una volta che si convenga su una simile differenza, non mi pare più sostenibile l'affermazione che essa è priva di rilievo e che se ne può prescindere. Sarà infatti pur vero che ove si abbia un atto inesistente (ove cioè si debba riconoscere che un dato atto non c'è), ponendo mente alla fondamentale caratterizzazione della nullità - che si riassume nella non produzione di effetti giuridici - si presenta una situazione non diversa da quella che si ha davanti a un atto nullo (ma esistente). Però, mentre per l'atto esistente, ma nullo perché la legge prevede per esso la sanzione della nullità, la legge stessa può attuare 34 in misura più o meno larga un'alterazione del regime tipico della nullità, stabilendo che dall'atto pure nullo derivino determinati effetti, ciò non può essere per l'atto la cui nullità sia predicata in ragione della sua inesistenza. Quanto detto corrobora l'opinione - assai radicata tra i privatisti - che la nullità è una forma di invalidità (accanto all'annullabilità); ma dà pure sostegno alla tesi che non solo non si può confondere inesistenza e nullità, ma anche che la distinzione tra l'una e l'altra non è priva di rilievo giuridico. Chi condivida questo modo di vedere le cose non può non ritenere impropria la formulazione dell'art. 1418 c.c. che, nell'elencare i tipi di contratti nulli, menziona (oltre al contratto contrario a norme imperative), il contratto mancante di uno dei suoi requisiti (che l'art. 1325 indica nell'accordo tra le parti, la causa, l'oggetto e la forma, quando prescritta dalla legge a pena di nullità): indicazione nella quale non risulta essere fatta distinzione fra elementi di fatto, senza i quali un atto non può dirsi esistente, ed elementi che producono la nullità di un atto, perché così risulta stabilito da una particolare disposizione di legge. Si tratta di una distinzione dalla quale non si può prescindere, dovendosi riconoscere che sostenere che si presta a essere considerata un contratto un'operazione che manchi di uno (uno qualsiasi) dei requisiti di tale figura - vale a dire di uno degli elementi che consentono di configurare l'entità oggetto di valutazione come un contratto (com'è per l'accordo delle parti, la causa e l'oggetto) -, costituisce una contraddizione in termini. D'altro canto, se si considera che la previsione della nullità non porta ad escludere che la legge possa riconoscere all'atto nullo una qualche rilevanza (si pensi, ad esempio, al contratto di lavoro, riguardo al quale l'art. 2126 c.c. dispone che la nullità non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione), appare conseguente ritenere che ciò possa essere disposto per una nullità stabilita da una disposizione normativa, e non lo possa invece quando ci si riferisce a una nullità dovuta alla mancanza di un elemento materiale. Qui però si impone un ulteriore approfondimento. Gli elementi materiali, la cui mancanza determina inesistenza dell'atto, sono quelli che si possono individuare attraverso l'analisi della figura presa in esame, indipendentemente dal loro essere fatti oggetto di una disposizione normativa. Per ciò che riguarda il contratto, è indubbio che senza un oggetto, una causa, delle parti (cioè dei soggetti dai quali proviene), non è neppure pensabile che un contratto esista. Ma ciò può dirsi anche per la forma, che pure il Codice civile prende in considerazione con riguardo alla nullità solo quando una determinata forma sia prevista dalla legge: invero, se la forma del contratto è il modo con il quale si manifesta all'esterno l'accordo delle parti, è evidente che qualora mancasse una qualsiasi esternazione nessun contratto potrebbe ritenersi esistente. Deve peraltro riconoscersi che la mancanza totale di uno degli elementi che concorrono a costituire l'atto preso in considerazione - sia esso il contratto o il provvedimento amministrativo - è più che altro un'ipotesi di scuola. Invece, ciò che assai di frequente può verificarsi è che venga adottato un atto dove uno degli elementi costitutivi risulti privo di una qualità da reputarsi essenziale: vale a dire un requisito senza il quale quell'elemento non può ritenersi che sia venuto in essere. Relativamente a detti requisiti, si ritiene possa trovare applicazione la richiamata distinzione fra elementi materiali ed elementi giuridici. Si consideri, dalla prospettiva indicata, l'oggetto del contratto, che la legge prescrive debba essere possibile, lecito, determinato o determinabile (art. 1346 c.c.) (8). A ben vedere è da riconoscere che tali requisiti non stanno sullo stesso piano. Un contratto che avesse per oggetto una prestazione che non si sa in che cosa consista (e non vi siano i mezzi per stabilirlo), non potrebbe essere ritenuto semplicemente nullo; vale a dire bensì invalido e non produttivo di effetti, ma pur sempre esistente. La determinatezza (o la determinabilità) è un requisito indefettibile, la cui mancanza comporta inesistenza. Così invece non si ritiene possa dirsi per il 35 contratto illecito, che è tale perché lo stabilisce la legge; e che potrebbe diventare lecito se il legislatore si determinasse a seguire un diverso orientamento. Di fronte a quanto sia da riconoscere essenziale perché un atto possa affermarsi esistente, qualora quello che può apparire come un dato atto manchi di un elemento o requisito da ritenersi inde-fettibile, deve concludersi che sotto quell'apparenza non v'è alcuna sostanza. Per fare un esempio, con riguardo al soggetto, si pensi a un contratto riguardo al quale appaia impossibile identificare uno dei soggetti agenti, cioè una delle parti: non è pensabile che un qualche effetto, diretto o indiretto, possa collegarsi a quell'operazione, dal momento che non si è in grado di stabilire a chi riferirla. 2. Da questa prospettiva poteva stimarsi non insoddisfacente il sistema che era venuto delineandosi e precisandosi nel campo del diritto amministrativo, a seguito sia dell'apporto della dottrina e della giurisprudenza, sia dell'intervento del legislatore. Per un verso infatti dottrina e giurisprudenza erano venute progressivamente approfondendo, con riferimento a quelli che erano considerati gli elementi costitutivi dell'atto amministrativo, i requisiti necessari per poter considerare un atto come esistente. Per altro verso il legislatore, particolarmente negli ultimi decenni, aveva introdotto nell'ordinamento la previsione della nullità (9) per alcuni casi di provvedimenti per i quali la legge - in base evidentemente a un giudizio di grave disvalore giuridico nei confronti della fattispecie considerata - aveva voluto stabilire un regime di invalidità assai severo, dal quale era dato ricavare che solo precariamente, e unicamente sul piano del fatto, essi potevano produrre effetti corrispondenti a quelli loro propri (10). Per quanto risulta, i casi di nullità di atti amministrativi espressamente previsti dalla legge - prima della l. n. 15 del 2005 - risultavano essere circa una quindicina (tra i più noti, ricorderò, a titolo di esempio, la nullità stabilita nell'art. 3 del t.U. del 1957 sull'impiego pubblico, per l'assunzione di personale statale senza concorso) (11). Ma anche la dottrina e la giurisprudenza erano venute individuando alcune vicende, per le quali si riteneva non potesse parlarsi di inesistenza e che pure si presentavano affette da un'invalidità che appariva più grave rispetto a quella relativa ai soliti casi di invalidità comportante annullabilità. Donde l'orientamento a parlare per essi di nullità, sulla base della convinzione che la sanzione della nullità può essere contenuta nel sistema anche solo virtualmente (diversamente che per i casi di annullabilità, necessariamente sempre previsti in modo espresso). Due, in particolare, risultavano le vicende così caratterizzate: quella relativa ai provvedimenti emessi in carenza di potere e quella relativa ai provvedimenti emessi in violazione del giudicato. Con riguardo ai primi, è il caso di precisare che il dibattito atteneva alla figura conosciuta come carenza di potere in concreto (godendo di largo seguito l'opinione che la carenza di potere in astratto comportava inesistenza dell'atto), e che esso ha visto contrapporsi coloro per i quali il provvedimento colpito da carenza di potere in concreto era da considerarsi come «nullo» e chi invece riteneva che i diversi casi, riportabili a quel tipo di carenza di potere, dovevano essere fatti rientrare nella violazione di legge e quindi tali da far considerare l'atto, che ne risultasse affetto, come semplicemente annullabile. Pur senza soffermarsi sul tema della carenza di potere in concreto - come situazione in cui risultano non osservate norme che, pur non attenendo all'esistenza del potere (sì che la sussistenza del potere non è in discussione), pongono limiti all'esercizio di esso a protezione del singolo e non sono pertanto riconducibili alle norme di azione (12) -, si vuol ricordare come una tale figura sia stata configurata per dare giustificazione all'orientamento della suprema Corte di cassazione che, per alcune vicende relative all'espropriazione per pubblica utilità (13), aveva sostenuto la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario e, quindi, la permanenza del diritto di proprietà di fronte a provvedimenti pur esistenti (in quanto non privi degli elementi solitamente ritenuti costitutivi), ma affetti da un'invalidità siffattamente grave da far ritenere che non fossero in grado di dar luogo all'eliminazione del diritto (nel qual caso il privato avrebbe avuto tutela solo facendo valere l'interesse legittimo e quindi attraverso il 36 ricorso giurisdizionale amministrativo). Si tratta indubbiamente di una «invenzione» assai brillante, per dare supporto all'affermazione della sostenibilità dell'opinione espressa dalla Cassazione; e che tuttavia, a ben considerare, non può essere accolta. Appare invero persuasiva l'affermazione del Caianiello, ad avviso del quale non è da dubitare che, una volta riconosciuta l'appartenenza in capo a un organo amministrativo dell'astratta possibilità di emanare un dato atto, lo stabilire se sussistano in concreto i presupposti obiettivi per l'esercizio del potere abbia riguardo alle modalità dell'esercizio e quindi investa un profilo di legittimità dell'atto considerato (14). È evidente che, per chi convenga con l'opinione qui richiamata, non può che reputarsi priva di fondamento l'idea che possa parlarsi di nullità per l'ipotesi di provvedimenti emessi in situazioni caratterizzate dalla c.d. carenza di potere in concreto. Per quanto concerne i provvedimenti emessi in violazione del giudicato, deve essere tenuto presente che è da poco più di una trentina d'anni che ha cominciato a farsi strada la tesi dell'esperibilità del ricorso in ottemperanza non solo quando la p.a. si sia sottratta al dovere di provvedere all'esecuzione di un giudicato, rimanendo inerte (senza quindi emanare alcun atto), ma anche qualora si sia bensì attivata, ma con atti in più o meno larga misura non conformi al giudicato; tesi che ha finito col ricevere l'adesione di una parte della dottrina, come pure della giurisprudenza, anche nella sua più avanzata espressione, secondo la quale sempre, ove si abbia violazione o elusione del giudicato - anche quindi quando ci si trovi davanti ad atti non comportanti un totale e palese inadempimento, ma un inadempimento incompleto o inesatto -, i relativi provvedimenti della p.a. dovrebbero essere considerati nulli (15), e come tali - in quanto non produttivi di effetti - non idonei ad impedire la proponibilità, da parte del vincitore, di un ricorso in ottemperanza. È peraltro da sottolineare che risultava assai seguita anche un'opinione meno radicale, che limitava il riconoscimento della nullità - e l'esperibilità del ricorso in ottemperanza - solo là dove la sentenza di merito avesse stabilito in modo completo quale dovesse essere il contenuto della futura attività dell'Amministrazione di «conformazione» al giudicato. Allorquando la p.a. non abbia alcun margine di scelta - si sosteneva da larga parte della giurisprudenza (16) -, essa è priva in concreto del potere, in quanto la potestà di scelta è stata consumata dalla sentenza: al provvedimento di conformazione non resterebbe che dare realizzazione a quanto da quella puntualmente stabilito, mentre qualsiasi diverso provvedere dovrebbe essere considerato nullo. Deve peraltro rilevarsi che anche questa costruzione - implicante una concezione restrittiva in ordine alla nullità dei provvedimenti contrastanti col giudicato - era contestata da non pochi studiosi, ad avviso dei quali il provvedimento elusivo non poteva mai essere considerato nullo, e quindi improduttivo di conseguenze giuridicamente rilevanti, trattandosi pur sempre di un atto costituente esercizio (ancorché cattivo esercizio) di un potere attribuito alla p.a.; in proposito, veniva anche sottolineato che ciò che poteva constatarsi guardando a quanto in concreto accadeva, mostrava che quell'atto era generalmente valutato come efficace, fintantoché non fosse stato, appunto, dichiarato nullo. Veniva al riguardo osservato come il rilevare che il potere è già stato consumato e che non residua alcuna scelta da compiere una volta che il giudice si sia pronunciato, non tolga che si tratta di un potere attribuito alla p.a. e che continua a sussistere in capo ad essa: che è come dire che il potere, in astratto, esiste e che ciò che potrà contestarsi è quindi la sua sussistenza in concreto: ma chi aderisce alla tesi secondo la quale, quando si sia in presenza di una delle situazioni in cui si è ritenuto di individuare una carenza di potere in concreto, gli atti amministrativi che si contestano sono pur sempre esistenti e operanti, ancorché illegittimi, non potrà non riconoscere che, come tali, essi sono rimovibili solo con il loro annullamento, conseguibile in sede giudiziale con un ricorso ordinario al giudice amministrativo (17). Anche a questo riguardo dunque, per chi condivideva l'opinione da ultimo richiamata, non vi sarebbe stato spazio per l'individuazione di un'ipotesi di atto nullo nel caso di provvedimenti amministrativi 37 emessi in violazione o elusione del giudicato. Relativamente alla tematica di cui qui si discute, si ritiene tuttavia che non sia il caso, in questa sede, di soffermarvisi ulteriormente, risultando essa superata dalla nuova normativa, che contempla gli atti adottati in violazione del giudicato, unitamente a quelli elusivi dello stesso, e ne stabilisce, in generale, la nullità senza, a quanto pare, restrizione alcuna. 3. Merita comunque di essere tenuto presente che è nel clima di dibattiti e di contrasti, ma anche di positivo approfondimento delle figure delle quali s'è fatto cenno, che si presenta la riforma che ha portato alla codificazione della nullità anche nel campo del diritto amministrativo. Riforma positiva o negativa? È ovvio come, al fine di poter dare un'adeguata risposta a un tale interrogativo, occorra stabilire che cosa comporti la nuova normativa. È facile comunque rilevare, anche a seguito di una sua prima lettura, che ne consegue un irrigidimento del sistema, che perde di elasticità quanto più risulta disciplinato in modo espresso; soprattutto la nuova normativa impone di ripensare il sistema stesso alla luce appunto di essa. Ma valeva la pena di porla in essere? Una risposta positiva appare meno giustificata di una risposta negativa, di fronte a una disciplina che, lungi dal fare sempre chiarezza, addensa (quanto meno riguardo ad alcuni degli argomenti considerati) un'oscurità che - per lo sforzo costante della giurisprudenza e della dottrina - era andata progressivamente chiarendosi. È ben vero che queste sono critiche generiche; ma anche una più approfondita analisi della nuova normativa sembra giustificare sia il rilievo che essa dice troppo, sia quello che talvolta essa dice pure male. Prendendo in considerazione l'articolo della l. n. 15 del 2005, che detta la nuova disciplina - l'art. 21 septies del capo IV bis, aggiunto nella sua interezza al testo della l. n. 241 del 1990 -, si può constatare come in esso si presentino quattro proposizioni, tutte contemplanti un'ipotesi di nullità. È così definito come nullo il provvedimento amministrativo: a) che manca degli elementi essenziali; b) che è viziato di difetto assoluto di attribuzione; c) che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato; d) negli altri casi espressamente previsti dalla legge. 4. Con la prima indicazione (sub a) viene recepita per i provvedimenti amministrativi la disposizione dettata per i contratti dall'art. 1418 c.c., affermandone la nullità per la mancanza di un elemento essenziale, senza distinguere fra elementi necessari perché un atto possa dirsi esistente e altri elementi la cui mancanza in un atto, pur non comportandone l'inesistenza, ne determina la nullità. In proposito non può che riproporsi l'appunto - espresso nei confronti dell'analoga norma, di cui all'art. 1418 c.c. - di improprietà di linguaggio per una disposizione che prevede la mancanza di uno o più elementi essenziali come causa di nullità, dando per pacifico che sicuramente si prestano ad essere qualificati come essenziali quegli elementi in mancanza dei quali un atto non può dirsi esistente; e ribadire l'opinione che dove un atto sia inesistente - o, per meglio dire, dove si abbia inesistenza di un dato atto - non ne può essere affermata la rilevanza, che implica la sua esistenza, sia pure per poterne predicare la nullità. D'altronde è la stessa lettera della legge che corrobora un simile ordine di idee: l'oggetto della disposizione di cui si tratta risulta infatti indicato nel provvedimento amministrativo, preso in considerazione per stabilire le cause che ne comportano la nullità: il che porta alla deduzione che dove non ci sia un provvedimento amministrativo (e dire che un provvedimento è inesistente è come dire che non c'è) si è fuori dall'ambito di applicazione della legge. Va però sottolineato che, diversamente dall'art. 1418 c.c., l'art. 21 septies non fa rinvio a un'elencazione degli elementi essenziali del provvedimento (perché non v'è alcuna norma che ne contenga una), e 38 neppure la effettua esso stesso, lasciando così aperto il problema dell'individuazione di quali siano gli elementi in mancanza dei quali, in un provvedimento, si determina la nullità di esso. Può apparire un'affermazione un po' singolare, ma ritengo che si tratti di una lacuna che, a ben riflettere, può essere valutata non negativamente. La presenza di un elenco degli elementi essenziali porrebbe problemi non facili, quali quelli scaturenti dalla qualificazione del suo carattere: se dovesse cioè essere concepito come completo ed esaustivo o invece come meramente indicativo. Ma l'attribuirgli un carattere di assolutezza, comporterebbe il dover ammettere che la mancanza di uno degli elementi elencati - quale che fosse la sua natura e la sua sostanziale rilevanza - causerebbe sempre nullità e che solo una simile mancanza potrebbe essere ritenuta produttiva di un tale effetto (mentre, per contro, la mancanza di un qualsivoglia altro elemento non consentirebbe di configurare un'ipotesi di nullità): conseguenze tutte di non facile accettabilità. L'attribuirgli invece un carattere aperto significherebbe ritenere che con quell'elenco si fosse inteso bensì indicare delle carenze che, ove sussistenti, sarebbero causa di nullità, senza tuttavia escludere che anche altre carenze - non rientranti tra quelle elencate, ma ricavabili da altre norme - potessero medesimamente produrre nullità. Ne viene la preferibilità della seconda delle soluzioni ipotizzate, che però comporta che in ogni caso un'elencazione degli elementi essenziali del provvedimento amministrativo, qualora venisse espressa, risulterebbe priva, sotto il profilo giuridico, di sostanziale rilievo. Meglio quindi che quell'elenco non ci sia. Ed è perciò un fatto positivo che la nuova normativa sulla nullità degli atti amministrativi non lo contenga. 5. La seconda indicazione (sub b) introduce una nozione che, considerata alla lettera, non trova riscontro né nel linguaggio finora usato dal legislatore né in quello dei giuristi e dei giudici. Mentre, come si sa, ricorrono nelle leggi che attengono al campo del diritto amministrativo, come pure nelle opere degli amministrativisti, espressioni quali «conflitti di attribuzione» o «difetto di attribuzione», non risulta impiegata un'espressione come quella che si ritrova nell'art. 21 septies: «difetto assoluto di attribuzione». Qualche autore dà per scontato che, parlando di difetto assoluto di attribuzione, si sia inteso far riferimento all'incompetenza assoluta (18); con la precisazione che questa si ha non solo quando un organo amministrativo adotta un atto che l'ordinamento giuridico attribuisce ad organi di un diverso potere (quello legislativo o quello giudiziario), ma pure quando, da parte di un organo della p.a., venga emanato un atto di spettanza di un organo appartenente a un ramo dell'amministrazione completamente diverso da quello cui appartiene l'organo da cui l'atto proviene (19). È chiaro che, se si ritiene che le cose stiano così, ogni problema appare superato. Anche se non par dubbio che il considerare l'espressione «difetto assoluto di attribuzione» come pienamente equivalente a quella di incompetenza assoluta si presenta come una forzatura del testo, indice di una deprecabile imprecisione linguistica. Quella menzionata resta comunque l'interpretazione più convincente e plausibile. Ove si volesse per contro sostenere (dando il di per sé giusto peso all'aggettivo «assoluto», impiegato dal legislatore) che difetto assoluto si ha solo quando l'atto considerato non rientra nella competenza di alcun organo dell'amministrazione, ne verrebbe che nell'ipotesi di un provvedimento adottato da un dato organo, laddove la competenza sia di un organo pur sempre amministrativo, ma appartenente a un ramo di amministrazione del tutto diverso, ci si troverebbe a dover concludere che si tratta di un atto certo invalido, ma non nullo, bensì, se mai, annullabile: con ciò rimovendo una conquista giurisprudenziale assai faticosamente conseguita, ma alla fine ormai radicatasi e non più messa in discussione né in dottrina né in giurisprudenza. Ci si può comunque consolare tenendo presente che non è certo la prima volta che l'interprete deve forzare un testo legislativo per poterne proporre una lettura accettabile. 6. La terza indicazione (sub c) espone a rischio lo sforzo interpretativo compiuto in questi ultimi anni 39 dalla giurisprudenza per definire, ma anche per circoscrivere, quanto dalla stessa affermato in ordine alla nullità dell'atto elusivo di un giudicato; essa comunque mette a prova la capacità dell'interprete di pervenire a delineare una soluzione convincente di fronte a due affermazioni, risultanti dal testo normativo, che possono sembrare tra loro difficilmente armonizzabili (20). Si ricorda al riguardo quanto è stato in precedenza fatto presente relativamente al provvedimento adottato in violazione o in elusione del giudicato: che cioè si confrontavano una posizione assolutamente negativa, da parte di chi sosteneva che un simile provvedimento non poteva in alcun caso ritenersi nullo, e due posizioni secondo le quali si doveva ammettere che se ne potesse affermare la nullità; peraltro distinte tra una concezione più radicale, per la quale ogni e qualsiasi atto adottato in violazione o elusione del giudicato avrebbe dovuto essere considerato nullo, e una posizione più moderata - verso la quale aveva mostrato propensione il Consiglio di Stato -, secondo la quale l'atto elusivo o difforme dal giudicato poteva ben essere ritenuto radicalmente nullo, ma solo nei casi in cui dal giudicato derivasse non un semplice vincolo all'attività discrezionale della p.a., ma un obbligo puntuale (tale da comportare che l'ottemperanza ad esso si concretasse unicamente nell'adozione di un atto dal contenuto integralmente desumibile dalla sentenza) (21). Di quest'ultimo orientamento - oltre che disattendere il primo - la disposizione dell'art. 21 septies non appare tener conto, col fare riferimento, in via generale - e tale quindi da prestarsi ad essere ritenuta onnicomprensiva -, ai provvedimenti adottati in elusione o in violazione del giudicato. Affermare infatti - come fa la nuova legge nel primo comma dell'articolo considerato - che il provvedimento adottato in violazione o elusione del giudicato è nullo è come dire che sono nulli tutti i provvedimenti qualificabili siffattamente. Con riguardo all'ambito degli atti da ritenere nulli, in quanto non conformi al giudicato, il legislatore del 2005 mostra così di aver voluto eliminare ogni dubbio relativamente alla sua ampiezza. In proposito si può osservare che una simile scelta è certo opinabile, come lo è la conseguente disciplina: ma deve riconoscersi che essa si presenta come del tutto limpida e precisa. Nella nuova legge vi è però un'ulteriore, significativa novità, della quale non si può non tener conto, vale a dire quanto previsto nel 2º comma dell'art. 21 septies, a mente del quale «le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo». Attenendosi alla lettera del testo normativo, parrebbe quindi che sempre e in ogni caso, quando si debba stabilire se un atto sia da ritenere nullo (in quanto emesso in violazione o in elusione del giudicato) si debba adire il giudice amministrativo (unicamente detto giudice, quale giudice esclusivo), con un nuovo, apposito ricorso giurisdizionale, pur mancando un provvedimento produttivo di effetti, da eliminare attraverso la sua impugnativa (attesa l'affermata nullità degli atti adottati in violazione o in elusione del giudicato). Si tratta di una disposizione che, ove venisse così intesa, non potrebbe non ingenerare forti perplessità, perché parrebbe mettere in discussione la possibilità stessa che, nei confronti di un atto elusivo del giudicato o con questo contrastante, si possa agire in sede di giudizio di ottemperanza: se si accogliesse una siffatta interpretazione, resterebbe vanificata la costante - e, in linea generale, ampiamente condivisa - tendenza della giurisprudenza e della dottrina di valorizzare il giudizio di ottemperanza, allargando la possibilità di farvi ricorso, nel convincimento che esso consente al ricorrente vincitore non soddisfatto di ottenere una più rapida e puntuale tutela (22). Avvertita e pressante si presenta perciò l'esigenza di chiarire e precisare il significato e la portata della normativa in esame, al fine, in particolare, di verificare se e come possano ritenersi conciliabili l'affermazione della nullità degli atti (di tutti gli atti) in violazione o elusione del giudicato e l'attribuzione alla giurisdizione esclusiva delle questioni riguardanti tale nullità (di tutte quelle questioni). Nel fare riferimento alla nozione di giurisdizione esclusiva, quale in particolare da ultimo risulta a seguito della recente sentenza della Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204, si osserva come - anche 40 accogliendo quella lettura di essa (che ho reputato la più convincente) che non ritiene necessario, per legittimare una previsione di giurisdizione esclusiva, che ogni questione che risulti ad essa attribuita debba coinvolgere l'esplicazione di un potere pubblico - non pare possa negarsi che un potere pubblico deve essere presente nell'ambito della materia presa in considerazione per assegnarla alla giurisdizione esclusiva (23). Vien subito da rilevare, al riguardo, come ci si possa addirittura chiedere se la violazione e l'elusione del giudicato siano argomenti che si prestano a configurare una materia. Interrogativo al quale la risposta più facile sembra essere quella negativa, in quanto la qualificazione di un comportamento qual è quella espressa parlando di provvedimento amministrativo «in violazione o elusione del giudicato» - mal si presta ad essere considerata una materia: ne conseguirebbe - stando a quanto è dato ricavare dalla sentenza n. 204 del 2004 - l'illegittimità costituzionale della disposizione di cui si tratta. Ed è evidente che, ove si accogliesse una simile conclusione, si eliminerebbero le difficoltà che presenta l'esigenza di coordinare le norme che si stanno esaminando. Qualora venisse meno la previsione della giurisdizione esclusiva, la portata della nuova normativa resterebbe limitata alla definizione dell'ambito degli atti da considerare nulli in quanto contrastanti con un giudicato o adottati in elusione di esso. Ma, se pure l'idea dell'incostituzionalità della disposizione in esame appare tutt'altro che priva di consistenza, è il caso di non rinunciare a guardare oltre, dando per superata quell'obiezione coll'attribuire al termine materia un significato ampio e generico. Resta tuttavia che ciò da cui non si può prescindere è che, riguardo alla materia considerata, deve potersi individuare la presenza di un qualche potere pubblico. Ciò che peraltro fa emergere una nuova questione: se possa darsi un potere pubblico per una disciplina pertinente a un ambito di attività preso in considerazione per disporre la nullità degli atti da detto ambito definiti. Se si pone mente a quanto precisato in precedenza sulla distinzione fra inesistenza e nullità, ne viene che la risposta non può che rifarsi alla conclusione cui, in proposito, si è pervenuti, vale a dire che, diversamente dall'inesistenza, la nullità (in senso proprio) si presta pur sempre ad essere ricondotta quale specie di un genere - all'invalidità di un provvedimento: ed è chiaro che si può parlare di invalidità di un provvedimento solo dove un provvedimento sia previsto; ma la previsione di un provvedimento postula l'esistenza di un potere, di cui esso costituisce esercizio. Atto nullo, ma esistente, e quindi atto che si rifà a un potere pubblico della p.a. è quello che, in ragione della gravità della invalidità di cui è affetto, è sanzionato con la misura della nullità. E tale è certamente il caso della nullità stabilita per gli atti comportanti violazione o elusione di un giudicato. In quanto nulli, e quindi non produttivi degli effetti giuridici propri della categoria cui si riportano, i provvedimenti in questione non potrebbero essere fatti oggetto di impugnativa davanti al giudice della legittimità degli atti amministrativi, che viene adito per ottenere l'annullamento di un atto illegittimo: un atto quindi che deve non solo esistere, ma anche - sia pure, per un certo tempo, precariamente avere efficacia in ordine alla produzione degli effetti suoi propri. Essendo nulli, gli atti elusivi o contrastanti col giudicato non possono invece realizzare modificazioni giuridicamente rilevanti della situazione creata con la sentenza produttiva del giudicato eluso o non osservato; ond'è che sarebbe priva di senso la previsione della possibilità di agire per ottenerne l'annullamento (ciò tuttavia non significa che l'Amministrazione, che invece non ritenga nullo o anche solo viziato l'atto, non possa di fatto comportarsi come se il relativo potere fosse stato esercitato e quanto compiuto ne costituisse realizzazione conforme al diritto; in tale ipotesi, chi abbia interesse a sostenere che quell'esercizio del potere è solo apparentemente tale, dovrà agire in giudizio perché sia accertata la nullità dell'atto e la p.a. si veda costretta a comportarsi in conformità). Quanto precisato corrobora l'opinione che il non essere stato adottato alcun atto, o l'essere bensì stati emanati degli atti, ma elusivi del giudicato o in violazione di esso, configurano situazioni che possono 41 essere considerate come equivalenti, quali espressione di inadempimento, da parte della p.a., dell'obbligo di conformarsi al giudicato (24). E atteso che il giudizio di ottemperanza è previsto proprio per dar tutela al cittadino di fronte alla mancata osservanza, da parte della p.a., di tale obbligo, si può concludere riconoscendo, sul punto, che l'opinione che si possa ricorrere al giudizio di ottemperanza sia quando l'Amministrazione sia rimasta inerte, sia quando si sia espressa mediante l'adozione di atti non conformi al giudicato (e, come tali, nulli per volontà di legge), risulta confortata e confermata, e non pregiudicata dalla nuova disciplina. In entrambi i casi, infatti, l'azione è rivolta non a impugnare un atto (dato che non ce n'è alcuno, quando l'Amministrazione non si sia in alcun modo attivata, mentre, quando c'è, non può essere preso in considerazione essendo nullo), ma a contestare il non adempimento della p.a., al fine di conseguire quel concreto risultato positivo che ha mosso l'interessato a rivolgersi al giudice amministrativo. Chi condivida queste premesse, non avrà difficoltà a riconoscere che il giudizio in esame non concerne propriamente «questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato»: pur se, per dare fondamento alla richiesta rivolta al giudice amministrativo di pronunciarsi sul mancato adempimento - da parte della p.a. - dell'obbligo di dare esecuzione a una sua sentenza, non si può prescindere dal prendere in considerazione gli eventuali atti, che risultino essere stati emanati dopo la sentenza e che attengano alle situazioni soggettive coinvolte nel giudizio conclusosi con quella, onde riscontrarne la nullità: si potrà perciò anche dire che di quella nullità in certo modo si fa questione, ma resta il fatto che ragion d'essere e obiettivo del giudizio di ottemperanza è sempre l'accertamento del mancato adempimento e, quindi, la realizzazione di esso, e non l'accertamento della nullità di un atto (vale forse la pena di ribadire che questo, qualora venga effettuato in un giudizio di ottemperanza, sarà pronunciato in via pregiudiziale, per poter affermare sussistenti i presupposti che consentono di affrontare l'oggetto proprio del giudizio di ottemperanza). Dove invece un soggetto - che sia risultato vincitore in una controversia sottoposta al giudice amministrativo - intenda far valere non tanto (o non solo) la pretesa a ottenere l'adempimento, da parte della p.a., del dovere di dare esecuzione alla sentenza, quanto l'interesse all'accertamento della nullità di uno o più atti, posti in essere dall'Amministrazione dopo la pronuncia del giudice e che a questa possano stimarsi in qualche modo collegati - per rimediare al pregiudizio che può provocare la loro applicazione da parte della p.a. - sembra del tutto appropriato affermare che oggetto principale della vertenza è la questione di nullità. Ne discende, ove si convenga con quanto sostenuto, che vi è la possibilità di due azioni che risultano del tutto diverse e separate; una in ottemperanza e un'altra in sede di giurisdizione esclusiva; il che porta a riconoscere che, andando al di là delle apparenze e guardando alla sostanza delle cose, non c'è una reale contrapposizione tra il disposto del primo e quello del secondo comma dell'art. 21 septies. Il primo, che niente stabilisce sulla rilevanza dell'atto nullo rispetto al provvedimento cui si riferisce, consente di considerare confermata la regola secondo la quale gli atti nulli sono da ritenere, di norma, non idonei a produrre effetti giuridici; dal che viene che è possibile attivare il giudizio di ottemperanza pur in loro presenza. Quanto al secondo comma, il legislatore, per le controversie che investano atti amministrativi che possano essere ritenuti in violazione o in elusione di un giudicato, pone con esso una regola di carattere processuale, disponendo che riguardo a tali controversie la competenza è sempre del giudice amministrativo, quale giudice esclusivo. Il tema trattato merita di essere ulteriormente approfondito: ciò che può essere fatto anche con un diverso approccio, prendendo le mosse dalla situazione davanti alla quale viene a trovarsi il vincitore una volta che un processo amministrativo si sia concluso con una sentenza di accoglimento -, qualora alla sentenza la p.a. faccia seguire uno o più atti (a quella collegati). Guardando a tali atti, deve essere tenuto presente che le sentenze di merito del giudice amministrativo, con le quali sia stato accolto un ricorso, se pure assai di frequente necessitano che venga loro data 42 esecuzione affinché il vincitore consegua quel risultato positivo, per ottenere il quale si era indotto ad adire il giudice, tuttavia non lo richiedono sempre, giacché si danno sentenze che producono immediatamente il risultato vantaggioso perseguito, per il solo fatto di venire in essere (25). Di fronte a un tale genere di sentenze, sembra evidente, per quanto attiene allo loro efficacia in vista della soddisfazione di un interesse sostanziale, l'irrilevanza di atti emanati dalla p.a. successivamente ad esse, trattandosi appunto di sentenze che non abbisognano di un'ulteriore attività dell'Amministrazione che porti a realizzazione quanto vi risulti disposto. Riguardo ad esse non v'è quindi spazio per un ricorso in ottemperanza, non essendovi niente da ottemperare. Atti come quelli ipotizzati possono invece risultare rilevanti sotto altro profilo, qualora vengano ritenuti lesivi di un diverso interesse del soggetto che abbia ottenuto una sentenza favorevole: il quale potrà agire in giudizio a tutela di quell'interesse, sostenendo la violazione o l'elusione del giudicato da parte di tali atti e quindi chiedendo l'accertamento della loro nullità al giudice amministrativo, in forza di quanto stabilito nel secondo comma dell'art. 21 septies. Ciò che però più di frequente accade è che una sentenza di accoglimento, affinché il ricorrente vincitore consegua quel risultato satisfattivo che la pronuncia del giudice ha inteso assicurargli, richieda l'attivarsi della p.a. Posto che la legge stabilisce l'obbligo per l'Amministrazione di conformarsi al giudicato, il suo agire successivamente alla sentenza, con l'adozione di atti che a questa si richiamano, pone il problema del loro essere conformi al giudicato o del loro configurarsi come in contrasto o in elusione di questo, e quindi nulli. Ma diversamente dalle conclusioni cui si è pervenuti relativamente alle sentenze che non richiedono di essere eseguite, gli atti facenti seguito a sentenze del genere di quelle da ultimo considerate si prestano ad essere valutati sia in relazione all'adempimento e all'azione prevista per conseguirlo, sia in relazione alla loro eventuale lesività sotto altro profilo, con riguardo ad altri interessi del ricorrente vincitore. Nell'un caso, ciò che l'interessato persegue è l'adempimento, conseguibile mediante il ricorso in ottemperanza (il cui oggetto è da individuare nell'accertamento del mancato adempimento da parte della p.a., e nella conseguente esecuzione per via giudiziale di quanto disposto dalla sentenza), mentre la questione della nullità dell'atto si presenta come una questione pregiudiziale, che viene quindi decisa con una pronuncia avente efficacia incidenter tantum, per effetto della quale nel giudizio di ottemperanza, in cui detta questione è stata definita, quell'atto deve essere considerato come tamquam non esset: sì che esso non è in grado di ostacolare la realizzazione del giudicato. Nell'altro caso invece la questione di nullità concorre a costituire l'oggetto del giudizio, e il suo accertamento, che avrà efficacia di cosa giudicata, renderà indubitabile che l'atto non è produttivo di effetti giuridici e che la p.a. non può quindi in alcun modo farne applicazione. Come si può constatare, le conclusioni da ultimo raggiunte coincidono con quelle cui si era pervenuti in precedenza, considerando l'argomento da una diversa prospettiva; mentre resta confermato che le due azioni, che possono essere esperite e in cui occorre prendere in esame la questione della nullità di un atto in violazione o in elusione del giudicato, sono tra loro del tutto diverse, in quanto rivolte alla tutela di interessi parimenti del tutto diversi: risultato invero attinto con un cammino che può essere ritenuto faticoso, ma che alla fine si presenta come non privo di plausibilità. 7. Per quanto concerne la quarta e ultima indicazione (sub d), essa non sembra dar adito a dubbi o incertezze, anche perché - a ben vedere -, con l'affermare che si ha nullità nei casi in cui la legge lo preveda, non si aggiunge né si toglie alcunché rispetto all'efficacia delle leggi che contengano una tale previsione: ond'è che la norma risulta presentare una rilevanza solo sotto un profilo esplicativo, mancando per contro di qualunque contenuto dispositivo. Una più attenta lettura consente tuttavia di ricavare dalla disposizione considerata qualche altra deduzione: in particolare l'impossibilità che la nullità di un atto possa essere desunta dalla disciplina 43 dettata dalla legge per un dato istituto. Se è solo là dove la legge lo disponga in modo esplicito e inequivoco che potrà (e dovrà) ritenersi un atto affetto da un'invalidità tanto grave da determinarne la nullità, ne segue che tutte le volte che un atto, valutato nel quadro della disciplina normativa che lo concerne, venga ritenuto invalido, dovrà essere considerato assoggettato al regime sanzionatorio dell'annullabilità, eccezion fatta per i casi per i quali ne sia espressamente stabilita la nullità (26). Facendo richiamo alla tesi - illustrata all'inizio di questo scritto e alla quale si è data adesione (27) - in base alla quale l'invalidità va distinta a seconda che ne segua l'annullabilità o la nullità dell'atto ritenuto invalido, la puntualizzazione che la disposizione in esame consente di compiere è che l'annullabilità si presenta come la regola e la nullità come l'eccezione. La tesi accolta deve però essere valutata tenendo conto delle novità introdotte, relativamente all'annullabilità degli atti invalidi, con l'art. 21 octies della l. n. 15 del 2005. Se di questo si considera il 1º comma, esso sembra confermarla pienamente: con lo stabilire che «è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o di incompetenza» - formula tradizionalmente e pacificamente considerata corrispondente a quella di «provvedimento illegittimo» (nozione a sua volta generalmente considerata equivalente a quella di «provvedimento invalido», inteso appunto come provvedimento affetto da un vizio di legittimità) (28) - la legge appare compatibile con la tesi della corrispondenza tra invalidità (e illegittimità) e annullabilità: ma, tenuto conto del disposto dell'art. 21 septies, è una corrispondenza che va considerata come una regola non assoluta, ma suscettibile di eccezioni. I problemi posti dalla normativa stabilita dal 2º comma dell'art. 21 octies, nel quale sono previste ipotesi di provvedimenti di cui, pur presentando delle difformità rispetto alle regole per essi dettate, non può essere disposto l'annullamento, sono di maggior peso e di più arduo approccio, ma essi non toccano la problematica della nullità dei provvedimenti amministrativi: l'affrontarli in questa sede costituirebbe perciò un ampliamento dell'oggetto del presente studio che non si ritiene di dover effettuare (29). Note: (1) Secondo alcuni autori, la categoria dell'invalidità comprende, con la nullità e l'annullabilità, anche la rescindibilità del contratto (così, tra molti, C.M. Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 1987, rist. 1993, 574 ss.). Ma quello della riportabilità o meno all'invalidità anche della rescindibilità è un problema che, per quanto in questa sede può interessare, non ha rilevanza. (2) V. comunque, tra i privatisti che distinguono inesistenza e nullità, in particolare, R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1950, 539 ss.; tra i testi istituzionali, oltre alla citata opera di C.M. Bianca (supra alla nota 1), v. A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 2001, 49ª ed., 192 ss. Molto incisivamente afferma il Bianca che nullità e inesistenza vanno tenute distinte perché mentre la disciplina della nullità presuppone «che sussista un'operazione qualificabile come contratto e alla quale sia riferibile la qualifica della nullità (578), l'inesistenza esprime la mancanza di un fatto o atto socialmente rispondente alla nozione di contratto» (loc. ult. cit.); precisando che la disciplina del contratto nullo trova il suo limite quando il contratto non esiste. (3) In tal senso, per tutti, A. Falzea, Le condizioni e gli elementi dell'atto giuridico, Milano, 1941, 36. (4) V. A. Trabucchi, Istituzioni, cit., 192. (5) In argomento v., in particolare, le due monografie di: A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 126 ss. e di M. D'Orsogna, I problemi della nullità in diritto amministrativo, Milano, 2004, 111 ss. (per la dottrina meno recente, vedi gli autori menzionati in M. D'Orsogna, op. ult. cit., 29, nota 31); da ultimo, v. M.R. Spasiano, Articolo 21 septies, Nullità del provvedimento, a cura di Nino Paolantonio, Aristide Police, Alberto Zito, Torino, 2005, 551 ss. Contra, sulla non rilevanza della distinzione v. R. Caranta, L'inesistenza dell'atto amministrativo, Milano, 1990, ad avviso del quale inesistenza corrisponde a nullità assoluta (op. cit., 140); secondo il citato autore, l'unica figura patologica dell'atto amministrativo è l'annullabilità (op. cit., 132 ss.); v. anche B. 44 Mattarella, Il provvedimento, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo generale, I, Milano, 2000. (6) Così R. Villata, L'atto amministrativo, in Diritto amministrativo, AA.VV., IV ed., Bologna, 2005, I, parte gen., 816-17. (7) R. Villata, op. cit., 817. (8) Dove il codice civile parla di oggetto (del contratto), buona parte della dottrina amministrativistica, con riguardo al provvedimento, propende per usare l'espressione «contenuto»; v., per tutti, A.M. Sandulli, Manuale di Diritto amministrativo, XV ed, Napoli, 1989,, 682; R. Villata, L'atto amministrativo, cit., 791; mentre con «oggetto» viene indicato il termine passivo degli effetti della statuizione (A.M. Sandulli, op. cit., 670; R. Villata, op. cit., 794). (9) Secondo M. D'Orsogna, I problemi della nullità, cit., 111, il termine «nullità», riferito ad atti amministrativi, compare per la prima volta nell'art. 288 del t.u. com. prov. del 1934. (10) Cfr. da ultimo S. De Felice, Le tecniche di tutela del giudice amministrativo, in questa Rivista 2005, 931, che puntualizza: «se davvero l'atto nullo non fosse capace di nessun effetto, né giuridico né materiale, non sorgerebbe mai, invero, la necessità e l'onere di ricorrere giurisdizionalmente per farne dichiarare il vizio e per esperire le consequenziali azioni ripetitive, restitutorie, risarcitorie». (11) V., per tutti, A. Bartolini, La nullità del provvedimento, cit., 39-40. Devesi rilevare che in un primo tempo la giurisprudenza del giudice amministrativo fu incline a interpretare la nullità stabilita con disposizione di legge come annullabilità. Ma di fronte alle reiterate norme che insistevano a parlare di nullità, finì con l'adeguarsi e a considerare nullo - e non meramente annullabile - il provvedimento così definito dalla legge (v. A. Bartolini, op. cit., 40 ss. e partic. nota 15 a p. 42). (12) Così E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, III ed., Milano, 2001, 470 ss. e partic. 471. (13) V., quale sentenza «capostipite» dell'orientamento di cui nel testo, Cass., Sez. un., 24 ottobre 1958, n. 3457, in Giust. civ., 1958, I, 2029 ss. (14) V. V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, II ed., Torino, 1994, 159. Sulla stessa linea L. Mazzarolli, La tutela giurisdizionale del cittadino tra giudice ordinario e giudice amministrativo, in AA.VV. (a cura di), Diritto amministrativo, IV ed., II, Bologna, 2005, 461 ss. (15) V., per tutti, S. Pelillo, Il giudizio di ottemperanza alle sentenze del giudice amministrativo, Milano, 1990, 48; M. Nigro, Giustizia amministrativa, a cura di E. Cardi e A. Nigro, V ed., Bologna, 2000, 325. (16) In giurisprudenza, il largo seguito della tesi richiamata nel testo si era consolidato con la decisione dell'Adunanza plenaria del marzo 1984 (Cons. Stato, Ad. plen., 11 marzo 1984, n. 6, in Cons. St., 1984, I, 238 ss.). (17) In un mio articolo sul giudizio di ottemperanza (L. Mazzarolli, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in questa Rivista 1990, 226 ss.) esprimevo l'opinione che, quando la p.a. avesse provveduto ad emanare un provvedimento dopo un giudicato, non vi fosse posto per un'azione mirante a ottenere un provvedimento diverso da quello venuto in essere se non in seguito all'annullamento di quest'ultimo, conseguibile, in sede giurisdizionale, solo mediante il ricorso ordinario al Tar. (18) Da ultimo, sul coincidere della nozione di difetto assoluto di attribuzione con quella di incompetenza assoluta v. A. Susca, L'invalidità del provvedimento amministrativo, dopo le l. n. 15 del 2005 e n. 80 del 2005, Milano, 2005, 95-96.Riporta il difetto assoluto di attribuzione alla carenza di potere in astratto M.R. Spasiano, art. 21 septies, Nullità del provvedimento, in La pubblica amministrazione e la sua azione, saggi critici sulla legge n. 241/1990 riformata dalle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Torino, 2005, 566-67. (19) È una giurisprudenza consolidata quella che ritiene che si abbia carenza di potere in astratto nell'ipotesi descritta nel testo; ma anche in dottrina tale opinione gode di largo seguito: v., per tutti, L. Mazzarolli, La tutela giurisdizionale, cit., 460-61; ma già A.M. Sandulli, Manuale, cit., 667-69. Al riguardo, sottolinea A. Travi (Giustizia amministrativa, V ed., Torino, 2002, 60-61) che fu la 45 Cassazione che cercò di elaborare una casistica completa dei casi di carenza di potere. (20) La non facile «convivenza» tra la norma di cui al comma 1 dell'art. 21 septies e quella del comma 2 dello stesso articolo è, ad esempio, sottolineata da M.R. Spasiano, art. 21 septies, Nullità, cit., 575. (21) V. supra, nota 16. (22) Della «viva preoccupazione» della dottrina per la «infelice formulazione» della norma di cui si tratta fa memoria il Susca (L'invalidità, cit., nota 23 a p. 79) che osserva peraltro come «per quanto scorretta sia la redazione della norma, non sembra verosimile che il secondo comma dell'art. 21 septies sia letto... nel senso che sia stato cancellato il giudizio di ottemperanza ex art. 27, n. 4 t.u. Cons. Stato» per i provvedimenti in violazione o elusione del giudicato. (23) In proposito si può vedere il mio articolo «Sui caratteri e i limiti della giurisdizione esclusiva: la Corte costituzionale ne ridisegna l'ambito», in questa Rivista, 2005, 226 ss. e 234-35. (24) Sull'argomento v. S. Pelillo, Il giudizio di ottemperanza, cit., 221, che sottolinea l'esigenza di reductio ad unitatem processuale a fronte di qualsiasi comportamento esplicito dell'amministrazione, procedendosi in primo luogo all'abbattimento di quella che è stata definita una dicotomia, tra gli atti in violazione e gli atti in elusione del giudicato; il che comporta il riconoscimento della competenza del giudice amministrativo, in sede di giudizio di ottemperanza, in ogni ipotesi in cui deve essere valutato l'obbligo dell'amministrazione di osservare il giudicato (dando esatta esecuzione a quanto accertato nella sentenza da eseguire).Sull'equiparazione, ai fini del giudizio di ottemperanza, fra la mancanza totale (di adempimento), l'adempimento incompleto e l'adempimento inesatto, v. altresì M. Nigro, Giustizia amministrativa, a cura di E. Cardi e A. Nigro, V ed., Bologna, 2000, 325. (25) Sono le sentenze c.d. autoapplicative, che, essendo immediatamente satisfattive, non richiedono alcun comportamento attuativo da parte dell'Amministrazione (v., per tutti, V. Caianiello, Manuale, cit., 856 ss.; C. Mignone, L'esecuzione delle sentenze, in AA.VV., Diritto amministrativo, II, cit.; 66768). (26) Per una descrizione dei casi di nullità espressamente previsti v. M.R. Spasiano, Articolo 21 septies, Nullità, cit., 569 ss. (27) V. supra partic. note 2 e 5. (28) Occorre sottolineare che una tale equivalenza può essere ammessa solo da chi condivida alcune premesse: anzitutto, con riguardo alla distinzione fra vizi di legittimità e vizi di merito, non condivida la tesi che l'invalidità possa essere conseguenza anche di questi ultimi (per questa opinione v., per tutti, A.M. Sandulli, Manuale, cit., 704 e 705 ss.); in secondo luogo, convenendo con chi individua l'essenza dell'atto illegittimo nella mancanza, in esso, di stabilità e persistenza quanto alla sua efficacia (in proposito v., per tutti, da ultimo, D. Corletto, Vizi «formali» e poteri del giudice amministrativo, in questa Rivista, 2006, 65 ss.), non aderisca all'opinione che fa dell'irregolarità una categoria dell'invalidità (al riguardo v. E. Casetta, Manuale, cit., 485, che esamina criticamente sia la tesi che nega, sia quella che afferma la qualificabilità come illegittimo dell'atto irregolare; cfr., altresì, R. Villata, L'atto amministrativo, cit., 136-40; sull'irregolarità v., per tutti, A. Romano Tassone, Contributo sul tema dell'irregolarità degli atti amministrativi, Torino, 1993). (29) Se ne fa qui cenno per dare un'idea della loro importanza e complessità e per confutare l'opinione che la disciplina di cui trattasi comporterebbe la «dissociazione» fra illegittimità e annullabilità (v., in proposito, per tutti, M. D'Orsogna, Articolo 21 octies, comma 1, Annullabilità del provvedimento, in La pubblica amministrazione, cit., 604 ss.). A tal riguardo sono invece dell'avviso che il fatto che la legge (come fa appunto nell'art. 21 octies, comma 2), stabilisca che un provvedimento - quando pure, per questo o quell'aspetto, risulti non aderente a una norma - non è suscettibile di annullamento, non è sufficiente a dare fondamento all'opinione che esso deve pur sempre essere considerato invalido. Una volta che si riconosca che la rilevata difformità da qualcuna delle norme che concorrono a costituirne la disciplina non è rilevante in ordine alla determinazione del suo regime, che non varia rispetto a quello degli atti validi (perché, com'è appunto in generale per gli atti validi, anche per quello gli effetti 46 prodotti lo sono col carattere della stabilità e non con quello della precarietà), la deduzione che si impone è quella che detto atto è da ritenere non affetto da vizi che ne pregiudicano la legittimità e, per essere privo di tali vizi, è pure esso un atto valido (è indubbio che, ove invece si ritenga di doversi attenere al significato letterale dell'espressione, dire illegittimo equivale a dire non conforme a legge. Da una tale prospettiva, la qualifica di illegittimo necessariamente dovrebbe essere attribuita a qualunque atto in cui si riscontri, in uno dei suoi elementi, una discordanza rispetto alla fattispecie astratta, anche nel caso in cui il regime dell'atto non subisca alterazioni).Il problema della natura e dei caratteri del provvedimento amministrativo considerato nel 2º comma dell'art. 21 octies (sul quale v., per tutti, F. Fracchia - M. Occhiena, Art. 21 octies, comma 2, Annullabilità del provvedimento, in La pubblica amministrazione, cit., 609 ss.) può essere trattato anche prendendo le mosse da una diversa prospettiva. La disposizione in oggetto contempla due ipotesi di atti amministrativi che, pur discostandosi dal loro paradigma normativo, non sono annullabili; si tratta: a) dei provvedimenti adottati in violazione di norme sul procedimento e sulla forma, quando il loro contenuto sia interamente vincolato; b) degli atti per i quali non ci sia stato il previo invio della prescritta comunicazione dell'avvio del procedimento, quando il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere diverso.Relativamente alla prima ipotesi, per atti dal contenuto interamente vincolato - quelli cioè che non possono avere che un determinato contenuto e quello soltanto - la cui adozione non è quindi il frutto di una scelta più o meno latamente discrezionale, ma il risultato di una scelta obbligata, la legge si esprime nel senso di togliere rilievo - con riguardo agli elementi costitutivi del provvedimento amministrativo - all'elemento formale, e così pure all'iter procedimentale previsto.Ma ciò equivale ad affermare che per tali atti non v'è spazio dove possano avere applicazione le norme che disciplinano la forma e il procedimento.Con altre parole, ove si convenga con l'interpretazione sopra affacciata, la deduzione che sembra imporsi è che, per tali atti, più che riconoscere che i vizi di forma e di procedimento non possono sorreggere un loro annullamento, appare più aderente a quanto stabilito il riconoscere che non vi sono prescrizioni relative alla forma e al procedimento che debbano essere osservate.Una simile costruzione appare plausibile e potrebbe reputarsi convincente: essa pone tuttavia una questione di costituzionalità che non può certo reputarsi di poco peso e che si presenta tale da non poter essere facilmente superata. Essa porta infatti ad escludere, per determinati tipi di provvedimenti amministrativi, la rilevanza di vizi che invece, in linea generale, sono ritenuti poter essere posti a fondamento di un ricorso al giudice amministrativo in sede di legittimità, per ottenere l'annullamento dell'atto che ne sia affetto. Ma, alla luce di quanto stabilito nell'art. 113, comma 2, della Costituzione che vieta che la tutela in sede giurisdizionale nei confronti degli atti della p.a. possa essere limitata per determinate categorie di atti - non si vede come potrebbe essere ritenuto infondato l'appunto di violazione della Costituzione per una disposizione, come quella dell'art. 21 octies, che limita l'impugnabilità degli atti interamente vincolati ai vizi che non riguardano la forma e il procedimento.Il problema di costituzionalità appena ricordato potrebbe peraltro essere superato ove si accogliesse la tesi proposta e illustrata da D. Corletto nell'articolo cit. supra in nota 28.Secondo il predetto autore, il giudizio di annullamento di provvedimenti vincolati diventa esclusivamente un giudizio di spettanza (per tale concetto v., per tutti, G. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in questa Rivista, 2001, 285 ss. e partic. 323 ss. e 327 ss.), un giudizio sulla «meritevolezza intrinseca» della pretesa del privato (pretesa che Corletto non esita a chiamare diritto). Da questa prospettiva dovrebbe riconoscersi che «il giudizio su provvedimenti vincolati non ha... più a suo fondamento o a suo oggetto l'illegittimità dell'atto»; donde la conclusione che «non è l'illegittimità che porta all'annullamento, è la violazione di una pretesa riconosciuta direttamente dall'ordinamento, la violazione di una “spettanza” (op. cit., 56).È ben vero che l'autore afferma anche che la presenza del potere, oggetto della disciplina, comporta il permanere di un diaframma fra la norma e la soddisfazione dell'interesse del privato, che impedirebbe di parlare in senso proprio di posizioni di cittadini direttamente e incondizionatamente tutelate (op. cit., 57): ma una siffatta affermazione sembra più 47 l'espressione di un ossequio all'impostazione tradizionale che di un vero convincimento. Invero, una volta che si riconosca che non c'è più spazio per la tutela di un interesse legittimo, perché l'oggetto della controversia è la pretesa (i.e. il diritto) del privato, non si vede quale spazio possa esservi per l'esercizio di un potere da parte della p.a.: l'argomento meriterebbe comunque di essere approfondito.Con la seconda disposizione del comma 21 octies viene stabilito, con riguardo alla mancata comunicazione di avvio del procedimento - di cui all'art. 7 della l. n. 241 del 1990 -, che «qualora l'Amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato», il provvedimento non può essere annullato. Se si considera che la comunicazione dell'avvio del procedimento è previsto sia compiuta nei confronti dei soggetti interessati, sembra qui essere attribuito un particolare rilievo allo scopo dell'istituto, che è quello di mettere tali soggetti in grado di far presente le proprie idee e proposte relativamente all'atto in itinere, in modo da poter far sì che il contenuto dell'atto sia per essi non lesivo (o meno lesivo) di quello che altrimenti potrebbe essere. Poiché è indubbio che la possibilità di influire sul contenuto di un atto non sussiste quando si tratti di atto vincolato, ne viene che per un atto del genere la possibilità di avere un contenuto diverso da quello dell'atto in concreto adottato resta esclusa a priori. Se ne può dedurre che il dovere di dare comunicazione dell'avvio del procedimento è da ritenere non sussistente per gli atti vincolati.Fin qui la disposizione, così interpretata, sembra non disporre nulla di nuovo rispetto alla precedente; e si presenta anche espressa in modo improprio, facendo riferimento alla dimostrazione, da parte della p.a., dell'impossibilità per l'atto di avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato, quando invece tale impossibilità è connaturata all'essere l'atto un atto vincolato, il cui contenuto essendo compiutamente descritto nella fattispecie normativa - non si presta ad essere precisato nel corso del procedimento.Si può ritenere che il legislatore abbia voluto dettare una disciplina unitaria relativamente alla comunicazione di avvio del procedimento, quindi riferendosi agli atti vincolati, sia a quelli discrezionali, anche se solo riguardo a questi la disposizione sembra avere una sua ragion d'essere.Per gli atti discrezionali però potrebbe subito essere rilevato che la dimostrazione richiesta alla p.a. per escludere la rilevanza del mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento risulta a prima vista impossibile, come appunto osserva D. Corletto nello scritto cit., (op. cit., 45). è ben vero che lo stesso autore si produce in uno sforzo quanto mai intenso per cercare di dimostrare (dedicandovi una decina di pagine: da 45 a 54) che la norma può avere un suo ambito di applicazione; ma poi finisce per riconoscere che «la soluzione più coerente sarebbe che il giudice dovesse limitarsi ad accertare la astratta possibilità di un esito diverso del procedimento, e che, solo su questa base, dovesse procedere all'annullamento per il vizio formale, rimettendo le parti nel procedimento» (op. cit., 54-55). Anche questo aspetto della problematica qui richiamata meriterebbe peraltro un ulteriore approfondimento. 48 PROCEDIMENTO E PROCESSO NELLA NUOVA LEGGE 241 (*) Diritto Processuale Amministrativo, fasc.3, 2006, pag. 572 GIOVANNI SALA Classificazioni: PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO - In genere Sommario: 1. La «novella» della legge 241 e il rapporto tra procedimento e processo: alla ricerca di nuovi paradigmi. - 2. La «legalità procedimentale» quale modello di rapporto tra procedimento e processo. - 3. l'articolo 21 octies norma, anche, processuale. - 4. L'impatto dell'art. 21 octies nei (primi) orientamenti giurisprudenziali. - 5. La tendenza alla valorizzazione del risultato dell'azione amministrativa. - 6. I principi della strumentalità delle forme e del raggiungimento del risultato. - 7. La (ragione dell') individuazione di fattispecie di irregolarità del provvedimento amministrativo. - 8. La (ragione dell') individuazione delle fattispecie di non annullabilità del provvedimento amministrativo per vizio di forma o di procedimento. - 9. La conferma di tale ragioni nella considerazione strutturale e funzionale del procedimento. - 10. Procedimento e processo tra la l. n. 241 del 1990 e la l. n. 15 del 2005. - 11. Il sindacato sulla (non) annullabilità per vizi di forma o di procedimento. - 12. Il sindacato sulla (non) annullabilità per l'omissione dell'avviso di avvio del procedimento. - 13. Nuovi paradigmi (di connotazione delle situazioni soggettive) nel sindacato sull'attività vincolata?. 1. Dispone il nuovo articolo 21 octies(1) della l. n. 241 che «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato»; dispone il riformulato art. 2 (2) che, in caso di silenzio dell'amministrazione, il «giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell'istanza», restando comunque per l'interessato «salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento, ove ne ricorrono i presupposti». Kuhn (3) ha spiegato come, alle volte gradatamente alle volte improvvisamente, concetti fino ad un certo momento ritenuti appaganti per spiegare i fenomeni diventino inadeguati, dovendo di fronte a nuove acquisizioni, nel nostro campo non sempre dovute in verità allo sviluppo della riflessione, mutarsi i paradigmi delle sistematizzazioni scientifiche. Con le l. n. 15 e n. 80 del 2005 è mutato il paradigma, il modello esplicativo finora comunemente accettato, del rapporto fra procedimento amministrativo e processo, tra l'amministrazione e il suo giudice? Dell'esistenza di una correlazione fra procedimento e processo amministrativo sono state sempre ben consapevoli la dottrina e la giurisprudenza. Correlazione necessaria perché la disciplina del procedimento e la disciplina del processo, ponendo rispettivamente le regole dell'azione amministrativa e della verifica della regolarità della stessa, costituiscono, insieme, il modo con cui si realizza, nei diversi momenti storici e nei singoli ordinamenti, il principio di legalità. Si è avuto anzi occasione di rilevare (4) che il mutare con il tempo della configurazione del principio di legalità, il differente rapporto che si crea tra legge, attività dell'amministrazione pubblica e (tutela delle) situazioni soggettive dei cittadini, necessariamente si riflette sia sulla disciplina del procedimento che su quella del processo. Sul piano delle fonti è stato posto in luce come la giurisprudenza del Consiglio di Stato, a volte davvero creativa, abbia sviluppato una disciplina organica, insieme, di processo e procedimento muovendo dalle frammentarie norme poste dal legislatore. In una prospettiva storica potrebbe osservarsi che la legislazione austriaca del 1925, considerata la prima codificazione organica del procedimento amministrativo, ha, nei suoi contenuti, una derivazione dal processo, essendo stati dal legislatore ripresi gli orientamenti già affermati dal Tribunale 49 Amministrativo di Vienna. Al converso, nell'esperienza italiana, il processo amministrativo è nato nel 1889, con la creazione della Quarta sezione del Consiglio di Stato, come sviluppo dei procedimenti amministrativi contenziosi di secondo grado, essendosi solo successivamente affermata la convinzione della natura giurisdizionale, e non solamente giustiziale, del nuovo rimedio. E nel fatto che ancora oggi il Consiglio di Stato denomini decisioni le proprie pronunce si ritrova la memoria della, forse non obliata, genesi. La stessa individuazione poi dei singoli procedimenti nel quadro dell'azione amministrativa è operata nella prospettiva processuale. L'azione amministrativa muove dall'individuazione di un bisogno che si ritiene di dover soddisfare con l'utilizzo dei poteri e delle risorse dell'amministrazione pubblica (interesse pubblico) e si conclude con la soddisfazione di esso (il risultato). La scansione della stessa in procedimenti, quale serie di atti e di attività per l'emanazione di un atto (configurato) conclusivo del singolo procedimento non dell'azione amministrativa verso il suo fine, la frammentazione della retta dell'azione verso lo scopo in tanti segmenti procedimentali (5), è in funzione della tutela processuale delle situazioni soggettive. È ritenuto atto finale, conclusivo (6) del procedimento, quello impugnabile, perché lesivo della situazione soggettiva che legittima al ricorso, anche se, nella prospettiva dell'azione amministrativa verso il suo fine, si tratta di momento solamente iniziale o intermedio (l'approvazione di un progetto di opera pubblica con dichiarazione di pubblica utilità (7), il bando di una procedura concorsuale (8)) 2. Interrogarsi sui, diversi nel tempo, rapporti tra procedimento e processo significa, come il dibattito sugli effetti del mutamento in corso conferma, riflettere in realtà sui diversi, nel tempo, rapporti tra amministrazione e giudice, tra potere esecutivo e potere giudiziario. L'analisi storica (9) ha portato all'individuazione di tre modelli: quello della separazione indifferenza, quello dell'alternatività e quello della complementarietà integrazione. Il primo, della separatezza, considera procedimento e processo amministrativo come due mondi diversi, nettamente separati. È questa l'idea che, in fondo, ha ispirato la legislazione del 1865 con l'attribuzione al giudice della tutela dei diritti civili e politici, a prescindere, per così dire, dal procedimento amministrativo, che pur nell'art. 3 della legge avrebbe dovuto trovare una sua valorizzazione come forma di tutela amministrativa giustiziale degli interessi. Nello schema della separazione, il processo tutela la libertà (come un tempo si diceva, ora più propriamente diremmo l'utilitas) al cittadino riconosciuta dalla legge, il procedimento disciplina l'esercizio dei poteri autoritativi nell'interesse della stessa dell'Amministrazione e in esso la posizione del privato può essere rilevante solo in quanto funzionale a tale fine. Una diversa concezione del rapporto fra procedimento e processo, dell'alternatività (10), si realizza quando, o dove, prevalga la tendenza a far acquisire al procedimento amministrativo struttura paragiurisdizionale e funzione giustiziale, a garanzia degli interessi dei cittadini nei confronti dell'esercizio del potere amministrativo, in alternativa - e, sovente, in concorrenza - alla tutela giurisdizionale. Un modello che vuole un forte procedimento laddove ci sia una debole tutela giurisdizionale e, viceversa, svaluta la funzione, di tutela, del procedimento in presenza di un'efficiente protezione giurisdizionale della situazione giuridica dei cittadini. Ancor oggi, per considerare l'esperienza di altri ordinamenti prima di riflettere sulla nostra, si ritiene la minor attenzione della dottrina francese allo sviluppo di garanzie procedimentali giustificata da una maggior efficacia, affermatasi prima che nel nostro ordinamento, della tutela risarcitoria degli interessi in sede giurisdizionale. Entrambi i modelli sono coerenti con la concezione della legalità in senso formale, quale autorizzazione legislativa all'esercizio del potere amministrativo e sindacato del giudice sul rispetto di tali limiti. Il terzo modello, sul quale varrà la pena di soffermarsi con maggior attenzione, è quello dell'integrazione-complementarietà (11) tra procedimento e processo sviluppato dalla dottrina italiana, 50 soprattutto nell'ultimo ventennio del secolo scorso, ma che trovava già una giustificazione proprio nella legge del 1989 istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato, laddove - all'articolo 16 diventato, poi, l'articolo 44 del testo unico oggi vigente - si configurava l'istruttoria nel processo come continuazione ed integrazione dell'istruttoria del procedimento: se la Sezione riconosce che l'istruttoria dell'affare è incompleta o che i fatti affermati nell'atto o provvedimento impugnato sono in contraddizione con i documenti, può richiedere all'Amministrazione nuovi schiarimenti o documenti oppure ordinare verificazioni. L'idea della complementarietà tra procedimento e processo, ha trovato impulso, appunto, negli ultimi decenni del '900, nella percezione, sempre più diffusa, dell'insufficienza della legge, in una società complessa nella quale si affermano, reclamano e trovano tutela dal potere politico interessi ed esigenze contrapposte, a governare l'assetto degli interessi nei singoli casi concreti. La legge evidenzia gli interessi (che reclamano e) meritano tutela e delega - si parla, appunto, di delega di potere politico l'amministrazione a determinare caso per caso la misura della protezione a ciascuno, a volte anche in contrapposizione agli altri, accordabile. Sempre più difficilmente la legge riesce, dunque, a determinare il «risultato» dell'esercizio del potere: a fronte di molteplici possibili assetti degli interessi, che il potere pubblico può nei singoli casi conformare, il legislatore disciplina il modo attraverso cui la selezione e comparazione degli interessi deve essere, legalmente, operata. L'interesse pubblico, che il provvedere amministrativo deve realizzare, non appare più un'entità a priori definita dal legislatore, ma il risultato, di volta in volta, di un processo di selezione e comparazione. È un interesse di sintesi. Il principio di legalità acquisisce il significato di una legalità procedimentale: di modo, cioè, attraverso cui il potere pubblico dev'essere esercitato. Non meraviglia affatto, in quest'ottica, che i titolari degli interessi, una volta chiaro che la misura della tutela si determina nell'attuazione, amministrativa, della disposizione legislativa, reclamino di essere parti di essa, del procedimento amministrativo appunto. Da qui la pretesa di partecipazione (12). Ricostruendo la vicenda, mi è parso di poter dire (13) che, dopo la l. n. 241, il principio di legalità si realizza non solo nell'autorizzazione legislativa all'esercizio del potere, ma nella disciplina, costituita da norme codificate e da alcuni principi sans texte, di conformazione del modo di esercizio del potere dell'Amministrazione al tipo di rapporto tra amministrazione e società che storicamente negli ultimi anni del 900, anche per vicende politiche giudiziarie note, si è realizzato. Il procedimento, dunque, come forma della funzione, come modo di esercizio, e insieme anche di legittimazione, del potere. L'idea del procedimento manifestazione della funzione, così come l'atto è manifestazione del risultato (14), apre alla prospettiva di un sindacato del giudice sul risultato attraverso il modo con cui ad esso si è giunti. Nella legalità procedimentale si afferma la convinzione che il modo di esercizio della funzione non è neutro, parendo presupposto per la piena realizzazione della democraticità dell'ordinamento, e dunque della legittimità del risultato dell'attuazione del potere nell'atto, la necessità della forma partecipata dell'istruttoria procedimentale. La complementarietà col processo di tale concezione del procedimento si coglie nella convinzione che la forma della funzione deve rendere percepibile e, quindi, sindacabile, l'esercizio del potere stesso. Il Consiglio di Stato appunto anche di recente ribadisce che la partecipazione procedimentale obbedisce all'esigenza di «assicurare piena visibilità all'azione amministrativa» (15); la Corte Costituzionale rileva che la tutela degli interessi legittimi nel processo amministrativo si realizza «attraverso una penetrante indagine sulle modalità con cui è stata condotta l'istruttoria nel procedimento» (16) in cui il potere è stato esercitato. Procedimento e processo sono necessariamente complementari se (o forse oggi bisognerebbe dire almeno quando) il principio di legalità si sostanzia non nella garanzia di un risultato nell'esercizio del potere ma nella disciplina del modo con cui il risultato deve essere definito. Dal punto di vista della tutela della situazione soggettiva del cittadino, l'idea della complementarietà tra 51 procedimento e processo porta a connotare l'interesse legittimo come situazione soggettiva legittimante (17) ad esercitare nel procedimento un'azione, strumentale alla tutela dell'interesse sostanziale, diretta, come ha ribadito la Cassazione nella sentenza 500 riecheggiando la nota definizione del Nigro (18), a influire sul corretto esercizio del potere in modo da rendere possibile la realizzazione dell'interesse al bene della vita e a provocare la verifica della legittimità del risultato nel processo. Per questo è parso anche di poter dire (19) che l'idea del Benvenuti del procedimento come epifania (20) della funzione, dal piano descrittivo passa a quello prescrittivo: il procedimento serve, rendendo percepibile l'iter del suo svolgimento, a rendere più penetrante anche il controllo dell'esercizio del potere. Sono questi concetti ancora utili per spiegare la realtà? Complementarietà o separatezza-alternatività tra procedimento e processo? 3. Preliminarmente ci si dovrebbe porre il problema se l'art. 21 octies è norma sul processo o sul procedimento. L'interrogativo non è di carattere meramente accademico - classificatorio perché dalla sua soluzione dipendono, nell'immediato, la delimitazione dell'ambito temporale di applicazione e, in prospettiva, il grado di resistenza della norma a modifiche di fonti legislative non statali. Come noto le disposizioni della l. n. 241 si applicano, per espressa previsione dell'art. 29, ai procedimenti che si svolgono nell'ambito delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali nonché, in conformità alla competenza riconosciuta alla legge statale dall'art. 117, comma 1, lettera l) della Costituzione, a tutte le amministrazioni pubbliche «per quanto stabilito in tema di giustizia amministrativa». Il riconoscimento del carattere di norma sul processo e sull'attività amministrativa giustiziale applicabile, cioè, avanti ai giudici amministrativi e nei ricorsi amministrativi esclude la possibilità di modifiche ad opera del legislatore regionale, invece, possibili qualora si pensasse che si tratta di norme del procedimento che le Regioni, ai sensi del comma 2 dell'art. 29 possono regolare «nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell'azione amministrativa così come definite dai principi della stessa legge 241» (21). Le garanzie del cittadino nei riguardi dell'azione amministrativa potrebbero portare un legislatore regionale, poco convinto della bontà, sul piano della politica del diritto, della dequotazione del vizio formale o procedimentale, all'abrogazione del secondo comma dell'art. 21 octies. La formulazione della disposizione fa pensare peraltro a norma di certo anche e probabilmente essenzialmente sul processo, che disciplina cioè poteri del giudice e non solo dell'amministrazione, con particolare riguardo a quella contenziosa. E questa pare la strada ora imboccata anche dal Consiglio di Stato (22) pur se un obiter dictum di una prima decisione (23) reputando inapplicabile l'art. 21 octies ai procedimenti conclusisi prima della sua entrata in vigore sembrava ricondurla, con l'implicito riferimento al tempus regit actum, alla disciplina del procedimento. È regola dunque (dei poteri del giudice) del processo che però investe insieme, ulteriore conferma della correlazione di cui si diceva, anche (la funzione de) il procedimento. 4. Occorre dunque analizzare come. Abbiamo prima ricordato l'idea del procedimento quale forma, modo dell'esercizio del potere amministrativo: ora per il legislatore, pur se sono violati procedimento e forma, quando il risultato non avrebbe potuto essere diverso, l'atto non va annullato; a fronte del silenzio dell'Amministrazione, ora la legge consente al cittadino di scegliere se insistere perché l'Amministrazione, svolgendo il necessario procedimento, si pronunci sulla sua istanza oppure se richiedere direttamente al giudice di accertarne la fondatezza. Per la verità, un segno di un cambiamento parrebbe cogliersi nelle prime pronunce giurisprudenziali: si afferma che «laddove la soddisfazione della pretesa del privato dipenda dal possesso di requisiti di cui il giudice può ictu oculi verificare la presenza,» non deve limitarsi «più a giudicare - secondo la tradizionale visione del processo amministrativo impugnatorio - della legittimità della determinazione amministrativa in relazione ai motivi di censura dedotti» giacché la «innovazione legislativa» è diretta 52 «secondo i principi di economia dei mezzi giuridici e di conservazione degli atti» a preservare «il provvedimento dall'annullamento, quando quest'ultimo è, comunque, idoneo al raggiungimento del suo scopo istituzionale» (24); con la conclusione che non è annullabile per difetto di motivazione un provvedimento di esclusione da una graduatoria concorsuale, quando dagli atti depositati in giudizio emerga che il soggetto escluso non possedeva comunque un necessario requisito (25), o un diniego di permesso di costruire, quando il giudice si convinca che comunque il progetto non è conforme al piano regolatore (26), parendo anzi «uno spreco di risorse pubbliche» imporre all'amministrazione» un riesame di un'istanza il cui esito non può che essere negativo» (27). 5. Certamente comunque il lento emergere della tendenza ad una maggiore attenzione agli aspetti sostanziali dell'agire amministrativo s'era già negli ultimi anni potuto cogliere. L'attenzione al procedimento è stata tipica di una certa forma di stato, essendo proprio la prevalenza delle norme di organizzazione su quelle di condotta parsa espressione della transizione dallo stato liberale classico allo stato sociale. Al punto che, come segnala la dottrina francese (28), si è passati da un'amministrazione di diritto a un'amministrazione di procedura. La disciplina dell'esercizio del potere che incide sulle situazioni giuridiche soggettive diventa rilevante nel momento in cui, si è sopra ricordato, la legge non riesce più a definire il contenuto della tutela delle situazioni stesse. Si disciplina il processo, non il risultato. Ma ciò non appaga né l'interesse sostanziale, al bene della vita, che il cittadino ritiene di poter rivendicare nei confronti della pubblica amministrazione - sia quando pretende uno svolgimento favorevole della funzione pubblica (esercizio di un potere o erogazione di utilità) sia quando si oppone ad una modificazione pregiudizievole della sua situazione soggettiva - e nemmeno l'interesse, pure esso sostanziale, della generalità al buon andamento dell'azione amministrativa. Da qui dunque, proprio negli ultimi anni (29), la valorizzazione del risultato dell'amministrare. Il processo di semplificazione (30) vuole migliorare le performances dell'amministrazione; tra queste si include non solo la rapidità della realizzazione (31), ma pure l'idea di rendimento, quasi in termini di bilancio costi (32) benefici, degli adempimenti procedimentali (33) ed anche la resistenza del risultato dell'attività amministrativa, del provvedimento, all'annullamento (basti pensare agli atti di aggiudicazione di importanti opere pubbliche). Con la conseguenza che a volte la saldezza del risultato acquisito diventa un fine cui sacrificare, quando si possa ritener conseguito un assetto soddisfacente, le forme (34), il modo cioè del suo conseguimento (35). Quella relazione tra atto e risultato, che nella prospettiva normologica tipica di una delle forme dello stato di diritto, era stato riassorbita (36) in quella atto norma (37), in una nuova attenzione al profilo teleologico dell'agire amministrativo riacquista vigore sul piano culturale e nuova rilevanza su quello giuridico. Ci si preoccupa, anche a volte a costo di limitare l'azione costitutiva, in sé demolitoria del risultato provvedimentale (38), che un prodotto difficile e costoso sia distrutto con troppa facilità (39) da una tutela processuale che, non di rado, pare risolversi in una sterile caccia all'errore nelle procedure amministrative (40). Va anche ricordato come il fenomeno della rimeditazione delle conseguenze dei vizi, cosiddetti formali, sugli atti amministrativi investa anche altri ordinamenti (41). La Germania, alla cui esperienza (42) si sono ispirate le proposte legislative che hanno portato alla formulazione dell'articolo 21 octies, dove già il paragrafo 46 della Legge sul Procedimento Amministrativo, dopo le modifiche intervenute nel 1996, prevede - salvi i casi di nullità - non possa chiedersi l'annullamento di un atto amministrativo per vizio di forma, procedura ed anche competenza territoriale quando risulti evidente che la violazione non abbia influito sulla decisione nel merito. Ma anche la Francia dove si segnala, nonostante il rigore formale del sindacato di excès de pouvoir, la tendenza a escludere, rifiutando gli eccessi del formalismo, effetti invalidanti a quelle violazioni di regole del procedimento che non abbiano avuto alcuna influenza sulla decisione presa e non abbiano privato gli interessati delle garanzie cui avevano diritto (43), cominciando a considerarsi non 53 annullabile un provvedimento che, a fronte di attività vincolata, era il solo adottabile e se annullato dovrebbe essere riemanato (44). 6. Una non frettolosa analisi rivela, invero, che il problema dei limiti alla caducazione di atti che abbiano conseguito lo scopo, ottenuto il risultato per dirla con linguaggio odierno, è stato in realtà dal giudice amministrativo da tempo avvertito. E in alcune fattispecie già risolto, a volte con espresso riferimento all'art. 156 c.p.c. (45), richiamando il «principio generale di diritto» secondo il quale «non può essere dichiarata l'invalidità di atti che, nonostante un vizio di forma, abbiano raggiunto il loro scopo» applicabile anche al procedimento amministrativo (46). In alcune materie, specialmente in quella elettorale (47), assai frequente è l'applicazione del principio della «strumentalità delle forme», ritenendosi che «tra tutte le possibili irregolarità solo quelle sostanziali, tali cioè da influire sulla sincerità e sulla libertà del voto», possano portare all'annullamento, quando «per la mancanza di elementi o requisiti di legge sia stato impedito il raggiungimento dello scopo al quale l'atto è prefigurato», non invece «quei vizi da cui non deriva alcun pregiudizio di livello garantistico o alcuna compressione della libera espressione del voto» (48). Anche al di fuori della materia elettorale, in genere, il principio è invocato per escludere che l'inosservanza di adempimenti formali previsti costituisca illegittimità dell'atto amministrativo. Occorre però approfondire l'indagine. In realtà, i due principi, della strumentalità delle forme e del raggiungimento dello scopo, non sono nei loro effetti sovrapponibili. Il primo, strumentalità delle forme, è invocato sul piano del diritto sostanziale per escludere l'effetto invalidante di omissioni, procedimentali o formali, che appaiono irrilevanti (49). Il principio del raggiungimento dello scopo, invece, per impedire, secondo quella che è la dizione letterale dell'art. 156 c.p.c., l'annullamento di atto che, pur (riconoscibile come) illegittimo, possa ritenersi, comunque, aver conseguito il risultato dalla legge previsto. In effetti il principio del raggiungimento dello scopo va al di là della definizione del, sempre incerto in verità, confine tra irregolarità, comunque irrilevante, e invalidità comunque sussistente, essendo diretto a precludere, per la preferenza accordata dall'ordinamento alla conservazione degli effetti, l'eliminazione (degli effetti) di un atto che consegue lo scopo cui le forme sono funzionali (50). Non incide sulla qualificazione della validità, essendo già accertata l'illegittimità, ma sulla rilevanza giuridica in concreto quando l'indagine operata ex post dal giudice verifichi che, nel caso, lo scopo che, con l'(attuazione del potere amministrativo nell') atto, l'ordinamento mirava a conseguire è stato raggiunto. 7. La figura dell'irregolarità, di derivazione giurisprudenziale e di assai difficoltosa sistematizzazione dogmatica, è servita a raccogliere con una denominazione unitaria una serie di fattispecie nelle quali la deviazione, pacifica, dal parametro legale appariva del tutto innocua (51), tale da non giustificare mai, anche ad un giudizio ex ante, la sanzione dell'eliminazione dell'atto e dei suoi effetti (52). La costruzione si è sviluppata quando, come ha rilevato la dottrina (53), anche una nuova attenzione al fine, col passaggio da un ambiente culturale dominato del giusformalismo a una più attento ad approcci assiologici allo studio della norma - e dunque degli effetti della sua violazione - ha sostituito al postulato dell'eguale rilevanza dei vizi (giustificato dall'idea che essendo tutte le norme attinenti all'esercizio dei poteri amministrativi eguali ogni loro violazione implica comunque l'illegittimità) la convinzione delle necessità di un'analisi caso per caso della, diversa, loro rilevanza in funzione della ratio della norma violata. Così, fin dagli anni '30 del secolo scorso, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che «non qualsiasi più lieve irregolarità formale di un atto amministrativo può costituire illegittimità ai fini dell'annullamento ma solo quelle che abbiano una qualche correlazione o influenza sul procedimento logico e determinativo che a quel provvedimento ha portato» (54). Con ciò già dunque ponendosi una correlazione, ai fini dell'annullamento, tra vizio e, allora in una prospettiva soggettivistica dell'atto amministrativo, volontà che esso esprime, oggi, in una prospettiva oggettiva dell'atto come attuazione del potere, tra vizio e contenuto dispositivo. 54 Analizzando la casistica nel tempo ordinata dalla dottrina sulla base degli orientamenti della giurisprudenza si rinvengono situazioni in sé diverse. Alcune riguardano vicende che non attengono all'attuazione del potere, alla scelta dell'amministrazione, ma per così dire alla confezione dell'atto (55), altre invece che più direttamente riguardano le regole dell'esercizio del potere (56). Si tratta di figure disparate individuate col tempo sulla base di un giudizio sostanzialmente di sproporzione tra la difformità dallo schema normativo, veniale e ininfluente sull'effetto dell'atto, e le conseguenze dell'annullamento, necessitata conseguenza del riconoscimento dell'invalidità, che tale effetto finirebbe per travolgere o se si vuole, come ha rilevato la dottrina (57), la sproporzione tra il bisogno di tutela del privato e lo strumento processuale dell'annullamento di un atto a fronte di una difformità sempre innocua. Se ne è, a volte, cercata la spiegazione, nella prospettiva del privato ricorrente, nella carenza di interesse a ricorrere per una difformità dallo schema normativo che appare ininfluente rispetto all'esito del procedimento (58). È stata peraltro criticata (59) l'eccessiva dilatazione del concetto di interesse al ricorso. E del resto la giurisprudenza ha sempre ritenuto che l'interesse al ricorso vada verificato con riferimento alla domanda del ricorrente indipendentemente dall'utilità diretta che gliene possa derivare essendo sufficiente l'interesse a provocare comunque un nuovo, anche eventuale, provvedimento (60). Occorre, piuttosto, affermare che non sono invalidanti quelle difformità dal parametro normativo che sono comunque sempre ininfluenti sugli effetti dell'esercizio del potere. Del resto, ora la nuova previsione legislativa dell'art. 21 octies induce a porre l'attenzione su (il modo de) l'esercizio del potere in relazione ai suoi effetti. 8. Il tentativo di ricostruzione di un nuovo modello esplicativo non sembra possa essere imperniato ancora sull'interesse del ricorrente, che con la domanda di accoglimento del ricorso persegue comunque un'utilità strumentale lasciando l'annullamento aperta la vicenda, come dispone l'art. 45 del testo unico del Consiglio di Stato, agli «ulteriori provvedimenti dell'autorità amministrativa». La prospettiva, di cui va certo verificata la compatibilità con gli artt. 24 e 113 Cost., è quella che guarda alla vicenda di attuazione del potere amministrativo i cui effetti non si ritiene ragionevole (61) possano essere vanificati da un vizio, una difformità dalla schema normativo, non determinante per l'esito: il vizio del procedimento o dell'atto non vizia l'effetto se questo è comunque conforme alla legge. Ancora, si può pensare, il giudice non annulla l'atto, con demolizione dell'effetto e con rinvio della vicenda in sede amministrativa, quando gli «ulteriori provvedimenti» non potrebbero portare a un atto di contenuto diverso e quindi a un effetto diverso. E ciò, in questa prospettiva, per un evidente principio di economicità (62) dell'azione amministrativa, di buon andamento dunque. Del resto è comunque la legge, ex art. 113, comma 3 della Costituzione, a dover determinare i «casi» e gli «effetti» dell'annullamento di atti amministrativi da parte degli organi giurisdizionali. La categoria dell'illegittimità, come del resto rileva la dottrina (63), si caratterizza per la conseguenza dell'annullabilità come rimozione dell'atto perché il suo effetto lede un interesse (64) tutelato dall'ordinamento. La non annullabilità di atti, la cui forma o il cui procedimento sia difforme dal parametro normativo, quando il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso evidenzia che l'interesse tutelato è quello della corrispondenza degli effetti dell'azione amministrativa alla legge, non un interesse alla regolarità formale e procedimentale astratta dal contenuto dispositivo dell'atto. L'atto è invalido, e ciò distingue l'ipotesi dalla mera irregolarità che riguarda quelle fattispecie di difformità che essendo comunque irrilevanti per il contenuto del provvedimento non invalidano l'atto, ma non annullabile perché, nel caso concreto, il suo contenuto non poteva essere diverso, l'effetto corrisponde a quello previsto dalla legge e dunque l'attuazione del potere ha conseguito lo scopo per cui il potere è dato. 9. Nella prospettiva del procedimento, delle sue regole e delle conseguenze della violazione di esse, va, a verifica del risultato raggiunto in ordine alle conseguenze del vizio di legittimità sugli effetti dell'atto, ricordato che, dal punto di vista strutturale, il procedimento è stato, nella sue prime elaborazioni 55 organiche (65), costruito sul modello delle fattispecie a formazione progressiva, proprio per spiegare un effetto giuridico che deriva non da un atto ma da un «concorso di eventi e circostanze» dalla cui «coesistenza e dal cui sistema di coordinazione» (66) l'ordinamento fa derivare appunto un determinato effetto. Sul piano funzionale (67) il procedimento, la serie di atti e attività, trova la sua giustificazione nell'esigenza che l'effetto sia conforme alla previsione legislativa. Ora, come sopra si rilevava, quando la previsione legislativa evidenzia gli interessi rilevanti demandandone all'amministrazione la selezione e la sintesi, la disciplina del procedimento pone in sé la regola dell'azione amministrativa, costituendo la legalità del procedimento la legittimazione dell'esercizio del potere. Allorché la scelta degli interessi è operata direttamente dal legislatore, il procedimento è lo strumento che garantisce la conformità (del contenuto dell'effetto) alla previsione legislativa. Mentre nel primo caso la legalità procedimentale è un fine, costituendo la garanzia di legalità legittimante l'esercizio del potere discrezionale, nel secondo è un mezzo per la conformazione dell'effetto al vincolo derivante dalla legge. Il che spiega la ragione per cui, quando risulti, in via amministrativa o giurisdizionale, accertabile che l'effetto del (contenuto dispositivo del) provvedimento è conforme alla previsione legislativa, esso non è rimuovibile per difformità, della forma dell'atto o del procedimento di emanazione, dalla previsione legislativa. Del resto, si è rilevato, proprio la percezione del provvedimento come misura di composizione degli interessi (68) ha portato a superare quella concezione gradualista nella produzione giuridica che inevitabilmente portava a considerare ogni difformità dal parametro normativo in sé ragione di interruzione della legittimità dell'effetto (69). Può, dunque, ritenersi che l'interesse, strumentale, a provocare l'annullamento dell'atto sia idoneo a legittimare al ricorso quando, anche se non connesso a una tutela diretta, sostanziale, dell'interesse del ricorrente, porti comunque ad una ripetizione del procedimento da cui possa derivare una diversa configurazione dell'assetto degli interessi, potenzialmente più favorevole al ricorrente, non quando comunque l'esito non possa essere diverso. E con ciò sembra davvero che il paradigma sia cambiato. 10. A cominciare dal rapporto tra procedimento e processo. L'art. 21 octies configura due fattispecie di non annullabilità: la non annullabilità, nonostante la violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, dei provvedimenti a «natura vincolata» quando sia palese che il «contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello, in concreto, adottato», la non annullabilità «comunque» - e quindi, è logico pensare, anche di atti non vincolati - per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento, qualora l'Amministrazione dimostri in giudizio che «il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello, in concreto, adottato». Ma come si determina la coerenza, per il risultato del potere amministrativo, tra essere e dover essere? Quando la forma continua a essere sorella gemella della libertà (70) e quando invece diviene ostacolo ad essa? In realtà, nonostante quel cambio di sensibilità sopra ricordato che ha portato negli ultimi anni all'attenzione il problema del risultato dell'Amministrazione, e dei suoi dirigenti, si è ancora alla ricerca dei canoni di validazione dei risultati (71) e ciò sia in re-lazione ai criteri di misurazione, quanti e qualitativa, del prodotto, per cosi dire aggregato, complessivo, degli apparati amministrativi sia, quel che qui interessa, per la individuazione dei parametri di riscontro del giusto assetto, caso per caso, degli interessi, pubblici e privati, oggetto dell'esercizio della funzione amministrativa. In particolare, si può verificare il giusto risultato a prescindere dal modo con cui l'amministrazione lo ha determinato? Si può valutare meritevole di conservazione un atto amministrativo a prescindere dalla sua legalità procedimentale? (72). Il legislatore, questo è un dato, risponde affermativamente. E tale risposta, trova una sua coerenza 56 (interna al sistema legislativo anche se ovviamente opinabile) nella previsione che ora, in caso di inerzia dell'amministrazione, contempla la possibilità di una diretta determinazione ad opera del giudice del risultato della funzione con l'accertamento della fondatezza (73) della pretesa (74). Le previsioni dell'articolo 21 octies e del novellato art. 2 della l. n. 241 si giustificano con l'idea della possibilità di verifica, almeno in alcune situazioni, nel processo della bontà del risultato dell'esercizio del potere amministrativo. Pare, dunque, il legislatore ritenere fungibile, per la verifica della conformità dell'azione amministrativa a un (dalla legge pre)determinato risultato, il processo al procedimento, il giudice all'amministrazione. Con la conseguenza che la violazione del procedimento da vizio in sé diviene, come è stato efficacemente rilevato (75), sintomo di una possibile anomalia del contenuto del provvedimento la cui esistenza il giudice è chiamato a verificare. Con una differenza peraltro rispetto al tradizionale sindacato dell'eccesso di potere: mentre in questo il sintomo in sé è ragione di annullamento senza la considerazione del contenuto dell'atto, nel caso di vizio di forma o procedimento di atti vincolati il giudice deve verificarne l'incidenza sul contenuto dispositivo del provvedimento. Per non dover ritenere la convinzione del legislatore avventata, dobbiamo presupporre che, anche forse per l'estensione dei poteri istruttori nel processo con l'introduzione, oltre le verificazioni, della consulenza tecnica (76), il giudice sia in grado di conoscere il fatto dalla legge assunto a presupposto per un determinato provvedimento, o meglio di un determinato effetto; non pare proponibile l'idea di una valutazione della giustizia del risultato al di fuori di una previsione legislativa. Se il risultato dell'attuazione del potere trova già nella legge la sua definizione e la vicenda (dell'attuazione del potere) è pienamente conoscibile dal giudice, il processo offre direttamente una garanzia, pare la convinzione che ispira la recente riforma, migliore o comunque succedanea rispetto al procedimento. Ma appunto il problema è a monte, nella capacità della norma di definire il risultato dell'esercizio del potere, di preconformare, a fronte della previsione di una determinata situazione di fatto, l'assetto degli interessi. Nei limiti in cui ciò è possibile può il giudice, conosciuto il fatto, accertare se il risultato dell'esercizio del potere corrisponde al disposto legislativo. In fondo può anche non considerarsi questa una novità. All'entrata in vigore della l. n. 241 già la giurisprudenza affermava che «la violazione delle norme procedimentali (che non siano, naturalmente, quelle relative alle competenze ed agli interventi dei vari organi) in tanto producono l'illegittimità del provvedimento finale, in quanto producano lesione degli interessi sostanziali, alla tutela dei quali la disciplina del procedimento e del provvedimento è preordinata» (77). E si sostiene ora (78) che, anche sul punto, il legislatore ha, di fatto, codificato l'orientamento alla fine prevalente della giurisprudenza amministrativa. Il che impone di chiedersi quale sia oggi la funzione del procedimento in relazione al risultato dell'esercizio del potere amministrativo, l'algoritmo del rapporto tra legge, risultato dell'azione e sindacato del giudice. Le discussioni, dottrinali (79) e giurisprudenziali, sull'estensione dell'obbligo di comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento hanno offerto l'occasione di definire, con il ruolo riconosciuto in esso alla partecipazione, la funzione del procedimento. Ed è questo il dato da cui muovere. Il senso della partecipazione al procedimento viene colto in una «duplice chiave difensiva e collaborativa» (80), rinvenendosi la ratio dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento nella «duplice esigenza, da un lato, di porre i destinatari dell'azione amministrativa in grado di far valere i propri diritti di accesso e di partecipazione e, dall'altro, di consentire all'amministrazione di meglio comparare gli interessi coinvolti e di meglio perseguire l'interesse pubblico principale, a fronte degli altri interessi pubblici e privati eventualmente coinvolti» (81). In questo orientamento si può trovare la sedimentazione di un lungo dibattito sulla funzione dell'intervento del privato nel procedimento che, iniziato 80 anni or sono con la codificazione della legge austriaca, del 1925, sul procedimento amministrativo, ispirata anche per la sua derivazione dagli 57 orientamenti del Tribunale di Vienna, all'idea di uno strumento di difesa del cittadino nei confronti del potere dell'amministrazione, ha visto, con la migrazione del modello in altri ordinamenti, in Cecoslovacchia prima in Polonia e nel Regno d'Jugoslavia poi e l'avvento dei regimi comunisti, emergere pian piano la convinzione che una legge sul procedimento dovesse servire non tanto alla tutela del singolo nei confronti della Pubblica Amministrazione, ma all'interesse, generale, al miglior esercizio delle funzioni pubbliche (82). Il procedimento comincia a venir percepito come lo strumento che consente all'amministrazione, come voleva la dottrina francese (83), di mettersi nella condizione migliore per ben decidere nei molteplici casi concreti. E ciò soprattutto quando la decisione migliore non sia definita, in modo palese verrebbe da dire, dal legislatore. In quest'ottica, si spiega anche l'orientamento secondo cui l'obbligo della comunicazione di avvio del procedimento «non può essere applicato meccanicamente e formalisticamente» (84) dovendosi ritenere sussistente solo quando, «in relazione alle ragioni che giustificano l'adozione del provvedimento ed a qualsiasi altro possibile profilo, la comunicazione stessa porti una qualche utilità all'azione amministrativa affinché questa, sul piano del merito e della legittimità, riceva arricchimento dalla partecipazione del destinatario del provvedimento», venendo invece meno, «in mancanza di tali utilità... l'obbligo della comunicazione» (85). Sulla base di tali premesse, la giurisprudenza, sempre facendo una ricognizione di massime immediatamente precedenti l'entrata in vigore della l. n. 15, era arrivata alla conclusione che la comunicazione di avvio del procedimento è «superflua, nel caso in cui l'adozione del provvedimento finale è doverosa per l'Amministrazione (oltre che vincolata), quando i presupposti fattuali risultano assolutamente incontestati dalle parti, quando il quadro normativo di riferimento non presenta margine di incertezza sufficientemente apprezzabile, oppure se l'eventuale annullamento del provvedimento finale per accertata violazione dell'obbligo formale di comunicazione non priva l'Amministrazione del potere (od addirittura del dovere) di adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto (anche in relazione a decorrenza dei suoi effetti giuridici)» (86). Pur se, in effetti, il panorama della giurisprudenza si presentava variegato, poteva, già prima dell'intervento del legislatore, ritenersi ormai prevalente l'orientamento che escludeva la necessità dell'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento «in presenza di atti vincolati che non richiedono un accertamento dei presupposti di fatto (87) o di diritto (88), quando la partecipazione dell'interessato non avrebbe potuto apportare elementi di valutazione, eventualmente idonei, da influire, in termini a lui favorevoli, sul provvedimento finale (89), quando il soggetto interessato abbia conosciuto o abbia potuto conoscere ... senza diretta e personale comunicazione, un determinato atto o progetto, o sia stato in condizione di conoscerlo» (90), o, comunque, allorché ne sia accertabile in giudizio la superfluità, in quanto il provvedimento adottato non potrebbe essere diverso anche osservando la relativa formalità (91). E così, nel gennaio 2005, prima dell'entrata in vigore della l. n. 15, già si afferma (92) che, non integrando la comunicazione di avvio del procedimento «un obbligo di natura formale essendo preordinata, non solo a un ruolo difensivo, ma anche alla formazione di una più completa, meditata e razionale volontà dell'Amministrazione», non è, in mancanza di essa, viziato il provvedimento, quando «il ricorrente non censura con dati reali la coerenza, logicità, completezza, adeguatezza e ponderazione dell'azione amministrativa, né dimostra che egli sarebbe stato in grado di fornire elementi di conoscenza e giudizi tali, secondo un giudizio a posteriori, di conformare diversamente le scelte dell'Amministrazione». Com'è noto, l'attribuzione all'interessato dell'onere della prova della potenziale utilità della partecipazione, chiedendo questo indirizzo giurisprudenziale al privato ricorrente di «provare che, ove avesse potuto tempestivamente partecipare al procedimento stesso avrebbe potuto presentare osservazioni e opposizioni connotate dalla ragionevole possibilità di avere un'incidenza causale sul provvedimento terminale» (93), è stato contrastato in giurisprudenza (94) ed in dottrina (95). Ed è significativa la scelta del legislatore di porre all'Amministrazione l'onere di provare in giudizio 58 che il contenuto nel provvedimento non avrebbe «potuto essere diverso da quello, in concreto, adottato». Volendo trarre una prima conclusione, è certo confermata l'idea che il procedimento, ed anche l'intervento del privato destinatario (degli effetti), serve, soprattutto par di poter dire, a ponderare gli interessi rilevanti per l'esercizio del potere discrezionale e, per l'attività vincolata, ad accertare il fatto presupposto per l'esercizio del potere. 11. Per delinearne i rapporti col processo occorre ritornare alla formulazione del secondo comma dell'articolo 21. In caso di vizio formale o procedimentale, diverso dall'omissione della comunicazione dell'avvio del procedimento, il fatto, - perché processualmente, anche ai fini della prova di un fatto si tratta - che il contenuto del provvedimento non possa essere diverso, deve risultare, «palese». È lo stesso aggettivo usato dal legislatore per porre la regola di interpretazione nel caso utilizzabile. Se, secondo la norma ermeneutica dell'articolo 12 delle preleggi, dobbiamo attribuire alla disposizione «il senso fatto palese dal significato proprio delle parole», palese, nella sua derivazione etimologica da palam, manifestamente, significa noto al pubblico, quindi di evidenza immediata, da non richiedere alcuna indagine per il suo accertamento. Se invece dovessimo attribuire ad esso il significato di «evidente» com'è letto dalla giurisprudenza tedesca l'evidente del paragrafo 46 (96) della legge sul procedimento, nel senso che da qualunque parte si guardi la questione emerge con certezza che, anche in assenza del vizio, l'amministrazione non avrebbe potuto decidere diversamente, si legittimerebbe un'istruttoria processuale anche complessa purché porti ad un risultato univoco, evidente dunque. In realtà proprio le due diverse locuzioni usate dal legislatore - il dover per l'attività vincolata risultare palese che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso, mentre, in caso di omessa comunicazione di avvio del procedimento, tale fatto può essere provato dall'amministrazione - induce ad attribuire alla prima fattispecie il significato letterale del termine: palese conoscibile senza necessità di specifica indagine. Ma conoscibile attraverso gli atti del procedimento (97) o anche al di fuori di esso? Indagine di fatto o di diritto? Se si muove dall'idea, nella sua prospettazione generale condivisa anche se poi sulla casistica non esiste sempre concordia di opinione, che l'attività è vincolata quando una sola determinazione corrisponde al legittimo esercizio della potestà, senza possibilità di scelta per l'amministrazione fra soluzioni diverse pur tutte non in contrasto con la previsione legislativa (98), si deve convenire anche che per essa l'esercizio del potere si realizza attraverso i due momenti della interpretazione della norma (la fattispecie astratta) e dell'accertamento del fatto (la fattispecie concreta), senza alcuna valutazione comparativa di interessi. Così la verifica giurisdizionale opera attraverso la ricostruzione del processo di interpretazione e dell'analisi del fatto. Ora non c'è dubbio che il giudice amministrativo sia oggi, soprattutto dopo l'estensione dei poteri istruttori con l'introduzione, almeno come previsione astratta anche se non frequente applicazione concreta, della consulenza tecnica, giudice del fatto e non più solo della correttezza logica della sua rappresentazione nell'atto. Nella prospettiva del sindacato introdotto dalla legge del 1889 al giudice amministrativo era affidato di verificare se i fatti affermati nell'atto o provvedimento impugnato fossero in contrasto con i documenti: il travisamento come vizio logico interno al procedimento non della difformità dell'istruttoria procedimentale dalla realtà effettuale. In coerenza con l'evoluzione del (ruolo dell'istruttoria nel) processo deve ritenersi che l'amministrazione possa provare in giudizio, anche se non in precedenza introdotto nel procedimento, il fatto che rende palese che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso. Ma ciò possiamo ritenere anche per quei fatti che la dottrina (99) qualifica complessi appunto perché il loro accertamento, a differenza di quello dei fatti semplici, non richiede solo un giudizio di sussistenza insussistenza, ma anche valutazioni tecniche, che possono anche portare a conclusioni non 59 deterministicamente univoche pur se verificabili dal giudice attraverso una consulenza tecnica? Una tale soluzione, di per sé non incompatibile col principio della separazione dei poteri dato che il presupposto dell'attività vincolata è l'assenza di scelta amministrativa - risultando univoco il contenuto dispositivo dell'atto (dalla legge imposto) in relazione alla sussistenza del fatto -, non pare coerente peraltro con la formulazione dell'art. 21 octies che richiede sia palese, noto senza necessità di indagine (100), che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso. Più delicata la questione dei limiti del potere di ricostruzione della fattispecie normativa. Il vecchio broccardo iura novit curia, che farebbe pensare alla possibilità sempre del giudice di dare la propria interpretazione alla norma, deve tener conto delle complesse operazioni di definizione nei singoli casi dei concetti giuridici indeterminati; pur se, anche da noi (101), le discussioni sono aperte (102), si tratta comunque di operazione ermeneutica, diversa dall'esercizio della discrezionalità amministrativa, riconducibile al momento della ricostruzione della fattispecie normativa in relazione alla fattispecie concreta e dunque alla funzione del giudice. Occorre poi chiedersi quali vizi del procedimento possono essere superati in giudizio quando il contenuto dispositivo appaia comunque conforme alla legge. La soluzione non può, anche in proposito, prescindere da un'analisi del ruolo nel singolo procedimento dei diversi elementi della serie procedimentale. A fronte, peraltro, di attività vincolata, non rilevando in tal caso per l'attuazione del potere una selezione, ponderazione e comparazione di interessi, vengono in rilievo le regole dell'istruttoria per l'accertamento del fatto. Il mancato compimento di una verificazione tecnica (103) o la mancata acquisizione di un parere di un organo tecnico quando comunque risulti in giudizio sussistente il fatto presupposto (104) e non ne sia contestabile la qualificazione, paiono vizi superabili dall'accertamento in giudizio del fatto da cui si desume, a fronte di una definizione legislativa del contenuto del provvedere, che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso. La casistica potrebbe essere ampia e comunque riconducibile, data la funzione del procedimento nell'attuazione di un potere vincolato, al difetto di istruttoria. Ove il fatto presupposto emerga palese in giudizio, il difetto del procedimento non è ragion sufficiente per l'annullamento: l'istruttoria del processo surroga quella del procedimento. 12. Prima di arrivare all'ulteriore, sequenziale, conclusione che dunque il processo assorbe il procedimento, analizziamo l'altra ipotesi normativa del 21 octies: non è «comunque» annullabile il provvedimento per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione «dimostri in giudizio» che il contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il «comunque» fa innanzi tutto pensare che la disposizione non sia riferibile solo all'attività vincolata (105) ma anche a quella discrezionale. Non è poi necessario risulti «palese» che il contenuto non avrebbe potuto essere diverso potendo la circostanza essere oggetto di prova nel giudizio. Di prova (106) o di domanda? Un primo orientamento giurisprudenziale (107) ha ritenuto necessaria, per la verifica in giudizio dell'ininfluenza della partecipazione del privato sul contenuto dispositivo del provvedimento, la formulazione da parte dell'amministrazione di una specifica domanda, una sorta di richiesta «riconvenzionale» ampliativa del «thema decidendum», essendo altrimenti il giudice «vincolato dal petitum di annullamento». In questa prospettiva si dovrebbe, forse, meglio considerare domanda incidentale (108), che ampliando il thema decidendum dovrebbe essere notificata alle parti. Ma è forse più lineare considerare la prova che il contenuto dell'atto non sarebbe stato diverso, quale eccezione, rispetto all'accoglibilità della domanda di annullamento, il petitum del giudizio. Eccezione, secondo la previsione dell'articolo 2697 del codice civile, dell'inefficacia del fatto, vizio dedotto dal ricorrente, a conseguire la richiesta pronuncia. In quest'ottica potrebbe forse ritenersi che, pur se la legge demanda all'amministrazione la dimostrazione in giudizio che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in 60 concreto adottato, l'eccezione possa essere introdotta anche dal controinteressato, non potendo l'annullamento essere rimesso al comportamento processuale dell'amministrazione. È pur vero che, a fronte di un'attività discrezionale può trattarsi di probatio diabolica per le stesse ragioni per cui si è sempre esclusa la possibilità, ad esempio, dell'acquisizione postuma, con effetto sanante, di una parere omesso: se la partecipazione procedimentale è, a fronte di attività discrezionale, funzionale (non solo all'accertamento dei fatti ma anche) alla ricognizione e ponderazione degli interessi, pare difficile ex post dimostrare che tale apporto comunque sarebbe stato irrilevante ai fini della decisione. Ma se, ad esempio, l'amministrazione provasse, con il deposito in giudizio dei provvedimenti e degli atti dei relativi procedimenti, che in altri casi analoghi l'esercizio della scelta discrezionale ha portato a provvedimenti di identico contenuto? Che un atto di indirizzo orienta la scelta discrezionale di gestione nel senso di attribuire prevalente rilevanza alla tutela prioritaria di alcuni interessi sicché il contenuto dell'atto discrezionale, coerente con l'indirizzo, è quello in concreto, pur senza partecipazione procedimentale, emanato? Può il giudizio verificare se la partecipazione del destinatario dell'atto al procedimento avrebbe potuto apportare elementi a dimostrazione che la situazione nel caso era diversa da quelle già decise dall'amministrazione o che l'atto di indirizzo non era riferibile al caso specifico? Se si pensa che così possa essere, si dovrebbe concludere che il contraddittorio processuale può surrogare la partecipazione procedimentale. Forse a maggior ragione ora che, come sopra ricordato, dopo la riformulazione dell'art. 2 della l. n. 241 operata dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, in caso di silenzio dell'amministrazione il «giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell'istanza», restando comunque «salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento, ove ne ricorrono i presupposti». Decorso il termine per provvedere il titolare dell'interesse può dunque scegliere se, senza più necessità di diffida, chiedere direttamente al giudice di accertare il fondamento della sua pretesa all'emanazione di un provvedimento con un determinato contenuto oppure richiedere nuovamente all'amministrazione di attivare il procedimento amministrativo: può optare tra tutela procedimentale o processuale (ovviamente quando il contenuto del provvedimento sia vincolato in presenza di presupposti di fatto se semplici o complessi nessun indizio nel caso il legislatore offre - non quando abbia carattere discrezionale). 13. Sono cambiati i paradigmi? Certamente no per l'attività discrezionale. Anzi la previsione dell'obbligo per il responsabile del procedimento di comunicare agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda, valorizzando ulteriormente il contraddittorio procedimentale, sembra rispondente all'idea di precostituzione nel procedimento degli elementi di valutazione, anche nel e per il processo, della legittimità dell'esercizio del potere discrezionale. E l'interesse legittimo resta pretesa alla legalità dell'esercizio del potere Ma, forse, il paradigma è in mutazione per l'attività vincolata, di cui l'articolo 21 octies legittima l'utilizzo come categoria concettuale (109) e insieme offre la definizione: quella di cui è possibile la verifica, anche da parte del giudice, della conformità del contenuto dispositivo del provvedimento alla previsione legislativa. Per essa il modello del rapporto tra procedimento e processo pare tornato quello, da un lato, della separatezza-indifferenza: nel senso che l'ordinamento guarda al risultato della funzione non al modo del suo esercizio. Se il risultato può ritenersi realizzato, il come diviene recessivo; oggetto del sindacato del giudice è la verifica della conformità alla legge del «contenuto dispositivo» dell'atto non del procedimento. Emerge una nuova alternatività tra procedimento e processo: non nel senso, conosciuto nel passato da altri ordinamenti, dello sviluppo di una forte tutela procedimentale degli interessi a fronte di una più timida garanzia processuale ma, per l'attività vincolata, della sostituzione del processo al procedimento, 61 col rischio, come ha rilevato la dottrina tedesca (110), che il secondo sia la officina di riparazione del primo. Il contraddittorio nel processo sostituisce la mancanza di contraddittorio nel procedimento (111). Trova conferma il fenomeno, già avvertito (112), per cui il giudice amministrativo è più sensibile agli aspetti formali, del procedimento e dell'atto, laddove più debole risulta il sindacato sul merito del provvedimento, mentre tali aspetti vengono sfumati quando, e l'attività vincolata ne costituisce per certi aspetti il paradigma, più penetrante può essere la verifica della conformità alla legge del risultato. È compatibile un tale assetto oggi con la tutela costituzionale dell'interesse legittimo non limitabile a particolari mezzi di impugnazione o a particolari categorie di atti? Forse sì, se attribuiamo alla situazione soggettiva contenuto, sostanziale, di pretesa al risultato dell'esercizio del potere, a che il contenuto dispositivo dell'atto sia conforme alla previsione legislativa. L'interesse legittimo, a fronte di attività vincolata, sembra destinato a perdere i caratteri della situazione strumentale per puntare a una tutela sostanziale, risarcibile non sul piano scivoloso della perdita di chances o della responsabilità da contatto (113) ma per ristorare la perdita di quelle utilità a risultato dall'ordinamento, in presenza di determinati presupposti, garantito. Possiamo aggiungere l'interesse legittimo all'elenco degli organismi geneticamente modificati o chiederci se, a fronte di attività vincolata i cui presupposti siano accertabili univocamente dal giudice, non si trasmuti in diritto soggettivo? Occorre forse riconsiderare quell'idea, abbandonata dalla metà dello scorso secolo, che riteneva configurabile l'interesse legittimo solo a fronte di un'attività discrezionale (114). L'orientamento, consolidato in dottrina (115) e in giurisprudenza (116) che «anche a fronte di attività connotate dall'assenza di margini di discrezionalità valutativa o tecnica occorre aver riguardo, in sede di verifica della natura della corrispondente posizione soggettiva del privato, alla finalità perseguita dalla norma primaria» con la conseguenza che, quando «l'attività amministrativa, ancorché a carattere vincolato, tuteli in via diretta l'interesse pubblico, la situazione vantata dal privato non può che essere protetta in via mediata, così assumendo consistenza di interesse legittimo» (117), va forse rimeditato dopo la codificazione del principio che comunque il giudice è chiamato, dal privato interessato, a verificare nel processo se il contenuto dispositivo del provvedimento sia conforme alla previsione legislativa. Viene meno, a fronte di attività vincolata (118), la tutela, indiretta, con l'annullamento del provvedimento per vizi che non incidano sul contenuto dispositivo. Quando (si ritenga possibile che) la legge prefiguri già il risultato dell'attività amministrativa e il giudice verifichi la conformità dell'assetto degli interessi definito, nel caso concreto, dal provvedimento alla previsione legislativa, è ancora possibile parlare di tutela dell'interesse (119) al legittimo (modo di) eserci-zio del potere amministrativo o bisogna pensare alla tutela della pretesa a vedere garantito dal giudice il risultato? La discussione dottrinale (120) se a caratterizzare la situazione del privato in termini di interesse legittimo sia sufficiente l'attribuzione all'amministrazione del potere di produrre unilateralmente effetti giuridici o sia necessario anche che questi effetti siano innovativi, non predefiniti cioè dalla norma (121), potrebbe trovare sul piano legislativo soluzione almeno per quell'attività vincolata per la quale è al giudice riconosciuta la possibilità di diretta verifica del risultato dell'attività amministrativa. Ciò si realizza quando il giudice può superare i vizi di forma e di procedimento per sindacare direttamente il contenuto dispositivo del provvedimento. In questa prospettiva si dovrebbe porre anche qualche interrogativo sulla giurisdizione. Ragionandosi di paradigmi, pare invero ancora solido, rafforzato anche dalla più recente giurisprudenza costituzionale, quello che vuole il giudice amministrativo giudice dell'esercizio del potere amministrativo, indipendentemente dal carattere discrezionale o vincolato. Del resto si nota che i paradigmi non mutano il più delle volte all'improvviso (122), vengono col tempo abbandonati quando non sono più idonei a spiegare nuovi fenomeni. Ora il riconoscimento della giurisdizione del giudice ordinario in caso di attività vincolata incontrerebbe ancora forti e, tutto 62 sommato, prevalenti controindicazioni (123), sopra tutte quella di attribuire una tutela costitutiva, di annullamento di atti amministrativi, al giudice ordinario (124). Anche perché, se per l'attività vincolata il processo sostituisce il procedimento, non va dimenticato che, sempre, giudicare l'amministrazione è amministrare. E il giudice amministrativo di ciò è costituzionalmente consapevole. Note: (*) Relazione al Convegno La giustizia amministrativa in trasformazione. Giornate in ricordo di Sebastiano Cassarino, Verona 21-22 ottobre 2005. (1) Introdotto dall'articolo 14 della l. 11 febbraio 2005, n. 15. (2) Modificato da ultimo, almeno per ora, dal comma 6 bis dell'articolo 3 della l. 14 maggio 2005, n. 80, di conversione con modifiche del d.l. 14 maggio 2005, n. 35. (3) La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, 1999, 65 ss.; per Kuhn i paradigmi sono le illustrazioni delle teorie comunemente accettate dalla comunità scientifica, proposte nei manuali e nelle lezioni universitarie per far imparare il mestiere a quanti aspirano a diventar membri della comunità stessa. (4) Parti e interessi tra procedimento e processo, in questa Rivista, 1998, 48 ss. (5) Che così sia lo riconosce il legislatore con la previsione, disciplinando la conferenza di servizi, della sua convocazione «anche per l'esame contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesimi attività o risultati» (art. 14 l. 241). Conferma non solo che una medesima attività può essere costituita da un insieme di procedimenti ma pure, e su questo aspetto si dovrà tornare nel testo, che l'azione amministrativa nel suo complesso, anche come insieme di procedimenti, può essere colta in relazione al suo risultato. (6) A conferma, per l'esigenza di anticipazione della tutela, si considerano impugnabili atti che, pur in sé non conclusivi del procedimento, anticipano, perché vincolanti la determinazione finale o perché interruttivi del procedimento, l'effetto lesivo che dall'incidenza dell'atto finale sulla sfera giuridica del destinatario deriverebbe, Cons. Stato, Sez. VI, 9 giugno 2005, n. 3043, in Cons. St., I, 2005, 1012. (7) La delibera di localizzazione di un programma di edilizia residenziale pubblica, in sé solo l'avvio dell'attività amministrativa finalizzata a garantire il diritto alla casa ai meno abbienti, è considerato atto conclusivo di un, primo, procedimento in quanto immediatamente impugnabile perché, comportando dichiarazione di pubblica utilità, «è idonea a comprimere il diritto di proprietà affievolendolo a interesse legittimo in virtù della particolare qualità e destinazione che viene impressa al bene individuato», Cons. Stato, Sez. IV, 12 gennaio 2005, n. 52, in Cons. St., 2005, I, 32, pur se esso continua a restare nella disponibilità del proprietario. (8) Dovendo impugnarsi immediatamente, e non in una con il successivo provvedimento che ne fa applicazione, le clausole di un bando di gara immediatamente lesive, Cons. Stato, Sez. V, 17 maggio 2005, n. 2465, in Cons. St., 2005, I, 906. Razionalizzando, si afferma che il bando è l'atto conclusivo del procedimento con cui si decidono le modalità della scelta dell'aspirante alla stipula di un contratto o a un posto di lavoro. (9) Sempre efficace la ricostruzione di M. Nigro, Procedimento amministrativo e tutela giurisdizionale contro la Pubblica Amministrazione (Il problema di una legge generale sul procedimento amministrativo), in Riv. dir. proc., 1980, 254 ss. (10) M. Nigro, Procedimento amministrativo, cit., 257. (11) M. Nigro, Procedimento amministrativo, cit., 264. (12) Cui si riconosce la funzione di «far emergere... gli eventuali interessi, anche spiccatamente privati che sottostanno all'azione amministrativa discrezionale in modo da orientare correttamente ed esaustivamente la stessa scelta della amministrazione attraverso una ponderata valutazione di tutti gli interessi, pubblici e privati, in gioco ai fini della miglior soddisfazione possibile dello interesse pubblico»: Cons. Stato, Sez. IV, 19 aprile 2002, n. 2280; Sez. V, 16 settembre 2004, n. 6014; Sez. IV, 16 maggio 2006, n. 1713 in www.giustizia-amministrativa.it. 63 (13) Potere amministrativo e principi dell'ordinamento, Milano, 1993, 310 ss. (14) F. Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. dir. pubbl., 1952, 28. (15) Cons. Stato, Sez. IV, 20 settembre 2005, n. 4836, in Cons. Stato, 2005, 1556. (16) Sent., 18 maggio 1989, n. 251, in questa Rivista, 1990, 119. (17) G.D. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in questa Rivista, 2001, 292. (18) Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 127-128. (19) Parti e interessi, cit., 65. (20) Introduzione ai lavori dell'incontro di studio su L'Azione amministrativa tra garanzia ed efficienza, Roma, 29 marzo 1980, in Problemi di amministrazione pubblica, 1981, 1, 89. (21) Per le discussioni sui limiti derivanti alla potestà legislativa delle regioni dalla disciplina statale del procedimento sia consentito rinviare alle riflessioni svolte in La riforma della legge 241: ambito soggettivo e oggettivo di applicazione e i principi dell'azione amministrativa, in Nuova rassegna, 2005, 1823 ss. (22) Il carattere di «norma processuale applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge 15/05» è stato riconosciuto ora da Cons. Stato, Sez. IV, 16 maggio 2006, n. 2763, in www.Giustizia amministrativa.it. (23) Cons. Stato, Sez. IV, 20 settembre 2005, n. 4836, cit. (24) Tar Sardegna, Sez. I, 25 maggio 2005, n. 1170, in Lex Italia. Rivista Internet di diritto pubblico, n 5/2005. (25) Tar Sardegna, Sez. I, 15 luglio 2005, n. 1653, in Comuni d'Italia, 2005, 90. (26) Tar Abruzzo, Pescara, 14 aprile 2005, n. 185, in Lex Italia. Rivista Internet di diritto pubblico, n. 4 del 2005. (27) Tar Sicilia, Catania, 18 agosto 2005, n. 1325 in www.giustizia-amministrativa.it. (28) Guy Braibant, cit. da J.M. Woehrling, Il giudice amministrativo francese e la regolarizzazione degli atti amministrativi viziati da illegittimità, in AA.VV. (a cura di V Parisio) Vizi formali, procedimento e processo amministrativo. Atti del X Congresso biennale di diritto amministrativo, Brescia, 23 ottobre 2003, Milano, 2004, 41. (29) Ricorda come la formula «amministrazione per risultati» introdotta, negli anni '60, dal Giannini solo nell'ultimo decennio del 900 abbia trovato effettiva fortuna A. Romano Tassone, Sulla formula «amministrazione per risultati», in Scritti in onore di E. Casetta, Torino, 2001, II, 815, quando anche si è codificato il criterio di efficacia come regola dell'agire dell'amministrazione, L. Iannotta, Previsione e realizzazione del risultato nella pubblica amministrazione: dagli interessi ai beni, in Dir. amm., 1999, 57 ss. Anche se non può non convenirsi con l'osservazione di Pastori che il perseguimento del risultato è insito nell'idea stessa di amministrazione, G Pastori, La disciplina generale dell'azione amministrativa, in Annuario 2002 dell'Associazione dei professori di diritto amministrativo, Milano, 2003, 34. (30) Che ha introdotto, riconosce la dottrina, un principio di carattere generale che contempera e quindi limita, come tipico dei principi generali tra loro non in rapporto di esclusione ma di necessaria armonizzazione, quello di partecipazione, F. Saitta, Partecipazione e anomalie del provvedimento, in F. Manganaro e A. Romano Tassone (a cura), La partecipazione negli enti locali. Problemi e prospettive, Torino, 2002, 118. (31) Cercandosi nuovi equilibri tra esigenze di celerità e di completezza (dell'istruttoria) nell'azione amministrativa, R. Ferrara, Procedimento amministrativo, semplificazione e realizzazione del risultato: dalla «libertà dell'amministrazione» alla libertà dell'amministrazione?, in Dir. soc., 2000, 107. (32) Col rischio che nei costi, da contenere, si includano, con un'eccessiva semplificazione procedimentale, anche quei costi conoscitivi, di un'istruttoria adeguata, che soli peraltro possono garantire, come ha rilevato sensibile dottrina, la razionalità della decisione, R. Ferrara, Le 64 «complicazioni» della semplificazione amministrativa. Verso un'amministrazione senza qualità?, in questa Rivista, 1999, 376 ss. (33) Significativo il titolo di un commento, di G. Gardini, pubblicato sul Giornale di diritto amministrativo, ad una decisione del Cons. Stato, Sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1381 che ha escluso la necessità della comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento a fronte di attività vincolata, Comunicazione di avvio e partecipazione procedimentale: costi e benefici di una regola di democrazia, ivi, 2001, 484. (34) E in dottrina si è appunto paventata la tendenza a sacrificare alla «logica del risultato» quella «logica della garanzia» che aveva avuto nella l. n. 241 il pieno riconoscimento, M. Occhiena, Partecipazione e tutela giurisdizionale, in La partecipazione negli enti locali, cit. 92, pur se l'attenzione alla tempestività del risultato non mancava nel testo della legge che appunto aveva introdotto il divieto di aggravamento delle procedure, l'obbligo di fissazione di un termine per tutti i procedimenti, la possibilità di provvedere egualmente anche in caso di ritardo nell'emanazione di pareri. (35) Per la nuova attenzione della giurisprudenza a valutare la validità del provvedimento nella prospettiva della congruità del risultato ottenuto più che della conformità dell'atto al modello legale, A. Romano Tassone, op. ult. cit., 818. D'altro canto, a volte, al risultato, soprattutto nell'attività di erogazione dei pubblici servizi e nella realizzazione di importanti opere pubbliche, nella quale l'efficacia e l'efficienza costituiscono parametri fondamentali, si informa la stessa disciplina legislativa, sostituendo ai tradizionali procedimenti amministrativi strumenti, anche atipici, di diritto privato, quale gli istituti del project financing o anche del general contractor, C. Franchini, La disciplina dell'alta velocità tra esigenze di garanzia e incertezze normative, in Dir. amm., 1997, 426. (36) Per come la legalità dell'agire amministrativo costituisse il parametro di efficienza dell'amministrazione pubblica nello stato liberale, nella convinzione che la puntuale attuazione della legge costituisse il fine dell'amministrazione, sia consentito rinviare, anche per i necessari riferimenti bibliografici, alle considerazioni svolte in Il principio del giusto procedimento nell'ordinamento regionale, Milano, 1985, 7 ss. (37) Anche in virtù dell'affermazione con il normativismo della concezione gradualistica del diritto che vedeva nella conformità alla norma superiore l'unica legittimazione dell'atto introdotto nell'ordinamento, A. Romano Tassone, Contributo sul tema dell'irregolarità degli atti amministrativi, Torino, 1993, 35 36. (38) L'art. 14 del d.lgs. n. 190 del 2002 per le opere di interesse strategico, l'art. 43 del testo unico delle espropriazioni in caso di utilizzo senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico.Volendo dare uno sguardo all'evoluzione del sistema normativo nel suo complesso, la tendenza a limitare la tutela costitutiva ha trovato espressione anche nella riforma del diritto societario. L'art. 2500 bis c.c., introdotto dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ha previsto che, concluso il procedimento di trasformazione di una società con la pubblicità delle deliberazioni, «l'invalidità dell'atto di trasformazione non può essere pronunciata». Analogamente, per la fusione di società, l'art. 2504 quater prevede che, eseguite le iscrizioni dell'atto di fusione, l'invalidità non può essere pronunciata facendo entrambe le norme salvo il diritto dei danneggiati al risarcimento. (39) G. Guarino, La riforma della pubblica amministrazione, in Ulisse, vol. X, fasc. XCII, novembre 1981, 76-77, cit., da A. Romano Tassone, Contributo sul tema dell'irregolarità degli atti amministrativi, Torino, 1993, 2; la preoccupazione del «danno privato e pubblico» derivante dalla tendenza a ravvisare l'invalidità «in un numero eccessivo di casi» era già manifestata da F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1914, 1320. (40) M. Nigro, L'appello nel processo amministrativo, Milano, 1960, 447. (41) Al punto che si ritiene generale la tendenza alla riduzione dei vizi formali, L. IannottaPrevisione e realizzazione del risultato, cit., 71. (42) Un rapporto sull'esperienza tedesca è tracciato da J Becker, La sanatoria dei vizi formali del 65 procedimento amministrativo tedesco, in V. Parisio (a cura), Vizi formali, procedimento e processo amministrativo, cit., 14 ss.; D.U. Galletta, Violazione di norme sul procedimento e annullabilità del provvedimento, Milano, 2003, 39 ss. (43) R. Chapus, Droit administratf gènèral, t. 1, Paris, Montchrestien, 2001, 1035; per la distinzione tra le violazioni di procedura sostanziali e non sostanziali, portando alla caducazione dell'atto solo le prime, quelle che paiono necessarie alla protezione dei diritti degli amministrati, G. Dupuis, M. J. Guédon e P.Chrétrien, Droit administratif, Paris, Dalloz, 2002, 595. (44) Una ricognizione degli orientamenti del giudice amministrativo francese in materia si può leggere nella relazione di J.M. Woehrling, Il giudice amministrativo francese e la regolarizzazione degli atti amministrativi viziati da illegittimità, in AA.VV. (a cura di V. Parisio) Vizi formali, procedimento e processo amministrativo, cit., 47. Del resto in Spagna fin dal 1915 la giurisprudenza ha introdotto il criterio di verifica, a fronte di censure di illegittimità, se l'atto fosse comunque a contenuto invariabile, G. Morbidelli, Invalidità e irregolarità, cit., 90. (45) Che nella sua formulazione letterale di per sé fa riferimento all'inosservanza di forme ma che trova pacifica applicazione anche al vizio di procedimento riconoscendosi alla costituzione del convenuto, ad esempio, la preclusione alla pronuncia della nullità della citazione in giudizio per le irregolarità (del procedimento) di notifica. (46) Cons. Stato, Sez. IV, 2 aprile 1984, n. 206, in Cons. St., 1984, I, 431. (47) Cons. Stato, Sez. IV, 10 novembre 2003, n. 7203, in Foro amm.-Cons. St., 2003, 3299. (48) Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 2003, n. 1215, in Comuni d'Italia, 2003, 94. (49) In effetti la dottrina considera nelle ipotesi di irregolarità l'atto «pur difforme dal diritto non solo pienamente efficace ma altresì non illegittimo», parlandosi appunto di irregolarità non invalidante, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2004, 498. (50) L'idea è quella, efficacemente espressa nella relazione al codice di procedura civile del Regno di Sardegna del 1859, che «le forme devono essere la guarentigia dei diritti dei cittadini, non servire da cavillosi e immorali maneggi...», cit., da F. Marelli, La conservazione degli atti invalidi nel processo civile, Padova, 2000, 20. (51) M.S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1993, II, 334, che, nella sistematica della patologia dell'atto amministrativo, riconduceva all'irregolarità le anormalità minori che non comportano vizio. (52) La irregolarità raggruppa quelle «anomalie minori» che non sono ritenute ragione di annullamento dell'atto «in quanto non lesive di un pubblico interesse», F. Bassi, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 2000, 101. (53) F. Luciani, Il vizio formale nella teoria dell'invalidità amministrativa, Torino, 2005, 286 ss. (54) Cons. St., Sez. V, 23 giugno 1936, n. 352, cit., da G. Morbidelli, Irregolarità e invalidità, cit., 81. (55) Come l'errore nell'intestazione del provvedimento, l'errata o mancante indicazione del luogo di emissione, l'indecifrabilità della sottoscrizione, la mancata indicazione della delega in forza della quale si è operato, l'errata indicazione di una norma di legge quando risulti comunque chiaro il potere esercitato, l'imprecisa indicazione di un dato catastale e delle generalità del proprietario in un atto di esproprio quando chiaro risulti l'oggetto del provvedimento, l'omesso richiamo per relationem a un parere conforme che comunque sia stato acquisito, l'omessa attestazione nella delibera di un organo collegiale che la volontà dell'organo si è formata attraverso la riunione collegiale degli aventi titolo a partecipare, l'omessa indicazione nell'atto del termine e dell'autorità cui ricorrere. (56) Come l'emanazione dell'atto oltre il termine non perentorio previsto dalla legge, la tardiva comunicazione dell'ordine del giorno, la deliberazione di un argomento non incluso all'ordine del giorno quando nessun componente dell'organo collegiale se ne lamenti, il mancato rispetto nei procedimenti elettorali, in quelli di evidenza pubblica o nei pubblici concorsi di prescrizioni non accompagnate da comminatoria di invalidità e che non alterino la par condicio o il risultato finale, la mancata comunicazione del nome del responsabile del procedimento. 66 (57) G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2004, 269; rileva G. Morbidelli, Invalidità e irregolarità, cit. 86, come il principio della strumentalità della forme costituisca species del principio di ragionevolezza e la non annullabilità per vizi che non hanno inciso sul contenuto espressione del principio di proporzionalità. (58) G. Corso, op. loc. ult. cit. (59) E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, cit., 499. (60) L'interesse al ricorso, secondo la giurisprudenza, deve essere riconosciuto «sempre quando il suo accoglimento determina un'utilità anche solo strumentale, intendendosi per tale un vantaggio non direttamente scaturente dall'annullamento stesso, ma conseguente ad una successiva ed eventuale attività amministrativa», Cons. Stato, Sez. VI, 20 maggio 2005, n. 2536, in Cons. St., 2005, I, 914. Si riconosce l'interesse ad impugnare l'esito di una gara all'impresa legittimamente esclusa per carenza di un requisito, «giacché in caso di accoglimento del ricorso e di annullamento della gara potrebbe partecipare alla nuova gara o perché si è nel frattempo munita del requisito mancante» o perché esso non è più dall'Amministrazione richiesto, Sez. V, 30 maggio 2005, n. 2756, ivi, 945. Del resto anche la mera reiterazione del provvedimento, sfavorevole per il ricorrente, con una diversa decorrenza giustificherebbe, per il profilo dell'interesse, oppositivo, la proponibilità del ricorso, F. Trimarchi Banfi, Illegittimità e annullabilità del provvedimento amministrativo, in questa Rivista, 2003, 315. (61) Anche la tutela costituzionale dell'interesse legittimo va letta alla luce di quel principio di ragionevolezza che deve considerasi immanente al sistema costituzionale, G. Morbidelli, Invalidità e irregolarità, cit., 99. Del resto se, come si è cercato di dimostrare, G. Sala, Potere amministrativo e principi dell'ordinamento, cit., 191, il principio di ragionevolezza ha carattere generale nei confronti di tutte le espressioni del potere pubblico, può, in alcune situazioni, parere irragionevole l'annullamento di un provvedimento il cui effetto risulti conforme alla previsione legislativa e che dovrebbe, una volta rimosso, essere reiterato. (62) E in effetti la giurisprudenza ha ritenuto di individuare nell'articolo 21-octies l'espressione «della regola dell'economia dei mezzi», Cons. Stato, Sez. VI, 17 febbraio 2006, n. 665. (63) G. Falcon, Lezioni di diritto amministrativo. L'attività, Padova, 2005, 141. (64) In effetti ha posto in luce la riflessione dottrinale come il giudizio di invalidità si inscriva di solito in una considerazione di interessi, parendo la validità spesso valore strumentale alla tutela delle situazioni soggettive, G. Corso, Validità (dir. amm.), in Enc. dir., XLVI, Milano, 1983, 87, potendo così spiegarsi la ragione della conservazione di provvedimenti che, pur divergenti dal diritto positivo, rispettano l'assetto degli interessi così come imposto dalla legge, G. Morbidelli, Invalidità e irregolarità, cit., 98. (65) Il riferimento è alla notissima monografia del Sandulli, Procedimento amministrativo, Milano, 1964, ristampa anastatica ed. 1940. (66) Sandulli, Procedimento amministrativo, cit., 3, che appunto ha posto in luce come lo studio del procedimento debba indagare la «diverse attività cooperanti in vista (del risultato) e le relazioni funzionali che tra esse si instaurano», 38. Per come, studiando la serie procedimentale, si possano cogliere insieme effetti interni al procedimento per gli atti endoprocedimentali e un «effetto esterno allo schema seriale per la fattispecie nel suo complesso» G. Bergonzini, L'attività del privato nel procedimento amministrativo, Padova, 1975, 74 ss. (67) Per il significato della distinzione, nello studio del procedimento, tra prospettiva strutturale e prospettiva funzionale, sia consentito rinviare a R. Villata e G. Sala, voce Procedimento amministrativo, in Dig. disc. pubbl., XI, Torino, 1996, 578. (68) L'atto come risultato della funzione, F. Benvenuti, Funzione, cit., 128. (69) A. Romano Tassone, op. cit., 36. (70) Secondo la nota espressione di Jhering, cit., da F. Luciani, Il vizio formale, cit., 3. (71) Sulle difficoltà di applicazioni alla scienza giuridica, quale scienza sociale, degli strumenti delle 67 scienze naturali, R. Ferrara, Procedimento amministrativo, semplificazione e realizzazione del risultato: dalla «libertà dall'amministrazione» alla libertà dell'amministrazione?, cit., 109. (72) Dovendosi tutti convenire che non pare assolutamente proponibile uno scambio transattivo di legalità contro efficacia ed efficienza, R. Ferrara, Le «complicazioni» della semplificazione amministrativa, cit., 370. Il problema è, semmai, di stabilire quale legalità del potere amministrativo coerente con la Costituzione, da un lato, e insieme, come si diceva all'inizio, con il rapporto tra potere pubblico, legislativo giudiziario e amministrativo, e società - oggi, nell'evoluzione dell'ordinamento positivo, si vada affermando. (73) Con la nuova formulazione del comma 5 dell'articolo 2 della l. n. 241 il legislatore, superando l'orientamento giurisprudenziale dell'Adunanza plenaria, considera evidentemente possibile per il giudice amministrativo, a fronte dell'inerzia dell'amministrazione, di «conoscere della fondatezza dell'istanza». Ritiene la dottrina che si possa pensare così configurata un'azione di adempimento dato che vien riconosciuto al giudice, verificata la sussistenza delle condizioni prescritte per il rilascio di un provvedimento, di ordinare all'amministrazione di provvedere in tal senso, A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2006, 216. Tale verifica è il risultato dell'istruttoria processuale. A fronte dell'inerzia dell'amministrazione, della mancata attivazione del procedimento, sembra possibile la sostituzione dell'istruttoria processuale a quella procedimentale. (74) Aveva invece rilevato la dottrina come il nuovo rito per il sindacato sul silenzio dell'amministrazione introdotto, con l'articolo 21-bis della legge Tar, dalla l. n. 205 del 2000 preservasse in capo all'amministrazione, anche dopo la pronuncia del giudice, il potere di provvedere, confermando, in conformità alle regole della produzione giuridica di diritto amministrativo, che l'inerzia non poteva comportare la perdita della potestà decidenti dell'amministrazione, F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del nuovo trattamento processuale, in questa Rivista, 2002, 255. E la giurisprudenza, dopo qualche incertezza, aveva escluso che il sindacato sul silenzio potesse non solo limitarsi all'affermazione dell'obbligo di provvedere ma anche a determinare il come provvedere, Cons. Stato, Ad. plen, 9 gennaio 2002, n. 2, in Giust. civ., 2002, I, 801; Cons. Stato, Sez. IV, 10 giugno 2004, n. 3741, in Foro amm.-Cons. St., 2004, 1665, ammettendosi invero, in alcune decisioni anche successive alla decisione della plenaria che il giudice poteva respingere la domanda quando risultassero difettare i presupposti per il provvedimento dal cittadino richiesto, per carenza de «l'interesse alla decisione se è sicuro che la pretesa del ricorrente non potrebbe essere soddisfatta», Cons. Stato, Sez. V, 8 ottobre 2002, n. 5318, in Cons. St., 2002, I, 2150.Ora invece, almeno nei casi in cui la novella potrà trovare applicazione, la decisione del giudice sul fondamento della pretesa si sostituisce, nella sostanziale produzione dell'effetto, al procedimento di esercizio del potere amministrativo. (75) F.G. Scoca, I vizi formali nel sistema delle invalidità dei provvedimenti amministrativi, in (a cura) V. Parisio, Vizi formali, procedimento e processo amministrativo, cit., 60. (76) La consulenza tecnica nella misura in cui consente di meglio apprezzare il fatto assunto a presupposto per l'esercizio del potere può ampliare il numero delle fattispecie in cui il giudice può sostituire, nell'ambito di un sindacato di legittimità, proprie valutazioni a quelle dell'amministrazione per verificare se il risultato dell'esercizio del potere è corrispondente alla previsione della norma attributiva del potere stesso. Per come la consulenza tecnica, consentendo di acquisire gli elementi tecnici necessari per comprendere il significato e il valore del fatto, possa in alcuni casi circoscrivere i margini di insindacabilità delle valutazioni tecniche dell'amministrazione, A. Travi, Lezioni, cit., 264. (77) Cons. Stato, Sez. V, 5 luglio 1991, n. 999, in Giur. it., 1992, III, 1, 124. (78) V. Cerulli Irelli, Principi di diritto amministrativo, II, Torino, 2005, 252, che rileva appunto come l'articolo 21 octies, 2º comma, abbia dato statuto legislativo ad una casistica giurisprudenziale. (79) Delle quali non è ormai possibile nemmeno forse la ricognizione. Per riferimenti bibliografici si rinvia agli interessanti interventi raccolti in F. Manganaro e A.R. Tassone (a cura), La partecipazione 68 negli enti locali. Problemi e prospettive, Torino, 2002 e alla monografia di A Scognamiglio, Il diritto di difesa nel procedimento amministrativo, Milano, 2004. (80) Cons. Stato, Sez. V, 18 dicembre 2003, n. 8341, in Foro amm.-Cons. St., 2004, 1446 (81) Cons. Stato, Sez. VI, 14 ottobre 2004, n. 6662, il testo in www. Giustizia amministrativa.it. (82) Sempre fondamentali le osservazioni di G. Pastori, La procedura amministrativa, Vicenza, 1964, 38 ss. (83) M. Waline, Le pouvoir discrétionnaire, in Rev. droit public, 1930, 218. (84) Cons. Stato, Sez. VI, 29 maggio 2002, n. 2984, in Riv. giur. amb., 2002, 951. (85) Cons. Stato, Sez. V, 18 dicembre 2003, n. 8341, in Foro amm.-Cons. St., 2004, 1446; Cons. Stato, Sez. IV, 1 ottobre 2004, n. 6378, ivi, 2793. (86) Cons. Stato, Sez. IV 15 novembre 2004, n. 7405, in Foro amm.-Cons. St., 2004, 3167. (87) Cons. Stato, Sez. V, 5 ottobre 2004, n. 6462, ivi, 2916. (88) Non essendo necessario un apporto istruttorio, Sez. IV, 24 giugno 2003, n. 3813, in Foro Amm.Cons. St., 2003, 1846, pur se non si manca di rilevare che l'art. 7 della l. n. 241 del 1990 sull'avviso di inizio del procedimento è applicabile anche agli atti vincolati, in quanto la partecipazione del privato agli accertamenti può fare emergere circostanze ed elementi tali da indurre a recedere dall'emanazione del provvedimento finale ovvero a modificarne il contenuto: la fattispecie, in materia di illecito su immobili soggetti a vincolo paesistico. (89) Cons. Stato, Sez. V, 3 luglio 2003, n. 3969, ivi, 3396. Non occorrendo la comunicazione d'inizio del procedimento nei procedimenti amministrativi ad istanza di parte, nell'ambito dei quali essa realizzerebbe un'evidente duplicazione di attività con aggravio per l'Amministrazione non compensato da particolari utilità per i soggetti interessati destinatari del provvedimento, perché già informati dei fatti, Cons. Stato, Sez. V, 28 maggio 2004, n. 3467 in Foro amm.-Cons. St., 2004,1436. (90) Dovendo riconoscersi alla comunicazione di avvio del procedimento «finalità sostanziali e non formali», Cons. Stato, Sez. IV, 20 febbraio 2002, n. 1031, in www. Giustizia-amministrativa.it. (91) Cons. Stato, Sez. V, 22 aprile 2004, n. 2307, in Cons. St., 2004, I, 856; Sez. V, 1 dicembre 2003, n. 7819, in Foro amm.-Cons. St., 3744. (92) Cons. Stato, Sez. VI, 10 gennaio 2005, n. 11, in Foro amm.-Cons. St., 2005, 165. (93) Cons. Stato, Sez. IV, 1 ottobre 2004, n. 6383, in Foro amm.-Cons. St., 2004, 2794. (94) Cons. Stato, Sez. VI, 14 gennaio 2003, 119, in Cons. St., 2003, 54. (95) F. Saitta, Garanzie partecipative e ansia di provvedere, in Nuove autonomie 2002, 325. (96) Per le vicende della modifica del testo dell'articolo 46 della LPA tedesca e il dibattito dottrinale sulla nuova formulazione, J. Becker, La sanatoria dei vizi formali del procedimento amministrativo tedesco, in (a cura) V. Parisio, Vizi formali, procedimento e processo amministrativo, cit., 19. F. Trimarchi Banfi, Illegittimità e annullabilità del provvedimento amministrativo, cit., 426. (97) Storicamente l'istruttoria sul fatto nel processo amministrativo è stata percepita come un'indagine interna agli atti del procedimento: l'art. 44 del testo unico del Consiglio di Stato prevede un'istruttoria, processuale, quando «l'istruzione dell'affare (risulti) incompleta o i fatti affermati nell'atto o provvedimento impugnato sono in contrasto con i documenti. (98) R. Villata, L'atto amministrativo, in L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F.A. Roversi Monaco e F.G. Scoca, Diritto amministrativo, Bologna, 2005, 771. (99) Perché relativamente ad essi non può porsi solo una verifica di esistenza-inesistenza E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, cit., 336. (100) Mentre la verifica del fatto quando sia demandata all'amministrazione una valutazione tecnica appare, anche se astrattamente ammissibile - e anche, dovrebbe ritenersi, necessita dal principio di legalità - comunque complessa e non certo palese. (101) Le discussioni della dottrina tedesca sulla questione se, in applicazione dell'art 46 della VwVfG nella prima formulazione, la verifica che comunque il provvedimento non avrebbe potuto essere 69 diverso potesse anche sindacare la definizione nel caso dall'amministrazione operata di un concetto giuridico indeterminato, in D.U. Galletta, Giudice amministrativo e vizi formali, in (a cura) V. Parisio, Vizi formali, procedimento e processo amministrativo, cit., 98. (102) Sempre stimolanti le riflessioni di L. Benvenuti, La discrezionalità amministrativa, Padova, 1986, specialmente 246 ss. e di G. Azzariti, Dalla discrezionalità al potere, Padova, 1989, specialmente 319 ss. (103) Ad esempio, l'incompletezza di un verbale di sopralluogo per un conferimento in discarica di rifiuti non consentiti quando la analisi dell'autorità giudiziaria penale abbiano accertato la natura delle sostanze. (104) Ad esempio il diniego di permesso di costruire senza il parere, ove sia ancora obbligatorio, della commissione edilizia per un progetto che il certificato di destinazione urbanistica prodotto in giudizio dimostra essere incompatibile con le norme di zona. (105) Per la verità pare da alcune pronunce emergere una lettura sostanzialista dell'articolo 21 octies che sembra non distinguere tra attività formalmente vincolata o discrezionale, tra vizio di procedimento ed omissione di avviso di avvio del procedimento; così, in un caso di revoca dell'autorizzazione stagionale all'assunzione dello straniero non preceduta da comunicazione di avvio del procedimento il Consiglio di Stato ha ritenuto che «la violazione della regola procedimentale», sussistendo «i presupposti per l'adozione dell'atto di ritiro» assumerebbe «rilievo solo formale e, in base al principio di cui all'art. 21 octies della l. n. 241... non esplica effetti vizianti del provvedimento gravato che possono determinare il suo annullamento, Cons. Stato, Sez. VI, 20 ottobre 2005, n. 5920, in www.giustizia-amministrativa.it. (106) Per la verità la distinzione della previsione normativa del primo e del secondo comma dell'articolo 21 non pare valorizzata se si ritenesse comunque non annullabile il provvedimento, in caso di omissione della comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento, «quando emerga in giudizio che il provvedimento conclusivo non sarebbe stato diverso nei suoi contenuti» Cons. Stato, Sez. IV, 14 giugno 2005, n. 3124, che, forse per non far apparire troppo brusca la lettura della novella, considera tale conclusione in linea con «quanto la giurisprudenza amministrativa aveva in precedenza sancito in vari casi», in www.giustizia-amministrativa.it. (107) Tar Lazio, Latina, 10 giugno 2005, n. 534, in Juris data. (108) Che dovrebbe essere dal giudice trattata «prioritariamente rispetto ai dedotti motivi di ricorso», Tar Lazio, Latina, n. 534 del 2005, cit. (109) Contestato in passato dalle ricordate ricostruzioni che, proiettando le problematiche della discrezionalità su quelle dell'interpretazione, tendevano ad escludere in via di principio la configurabilità concettuale di una attività amministrativa vincolata, L. Benvenuti, La discrezionalità amministrativa, cit., 311. (110) J. Becker, La sanatoria dei vizi formali del procedimento amministrativo tedesco, cit., 22. (111) E, in effetti, nell'ordinamento tedesco, anche a fronte dell'ampia possibilità di sanatoria nei confronti di atti impugnati, si è giunti alla constatazione che il processo sostituisce il procedimento; sul punto, anche per citazioni di dottrina e giurisprudenza, D.U. Galletta, Notazioni critiche sul nuovo art. 21 della legge n. 241/90, in Giust. amm. Rivista Internet di diritto pubblico, n. 2 del 2005. (112) Rileva come nella giurisprudenza sia riscontrabile un rapporto di proporzionalità inversa tra l'estensione del sindacato e l'attenzione per i profili della mera legittimità, A. Scognamiglio, Il diritto di difesa nel procedimento amministrativo, Milano, 2004, 260; di contro il Consiglio di Stato, non da oggi, afferma la necessità che «il controllo di legittimità aumenti in ragione diretta del rafforzamento della discrezionalità dell'atto amministrativo», Cons. Stato, Sez. VI, 5 luglio 1947, n. 230, in Giurisprudenza Completa della Cassazione - Sezioni Civili, vol. XXIV con nota E. Capaccioli, Sulla natura giuridica del risarcimento dei danni di guerra, ora in Diritto e processo, Padova, 1978, 8. (113) Per una necessaria, ma nei limiti di questo lavoro impossibile, ricognizione delle posizioni 70 dottrinale e giurisprudenziali, L. Garofalo, La responsabilità dell'amministrazione: per l'autonomia degli schemi ricostruttivi, in Dir. amm., 2005, 1 ss. (114) G. Miele, Questioni vecchie e nuove in materia di distinzione del diritto dall'interesse legittimo, in Foro amm., 1940, IV, 58; ma già prima, la correlazione tra attività vincolata e diritto soggettivo era stata con decisione affermata da O. Ranelletti, Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, Milano, 1934, 318 319, e anche in anni più recenti sostenuta, in contrasto con la dottrina dominante, da E. Capaccioli, Disciplina del commercio e processo amministrativo, in Studi in memoria di E. Guicciardi, I, Padova, 1978, 373. (115) L. Mazzarolli, in L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F.A. Roversi Monaco e F.G. Scoca (a cura), Diritto amministrativo, cit. 458-459. Anche se da tempo non si è mancato di rilevare come, al di là dell'apparente semplicità del tralaticio, all'esame critico appaiano tutte le incongruenze e le difficoltà applicative di un criterio che assume quale comun denominatore la prevalente direzione della norma, A. Orsi Battaglini, Attività vincolata e situazioni soggettive, in Riv. dir. proc. civ., 1988, 4, 12; L. Ferrara, Diritti soggettivi ad accertamento amministrativo, Padova, 1996, 3. (116) La giurisprudenza ribadisce che l'attività amministrativa vincolata non esclude la presenza di interessi legittimi quando essa sia preordinata al soddisfacimento di un ben individuato interesse pubblico, Cons. Stato, Sez. V, 20 settembre 2000, n. 4865, in Ragiusan, 2000, 193. Cass. civ., Sez. un., 9 agosto 1991, n. 8697, Mass. Giur. It., 1991 che, pur a fronte di poteri vincolati, ha qualificato di interesse legittimo la situazione del privato in ordine a provvedimenti di amministrazione dei prezzi di prodotti petroliferi, «trattandosi di vincoli indirizzati a finalità generali e non alla tutela dei destinatari». (117) Cons. Stato, Sez. VI, 15 maggio 2003, n. 2661, Foro amm.-Cons. St., 2003, 1670; Ad. plen. 29 dicembre 2000, n. 17, in Cons. St., 2000, I, 2594; in dottrina M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 188, criterio peraltro a volte di incerta applicazione non essendo sempre facile stabilire se il vincolo all'agire amministrativo sia posto nell'interesse privato o pubblico, L Mazzarolli, op. ult. cit., 459; A. Orsi Battaglini, op. cit., 14. Così ad esempio la giurisprudenza configura diritto soggettivo la pretesa all'indennizzo dovuto ai cittadini italiani per la perdita di beni siti all'estero a seguito di provvedimenti di confisca ritenendo nel caso il potere non solo «vincolato ma anche, sia pure in funzione solidaristica, diretto in via primaria ed immediata alla tutela dell'interesse privato», Cons. Stato, Sez. IV, 20 ottobre 1997, n. 1203, in Foro amm., 1997, 2693, mentre ritiene che il carattere vincolato dei poteri esercitati per la corresponsione del contributo per la riparazione di un alloggio danneggiato del sisma del 1980 in Campania, non valga a qualificare la posizione del cittadino come diritto soggettivo «dovendosi aver riguardo, invece, alle finalità di pubblico interesse che la legge persegue con la ricostruzione degli abitati e la riparazione degli edifici danneggiati dal sisma, di assoluta e incontestabile prevalenza rispetto all'interesse dei singoli, Tar Campania, Salerno, 28 luglio 1989, n. 239, in Trib. amm. reg., 1989, I, 3654. (118) E in effetti si sostiene che, a fronte di un comportamento totalmente vincolato, il cittadino vanta un diritto soggettivo non un interesse legittimo, P. Virga, La tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 2003, 10. (119) Già osservava che, quando gli interessi pubblici e privati sono ordinati dalla legge, è, della fattispecie concreta, apprezzabile solo il risultato, perdendo significato il riferimento all'interesse pubblico o alla relative deduzioni in termini di subordinazione ad esso o al soggetto che lo impersona, A. Orsi Battaglini, op. cit., 43.Si è in dottrina, per riconoscere carattere comunque provvedimentale anche agli atti di esercizio di funzioni vincolate, rilevato che non necessariamente deriva da una situazione di doverosità in capo all'amministrazione un obbligo nei confronti di terzi, potendo il carattere vincolato dell'attività risolversi in un potere non in un obbligo, F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in Dir. amm., 1995, 32. Quando peraltro si riconosca al giudice il potere, a richiesta dell'interessato, di verificare la corrispondenza del risultato dell'attività all'assetto degli interessi dalla legge definito sembra di poter ravvisare quella 71 situazione di obbligatorietà al risultato che è tipica della situazione di diritto. (120) Lucidamente delineata da A. Zito, in AA.VV. (a cura di F.G. Scoca), Giustizia amministrativa, Torino, 2003, 73 ss. (121) Ritenendosi cioè che di potere amministrativo possa parlarsi solo a fronte dell'esercizio di discrezionalità, G. Guarino, Atti e poteri amministrativi, in Dizionario amministrativo, I, Milano 1983, 101: F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull'amministrazione pubblica, in questa Rivista. 1983, 376. (122) T.S. Kuhn, op. cit., 92, che rileva anche come inevitabilmente - e questo è di consolazione - il lento emergere di nuove teorie sia preceduto da un periodo di profonda incertezza nel campo della specializzazione interessata, op. loc. cit. (123) Sul piano pragmatico possono essere del tutto condivisibili le preoccupazioni di chi rileva gli inconvenienti pratici della qualificazione in termini di diritto soggettivo delle situazioni soggettive correlate all'esercizio di un potere vincolato e per la difficoltà in sé dell'individuazione della categoria e per l'inopportunità di spezzare la giurisdizione nei confronti dell'esercizio del potere, G.D. Falcon, Lezioni di diritto amministrativo, cit., 77. (124) G.D. Falcon, Ibidem; la disciplina positiva, esplicitamente, attribuisce al giudice dell'annullamento, e quindi al giudice amministrativo, la verifica della conformità del contenuto dispositivo dell'atto alla disciplina dell'attività vincolata. Potrebbe ancora ritenersi paradigma corretto quello che vuole, a fronte di un potere amministrativo, per se vincolato, la pretesa del cittadino alla verifica da parte del giudice della conformità dell'esercizio del potere alla previsione legislativa, qualificabile come interesse legittimo. Anche se nei suoi contenuti diverso da quello conosciuto in passato. 72 VIZI «FORMALI» E POTERI DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO (*) Diritto Processuale Amministrativo, fasc.1, 2006, pag. 33 DANIELE CORLETTO Classificazioni: GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA Sommario: 1. Premessa. - 2. Il funzionamento nel processo della regola di non annullabilità per omissione della comunicazione di avvio. - 3. Il processo su atti vincolati come giudizio di (annullamento basato sull'accertamento della) spettanza. - 4. La devaricazione del provvedimento vincolati e discrezionali. - 5. Illegittimità e invalidità. - 6. Interesse legittimo in trasformazione (o in crisi). - 7. Le possibili conseguenze concrete. 1. Dirò qualcosa su illegittimità formale e annullamento, ragionando sull'art. 21-octies comma 2, della l. 7 agosto 1990 n. 241, introdotto dalla l. 11 febbraio 2005 n. 15, secondo il quale «non è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Il comma continua poi con una seconda proposizione: «Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Tanto si è scritto, che sarebbe davvero difficile presumere di poter dire qualcosa di nuovo su questo argomento. Vorrei provare comunque a proporre una lettura delle disposizioni in questione e del loro possibile funzionamento nel contesto del nostro processo amministrativo. Cercherò poi di avanzare alcune ipotesi sulle conseguenze che la nuova disposizione può provocare. Anticipando quello che dirò su questo, mi pare si possa pensare che l'art. 21-octies caratterizza il processo su atti vincolati come un giudizio di spettanza; che introduce una divaricazione importante, e una significativa differenza di regime fra provvedimenti vincolati e provvedimenti discrezionali; che ci costringe a rivedere decennali se non secolari impostazioni in tema di illegittimità e invalidità, e in tema di rapporto fra le due nozioni, e infine che porta (quasi) a compimento il superamento del concetto tradizionale di interesse legittimo. Chiuderò infine chiedendomi quali siano le possibili conseguenze concrete della nuova disciplina, e la complessiva valutazione che essa merita. Il punto di vista da cui mi pongo è quello dell'operatività della regola del 21-octies nel processo amministrativo, nel quale del resto è essenzialmente destinata ad operare. È pur vero però che la generica formula, diversa da quella della seconda frase del comma (che parla di «dimostrare in giudizio», e che quindi, preso alla lettera, potrebbe far pensare ad una sua applicazione solo nella sede giurisdizionale), consente pacificamente l'applicazione della regola a casi in cui la situazione strutturale è analoga a quella che si ha nel processo, e cioè ai procedimenti di ricorso amministrativo, gerarchico e straordinario. E di per sé mi pare che la regola debba considerarsi applicabile, oltre che in sede di controllo, anche in sede di autotutela. Si è ritenuto in contrario (1) che in quella sede la valutazione della «legittimità sostanziale» del provvedimento sia «assorbita» dalla valutazione dell'interesse pubblico. Ma forse si può vedere il 21-octies proprio come un limite alla discrezionalità dell'amministrazione nel valutare l'interesse ad un annullamento in autotutela, dettato per impedire che l'amministrazione possa considerare esistente un tale interesse quando si tratti di un vizio che non tocca il contenuto del provvedimento. Ma l'oggetto del mio discorso è la applicazione del 21-octies nel processo. 73 Mi pare che si debba prima di tutto cercare di «smontare» la previsione del secondo comma del 21octies, per vederne il funzionamento nel contesto in cui deve operare, quello del giudizio dinanzi al giudice amministrativo, chiedendosi in sostanza quale regola effettiva se ne debba ricavare. La previsione del primo periodo del secondo comma ha un soggetto sottointeso. Nel processo, di cui ci occupiamo, al di là della formula impersonale, è al giudice amministrativo che deve sembrare «palese» che il contenuto dell'atto non può essere diverso da quello in concreto adottato. È ben difficile prendere posizione su cosa di debba intendere per «palese». Il concetto è del resto così incerto, per non dire indeterminato, e così poco si presta a dimostrazioni e giustificazioni, che l'individuazione di questo punto non può che restare all'apprezzamento soggettivo del giudice, al quale la legge l'ha affidata. In particolare può sembrare (e così lo legge la giurisprudenza) che la norma conferisca al giudice un potere di indagine (2) e di accertamento d'ufficio sullo specifico punto della «inevitabilità», della «ineluttabilità» del provvedimento e del suo contenuto, della assenza di alternative (legittime) ad esso. Quando l'assenza di alternative gli appaia evidente, si renderebbe applicabile la previsione che esclude l'annullabilità dell'atto, o, se si preferisce, che limita il potere di annullamento altrimenti conferito al giudice (a partire dall'art. 26 del t.u. Cons. Stato), e resterebbe così precluso pronunciare l'annullamento richiesto. Da questo poi, dal fatto che la norma conferirebbe un potere (di accertamento d'ufficio) e ne disciplinerebbe (limitandolo) un altro (il potere di annullamento) si dovrebbe dedurre il carattere «processuale» della disposizione (come la giurisprudenza sta, in gran maggioranza, ritenendo, per ricavare da questa qualificazione la sua immediata applicabilità, anche a vicende avvenute e a processi instaurati prima della sua entrata in vigore). Il Consiglio di Stato però (a mio avviso correttamente) ha ritenuto non applicabile ad un caso in discussione la previsione del 21-octies, «in quanto entrata in vigore dopo la conclusione del procedimento controverso» (3), pur senza prendere esplicitamente posizione sul carattere processuale o no della norma. Se si vede nel 21-octies essenzialmente la previsione di una modalità di conduzione del giudizio, che consente al giudice di valutare, anche senza domanda di parte, l'assenza di legittime alternative all'atto adottato, o si dimentica che esso, sotto la veste della individuazione di una obbligatoria questione pregiudiziale, detta in realtà la regola sostanziale che deciderà l'esito del giudizio stesso, o si finisce per sostenere che tutte le regole che riguardano poteri del giudice sono «processuali». Mi pare invece che tali dovrebbero definirsi solo quelle che disciplinano l'andamento e gli adempimenti del processo. Nello stesso senso allora anche la regola che dice che chi detiene senza titolo la cosa altrui la deve restituire al legittimo proprietario «disciplina il potere del giudice» di decidere sulla domanda di restituzione, ma nessuno direbbe che si tratta di una norma processuale. L'art. 21-octies prevede una serie di accertamenti successivi e condizionati, alcuni dei quali, affidati ad una iniziativa officiosa, sembrerebbero addirittura mutare l'oggetto del giudizio. La prima questione che si pone è di verificare se, in base alla normativa di riferimento, il provvedimento impugnato sia da qualificarsi come vincolato oppure no. La qualificazione di una fattispecie come vincolata è infatti tutt'altro che un dato a priori, risultando invece come esito di un giudizio, e di un giudizio in molti casi per niente scontato. Che dire ad esempio dei provvedimenti, pur univocamente individuati nella loro doverosità e nel loro contenuto, da adottarsi sulla base di accertamenti o di valutazioni tecniche complesse? E ancora come regolarsi in presenza di una plausibile incertezza normativa: la possibilità di diverse interpretazioni della legge consente comunque di configurare il provvedimento come vincolato? Si può pensare di risolvere questi dubbi ragionando sulla previsione che dispone che sia «palese» l'assenza di legittime alternative al provvedimento. Questo comporterebbe che, ai fini dell'applicazione dell'art. 21-octies, si possa considerare vincolato, e legittimo, solo quel provvedimento rispetto al quale dubbi di questo genere non possono porsi, perché ad es. discende obbligatoriamente dall'esistenza di un 74 unico, e incontestabile, presupposto. Ad es. il provvedimento di espulsione dello straniero sulla base del solo e inequivocabile presupposto della mancanza del permesso di soggiorno. Ma già la giurisprudenza ha applicato il 21-octies in casi nel quali il rifiuto del permesso di costruire (4) o l'ordinanza di demolizione (5) presupponevano ampi e non pacifici accertamenti di situazioni fattuali e normative, compreso il contenuto e il senso di previsioni urbanistiche, che si direbbero tutt'altro che di «semplice e univoca determinazione». Alla soluzione di questa questione il giudice deve procedere indipendentemente da una sollecitazione di parte. È però prevedibile che proprio questo sarà uno dei punti sui quali il ricorrente punterà la sua attenzione, per convincere il giudice che, trattandosi di un provvedimento non qualificabile come vincolato, la regola dell'art. 21-octies non debba trovare applicazione. Se di questo si convince, il giudice dovrà andare oltre nel giudicare sui motivi formali proposti, che in questo caso continuano, anche da soli, a rendere direttamente annullabile l'atto. Se invece ritiene che si tratti di provvedimento vincolato, il giudice deve (secondo un logico ordine di esame delle questioni) proseguire valutando se il motivo formale, proposto dal ricorrente, sia fondato o no. Se non lo è, il giudice non ha bisogno di andare oltre per valutare se (sia palese che) il contenuto dispositivo avrebbe potuto o no essere diverso (ossia di chiedersi o di verificare se gli risulti evidente la legittimità sostanziale dell'atto), potendo direttamente e semplicemente respingere il ricorso perché infondato. Se invece i motivi formali appaiono fondati, il giudice non li può accogliere, ma deve aprire la fase «d'ufficio» (6), nella quale verifica se gli risulta «palese» che il provvedimento non poteva essere diverso. Se il potere vincolato è quello che consente all'amministrazione una sola decisione legittima, valutare se «il contenuto non avrebbe potuto essere diverso» significa determinare insieme se il provvedimento è vincolato e se è legittimo. Si potrebbe dire dunque che si tratta di valutare, alla fine, se il provvedimento vincolato sia «palesemente legittimo». La logica di questo accertamento è però ben diversa da quella che si richiede di solito al giudice. Non si tratta di valutare la fondatezza di una o più contestazioni di legittimità, ma di chiedersi, per così dire «a priori», e mettendosi nei panni dell'amministrazione, se di fronte alla norma che disciplina il potere, lui stesso, il giudice, avrebbe o no considerato di non avere altra scelta che adottare quell'atto così come in concreto ha fatto l'amministrazione. C'è da chiedersi poi cosa succeda se il giudice si renda conto che la «ineluttabilità», l'assenza di alternative legittime all'atto, non è «palese», ma che richiede una verifica approfondita e ragionata, eventualmente non priva di qualche dubbio, o addirittura che richiede l'assunzione di prove (per verificare ad es. la sussistenza in fatto di un certo presupposto). In questo caso si direbbe che il giudice non debba e non possa proseguire nella sua valutazione sul contenuto dell'atto, e sia costretto a considerare rilevanti e anzi decisivi i vizi formali proposti (e che già ha valutato come esistenti) e a pronunciare l'annullamento. Ci si potrebbe chiedere se la valutazione sulla palese assenza di legittime alternative al contenuto dell'atto, richiesta dalla legge e consentita al giudice indipendentemente dalla richiesta di parte, comporti un allargamento o una sostituzione, o comunque una modifica dell'oggetto del giudizio. Così potrebbe concludersi riflettendo sul carattere della «pregiudiziale» di cui si tratta, la quale è, per volontà di legge, idonea a definire il giudizio, e che riguarda la sostanza del rapporto tra amministrazione e privato. Questo potrebbe indurre a non considerarla una semplice cognizione, da effettuarsi solo incidenter tantum, su una questione pregiudiziale. In contrario si potrebbe però sostenere che non di un accertamento si tratta, ma solo della delibazione di un dato che deve apparire «evidente», palese appunto. Anche se pare anomalo che proprio sul punto che attiene direttamente alla legittimità sostanziale dell'uso del potere amministrativo si possa consentire una sommaria delibazione, e solo per la risoluzione, incidenter tantum, di una questione 75 pregiudiziale. Se si ritenesse che l'accertamento della assenza di alternative legittime al provvedimento divenga propriamente oggetto del giudizio, e che risulti quindi coperto dal giudicato, indipendentemente dalla circostanza che tale accertamento sia stato o no chiesto da una parte (7), il rigetto del ricorso che ne risulterebbe (pur a parità di risultato: la salvezza del provvedimento) avrebbe, a vantaggio dell'amministrazione, un peso e una definitività diversi. Questa conclusione concorderebbe del resto con la lettura della disposizione dell'art. 21-octies come l'espressione della volontà normativa che le questioni sulla legittimità dei provvedimenti vincolati siano in ogni caso «definite nel merito», con definitiva chiusura della controversia. A questa chiusura nel merito della controversia sostanziale che sta alle spalle (o che è implicita dietro lo schermo) dell'impugnazione per i motivi formali si arriverebbe dunque sulla base dell'esercizio di un potere officioso, esaminando il contenuto del provvedimento, e addirittura la sostanza del rapporto tra amministrazione e privato, senza una richiesta di parte. Nel contesto in cui la previsione del 21-octies si colloca, impera però il principio della domanda, ed è ben evidente che il sistema ha difficoltà ad ammettere a cuor leggero che tale principio si affievolisca. Forse però la norma del 21-octies ha non solo un soggetto sottointeso, ma sottintende anche tempi diversi per la sua applicazione. Si è visto come la giurisprudenza ormai pacificamente (forse forzando il concetto, ma cogliendo probabilmente l'intenzione del legislatore) ritiene che si tratti di una norma esclusivamente processuale, e quindi immediatamente applicabile. Se così è, si potrebbe però pensare che la disposizione della prima parte del secondo comma condensi in qualche modo in sé sia una norma destinata ad operare stabilmente («a regime», come si dice), sia una norma transitoria, dettata per far fronte alle immediate contingenze del trapasso dalla vecchia alla nuova regola. E quindi ritenere che nell'immediato (come norma di transizione alla nuova disciplina) e con riferimento alle controversie già pendenti, dia al giudice un potere officioso extra ordinem di integrazione o di modificazione dell'oggetto del giudizio, da utilizzarsi per «smaltire» le questioni di legittimità formale già proposte. A regime, e cioè con riferimento ad azioni proposte dopo l'entrata in vigore della norma e alla luce delle sue previsioni, il potere officioso del giudice di allargare o di cambiare l'oggetto del giudizio, e di valutare non l'illegittimità (formale) denunciata, ma altri profili, pur formalmente persistendo, dovrebbe rivelarsi recessivo e non più necessario. Da un lato infatti è ovvio che i ricorrenti (come sarebbe successo se la norma non fosse stata ritenuta applicabile anche alle controversie già pendenti, e come succederà una volta che la nuova norma sarà conosciuta e capita) si guarderanno bene dal proporre censure di sola forma, delle quali è ormai evidente che non sono in grado di ottenere l'annullamento voluto. Il significato «percepito», da giudici e cittadini (e voluto, dal legislatore), della nuova disposizione, e quindi il suo contenuto «operativo», sarà dunque che nell'impugnazione di atti vincolati non sono più ammissibili (o comunque che non vale la pena di presentare) motivi di forma. Dunque si può pensare che dopo la prima fase di applicazione, in cui si tratta di giudicare ricorsi proposti prima che la novità normativa entrasse in vigore, e in cui quindi il giudice deve farsi carico di valutazioni e di prospettazioni che il ricorrente non poteva immaginare di dover presentare, torneranno ad affermarsi senza eccezioni le logiche tradizionali del processo, e il giudice tornerà ad aspettarsi che sia il ricorrente a prospettare tutti gli elementi della questione che rendano accoglibile la sua domanda di annullamento, compresa quindi la dimostrazione (o almeno l'affermazione) che il provvedimento poteva, e anzi doveva avere un diverso contenuto. Dunque se la disposizione va riportata al contesto processuale nel quale la sua applicazione si colloca, essa in realtà (8) si traduce o si puntualizza in questo: che chi agisce contro un provvedimento vincolato (e non contesta tale carattere, o, pur contestandolo, si prepara all'eventualità di sentirsi dare torto su questo) non può limitarsi a sollevare motivi di forma o di procedura, ma ha l'onere di 76 prospettare il diverso contenuto (a lui favorevole) che il provvedimento avrebbe, secondo lui, dovuto avere. Che si debba trattare di un contenuto a lui favorevole, è poi ovvio perché altrimenti non si potrebbe dimostrare l'interesse del ricorrente alla decisione, e quindi la sua legittimazione a chiederla. Altro problema è poi se questa prospettazione si possa ricavare, per implicito, dalla vicenda: si potrebbe anche dire che chi ha presentato domanda per ottenere un'autorizzazione, e se l'è vista negare, ricorrendo contro il diniego, quali che siano i motivi di ricorso, agisca in sostanza per ottenere il provvedimento negato, del quale quindi, anche se implicitamente, afferma la spettanza. In questo caso però la affermazione della spettanza, estratta fra le righe della vicenda, oltre a rimanere generica e non argomentata, costringerebbe ancora una volta ad una torsione dei principi fondamentali del processo, non corrispondendo ad una espressa e formale domanda dell'interessato. Non può mancare dunque nel ricorso l'indicazione del possibile contenuto favorevole che il ricorrente si aspettava e quindi, con la contestazione dell'erroneità sostanziale del concreto provvedimento, l'affermazione di una «pretesa». E la nuova norma vuole che comunque questa affermazione di spettanza divenga l'oggetto del processo. In ogni caso, che sia il giudice che, d'ufficio, si debba chiedere se quello dato dall'amministrazione al provvedimento fosse l'unico contenuto legittimamente possibile, o se invece ne fosse possibile o doveroso uno diverso (ma diverso in senso favorevole al ricorrente, altrimenti dovrebbe constatare la mancanza di interesse del ricorrente alla decisione), o che sia il ricorrente che cerca di dimostrare, o che almeno indica, il possibile diverso contenuto, naturalmente a lui favorevole, del provvedimento, oggetto principale del processo diventa la questione se, in base alla legge, avrebbe dovuto essere adottato il provvedimento favorevole al ricorrente (e da esso richiesto) o invece quello in fatto adottato dall'amministrazione (9). Mi pare quindi che si debba dire non solo che l'atto vincolato viziato da soli motivi formali non è più annullabile, ma che (dopo il periodo transitorio in cui si tratta di esaurire i ricorsi già proposti) il ricorso per i soli motivi formali contro atti vincolati non è più ammissibile, almeno sotto il profilo della mancata dimostrazione dell'interesse al ricorso. O che è destinato comunque ad essere dichiarato infondato (10). E questo pare essere precisamente lo scopo della norma, che vuole impedire ricorsi proposti sulla base di soli motivi formali o procedimentali da parte di chi sa di non avere difendibili motivi relativi alla posizione sostanziale. Già nelle prime applicazioni vi è qualche affermazione in questo senso: «il ricorrente omette di allegare alcuna censura di tipo sostanziale, sicché il motivo (mancato avviso dell'inizio del procedimento) si presenta infondato, perché meramente formale...». E ancora: «Mancando ogni censura di tipo sostanziale, risulta evidente che, anche secondo la prospettazione della parte, il provvedimento non avrebbe potuto essere adottato se non con quel contenuto» (11). Non solo però il 21-octies introduce in sostanza, nell'impugnazione di atti vincolati l'onere di prospettare (anche) motivi sostanziali. Si può andare oltre, e sostenere che, una volta chiarito che ci si trova di fronte ad un atto vincolato, i motivi formali siano destinati a restare del tutto e sempre irrilevanti. Si può qui notare, incidentalmente, che al novero dei vizi procedimentali o formali si dovrà probabilmente ascrivere, ai fini dell'applicazione del 21-octies, anche quello di incompetenza (12). Quale che sia l'estensione da attribuire in astratto al concetto di «norme sul procedimento o sulla forma», e corrispondentemente alla categoria dei «vizi formali e procedimentali», si può immaginare infatti che a quest'ultima si finiscano per attribuire, per differenza, tutte le violazioni di norme che non riguardano direttamente il contenuto dei provvedimenti (13). Come che sia, perché i vizi appartenenti a questa categoria possano considerarsi causa di invalidità, tale da condurre all'annullamento, bisogna dimostrare (da parte del ricorrente) o comunque accertare (da parte del giudice) che il provvedimento era viziato (anche) nella sostanza, dato che non aveva il contenuto, favorevole al ricorrente, che avrebbe dovuto avere. Se questo vizio di sostanza non è 77 dimostrato, il provvedimento non può essere annullato, e il vizio di procedimento o di forma resta irrilevante. Se invece il vizio di sostanza è dimostrato, l'annullamento non può non avvenire sulla base dell'accertamento che garantisce la soddisfazione della aspettativa sostanziale del ricorrente, e quindi (solo) sulla base del vizio di sostanza, mentre il vizio formale resta anche in questo caso comunque irrilevante, assorbito in quello sostanziale, il cui accoglimento fa venir meno ogni interesse del ricorrente a sentir pronunciare anche sul vizio formale. E ciò sia che la cognizione sul vizio di sostanza avvenga su domanda della parte (come mi pare inevitabile nella logica del processo) (14), sia che invece si voglia vedere in quella cogni-zione la semplice verifica di una condizione di ammissibilità o di una pregiudiziale per la decisione sulla domanda e si voglia quindi ammettere che il giudice possa e debba provvedervi d'ufficio. In questo caso sarebbe davvero paradossale e antieconomico dire che l'accertamento della legittimità dell'atto non sia che un punto pregiudiziale, che è necessario affrontare per poter passare, nel caso quello dia esito negativo, a valutare la fondatezza del motivo formale sollevato, e che non costituisca motivo della decisione di rigetto della domanda, né su di esso si formi giudicato. 2. Leggendo poi la previsione del secondo periodo, riferito solo alla violazione della norma dell'art. 7 della stessa legge n. 241, che impone come obbligatoria, per tutti i provvedimenti, la comunicazione di avvio, e che riguarda (mi pare) solo i provvedimenti discrezionali (dato che per quelli vincolati vale la frase precedente, che, fra «le violazioni di norme sul procedimento» comprende anche la violazione della norma in tema di comunicazione di avvio) (15) va notata in primo luogo l'improprietà della formulazione secondo la quale si tratta di dimostrare in giudizio, da parte dell'amministrazione, che il contenuto del provvedimento «non avrebbe potuto essere diverso». Trattandosi di provvedimenti discrezionali una tale dimostrazione appare a prima vista impossibile. Ma qui il discorso va diviso. In ogni provvedimento discrezionale vi sono ovviamente aspetti, elementi, punti vincolati, che corrispondono alle prescrizioni da osservare a pena di illegittimità, e profili per i quali è conferito potere di scelta e di valutazione e composizione di interessi. Con riferimento ai primi profili, è naturale che l'amministrazione possa dimostrare che l'osservanza di prescrizioni puntuali (e quindi vincolanti) riferite alla sostanza della decisione non avrebbe portato ad una decisione diversa. Qui si può parlare della dimostrazione che il provvedimento non poteva (o meglio che non doveva) essere diverso. Non si può però comunque dire che si tratti della «solita» difesa in giudizio della legittimità dell'atto, della dimostrazione al giudice (che poi sia una dimostrazione riuscita lo dirà il giudice) che il ricorso è infondato e che l'amministrazione ha (per gli aspetti sollevati) bene operato. Qui infatti la legge autorizza che l'amministrazione risponda ad una contestazione sugli aspetti procedurali, portando la difesa su un piano diverso, quello della conformità alle previsioni sostanziali. La difficoltà è che non si tratta di rispondere a delle contestazioni di illegittimità dimostrandone la infondatezza, ma di dimostrare «a freddo» e in astratto la legittimità del provvedimento sotto tutti i possibili profili sostanziali. Non potendosi immaginare che tocchi all'amministrazione farsi venire in mente tutti i possibili vizi sostanziali e dimostrare che non ci sono, la difesa della legittimità sostanziale del provvedimento (la dimostrazione che non avrebbe potuto o dovuto essere diverso) sarà inevitabilmente generica: l'amministrazione, in assenza di puntuali contestazioni di legittimità sostanziale, che affianchino quella basata sulla mancata comunicazione dell'avvio, non potrà che limitarsi a ripetere di aver bene applicato e bene interpretato le norme e di aver ben accertato i presupposti, tutt'al più limitandosi a migliorare la qualità espositiva della motivazione per dare più minuziosa giustificazione al suo operato. Vi è da aspettarsi dunque che anche in queste ipotesi la logica e le abitudini del processo riconducano ad uno schema fatto di specifiche contestazioni e di puntuali corrispondenti difese. Sarà quindi il 78 ricorrente a sentirsi (e ad essere dal giudice) onerato del compito di dimostrare le ragioni per le quali il provvedimento avrebbe dovuto essere diverso nel contenuto, aggiungendo, ove possibile, alla denuncia del vizio procedimentale quella di altri difetti di legittimità relativi al contenuto. Quanto agli aspetti del provvedimento (del suo contenuto) rispetto ai quali la legge attribuisce all'amministrazione poteri di valutazione e di scelta discrezionale, una tale dimostrazione (che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso) non ha alcun senso: per definizione il provvedimento discrezionale avrebbe potuto essere diverso, se solo l'amministrazione si fosse convinta che l'interesse pubblico lo richiedeva diverso. Si può immaginare che l'amministrazione affermi che il provvedimento non poteva essere diverso, ma non che lo dimostri, dato che la valutazione della doverosità di un certo contenuto rispetto ad altri possibili dipende dall'applicazione di criteri e di metri di valutazione relativi al merito esclusivamente affidati all'amministrazione, e che il giudice non ha il potere di utilizzare direttamente. In tale condizione il giudice non potrebbe quindi valutare se la dimostrazione sia stata raggiunta oppure no, sempre che gli aspetti discrezionali non siano stati del tutto esauriti da atti intermedi del procedimento. A pensare diversamente (16) si chiederebbe al giudice di dire se condivide le valutazioni di opportunità compiute dall'amministrazione, che l'hanno spinta a scartare come peggiore o impraticabile per l'interesse pubblico ogni soluzione diversa da quella seguita. Con ciò si attribuirebbe al giudice, con il potere di valutare l'inesistenza di alternative opportune al provvedimento adottato, quello di giudicare il merito discrezionale delle scelte amministrative. A prendere alla lettera la disposizione, essa sembrerebbe quindi applicabile solo per gli aspetti vincolati, per i profili di conformità del suo contenuto alla legge che non lascino alcun margine, sì da consentire di dimostrare l'inesistenza di qualsiasi legittima alternativa. Se si vuole però dare un senso alla disposizione, compatibile con i poteri che al giudice spettano in ordine all'uso dei poteri discrezionali dell'amministrazione, si deve «tradurre» la formulazione normativa e intendere che il compito dell'amministrazione, per salvare dall'annullamento il provvedimento, sia in realtà quello di dimostrare che anche se il privato pretermesso avesse partecipato al procedimento, la decisione presa avrebbe potuto essere la stessa senza incorrere con ciò nel vizio della funzione discrezionale e cioè nell'eccesso di potere. Deve in sostanza l'amministrazione dimostrare che la partecipazione del ricorrente al procedimento non sarebbe stata significativa, non avrebbe ragionevolmente condotto ad una decisione diversa. Non è però pensabile che sia l'amministrazione a proporsi fittiziamente ogni possibile allegazione e argomentazione che sarebbe potuta provenire dal ricorrente, per dimostrare la sua irrilevanza. Si tratta invece di dimostrare che il provvedimento non sarebbe stato diverso nonostante la partecipazione del privato, anche se il ricorrente avesse portato nel procedimento i suoi argomenti. La dimostrazione della «impossibilità» che il provvedimento fosse diverso deve essere tentata, dall'amministrazione, non in assoluto, ma relativizzata dal riferimento a puntuali dati di fatto nuovi o ad una definita ipotesi alternativa di composizione degli interessi. In concreto dunque toccherà al ricorrente dare un oggetto alle dimostrazioni dell'amministrazione e alle valutazioni del giudice. Il ricorrente, lamentando di non aver potuto partecipare al procedimento, per l'omissione della comunicazione di avvio, dovrà quindi portare nel giudizio le allegazioni e le argomentazioni che avrebbe portato nel procedimento, se ne fosse stato a conoscenza. L'obiezione a questa soluzione potrebbe essere che così si aggrava il ricorrente, e che si trasforma il processo in un procedimento dinanzi al giudice. Ed effettivamente va detto che la soluzione davvero rispettosa del ruolo del processo e delle garanzie del ricorrente sarebbe quella di considerare, come si dovrebbe, l'omissione della comunicazione di avvio come un vizio idoneo in ogni caso a provocare l'annullamento dell'atto, almeno di quello discrezionale, potenzialmente influenzabile dalle argomentazioni che il ricorrente non ha potuto 79 proporre. Da questo punto di vista, si dovrebbe quindi limitarsi a chiedere al ricorrente che dimostri che l'atto non era vincolato. Sembra tuttavia che la volontà della norma sia chiara, nel senso di consentire in ogni caso all'amministrazione la dimostrazione della legittimità del contenuto del provvedimento. Se è così, pare ragionevole che tale dimostrazione abbia almeno dei contenuti puntuali su cui appuntarsi dialetticamente, anziché consentire all'amministrazione una generica difesa delle sue scelte. Una lettura semplificatrice (a danno del ricorrente) e non rispettosa del dettato normativo potrebbe addirittura concludere che tocchi al ricorrente provare che sarebbe stato in grado di portare elementi di valutazione «idonei a incidere, in termini a lui favorevoli, sul provvedimento finale» (17). L'onere di «dimostrazione» che la legge carica sull'amministrazione finirebbe così per cadere, capovolto, come dimostrazione che il provvedimento avrebbe dovuto essere diverso, sul ricorrente. Si dovrebbe invece ribadire che l'omissione della comunicazione di avvio capovolge l'onere della prova, rendendo di per sé annullabile il provvedimento, a meno che l'amministrazione non dimostri che il provvedimento poteva essere ragionevolmente e accettabilmente lo stesso anche se le allegazioni del ricorrente fossero state presenti nel procedimento. Se questo è l'oggetto della dimostrazione che l'amministrazione deve dare, ne risulta una inevitabile distribuzione di compiti e di oneri nel processo: al ricorrente spetta indicare, allegare, i fatti e gli argomenti con cui avrebbe partecipato al procedimento, all'amministrazione dimostrare che quello che il ricorrente avrebbe detto non rende comunque illegittimo l'originario esito del procedimento, che dunque può essere mantenuto nonostante il vizio procedimentale incorso. A ben vedere dunque, al di sotto della approssimativa formula della disposizione del 21-octies, e del più articolato disposto che su quello scheletro la logica del processo impone di ricostruire, si individua una trama, uno schema di ragionamento che ci è ben noto: quello che si percorre quando si valuta il vizio di eccesso di potere, sotto una delle sue forme più caratteristiche. In sostanza dunque il giudizio che in base al 21-octies si deve aprire quando venga denunciato, con riferimento a provvedimenti discrezionali (o agli elementi discrezionali di un provvedimento), il vizio derivante dalla violazione dell'art. 7 della legge n. 241, per omissione della comunicazione di avvio, comporta che il giudice valuti se il provvedimento, così come è stato adottato, risulti irragionevole, indifendibile, sproporzionato, alla luce delle allegazioni di fatti e delle prospettazioni di interessi che avrebbero dovuto trovare spazio nel procedimento e che invece solo ora, nel processo, sono state rese possibili. E quello che ci si aspetta dall'amministrazione (la dimostrazione...) si riduce quindi a questo: argomentare la ragionevolezza, spiegare la accettabilità, del provvedimento nonostante si sia omesso di tener conto delle allegazioni che emergono ora. Se il giudizio si conclude nel senso che tale dimostrazione non sia raggiunta, si giunge all'accertamento che il provvedimento è viziato di eccesso di potere per non aver tenuto conto di elementi significativi e per aver preso una decisione che, alla luce di quegli elementi e dati di fatto, risulta non ragionevole, non giustificata, o non adeguatamente motivata. Anche qui dunque il processo, instaurato sulla base della denunciata violazione dell'art. 7 della l. n. 241, sposta il suo oggetto su un diverso profilo. Non essendo qui però previsto un potere officioso, e non riuscendo verosimile credere che spetti all'amministrazione chiedere in via riconvenzionale l'accertamento (18) della assenza del vizio di eccesso di potere, risulta inevitabile concludere che il ricorso deve arricchirsi di contenuti ulteriori, oltre alla denuncia del vizio procedimentale. Oltre alla denuncia della illegittimità per omissione della comunicazione di avvio, il ricorrente ha infatti l'onere di attaccare il provvedimento sotto il profilo dell'eccesso di potere: di un difetto della decisione discrezionale derivante dall'aver deciso sulla base di un quadro conoscitivo e sulla base di una rappresentazione degli interessi in gioco carente e lacunosa. Dovrà quindi il ricorrente mostrare al giudice quali prospettazioni e allegazioni egli avrebbe potuto 80 portare nel procedimento, e che solo ora, nel processo, è in grado di presentare, perché il giudice si convinca che l'amministrazione, priva degli apporti di conoscenza e di argomentazione che vengono ora presentati, non ha potuto ragionevolmente prendere una buona decisione. Assolto da parte del ricorrente l'onere di introdurre nel processo il tema del vizio sostanziale, toccherà poi all'amministrazione l'onere di dimostrare che tale vizio in concreto non sussiste, spiegando al giudice come la scelta discrezionale compiuta con l'atto sia ugualmente ragionevole e accettabile, nonostante le «nuove» prospettazioni del ricorrente. L'amministrazione dovrà allora o dimostrare che i fatti, gli argomenti e le prospettazioni di interessi operate dal ricorrente erano già stati presenti nel procedimento, ed erano stati valutati nell'assumere la decisione, ovvero spiegare le ragioni per le quali i nuovi argomenti non la inducono a modificare la sua precedente decisione. Si tratta quindi per l'amministrazione di motivare nel processo, costruire nel processo la motivazione non della decisione già presa, ma della decisione confermativa della precedente che prende lì stesso, nel confronto con le allegazioni di merito del ricorrente. Il giudizio cambia quindi natura e funzione: la previsione del 21-octies relativa alla comunicazione di avvio trasforma in effetti il processo in un improprio procedimento di riesame, svolto sotto spoglie processuali, ovvero in una sorta di riapertura del procedimento, del quale una fase omessa si svolge «in diretta» sotto gli occhi del giudice stesso, il quale subito dopo giudica se la motivazione è adeguata e se l'esito corrisponde a criteri di ragionevolezza o pecca invece di eccesso di potere. L'amministrazione «fair» potrà anche giungere ad ammettere che il ricorrente l'ha «spiazzata» con fatti e argomenti che non erano precedentemente emersi e ai quali non si era pensato (19), e annullare d'ufficio, o (con uguali risultati) darsi sconfitta nel giudizio rinunciando a cercare di provare «che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso». In tutti questi casi, quando la «dimostrazione» non vi sia o non riesca convincente per il giudice, non essendosi realizzata la condizione (la dimostrazione che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso) posta dalla legge, di per sé si dovrebbe procedere all'annullamento sulla base del vizio procedimentale dell'omessa comunicazione di avvio. Anche qui però non pare verosimile e sensato che si proceda ad accertare addirittura, alla luce delle nuove allegazioni del ricorrente, la non accettabilità, sotto il profilo dell'eccesso di potere, della decisione presa a suo tempo e confermata in giudizio, solo per farne un punto preliminare alla decisione sul vizio procedimentale. Deve essere piuttosto il contrario, rimanendo il vizio formale assorbito o irrilevante una volta accertato l'eccesso di potere. L'art. 21-octies, in questa sua parte, trasforma dunque l'omissione della comunicazione di avvio da vizio a sé, in ogni caso ragione di invalidità, in un indizio di eccesso di potere, che dà luogo all'annullamento se l'amministrazione non riesce a giustificare, a dimostrare la correttezza dell'atto, mettendo in evidenza che gli elementi di valutazione che il ricorrente avrebbe potuto portare nel procedimento (e che ha invece prodotto nel processo) non sarebbero stati idonei a indurre ad una decisione diversa, e non sono quindi decisivi per far apparire viziata la decisione presa. Tutto ciò, se questa ricostruzione è plausibile, pare assai anomalo. Meglio si immaginerebbe, ove il ricorrente faccia presente al giudice che avrebbe potuto portare nel procedimento fatti e argomenti ulteriori rispetto a quelli che l'amministrazione - lui assente - ha potuto considerare, che il giudice dovesse piuttosto annullare il provvedimento preso rimettendo in sostanza le parti (l'amministrazione e il ricorrente, e le altre parti eventualmente coinvolte) alla sede procedimentale per un «supplemento di istruttoria», e per una nuova e meglio meditata decisione. E ciò solo sulla base di una delibazione della novità e della plausibilità delle nuove allegazioni, e non della loro decisività. Dovrebbe dunque il giudice, nel motivare l'annullamento, costringere in sostanza l'amministrazione a riaprire il procedimento ripartendo dal momento in cui il privato omesso avrebbe dovuto essere messo in grado di entrarvi. 81 Resterebbe poi da chiedersi cosa accadrebbe se, nella impugnazione di un provvedimento discrezionale, alla allegazione del vizio dipendente dalla omessa comunicazione di avvio si affiancassero altri motivi di illegittimità procedimentale o formale. Se davvero si potesse provare che il provvedimento non poteva essere diverso, tale conclusione impedirebbe ragionevolmente di dare rilievo a qualunque altro vizio procedimentale venisse denunciato (ad es. la mancanza di un parere). Così non è, in realtà. E la dimostrazione che il provvedimento non è viziato né per violazione di puntuali previsioni relative al contenuto, né per eccesso di potere, per la non decisività, ai fini della valutazione discrezionale, degli argomenti portati dal ricorrente (a questo riducendosi alla fine la dimostrazione richiesta dalla norma), non traducendosi in un giudizio sulla mancanza di alternative legittime al provvedimento, non è sufficiente a dimostrare l'inoperatività sul contenuto di ogni altro vizio formale. In conclusione: anche la previsione della seconda parte del secondo comma dell'art. 21-octies non può funzionare come il legislatore l'ha pensata. Anche in questo caso il vizio procedimentale, dovendo necessariamente essere «doppiato» dalla allegazione di altri sostanziali vizi, diventa in ogni caso irrilevante, rimanendo inevitabilmente assorbito e superato dall'accertamento di sostanza, condizione per la sua rilevanza. Resta infine da chiedersi se la previsione della «dimostrazione in giudizio» da parte dell'amministrazione comporti l'esistenza di un onere di attivarsi da parte dall'amministrazione in ogni caso, rendendo irrilevante l'eventuale convincimento che il giudice fosse in grado di formarsi, anche senza la collaborazione dell'amministrazione, dell'infondatezza o della pretestuosità dei vizi di sostanza allegati dal ricorrente. Se l'amministrazione non si costituisse, o se non tentasse neppure la dimostrazione di cui la legge le fa carico, potrebbe il giudice considerare comunque non annullabile il provvedimento per il solo vizio di omessa comunicazione di avvio, se si convincesse (o se addirittura gli sembrasse «palese») della assenza di possibili legittime o ragionevoli alternative al provvedimento? In altri termini, ci si potrebbe chiedere se la norma pone davvero un onere formale, e decisivo, di attivazione dell'amministrazione in questo senso. Concludendo questa lettura del secondo comma dell'art. 21-octies: le sue previsioni, esaminate alla luce delle logiche formali e delle concrete modalità di funzionamento del processo amministrativo, si traducono nella inammissibilità di impugnazioni basate esclusivamente, per gli atti vincolati, su vizi procedimentali e formali, e per gli atti discrezionali, sul solo vizio di violazione dell'art. 7 della l. n. 241: la proposizione di tali vizi deve, appunto a pena di inammissibilità, essere accompagnata dalla presentazione di doglianze relative al contenuto. Di più: i vizi formali in questione sono destinati verosimilmente a rimanere sempre irrilevanti, ai fini dell'annullamento dell'atto: le censure sostanziali, la cui fondatezza costituisce condizione perché il vizio formale provochi l'annullabilità dell'atto, devono infatti essere esaminate per prime, ma una volta che le si ritenga fondate, assorbono in ogni caso il vizio formale. Questo esito non è soddisfacente: in presenza di un vizio, come quello di omissione della comunicazione di avvio, che tocca la garanzia di partecipazione al procedimento, e con questa il principio di trasparenza, oltre che la completezza delle istruttorie amministrative, la soluzione più coerente sarebbe che il giudice dovesse limitarsi ad accertare la astratta possibilità di un esito diverso del procedimento, e che, solo su questa base, dovesse procedere all'annullamento per il vizio formale, rimettendo le parti nel procedimento. 3. La previsione della prima parte del comma, relativa al caso dei provvedimenti vincolati, produce poi delle conseguenze sistematiche di notevole significato. I provvedimenti vincolati possono infatti essere annullati solo se si dimostri o comunque risulti che la corretta applicazione del diritto avrebbe condotto ad adottare un atto con il contenuto che il ricorrente chiede, e cioè che al ricorrente «spettava» un provvedimento diverso da quello adottato. 82 L'annullamento avverrà, come si è detto, sulla base della ritenuta violazione delle norme sostanziali che «attribuivano» al ricorrente il vantaggio da lui richiesto. Questa soluzione risponde certamente ad un principio di ragionevolezza (20). Sono chiare però le conseguenze di questa scelta: il giudizio di annullamento di provvedimenti vincolati diventa esclusivamente un giudizio di spettanza. Un giudizio sulla «meritevolezza intrinseca» della pretesa del privato (21). L'annullamento dell'atto vincolato segue dunque (solo) alla valutazione della fondatezza della pretesa del privato (22) e trova solo in questa il suo fondamento. Questa pretesa (la spettanza, ma in questo caso si può senza timore dire: il diritto) (23) è poi definitivamente assicurata nel caso di interessi oppositivi: l'accertamento della illegittimità sostanziale dell'atto, con il suo annullamento, vincola l'amministrazione a non reiterarlo. Nel caso di interessi pretensivi, l'annullamento dell'illegittimo diniego, fondato sull'accertamento della fondatezza della pretesa del privato al «bene» vincola l'amministrazione a dare seguito positivo all'originaria istanza, o nel caso questo non sia possibile, a risarcire il danno. In prospettiva ci si potrebbe chiedere se la prossima tappa dell'evoluzione del processo amministrativo in questo tipo di controversie non potrà essere il superamento delle strettoie del giudizio di annullamento e la esplicita e diretta dichiarazione della «spettanza» del bene richiesto, o addirittura una pronuncia che tenga luogo del provvedimento richiesto. Il giudizio su provvedimenti vincolati non ha quindi più a suo fondamento o a suo oggetto un interesse legittimo e non ha neppure in senso proprio a suo oggetto l'illegittimità dell'atto. Un solo tipo di illegittimità può infatti dar luogo all'annullamento, quella dalla cui dimostrazione risulta provata la «spettanza» del provvedimento. Tanto da dover dire che non è l'illegittimità che porta all'annullamento, è la violazione di una pretesa riconosciuta direttamente dall'ordinamento, la violazione di una «spettanza», la si voglia poi vedere come un diritto oppure no. Abbiamo quindi, nel caso degli atti vincolati, un giudizio diretto e principale su una pretesa di provvedimento (nel caso di interessi pretensivi) o sulla pretesa di non essere disturbati nei propri diritti dal potere (interessi oppositivi). Sarebbe troppo concludere che nel giudizio su provvedimenti vincolati insomma non vi sono più interessi legittimi, ma solo «spettanze» e cioè diritti? E che il processo amministrativo diventa, per questo tipo di controversie, un processo di accertamento «del rapporto», se pur costretto o espresso nelle forme dell'annullamento? Si potrebbe dire di sì. Che il risultato che «spetta» in conseguenza della corretta applicazione di norme che disciplinano l'attività dell'amministrazione costituisca oggetto di un «diritto», sia pure non «schietto» (24), può infatti essere contestato ragionando sulla «direzione» delle norme (25), e ricordando quanto si sostiene tradizionalmente sul carattere «indiretto» ed eventuale della protezione accordata agli interessi dei cittadini dalle norme che disciplinano i poteri della amministrazione. Il potere, oggetto primario e diretto della disciplina, fa da diaframma, si interpone (anche se vincolato nel suo esercizio e nei suoi contenuti), fra le norme e la soddisfazione dell'interesse del privato, ed impedisce di parlare in senso proprio di posizioni dei cittadini direttamente ed incondizionatamente tutelate, alla stregua di diritti (26). Empiricamente però resta il fatto che se la legge prescrive all'amministrazione un certo contenuto di un atto, e questo contenuto soddisfa l'interesse di un soggetto, questo può in qualche modo dire che la norma «gli» garantisce la soddisfazione dell'interesse, senza troppo preoccuparsi della «intenzione» della legge, cioè di quale sia l'interesse che la norma è destinata primariamente e principalmente a tutelare, e senza chiedersi se il suo interesse riceva una tutela che deriva dalla valutazione positiva che l'ordinamento gli riservi, o se invece si tratti solo di una tutela riflessa, che egli ottengo senza che propriamente gli «spetti». Come già si era notato a proposito della questione del risarcimento degli interessi legittimi (27) si 83 sovrappongono e si unificano così i due piani, finora rimasti incomunicanti, della illegittimità del provvedimento e della spettanza del provvedimento favorevole. Come il risarcimento è dovuto se le norme fondano «ad un tempo un dovere dell'autorità e una pretesa dei singoli», così l'annullamento dei provvedimenti vincolati è pronunciato se risulta accertata la violazione delle norme che fissavano il dovere dell'autorità di provvedere in senso favorevole all'interessato, ossia, più brevemente, se è violato il «diritto» dell'interessato. Il legislatore subordina in questo caso l'invalidità alla spettanza, ricollegando l'invalidità alla violazione delle sole norme che assicurano all'interessato l'utilità sostanziale. La possibile trasformazione del processo nel senso di giudizio sulla pretesa sostanziale del privato può leggersi poi, dall'opposto punto di vista, come una trasformazione del processo da giudizio sull'atto sulla sostanza della «pretesa» dell'amministrazione nei confronti del privato (seguendo in ciò l'incerto modello del processo tributario, nel quale si suole dire che, al di là dell'oggetto-schermo rappresentato dall'atto di imposizione impugnato, il suo oggetto vero sia la «pretesa fiscale» dell'amministrazione). Congiungendo i due punti di vista, si dovrebbe arrivare a dire (come già la giurisprudenza inizia a fare) che il processo diventa processo sul rapporto fra amministrazione e privato. Un processo poi caratterizzato, almeno in una certa serie di casi, da una costruzione «in progress» del suo oggetto, che non sarebbe più quello fin dall'inizio segnato dai confini e dai motivi dell'impugnazione. Alla già riconosciuta possibilità, per il ricorrente, di impugnare i provvedimenti sopraggiunti con motivi aggiunti, si affianca ora la possibilità, per l'amministrazione, di aggiungere motivazioni a dimostrazione del fondamento della propria «pretesa» nei confronti del privato. Sotto un altro aspetto, a questo spostamento del focus del processo sulla pretesa del privato, si affianca, in maniera apparentemente contraddittoria, l'emergere di profili officiosi e di torsioni che toccano la disponibilità del processo e dell'azione da parte del ricorrente. Colpisce in particolare (se così si legge il senso della disposizione) l'attribuzione al giudice di un potere officioso di estendere la sua indagine ad aspetti non prospettati dal ricorrente, e la possibilità che il giudicato copra, anche a danno del ricorrente e senza una sua richiesta, i profili della spettanza invece di limitarsi alla mera legittimità formale di un atto: altro è sentirsi accertare che il vizio di forma denunciato non esiste, altro che la pretesa sostanziale non ha fondamento. Anche da questo punto di vista, e non solo per una astratta fedeltà ai principi del giudizio, si deve ritenere auspicabile che la lettura della disposizione vada piuttosto nel senso della inammissibilità del ricorso proposto per soli motivi di forma, in modo che l'accertamento della spettanza (o della non spettanza) dell'atto a contenuto favorevole non sia possibile se non sulla base di una corrispondente domanda dell'interessato. 4. Prima dell'art. 21-octies la dottrina poteva osservare (28) che «l'atto amministrativo vincolato è positivamente trattato allo stesso modo dell'atto discrezionale». Esso ha «alla pari dell'atto discrezionale, efficacia costitutiva dell'effetto; la tutela avverso di esso è concepita, tranne ipotesi particolari, nei termini della tutela tipica dell'interesse legittimo, con tutte le implicazioni che ne derivano, sia in tema di giurisdizione, sia in tema di azioni esperibili». Si notava del resto come la soluzione di diritto positivo «basata sulla omogeneità di disciplina dei provvedimenti (sia vincolati che discrezionali) si mostra anche come l'unica soluzione semplice e razionale, a fronte della infinita varietà in cui profili vincolati e profili discrezionali possono coesistere nei confronti del medesimo atto o di una serie di atti che siano ordinati ad un solo risultato». Ora la omogeneità della disciplina dei provvedimenti, a prescindere dal loro carattere vincolato o discrezionale, viene meno, per aspetti significativi. Per la verità si sa che la giurisprudenza ha già in passato focalizzato degli aspetti della disciplina dei procedimenti e degli atti per i quali il carattere vincolato del potere e quindi del provvedimento consentiva delle eccezioni o delle attenuazioni alla disciplina comune. Senza allontanarsi dal nostro ambito, si pensi ad esempio alla possibilità spesso riconosciuta di omettere, senza incorrere in 84 illegittimità, la comunicazione di avvio del procedimento (29), o alle posizioni assunte da dottrina e giurisprudenza sul diverso atteggiarsi, per i provvedimenti vincolati, dell'obbligo di motivazione (30). Pacifica è poi stata considerata l'esclusione della possibilità di far valere il vizio di eccesso di potere nei confronti di provvedimenti vincolati. Ma anche in tema di silenzio si è ritenuto (prima dell'art. 21-bis della l. Tar) che il carattere vincolato del potere consentisse al giudice di andare al di là del mero riconoscimento del dovere dell'amministrazione di provvedere e di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa (31). Parlando poi del problema del risarcimento degli interessi legittimi si è osservato come l'ingiustizia del danno, per la lesione dell'interesse-diritto al provvedimento, «ricorre certamente in caso di attività amministrativa vincolata» (32). Si tratta dunque di differenze di regime significative, che danno rilievo alla distinzione fra atti vincolati e discrezionali. Resta però che fin qui si trattava di soluzioni giurisprudenziali e di riflessioni dottrinali, mentre la legge non differenziava espressamente la disciplina dei provvedimenti vincolati da quella degli atti discrezionali, né quanto al dovere di motivazione, né quanto alla comunicazione di avvio, né quanto alle possibilità di annullamento. Ora invece è proprio il regime normativo dei provvedimenti amministrativi, e non solo l'atteggiamento della giurisprudenza, a non essere più unitario, e anzi ad essere nettamente divaricato fra provvedimenti vincolati e no. Nasce così un nuovo problema, per la riflessione della dottrina, non meno che per la giurisprudenza. Quello di individuare con chiarezza e senza confusioni i contorni precisi del campo dei provvedimenti vincolati. Ancor prima c'è un altro possibile problema: il dubbio se la disciplina del 21-octies si applichi a tutti i provvedimenti vincolati, o, fra questi, solo a quelli che si fondano su presupposti univoci, semplici da accertare (quelli che la giurisprudenza chiama «presupposti di fatto verificabili in modo immediato ed univoco e non suscettibili di vario apprezzamento»), rispetto ai quali non vi sia spazio non solo per valutazioni, ma neppure per veri e propri accertamenti, se con questi ci si riferisce ad una attività istruttoria ad esito non scontato o predeterminato. Una suggestione in questo senso si ricava probabilmente dalla formula dell'art. 21-octies, dove il riferimento al carattere «palese» della inesistenza di alternative al provvedimento adottato, che sembra autorizzare una cognizione del giudice non richiesta dalle parti e forse perfino non discussa nel contraddittorio fra di loro, può effettivamente rinviare alla situazione in cui ictu oculi, senza bisogno di particolari valutazioni, e senza possibili contestazioni, sia riconoscibile la piena e inevitabile doverosità di quel provvedimento proprio così come l'amministrazione lo ha adottato. Se così fosse rimarrebbero oggetto della previsione dell'art. 21-octies solo quei poteri vincolati che sono da esercitarsi come conseguenza «automatica» e irriflessa di un precedente atto (la revoca dell'autorizzazione al commercio come conseguenza della cancellazione dal registro degli esercenti; l'esclusione da una gara per perdita di validità dell'attestazione di qualificazione rilasciata da una SOA), o di un dato di fatto semplice e innegabile (l'arrivo fuori termine di una offerta o di una domanda rispetto al provvedimento di esclusione dalla gara o dal concorso; l'assenza del permesso di soggiorno rispetto al provvedimento di espulsione dello straniero), risultante da inequivoci documenti dell'amministrazione (la perdita dell'idoneità fisica all'impiego risultante da giudizio di commissione medica non contestato) (33). Una tale limitazione, all'interno della categoria dei provvedimenti vincolati, risulta però arbitraria, oltre ad essere assai incerta e dubbia nei risultati. In verità pare che l'ingenuo legislatore ritenga che per tutti i provvedimenti vincolati possa risultare «palese» se abbiano o no alternative: ossia se il provvedimento adottato sia o no legittimo. Lo fa pensare la formula che dice che «per la natura vincolata, sia palese...». Se così fosse, alla lettera, la questione di legittimità sostanziale dei provvedimenti vincolati dovrebbe sempre lasciarsi risolvere «a 85 prima vista», in maniera ovvia e incontrovertibile. Inutile dire che non è proprio sempre così. La realtà è che è l'intera categoria (e il concetto stesso) di atto vincolato a risultare incerta e sfuggente. Pur senza voler sostenere che si tratti del «frutto di un artificio concettuale» (34) va comunque condivisa l'osservazione (35) che l'ambito del «vincolo» corrisponde alla fine a tutto ciò che il giudice ritiene di poter valutare sotto il profilo della legittimità, e risulta in negativo individuato dall'area occupata da tutti gli aspetti dell'azione amministrativa dall'esame diretto dei quali il giudice si astiene, ritenendoli affidati al potere discrezionale dell'amministrazione o comunque ad una valutazione ad essa esclusivamente attribuita. La cognizione del fatto, gli accertamenti che non si lasciano ricondurre alla logica «binaria» del «si o no», ma che consentono una graduazione, le valutazioni di elementi di fatto da condurre sulla base di conoscenze tecniche, compreso quindi ciò che si riconduce alla discrezionalità tecnica: tutto questo può benissimo risultare compatibile con la nozione di «atto vincolato», rimanendone esclusa solo l'area degli apprezzamenti soggettivi riservati ad uno specifico soggetto, delle scelte da effettuarsi in un ambito di opinabilità, oltre che le scelte frutto di una franca ponderazione di interessi. Se così è dal lato dei fatti, non meno difficile è la situazione dal lato delle norme. Se il carattere vincolato si dà quando la norma da applicarsi al caso ricollega a determinati presupposti di fatto il dovere di esercitare il potere in una predeterminata direzione e con prestabiliti contenuti, l'incertezza può sussistere non solo quanto ai fatti, cui applicare le previsioni normative, ma anche e forse più ancora quanto alla volontà normativa da estrarre dalle disposizioni applicabili (e ancor più a monte, a volte, quanto alla individuazione della disposizione da applicare al caso). La definizione dei contorni della fattispecie legale, le operazioni di interpretazione e di attribuzione di significato ai testi normativi (a testi normativi stratificati, complessi, imprecisi, contraddittori) sono operazioni intellettuali dall'esito tutt'altro che predeterminato e incontrovertibile. Se la individuazione in astratto del novero dei provvedimenti a natura vincolata è dunque operazione dubbia e dagli esiti discutibili, non meno incerto si presenta in concreto il riscontro che i fatti sono stati correttamente accertati nella loro materialità e esattamente inquadrati nella fattispecie giuridica, correttamente interpretata quanto a presupposti e conseguenze, ed alla constatazione che la norma da applicare non consentiva alcuna diversa possibilità di scelta per l'amministrazione. Quanto alla esclusione della possibilità di diverse interpretazioni della norma, e alla individuazione di quale sia l'unica legittima regola di diritto ricavabile dalla disposizione, è ben evidente poi che ciò corrisponde esattamente al proprium della funzione giurisdizionale, alla attribuzione di decidere quale sia la regola di diritto da applicare al caso (36). E infatti è solo la natura della funzione che l'interprete esercita (37) che «rende irrilevante il dubbio circa la possibilità di conclusioni diverse». Alla fine dunque l'ambito di applicazione della regola del 21-octies coincide per necessità logica con «l'ambito entro il quale è possibile il controllo giudiziale» di conformità dell'atto con la fattispecie astratta (38). A ben vedere del resto la individuazione dei provvedimenti vincolati e la esclusione di possibili legittime alternative al provvedimento in concreto adottato sono operazioni intellettuali connesse circolarmente: il legislatore assume che l'esclusione di alternative sia la conseguenza della natura vincolata del provvedimento; ma la natura vincolata viene riconosciuta ad un tipo di provvedimento in conseguenza della valutazione (riservata in ultima analisi al giudice) che la norma non consenta se non una possibile soluzione ed escluda la possibilità di scelte diverse. Una delle possibilità che sul punto si presentano è che il 21-octies finisca per trovare applicazione a singole parti o aspetti vincolati di una fattispecie più complessa, e quindi anche a casi nei quali, accanto ad ambiti vincolati, sussistano più o meno ampi margini di discrezionalità (39) e quindi a ipotesi nelle quali non il provvedimento finale nel suo insieme, ma singoli elementi del suo contenuto risultino viziati negli aspetti formali ma privi nella sostanza di legittime alternative. Verrebbe così estesa la regola dell'irrilevanza del vizio formale anche a fattispecie nell'insieme da caratterizzarsi come non 86 vincolate. Resta poi da chiedersi se la natura vincolata sia da riconoscersi solo in astratto e a priori o se si debba ammettere anche, in concreto, nei casi in cui lo svolgimento e le acquisizioni del procedimento così come precedenti atti dell'amministrazione escludano in sostanza ogni ulteriore margine di scelta, sì da lasciare all'amministrazione una sola legittima possibilità di azione. Sono questi i casi che la giurisprudenza tedesca vede quando «nur noch eine Entscheidung richtig (rechtsfehlerfrei) ist» e che si contrassegnano come Ermessensreduzierung auf Null. Si riferiscono forse (ma un po' impropriamente a queste ipotesi) le affermazioni che si riferiscono, come possibile campo di applicazione dell'art. 21-octies, oltre che ai provvedimenti vincolati, anche a quelli caratterizzati da un «basso tasso di discrezionalità» (40). 5. La norma del 21-octies apre poi la strada a un possibile esito concettuale relativo alla nozione di invalidità. L'uso corrente dei giuristi è, da un tempo che può sembrare immemorabile, di utilizzare le due nozioni di illegittimità e di invalidità come pieni sinonimi, come nozioni coincidenti. Ciò perché vi è (vi era, come si dirà) una corrispondenza biunivoca fra illegittimità e invalidità, nel senso che l'illegittimità non ha, nel nostro sistema, altra conseguenza che l'invalidità, e l'invalidità non ha altra causa che l'illegittimità. Proprio la identificazione fra illegittimità e invalidità mette in ombra di solito il collegamento di altre figure, quali l'irregolarità e la nullità, con l'illegittimità. Quanto alla prima riesce difficile dire che si tratti di una illegittimità che, per la ritenuta lievità o irrilevanza, non dà luogo, nella applicazione giurisdizionale, al regime della invalidità. Quanto alla seconda, risulta faticoso prendere atto che ci sono delle illegittimità cui consegue un regime di invalidità diverso e più grave dell'annullabilità, per cui si preferisce collegarla all'assenza di elementi strutturali dell'atto, con la conseguente sovrapposizione alla figura della inesistenza. Si poteva quindi sostenere che «finché in diritto positivo dalla illegittimità di un provvedimento amministrativo... discenderà immancabilmente la sua invalidità... la illegittimità e l'invalidità costituiranno le due facce di una stessa medaglia...» (41). Ora però la legge, il nostro art. 21-octies, dispone che alcuni provvedimenti viziati di illegittimità non siano, in certi casi, annullabili. Questo ci costringe a percorrere a ritroso il cammino a suo tempo compiuto in dottrina (42) e che ha portato a rinunciare in sostanza a distinguere le due nozioni, e di tornare a ricordare che invalidità e illegittimità sono due situazioni, due concetti diversi, e che il rapporto tra le due nozioni è quello che lega la causa con la conseguenza: l'invalidità è la conseguenza, e l'illegittimità la causa. La più attenta dottrina (43) aveva già messo bene in evidenza come la nozione di invalidità fosse caratterizzata da una duplicità di prospettiva, quella che accentua il profilo causale (e perciò identifica l'atto invalido con quello difforme dal diritto), e quella che sottolinea l'aspetto effettuale della nozione (e identifica quindi l'atto invalido come l'atto attualmente o potenzialmente inefficace). Si tratta ora, mi pare, di prendere atto della separazione delle due prospettive, e costringerci a rivedere quella che non è, forse, se non una lunga e pigra tradizione di lessico. Può darsi infatti, alla fine, che si tratti solo di una convenzione linguistica, e che il problema sia solo di intendersi (44). A ben vedere si potrebbe in qualche modo sostenere che la corrispondenza biunivoca immancabile fra invalidità e illegittimità si sia già rotta dall'interno, e da molto tempo, attraverso l'evoluzione che il concetto di legittimità ha subìto. Da molto tempo, e senza scandalo, si attribuisce il regime dell'invalidità ad atti per i quali non vi è propriamente difformità dalla legge, da uno schema legale precostituito, ma che presentano quel vizio della funzione che risulta dalla valutazione della ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza delle scelte. Sotto questo punto di vista dunque si potrebbe dire che la corrispondenza e la identificazione fra illegittimità e invalidità è già stata alterata, senza che ce ne rendiamo conto, dall'evoluzione profonda e 87 radicale del concetto di illegittimità, dentro la quale sta ora ben altro che la conformità ad uno schema legale, e ben di più di quello che continuiamo a chiamare il «rispetto della legge». È ben vero che in questa prospettiva non si trattava in sostanza che della constatazione che l'area del diritto è più ampia di quella della legge. Già da tempo lo schema scolastico della qualificazione di invalidità come strumento per garantire l'effettività del principio di legalità si dimostra stretto rispetto alla realtà, nella quale il principio di legalità formale ha lasciato spazio alla concreta valutazione della «accettabilità delle decisioni dell'amministrazione alla luce dei correnti canoni di logicità e ragionevolezza» (45). Sempre più, sotto lo schema dell'eccesso di potere, l'invalidità di un provvedimento amministrativo è fatta dipendere da un giudizio che, abbandonati i canoni della valutazione di corrispondenza fra norma ed atto, diventa un giudizio talvolta sintomatico, ma non di rado anche sintetico e diretto sul contenuto della decisione e sulla sua adeguatezza concreta agli scopi della funzione esercitata. Si tratta di valutazioni che toccano addirittura la «bontà sostanziale» dell'agire della pubblica amministrazione (46) e che sembrano rientrare nella nozione di «legittimità» più per le conseguenze che ad esse si vogliono far conseguire (appunto l'invalidità), che per la loro riportabilità ad un giudizio di legittimità in senso proprio. Sotto un altro punto di vista, una corrispondenza o identità fra illegittimità e invalidità non vi era quando l'invalidità poteva derivare anche da vizi di merito. Se l'ordinamento tornasse a dare ad un organo di controllo o ad un giudice il potere di annullare, ex tunc o ex nunc, degli atti per vizi di merito, con ciò sottoponendo l'efficacia di un provvedimento all'esito di una valutazione di opportunità, di merito, avremmo dei casi di provvedimenti invalidi ma non illegittimi. Ora invece quella identificazione fra illegittimità e invalidità viene meno in un altro senso, perché il legislatore dispone che ci siano provvedimenti illegittimi ai quali non viene attribuito il regime dell'invalidità, cioè che non risentono conseguenze, sulla loro efficacia durevole e garantita, per il fatto di essere illegittimi, o (è lo stesso) che ci siano provvedimenti illegittimi che il giudice non ha il potere di annullare (47). È necessario dunque ora avere chiaro che l'invalidità è il regime che l'ordinamento riserva agli atti che, non rispettando il diritto, sono da qualificarsi come illegittimi, e più esattamente è il regime della loro efficacia. Non è qui evidentemente il caso di affrontare il tema, arduo e controverso, della invalidità e i problemi che si presentano a chi voglia tentare di studiarne il concetto (48). Sarà sufficiente qualche cenno per chiarire a quale contesto terminologico e concettuale ci si riporta. Secondo l'antico insegnamento in base al quale «Necesse est ut quod contra legem actum est non habeat firmitatem» (49), l'ordinamento riserva all'atto giuridico contra legem, e quindi non legittimo, un trattamento che comporta che l'atto stesso non sia vigoroso, efficace (secondo l'etimo latino di validus), che non abbia firmitatem, ossia stabilità, persistenza, che sia, insomma, invalido. Non può infatti ammettere l'ordinamento che l'atto compiuto in spregio del diritto obbiettivo che lo disciplina sia in grado di produrre gli effetti che l'autore intendeva con esso raggiungere, o perlomeno, che li produca con la stessa permanenza e incontestabilità che sarebbero propri dell'atto conforme al diritto. L'interesse dell'ordinamento, o, se si vuole, del legislatore, a garantire, in particolare, l'effettività delle sue prescrizioni circa i limiti, i modi e i contenuti degli atti esercizio di potere pubblico, fa sì dunque che al mancato rispetto delle sue previsioni vengano collegate delle conseguenze sull'efficacia dell'atto. L'ordinamento ritiene dunque di solito necessario, in vista dell'interesse alla sua stessa complessiva vigenza e credibilità, prevedere che il regime dell'atto non conforme alla norma giuridica comporti che la sua capacità di produrre effetti sia in qualche modo condizionata e inficiata, restando esposta a una sua eliminazione. Il concreto avverarsi di questa è poi soggetto, secondo la figura tecnica dell'annullabilità, alla mediazione degli interessi coinvolti (50), nel senso che l'efficacia del provvedimento illegittimo è messa a disposizione del portatore di un interesse (la stessa amministrazione per l'annullamento d'ufficio, il privato leso per l'annullamento su ricorso), è fatta 88 dipendere dalla decisione o dalla richiesta di questo «portatore di interesse» che l'efficacia dell'atto venga cancellata. Una volta ammesso, sul piano concettuale, che le due nozioni di illegittimità e di invalidità siano distinte, e fissato il concetto che il regime dell'invalidità non è una conseguenza «naturale» dell'illegittimità, ma è il risultato di una ulteriore decisione normativa, vi è però da chiedersi quale senso e quale giustificazione possa avere la scelta legislativa di tenere, anche praticamente, separate le due condizioni, contro una tradizione che le collegava in maniera talmente stretta e automatica da indurre a fonderle nell'uso linguistico. Bisogna poi chiedersi se una tale scelta sia a sua volta legittima, dal punto di vista delle regole costituzionali cui il legislatore non può mancare di portare rispetto. Sotto il primo punto di vista si deve molto semplicemente ipotizzare che l'interesse del legislatore (o dell'ordinamento) a dare garanzia ed effettività al principio di legalità dell'azione amministrativa, «sanzionando» sul piano dell'efficacia degli atti le violazioni alle regole relative all'esercizio dei poteri amministrativi, non sia considerato più così primario e assoluto come lo si riteneva finora. E che anzi l'interesse alla garanzia della legalità venga in questo momento storico considerato, dal legislatore, di minore peso rispetto all'interesse al più rapido ed efficace raggiungimento dei risultati che ci si aspetta dall'azione amministrativa. Sulla base di una siffatta valutazione di interessi, il legislatore sceglie di privilegiare, su quello alla legalità e sulla conseguente tutela del privato che ha interesse a far valere la violazione occorsa, l'interesse alla conservazione dell'atto e al raggiungimento degli scopi dell'azione amministrativa. Una volta perso, nell'ordinamento e nel sentire comune, il senso della legalità come valore in sé; abbandonata l'idea che solo dalla legalità l'autorità amministrativa tragga la legittimazione del suo ruolo e del suo potere; screditata spesso la legge stessa a strumento contingente e opportunistico di questo o quell'interesse; inflazionato l'ordinamento con profluvi di norme complicate, contraddittorie e (percepite spesso come) inutili; rotta «l'identificazione fra agire efficiente e agire legale» (51) e abbandonata l'idea che il miglior agire dell'amministrazione richieda il rispetto minuzioso di ogni singola regola, vengono meno le basi culturali stesse poste a fondamento del tradizionale automatismo che vedeva collegati indissolubilmente la illegittimità, qualunque tipo di illegittimità, e l'invalidità del provvedimento. Quanto al punto se la scelta normativa di escludere la conseguenza dell'invalidità per la violazione di una certa serie di norme sia o no conforme ai precetti costituzionali, è evidente che i dubbi di costituzionalità sono tutt'altro che peregrini. E non tanto sotto il profilo della violazione del primo comma dell'art. 113 Cost., dato che si potrebbe ben sostenere che la garanzia costituzionale della tutela dell'interesse legittimo sia compatibile con una evoluzione dei confini e del contenuto di quella posizione soggettiva, quanto, come è ovvio, sotto il profilo della «limitazione a particolari mezzi di impugnazione», di cui al secondo comma dello stesso art. 113. Può essere interessante ricordare la situazione normativa di cui la Corte costituzionale ebbe occasione di occuparsi (per dichiarare l'illegittimità costituzionale della norma) con la sent. n. 40 del 1958. Nella legge istitutiva della IV sezione del 1889 si escludeva che certi tipi di atti (le decisioni ministeriali in materia di controversie doganali) potessero impugnarsi per violazione di legge, limitando la ricorribilità di tali decisioni ai vizi di incompetenza e di eccesso di potere (inteso allora come «difetto di potere amministrativo»). I lavori preparatori della legge giustificano questa previsione con la considerazione che «la maggiore tutela degli interessi individuali sarebbe riuscita irreparabilmente dannosa alla difesa ed all'economia sociale». Quindi si tratta, allora come oggi, di una valutazione (della stessa valutazione) di interesse pubblico: nel possibile contrasto fra la difesa degli interessi individuali (per il tramite di un rigoroso rispetto della legalità) e il perseguimento dell'interesse pubblico, è la prima che il legislatore sceglie di limitare. 89 Né varrebbe obbiettare che qui la limitazione non toccherebbe la ricorribilità, quanto il regime sostanziale degli atti. All'evidenza infatti non si tratta che di due modi diversi di descrivere una analoga situazione. In conclusione dunque si potrebbe dire che il legislatore ha ridefinito con la novella legislativa il rapporto fra l'illegittimità e la invalidità, decidendo che il regime dell'invalidità, nella forma dell'annullabilità, non consegua a certe forme di illegittimità. Avendo ritenuto non corrispondente all'interesse pubblico considerare annullabile un provvedimento illegittimo per ragioni di illegittimità che non toccano il contenuto provvedimentale, ha ritenuto cedevole, non meritevole di tutela in questi casi l'interesse (legittimo) del privato ad ottenere l'annullamento in ragione di quei vizi. O, si potrebbe dire, ha ridefinito il concetto di interesse legittimo nei confronti di certe categorie di provvedimenti, restringendolo alla violazione di norme che conferiscono al privato una utilità sostanziale. 6. Si è detto sopra che al centro del giudizio su provvedimenti vincolati sembrerebbero non esservi più interessi legittimi, ma solo «spettanze» e cioè diritti. Se pare troppo forte dire che l'interesse legittimo scompare dal processo sulla illegittimità di provvedimenti vincolati, e che si tratta ormai di un processo su diritti, si può convenire di continuare a chiamare interesse legittimo la posizione di chi intende dimostrare, e vedersi riconoscere, in giudizio la spettanza di un provvedimento con un certo contenuto, tenendo presente però che si tratta di un interesse legittimo di qualità e di trama affatto diverse da quelle che eravamo soliti attribuire tradizionalmente a quella posizione soggettiva. Pare che la disposizione del 21-octies rappresenti un passo in avanti nella direzione a suo tempo lucidamente intravista (52) da chi parlava de «l'impossibilità di dedurre motivi meramente for-mali che non diano alcun conto della meritevolezza e fondatezza della posizione giuridica (e della correlata pretesa) fatta valere». Si compie dunque quella evoluzione della nozione di interesse legittimo che un illustre Autore (53) aveva ben capito (e valutato negativamente) dicendo che «è fin da adesso prevedibile con assoluta precisione» l'esito dell'evoluzione dei caratteri della giurisdizione amministrativa: «la inammissibilità nel ricorso, dei motivi che non si ricolleghino alla violazione da parte del provvedimento impugnato di norme di cui non sia percepibile una correlazione con gli interessi del ricorrente» (54). L'evoluzione nella nozione di interesse legittimo che possiamo riconoscere nella previsione dell'art. 21octies va del resto nello stesso senso di quella che è stata segnata dal riconoscimento della risarcibilità dell'interesse legittimo o meglio dell'interesse-diritto al provvedimento, anche nella forma attenuata e probabilistica della chance. Anche su quel versante infatti il carattere solo strumentale aveva lasciato il campo al riconoscimento di una pretesa direttamente tutelata. E non è affatto casuale che la dottrina che ha ragionato sulla sent. n. 500 del 1999 della Corte di Cassazione abbia notato come proprio nel caso dell'attività amministrativa vincolata si desse con certezza il presupposto per riconoscere il risarcimento, dato l'esito scontato del «giudizio prognostico» diretto a stabilire se, in base alla normativa di settore, «il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva». Così l'interesse-diritto al provvedimento, che configura «una vera e propria pretesa al provvedimento», che ricorre «certamente in caso di attività amministrativa vincolata» (55) e che dà fondamento, ove resti insoddisfatta, ad una pretesa risarcitoria, si pone esattamente nella stessa logica (o meglio, coincide perfettamente) dell'interesse-diritto al provvedimento (con la spettanza del provvedimento favorevole) che l'art. 21-octies vuole al centro della cognizione nel caso di impugnazione di atti vincolati. L'uno e l'altro caso mostrano parallelamente una drastica evoluzione (o addirittura un mutamento genetico) dell'interesse legittimo. 90 Allargando un po' la prospettiva mi pare che si possa immaginare che la valutazione della illegittimità formale (ma si potrebbe più seccamente dire: della illegittimità come conformità a norme) sia recessiva e destinata a scomparire anche quando il processo amministrativo abbia ad oggetto provvedimenti discrezionali. E non solo per la prevedibile tendenza espansiva del concetto di «provvedimenti vincolati». Essendo tali quelli che possono formare oggetto di valutazione piena del giudice (56), si tratta di un dato dinamico ed evolutivo. E non solo per il prevedibile «contagio» dell'idea dell'irrilevanza dei vizi formali, che non potrà restare confinata ad una certa serie di controversie. Ma soprattutto perché pare di poter leggere nelle linee evolutive del processo sull'uso del potere discrezionale la progressiva tendenza a farne un processo che si risolve sulla valutazione (analitica e sintomatica, ma talvolta anche sintetica e diretta) della accettabilità, della ragionevolezza, della plausibilità (sociale, tecnica, economica) dell'uso del potere. Sempre più il giudizio sui provvedimenti discrezionali, imperniato ormai sull'eccesso di potere, si approssima e si confonde con un giudizio di merito, sia pure ragionato e rigoroso, e non «capriccioso» e soggettivamente arbitrario. In questo tipo di giudizio i vizi di procedimento, ma più in generale i vizi di violazione di legge, hanno solo la funzione di un sintomo, di un indizio del cattivo uso del potere. Come segni di slealtà, di prevaricazione, di arroganza, o di trascuratezza e cialtroneria del potere. Essi però, di fronte ad un giudizio complessivo di accettabilità, di ragionevolezza dell'uso della discrezionalità (del risultato di questo uso), non hanno, o si può prevedere che perderanno, rilievo autonomo. In questo quadro si può immaginare che la violazione di legge costituisca da sola ragione di annullamento solo quando sia in sé sufficiente a destare un «allarme sociale» o un risentimento di opinione pubblica, o quando abbia dei riflessi organizzativi per la stessa pubblica amministrazione (e questa è la ragione per cui il vizio di incompetenza potrebbe continuare ad avere autonomo rilievo). Comunque anche di fronte a provvedimenti discrezionali scompare l'interesse legittimo come quella figura «strabica», scissa su due piani diversi e non (non necessariamente) comunicanti: quello della legittimità del provvedimento e quello della lesione dell'interesse sostanziale. Ora i due piani si unificano, e l'interesse legittimo è sempre più (come pronosticava A. Romano) quell'interesse sostanziale che è tutelato se sono violate le norme che lo prendono in considerazione, che c'è, come posizione difendibile, se l'illegittimità denunciata lo lede. Quindi da una parte l'interesse legittimo si dissolve nella logica della spettanza, e cioè del diritto. E per questo verso scompare, anche se si tratta pur sempre di un diritto che si confronta con il potere, e che richiede tecniche di accertamento e di valutazione che certo non sono quelle dei diritti civilistici. Dall'altra parte l'interesse legittimo si trasforma nella pretesa ad un comportamento leale, e a scelte ragionevoli, proporzionate e non vessatorie. E anche per questo verso si «sostanzializza». Pur nell'impossibilità di condurre a giudizi di spettanza, di fronte al potere discrezionale, la pretesa o l'aspettativa che l'interesse legittimo veicola è riferita al contenuto delle scelte, alla loro sostanza, mentre la violazione di prescrizioni formali viene in questione come sintomo, indizio, della sleale privazione di una possibilità di spettanza, e non come difetto dell'atto di per sé decisivo. Rimane dell'interesse legittimo (sempre ammesso che davvero siano ad esso riportabili) tutto il fascio dei «diritti procedimentali»: il diritto alla partecipazione, all'informazione, ad esercitare influenza e controllo sull'uso del potere pubblico che ci tocca. Ma l'interesse legittimo non comporta più la possibilità di «servirsi» di qualunque illegittimità, in vista di un interesse la cui soddisfazione non può essere garantita se non quando coincida con la soddisfazione dell'interesse pubblico, e cioè con la legalità. E ciò perché è venuto meno il bisogno dell'ordinamento di servirsi degli interessi dei cittadini per ristabilire la legittimità, per difendere il principio di legalità. L'interesse legittimo figlio e strumento del principio di legalità ha cambiato volto perché viene meno il 91 suo presupposto, e cioè il principio di legalità così come si configurava quando l'interesse legittimo è nato e ha conosciuto i suoi fasti. È venuta meno l'idea della giurisdizione oggettiva, come è venuta meno la rilevanza del principio di separazione dei poteri. E inoltre è venuta meno l'idea che il rispetto della legalità si identifichi automaticamente con il trionfo dell'interesse pubblico. Si perde, nell'ordinamento e nel sentire comune, il senso della legalità come valore in sé; del resto la legalità non serve più come unico o principale mezzo per legittimare il potere dell'autorità. L'amministrazione si conquista la sua legittimazione sociale non col rispettare la legge, ma con la efficienza e con il fare le cose che ci si aspetta da lei, con il rispondere, di volta in volta, alle attese, spontanee o indotte, che si creano nei suoi confronti, oppure con una (vera o presunta) rappresentatività. Il meccanismo di legittimazione del potere tramite la legge si è rotto. E del resto la legge non solo ha perso la capacità di legittimare i poteri delle istituzioni, ma si è talvolta screditata a strumento contingente e opportunistico di questo o quell'interesse. Ma l'interesse legittimo scompare anche perché non c'è più bisogno di lui. Nasce come modo di ottenere tutela (occasionale, riflessa) di fronte ad una amministrazione insindacabile. Se si può ora rivalutare la sostanza delle decisioni, stringere d'assedio il merito delle scelte, verificarne la correttezza e la difendibilità, non c'è più bisogno di conservare quella tutela indiretta e imprecisa, che talvolta ottiene troppo (l'annullamento, quando non c'è spettanza) e talvolta troppo poco (l'annullamento, quando c'è spettanza). Si può quindi immaginare che come risultato della evoluzione in atto, della quale pare che anche la previsione del 21-octies sia un passaggio significativo, si possa arrivare ad un assetto di giustizia amministrativa che, per i provvedimenti vincolati (nel senso ampio cui si accennava), giudica sulla spettanza; e per quelli discrezionali valuta direttamente (nel merito...) il buon uso del potere, assumendo i vizi procedimentali e di forma come indizi del contrario. 7. Queste sulla natura e nozione di interesse legittimo, sulla nozione di invalidità, sull'idea di legalità, sono riflessioni che navigano nei cieli della teoria. Se vogliamo però concludere con delle riflessioni «in terra», è cioè sulle conseguenze concrete, su quello che ci si può aspettare in prospettiva (ma non lontana) dall'ingresso della nuova disposizione nel sistema, mi pare che si possa essere discretamente pessimisti. La disposizione dell'art. 21-octies è in grado di produrre conseguenze riflesse di grande rilievo, di muovere una valanga anche e forse soprattutto sul piano culturale. La conseguenza più grave che si può prospettare è l'alimento che può venirne all'idea della irrilevanza del procedimento, l'apertura di una prospettiva di «deprocedimentalizzazione» del potere (di quello vincolato, per cominciare...). In prospettiva, l'attività ora regolata come procedimento diventa al limite del tutto informale, non partecipata, segreta, «privatizzata» o «aziendalizzata», purché risulti alla fine che il «risultato», l'assetto finale, era quello che la legge voleva (secondo la valutazioni a posteriori condotta dal giudice). Potrebbe esserne intanto incoraggiata una tendenza al venir meno delle garanzie, dalla partecipazione alla motivazione, con il sacrificio della trasparenza e della pubblica controllabilità. Un primo e più immediato risultato pare già ben delineato: l'obbligo di motivazione dei provvedimenti vincolati è «colpito e affondato»: la regola dell'art. 3 della l. n. 241 è vanificata e resa irrilevante per una ampia serie di atti. Di questo già ci sono univoci e assai diffusi segni nella prima giurisprudenza sull'art. 21-octies(57), che seguono ai dubbi già a suo tempo emersi sulla necessità della motivazione per atti vincolati. Sarà pur vero che per gli atti vincolati non si tratta di motivazione nel senso (proprio?) di esposizione della ragione delle scelte sull'assetto degli interessi coinvolti, ma non si può negare che, anche quando siano normativamente prefissati i presupposti e i contenuti del provvedimento, sia regola di garanzia e di trasparenza indicare quali sono i fatti, quali le norme applicate, quale l'interpretazione che di esse si è 92 data. Vi è poi da temere che lo spirito di irrilevanza del procedimento e delle forme non si fermi entro i confini degli atti vincolati, e divenga cultura e atteggiamento dell'amministrazione. Non meno preoccupante è la messa in discussione, anche per i provvedimenti discrezionali, della garanzia rappresentata dalla partecipazione degli interessati al procedimento: con il principio che i provvedimenti possono, in sostanza, essere adottati senza che gli interessati siano stati messi in condizione di partecipare, purché si riesca a motivare a posteriori il provvedimento comunque adottato, non solo si rinuncia a un punto fondamentale della legalità procedimentale, ma si mette a rischio la stessa qualità delle decisioni dell'amministrazione, che è autorizzata a rinunciare, privandosi dell'apporto degli interessati, ad uno strumento insostituibile di acquisizione di elementi conoscitivi e di punti di vista (58). Da un punto di vista più generale ci si deve chiedere che senso abbia prevedere, da un lato, delle regole (nel caso che ci interessa, regole relative al procedimento o alla forma), per poi dire che la loro violazione non ha conseguenze, e in particolare che non ha la conseguenza dell'invalidità, sotto specie di annullabilità, che è collegata a tutte le altre violazioni di regole di diritto (e anche, come visto, di molte altre regole non scritte di razionalità, di ragionevolezza, di proporzionalità, di «giustizia»). E se sia ragionevole svalutare il principio di legalità, consentendo che vi siano delle norme, vigenti, ma non più sanzionate in nessun modo, il cui mancato rispetto non ha più alcuna conseguenza. Sembrerebbe una scelta perdente e contraddittoria. La sola soluzione accettabile parrebbe invece quella di eliminare le norme il cui rispetto non sia ritenuto indispensabile, di sfoltire, tagliare, ridurre, semplificare le previsioni procedimentali e formali. Lasciando in vigore solo quelle considerate dal decisore politico (perché questo è il suo compito) necessarie per il bene di tutti, indispensabili per il funzionamento del sistema e per il rispetto dei diritti dei cittadini, e sanzionando pienamente e rigorosamente la loro inosservanza. Si è scelto invece di lasciare formalmente in vigore tutto il castello delle norme che il legislatore stesso sembra considerare superflue, svalutando però le conseguenze della loro violazione. Si fa in questo modo della cattiva pedagogia nei confronti della amministrazione. La si delegittima, e si colpisce la fiducia del cittadino. Forse sarà un eccesso di pessimismo, ma non pare che il risultato, in prospettiva, sia positivo. Note: (*) Relazione al Convegno La giustizia amministrativa in trasformazione. Giornate in ricordo di Sebastiano Cassarino, Verona, 21-22 ottobre 2005. (1) A. Calegari, Sulla natura sostanziale o processuale e sull'immediata applicabilità ai giudizi pendenti delle disposizioni concernenti l'annullabilità dei provvedimenti amministrativi contenute nell'art. 21octies della l. n. 241 del 1990, nel sito www.giustamm.it. (2) Ci si potrebbe anche chiedere se non sia fuori luogo parlare di «indagine», se il carattere «palese» comportasse che si debba trattare solo di prendere atto, ictu oculi, di una evidenza (così ad es. Tar Sardegna, 25 maggio 2005, n. 1170). Per «palese» però potrebbe intendersi non solo ovvio, lampante a prima vista, ma anche certo, indiscutibile, incontrovertibilmente dimostrato. (3) Cons. Stato, Sez. IV, 20 settembre 2005, n. 4836. Sul problema se la norma sia sostanziale o processuale, va osservato che le due qualificazioni sono evidentemente indistricabili, sono due punti di vista, due modi di dire la stessa cosa. Che si può esprimere qualificando certi provvedimenti come invalidi e traendone la conseguenza che il giudice, che li riscontra tali, li può annullare, o all'opposto attribuendo al giudice, nei confronti di provvedimenti fatti in una certa maniera o con certe caratteristiche, il potere di annullarli. Il punto di vista del processo e quello del regime degli atti non sono appunto che due prospettive diverse da cui si osserva lo stesso fenomeno. (4) Tar Abruzzo, Pescara, 14 aprile 2005, n. 185. (5) Tar Campania, Napoli, 12 aprile 2005, n. 3780. 93 (6) Tar Puglia, Lecce, 9 settembre 2005, n. 4207; Tar Sardegna, 25 maggio 2005, n. 1170: «vero è che così il giudice non si limita più a giudicare... della legittimità della determinazione amministrativa in relazione ai motivi di censura dedotti». (7) Per far fronte al problema di dare fondamento al potere del giudice di «verificare il contenuto del dispositivo» (dell'atto) in assenza di domanda in tal senso del ricorrente, si è ipotizzato (Tar Lazio, Latina, 10 giugno 2005, n. 534), con riferimento alla norma della seconda parte del comma, che l'amministrazione che si costituisce e invoca l'applicazione della disposizione dell'art. 21-octies «finisce per proporre al giudice una istanza che assume consistenza e caratteristiche molto simili, se non proprie, a quelle di una domanda di tipo riconvenzionale, con la quale si amplia (se non addirittura si fa mutare, in parte qua) il thema decidendum». Più comunemente però la giurisprudenza ammette che si tratti di una cognizione non provocata da una domanda di parte. (8) Come già è stato notato: cfr. E. Follieri, L'annullabilità dell'atto amministrativo, in Urb. e app., 2005, 627. (9) Ciò, ancora una volta, sulla base del riconosciuto o ammesso carattere vincolato del provvedimento. Ove il giudice si convinca della natura discrezionale del provvedimento, procederà a valutare la fondatezza del motivo «formale», e, ove la riconosca, ad annullare l'atto. Vi è però da pensare che il modello rappresentato dalla previsione della prima parte dell'art. 21-octies, secondo comma, possa estendersi fino a configurare un principio di generale irrilevanza dei vizi formali e procedimentali, ove essi non rinviino, come indizi, ad un più radicale vizio della funzione. (10) Si pone infatti il problema del tenore che dovrebbe assumere la pronuncia di rigetto del ricorso proposto per motivi formali, una volta che si accerti che il provvedimento vincolato sia palesemente legittimo, e quindi privo di alternative. Sul dubbio se si tratti di una pronuncia di infondatezza o di inammissibilità si potrebbe osservare che in effetti il motivo formale può non essere infondato, dato che l'illegittimità sussiste, ma non può più essere un motivo di annullamento, ossia è un motivo non accoglibile. E un ricorso che si basa su di un motivo non accoglibile si dovrebbe definire privo di fondamento. Però si potrebbe anche (forse più correttamente) dire che, una volta constatata la palese legittimità sostanziale dell'atto, il motivo di forma non può proprio essere conosciuto, e che la relativa domanda, non idonea a provocare l'obbligo del giudice di pronunciarsi nel merito, è inammissibile. (11) Tar Puglia, Lecce, 9 settembre 2005, n. 4207. (12) In questo senso Tar Campania, Salerno, n. 1521 del 2005, e Tar Lazio, Latina, ord. 20 maggio 2005, n. 369. (13) Salvo che non si voglia vedere, quanto al rispetto delle regole sulla competenza, uno specifico interesse organizzativo dell'amministrazione, che meriti comunque una tutela per mezzo dell'annullamento. (14) E come già ha ritenuto la giurisprudenza: cfr. Tar Campania, Salerno, n. 1521 del 2005, che respinge, in applicazione del 21-octies, con la motivazione che «nessuna idonea allegazione, atta a dimostrare che la violazione dei canoni procedimentali prefissati ha inciso sui contenuti dispositivi degli atti impugnati, viene offerta dal ricorrente». (15) Forse si potrebbe ritenere che la regola del secondo periodo del comma valga anche per gli atti vincolati solo in subordine alla ritenuta non applicabilità della regola del primo periodo. Insomma: anche di fronte allo specifico vizio relativo alla comunicazione di avvio, il giudice, in presenza di un atto vincolato, dovrebbe prima di tutto chiedersi se gli pare «palese» che il contenuto dell'atto non avrebbe potuto essere diverso. E se è così, respingere il ricorso. In mancanza del carattere «palese», subentrerebbe la possibilità (e l'onere) dell'amministrazione di dimostrare, per salvare il provvedimento, l'assenza di alternative. (16) Come fa Tar Sardegna, 10 giugno 2005, n. 1386, il quale ritiene che all'amministrazione tocchi «la dimostrazione oggettiva della impossibilità materiale o della inopportunità di non incidere nella sfera giuridica del ricorrente», ritenendo tale dimostrazione facile «in presenza di diverse soluzioni tecniche 94 ipotizzabili, nei progetti di opere pubbliche» e precisando che «la prova che l'amministrazione è tenuta ad esibire deve essere tale da introdurre nel giudizio elementi di fatto, prevalentemente di natura tecnica ed oggettivamente verificabili, idonei a dimostrare in concreto che in nessun altro modo, non lesivo per la posizione del ricorrente, si sarebbe potuto raggiungere lo scopo». (17) In questo senso Tar Puglia, Bari, 21 settembre 2005, n. 3953. (18) Come ha ritenuto Tar Lazio, Latina, 10 giugno 2005, n. 534. (19) In questa logica, ha ritenuto il Tar Sardegna, 18 aprile 2005, n. 777 che la prova richiesta dalla norma non sia stata raggiunta in un caso in cui «le soluzioni difformi prospettate dal privato» (giudicate non prive di ragionevolezza) non risultano essere state mai concretamente esaminate dall'amministrazione nel corso del procedimento. (20) Come ha ritenuto G. Morbidelli, Invalidità e irregolarità, in Annuario AIPDA, 2002, Milano, 2003, 79 ss., in part. 99. (21) Per usare l'espressione proposta da A. Romano Tassone, Danno risarcibile e situazioni giuridiche soggettive. Le radici di una problematica, Relazione al Convegno «Responsabilità da atti e comportamenti della p.a.» Bari, 25-26 gennaio 2002, in www.diritto-amministrativo.org. (22) La giurisprudenza lo ha visto e ha cominciato a dire che si tratta di un giudizio «sul rapporto» tra privato e autorità (Tar Puglia, Lecce, 9 settembre 2005, n. 4207 e Tar Abruzzo, Pescara, 13 giugno 2005, n. 394), precisando che il giudice, oggi, è «chiamato a giudicare sul rapporto... e quindi ad una valutazione sostanziale della posizione giuridica azionata.... a prescindere dai vizi formali che non abbiano potuto influire sulla spettanza del bene della vita». (23) Sempre che non si voglia dire: la spettanza della pretesa alla conservazione del diritto, contro il potere dell'amministrazione. (24) Come ha scritto C. Consolo, Il «walzer delle giurisdizioni» rigira e ritorna a fine ottocento (II), in Corr. giur., 2004, 1130. (25) Della «finalità perseguita dalla norma», come discrimine per stabilire quale sia, se di diritto o di interesse legittimo, la posizione del privato rispetto ad una attività amministrativa, ancorché a carattere vincolato, si veda Cons. Stato, Sez. VI, 15 maggio 2003, n. 2661. (26) Non è mancato però chi ritiene che proprio di diritti si debba ragionare (L. Ferrara, Diritti soggettivi ad accertamento amministrativo. Autorizzazione ricognitiva, denuncia sostitutiva e modi di produzione degli effetti, Padova, 1996; A. Orsi Battaglini, Attività vincolata e situazioni soggettive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, 3 e ss.). E non si può negare che quelle posizioni ricevano qualche sostegno dalla novità normativa. A conclusione non diversa si avvicinavano, pur negando la possibilità di compiere il passo finale del riconoscimento di «diritti», quelli che (G. Greco, L'accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano, 1980, 145 ss.) ragionavano sulla differenza fra norme formali e sostanziali per identificare queste ultime come «norme di relazione». (27) G. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in questa Rivista, 2001, 298 e 301. (28) F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in Dir. amm., 1995, 35. (29) Peraltro riconoscendosi altre volte, da una più condivisibile giurisprudenza, che «La natura vincolata di un provvedimento non esclude l'obbligo dell'avviso dell'avvio del procedimento qualora i presupposti del provvedimento, pur essendo stabiliti in modo preciso e puntuale dalle norme, richiedano comunque un accertamento, nel cui ambito deve essere garantita al privato la possibilità di prospettare fatti ed argomenti in suo favore»: Cons. Stato, Sez. V, 17 marzo 2003, n. 1357. (30) B.G. Mattarella, Il provvedimento, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2003, Parte generale, tomo I, 872. (31) «Se l'attività è vincolata il giudice deve, nell'impugnazione del silenzio-rifiuto, dire se è fondata la pretesa sostanziale del ricorrente»: Cons. Stato, Sez. IV, 26 febbraio 1982, n. 92, in Cons. St., 1982, I, 95 74, su cui vedi G. Greco, Silenzio della p.a. e oggetto del giudizio amministrativo, in Giur. it., 1983, III, 1, 137. (32) G. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, cit., 303 nota; e F.G. Scoca, Risarcibilità ed interesse legittimo, in Dir. pubbl., 2000, 13, con l'osservazione che «Nessun giudice può, in altri termini, (allo stato della legislazione positiva) raggiungere alcuna prognosi oggettivamente affidabile sulla fondatezza della domanda, tranne nel caso, assolutamente marginale, di attività totalmente vincolata». (33) Vedi in dottrina E. Follieri, L'annullabilità dell'atto amministrativo, in Urb. e app., 2005, 627. (34) Come ha ritenuto G. Gardini, Comunicazione di avvio e partecipazione procedimentale: costi e benefici di una regola di democrazia, in Giorn. dir. amm., 2001, 483 ss., secondo il quale è difficile immaginare un provvedimento interamente vincolato. (35) G. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, cit., 304 nota e F. Trimarchi Banfi, Illegittimità e annullabilità del provvedimento amministrativo, in questa Rivista 2003, 421. (36) Non avendo seguito da noi quelle prospettazioni che vedono proprio nella scelta fra più possibili interpretazioni di una norma una questione di policy riservata alle amministrazioni specializzate. (37) Secondo l'esattissima osservazione di F. Trimarchi Banfi, op. cit., 420. (38) Ancora F. Trimarchi Banfi, op. cit., 421. (39) Così già Tar Sardegna 25 maggio 2005, n. 1170. (40) G. Grasso, Spunti di riflessione sull'art. 21-octies, 2º comma l. n. 241/90, nel sito www.lexitalia.it. (41) A. Police, L'illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi c.d. formali e vizi sostanziali, in Dir. amm., 2003, 742. (42) E segnalato da M.S. Giannini, Illegittimità, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 132. (43) A. Romano Tassone, Tra diversità e devianza. Appunti sul concetto di invalidità, in Studi in onore di V. Ottaviano, Milano, 1993, 1122. (44) A identificare la invalidità con l'illegittimità, si è poi costretti a recuperare il dualismo dei concetti con il chiedersi quali rapporti vi siano fra validità ed efficacia: cfr. ad es. G. Corso, Validità (dir. amm.), in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 88. (45) Cfr. G. Sala, Potere amministrativo e principi dell'ordinamento, Milano, 1993, 193. (46) P. Salvatore, Le nuove prospettive del sindacato sull'eccesso di potere alla luce della riforma del titolo V della Costituzione, in Cons. St., 2002, II, 1607. (47) Se è così, allora bisogna dire che non è esatto parlare, per i casi dell'art. 21-octies, di sanatoria. Infatti la norma in questione non comporta l'eliminazione della illegittimità, ma solo una limitazione o esclusione della invalidità che potrebbe (o dovrebbe) conseguirne. L'atto viziato nella forma è e resta illegittimo, ma all'illegittimità non consegue l'invalidità (nella forma dell'annullabilità). (48) Si rinvia per un inquadramento del tema ai lavori di A. Romano Tassone e di A. Police, citati poco fa, e alla bibliografia che i due autori riportano. (49) Così una decretale di S. Gregorio Magno raccolta da Gregorio IX (X 2.20.2), che la dottrina canonistica conosce come una elaborazione della legge giustinianea Non dubium: cfr. E. Baura, Il sistema delle invalidità (inesistenza e nullità, annullabilità e rescindibilità dell'atto giuridico, nel sito della Pontificia università della Santa Croce: www.usc.urbe.it. (50) Cfr., pur con lessico diverso, G. Corso, Validità (dir. amm.), in Enc. dir., XLVI, cit., 88. (51) A. Romano Tassone, Sulla formula «amministrazione per risultati», in Scritti in onore di E. Casetta, Napoli, 2001, II, 822. (52) A. Romano Tassone, I problemi di un problema. Spunti in tema di risarcibilità degli interessi legittimi, in Dir. amm., 1997, 63. (53) A. Romano, I caratteri originari della giurisdizione amministrativa e la loro evoluzione, in questa Rivista 1994, 635 e ss., in part. 701. 96 (54) Ma ancor più lontano bisogna risalire a Piras, e alla sua costruzione dell'interesse legittimo che Sandulli criticava, ritenendo che essa conducesse, per gli atti dovuti, a contenuto vincolato, «a negare la possibilità dell'impugnazione dei provvedimenti amministrativi per soli motivi inerenti ai profili formali»: cfr. A.M. Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, 52. (55) G. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, cit., 303 nota. (56) G. Falcon, op. ult. cit., 305, in nota. (57) Cfr. Tar Abruzzo, Pescara, 13 giugno 2005, n. 394; Tar Sardegna, 15 luglio 2005, n. 1653; Tar Sicilia, Catania, 18 agosto 2005, n. 1325; Tar Campania, Salerno, 4 maggio 2005, n. 760. (58) Fino ad arrivare a casi, forse giustificati dalle particolarità della fattispecie, ma che comunque colpiscono, nei quali viene «salvato» un provvedimento adottato in assenza di comunicazione di avvio (e quindi all'insaputa e senza la partecipazione degli interessati), adottato in assenza del parere previsto come obbligatorio dalla legge, e, per giunta, privo di motivazione: Tar Lazio, Latina, 16 maggio 2005, n. 383. 97 L'ANNULLAMENTO TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE; LA PROBLEMATICA FLESSIBILITÀ DEI POTERI DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO Diritto Processuale Amministrativo, fasc.4, 2012, pag. 1273 RUGGIERO DIPACE Classificazioni: GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA - Esecuzione del giudicato amministrativo - poteri del giudice amministrativo Sommario: 1.1. L'evoluzione del processo amministrativo verso una tutela diversificata dell'interesse legittimo. — 1.2. L'annullabilità nella teoria dell'invalidità. — 1.3. Considerazioni sulle patologie dell'atto amministrativo. — 1.4. Rivisitazione dei confini della annullabilità: primazia perduta? — 2.1. L'annullamento giurisdizionale nell'evoluzione del processo amministrativo. — 2.2. L'azione di annullamento nel codice del processo amministrativo. — 3.1. Le nuove forme dell'annullamento giurisdizionale: la flessibilità degli effetti annullatori e le sentenze meramente conformative. — 3.2. Analisi critica degli argomenti a favore del “nuovo” annullamento giurisdizionale. — 3.3. Aspetti problematici della “automodulazione” degli effetti dell'annullamento e alternative possibili. 1.1. Con l'approvazione del codice del processo amministrativo e con le sue prime esperienze applicative si sono consolidate alcune innovazioni acquisite nei decenni precedenti e si sono poste le basi per una evoluzione nel modo di concepire la tutela giurisdizionale dell'interesse legittimo ( (1). Importanti al riguardo sono state alcune recenti decisioni del giudice amministrativo che, oltre a essere sicuramente innovative, sono foriere di delicati problemi di ordine sistematico in relazione ad alcuni capisaldi del processo ( (2). Si tratta di decisioni che si spingono a negare l'effetto demolitorio delle sentenze di annullamento o a riconoscerne esclusivamente l'effetto conformativo, ovvero ad annullare un provvedimento amministrativo ex nunc, per giunta al di là di una specifica domanda di parte. Vengono messe in discussione certezze sistematiche fino a ora incrollabili sull'azione di annullamento: basti pensare all'affermazione degli effetti flessibili dell'annullamento giurisdizionale o del valore meramente conformativo delle sentenze a seguito della proposizione della domanda di annullamento ( (3). Tali decisioni offrono l'occasione per una riflessione sulla azione di annullamento nel processo amministrativo che non può non coinvolgere la stessa costruzione teorica dell'istituto dell'annullamento; le conseguenze dell'annullamento giurisdizionale, particolarmente il problema della efficacia demolitoria come necessaria conseguenza dell'accoglimento della domanda di annullamento; la tenuta del principio della domanda. Sullo sfondo di queste problematiche aleggia l'annosa questione sulla natura, soggettiva o oggettiva, del processo amministrativo. Bisogna verificare se queste innovative decisioni rappresentino solitarie fughe destinate a rientrare in futuro ovvero se siano idonee a porsi come fondamenta di nuovi e robusti filoni giurisprudenziali; verificare se l'annullamento giurisdizionale può rientrare ancora nel solco della tradizione oppure deve essere “travolto” da innovazioni che, tuttavia, se male intese potrebbero, come si vedrà in seguito, alterare anche il delicato equilibrio tra giurisdizione e amministrazione. Prima di affrontare questi delicati problemi, occorre partire da alcuni punti fermi. La prima certezza è che a seguito del codice del processo amministrativo e della giurisprudenza che ne applica i principi e gli istituti non viene messa in dubbio la persistenza e la validità nel nostro ordinamento dell'interesse legittimo che, anzi, riprende nuovo vigore attraverso le innovative tecniche di tutela previste dal codice ( (4). L'interesse legittimo godrebbe addirittura di una tutela maggiore, in quanto più articolata, più pronta e più efficiente, rispetto a quella assegnata al diritto soggettivo in un eventuale scontro con il potere 98 amministrativo ( (5). La seconda certezza è che il tessuto del processo amministrativo si è profondamente modificato. Il processo amministrativo classico, fondato sul primato dell'azione di annullamento, è definitivamente tramontato ( (6). Il codice del processo ha previsto un sistema di azioni complesso, non più basato sulla centralità dell'azione di annullamento, per molti aspetti simile alle forme di tutela proprie del processo civile. Il soggetto privato, non interessato alla demolizione dell'atto, potrà richiedere ulteriori tutele al giudice amministrativo ( (7). Il processo impugnatorio, quindi, si configura come una delle possibili forme di tutela nell'ambito della giurisdizione del giudice amministrativo e, in particolare, in quella di legittimità. A seguito della codificazione la stessa giurisprudenza amministrativa, nell'ottica di assicurare la pienezza e l'effettività della tutela giurisdizionale, ha addirittura superato il dato letterale introducendo per via pretoria l'azione di accertamento e l'azione di adempimento che in origine erano state espunte dal codice. Come noto, il Governo, nel timore che una disciplina troppo estesa delle azioni esperibili dinanzi al giudice amministrativo potesse avere ripercussioni indesiderate per la finanza pubblica, ha espunto dal codice del processo le azioni di accertamento e di adempimento che costituivano le maggiori innovazioni nella materia. L'azione governativa è stata non solo inopportuna, avendo riguardo alle sue motivazioni, ma anche di scarso rilievo pratico poiché, a ben vedere, la presunta diminuzione delle azioni non mette certamente al sicuro i conti dello Stato. La giurisprudenza ha rimediato a tali eliminazioni. Infatti, con riferimento alla azione di accertamento la decisione della Adunanza plenaria 29 luglio 2011, n. 15 ha aperto sicuramente nuove prospettive di riconoscimento ( (8). La forza innovativa delle giurisprudenza si rivela anche con riferimento alla azione di adempimento. Infatti, la sentenza del Tar Lombardia, Milano, sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428 afferma che le previsioni di cui all'art. 34, comma 1, lett. c) e e) configurano un potere di condanna senza restrizione di oggetto modulabile a seconda del bisogno emerso nel giudizio: si tratterebbe a seconda delle circostanze di una tutela restitutoria, rispristinatoria o di adempimento pubblicistico coattivo che in virtù del codice del processo oramai è possibile ottenere ( (9). Proprio con riferimento all'azione di adempimento il legislatore ha seguito quanto auspicato dal giudice amministrativo e nel recente secondo decreto correttivo al codice (d.lgs. 160/120) ha previsto l'azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto. La innovazione legislativa, però, sembra prevedere una azione di adempimento “depotenziata” in quanto questa può essere esperita purché nei limiti di cui all'art. 31, comma 3, c.p.a. (ossia i limiti previsti per la pronuncia circa la fondatezza della pretesa nell'azione sul silenzio) e solo contestualmente alla domanda di annullamento o alla azione sul silenzio, introducendo una sorta di pregiudizialità e ponendosi in contrasto con la previsione generale della autonomia dell'azione risarcitoria ( (10). Queste innovazioni dimostrano che la trasformazione del processo è in atto ed è irreversibile, anche perché si è affermata l'idea che l'oggetto del giudizio amministrativo consiste non tanto nel solo controllo di legittimità sull'atto quanto nella tutela delle situazioni giuridiche soggettive vantate dal privato. L'oggetto del giudizio non è più solo ed esclusivamente la legittimità dell'atto, bensì il bene della vita al quale il ricorrente aspira ( (11). Il processo tende a definire il rapporto tra la pubblica amministrazione e il privato mirando a risolvere in maniera definitiva il conflitto di interessi tra le parti coinvolte nella controversia ( (12). Questa conclusione è anche dimostrata dalla individuazione dell'ambito della giurisdizione amministrativa operata dal codice all'art. 7, secondo cui il giudice non è solo ed esclusivamente il giudice del potere amministrativo; esso è il giudice delle situazioni giuridiche coinvolte nell'esercizio del potere o meglio del bene della vita che è oggetto della vicenda amministrativa portata alla sua attenzione. D'altra parte l'intero impianto del codice corrisponde alla definizione del principio di effettività: “colui la cui pretesa sia riconosciuta fondata dal giudice deve essere posto dalla legge nella possibilità di 99 vedere pienamente, totalmente ripristinata la posizione giudica nella quale si trovava e della quale egli godeva al momento del fatto o dell'atto che lo ha turbato e che ha provocato l'intervento del giudice, evitando ogni possibile danno” ( (13). Il ricorrente è il soggetto sul quale si incentra il processo dinanzi al giudice amministrativo il quale deve assicurare una piena ed effettiva tutela, secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo, così come stabilito espressamente dal codice del processo amministrativo (art. 1). A tal fine il codice ha diversificato la tutela del privato prevedendo una pluralità di azioni proponibili alle quali corrispondono una pluralità di poteri decisori del giudice ( (14). Il giudizio deve risultare realmente funzionale alla definizione del concreto assetto di interessi tra le parti e il giudicato amministrativo deve indirizzare la successiva attività della amministrazione ( (15). La giurisdizione non è solo la sede per ottenere l'annullamento dell'atto illegittimo, in quanto l'istanza giurisdizionale è risolutiva di vari tipi di controversie, in cui protagonista non è più solo ed esclusivamente l'atto amministrativo, ma la potestà amministrativa, che si manifesta attraverso il procedimento amministrativo. Un impulso a tale evoluzione è stato dato anche dal diritto comunitario. È di sicuro rilievo il richiamo ai principi del diritto europeo da parte dell'art. 1 del codice del processo amministrativo. Esso, come affermato nella sua relazione, si richiama sia ai principi dell'Unione europea, sia ai Trattati comunitari, compresa la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, sia a quelli della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ( (16). Proprio dai principi del diritto europeo e in particolare dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritto dell'uomo, secondo cui ognuno ha diritto a pretendere che la propria causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice terzo e imparziale, si ricava una forte spinta verso l'effettività della tutela giurisdizionale ed il giusto processo. 1.2. Da quanto appena affermato sull'evoluzione del processo nell'era della codificazione si deduce che il legislatore si è interrogato sul ruolo del processo prendendo atto che solo con la diversificazione delle azioni si abbandona una concezione del giudizio squisitamente formalistica, la quale spesso ha consentito alla amministrazione di rinnovare la lesione o di eludere il contenuto effettivo e logico della sentenza. Occorre allora domandarsi se da tale evoluzione ne escono modificati i caratteri fondamentali dell'azione di annullamento così come tradizionalmente concepiti ( (17). Se è vero che l'azione di annullamento non è più l'azione regina incontrastata del processo, è altrettanto vero che questa azione non ha perso la sua centralità e la sua importanza relativamente alla definizione delle controversie della pubblica amministrazione e comunque risulta disciplinata in perfetta continuità con la tradizione, anche giurisprudenziale ( (18). È sicuramente opportuno conciliare il giudizio di annullamento con la visione sostanzialistica del processo ma ci si deve chiedere se, come sembrerebbero sostenere alcune decisioni del giudice amministrativo, ci si può spingere fino a negarne i suoi tratti caratteristici sulla base di valutazioni che opera il giudice al di là di una specifica domanda di parte ( (19). Questa concezione rende flessibile il potere di annullamento del giudice, il quale può demolire il provvedimento amministrativo solo dal momento in cui ha adottato la sentenza facendone salvi gli effetti fino a quel momento prodotti. A questo punto il problema, oltre che di diritto processuale, diviene un problema di teoria generale che investe innanzitutto gli effetti dell'annullamento. In questa sede è impossibile ripercorrere tutte le tappe dell'evoluzione concettuale sull'annullamento in generale e sull'annullamento nel diritto amministrativo. È opportuno, però, ricordare alcune punti fermi posti in evidenza dalla più autorevole dottrina anche civilistica. Pur nella diversità che caratterizza l'istituto dell'annullamento, o meglio della annullabilità, nell'ambito del diritto privato, si possono trarre notevoli spunti da esso, soprattutto con riferimento alla teoria generale del negozio giuridico, che nel 100 diritto privato rappresenta l'atto fondamentale per la regolazione dei reciproci interessi fra le parti di un rapporto giuridico, così come il provvedimento lo è nel diritto amministrativo. Tale analisi aiuterà a focalizzare i connotati essenziali dell'istituto. Nella sistemazione delle patologie dei negozi giuridici ha avuto una importanza fondamentale la distinzione tra invalidità e inefficacia del negozio stesso ( (20). La qualifica dell'invalidità o dell'inefficacia del negozio presuppongono un raffronto e una conseguente valutazione negativa fra il concreto regolamento di interessi e il tipo o il genere di negozio che tale assetto di interessi vuole rispecchiare. È stato, quindi, affermato che queste due qualifiche rappresentano una soluzione a due differenti problemi di trattamento del negozio. Mentre l'invalidità è un trattamento per una carenza intrinseca del negozio nel suo contenuto precettivo, l'inefficacia risponde a un impedimento di carattere estrinseco che incide sul regolamento di interessi nella sua pratica attuazione ( (21). Da ciò si desume che mentre l'invalidità è una qualifica di irregolarità del contratto, l'inefficacia riguarda il momento effettuale, indicando in genere la non produttività di effetti giuridici ( (22). Quindi, l'inefficacia non si identifica con l'invalidità ma può essere conseguenza di quest'ultima, ossia può rappresentare la sanzione della irregolarità del contratto. All'interno della categoria della invalidità si opera la distinzione fra inesistenza, nullità e annullabilità ( (23). Nel caso della inesistenza c'è una “vuota apparenza” del negozio giuridico anche se può aver ingenerato negli interessati l'impressione superficiale di averlo posto in essere ( (24). Il negozio, però, non produce alcun effetto giuridico, neppure di carattere aberrante o negativo ( (25). La nullità, invece, presuppone che, per lo meno, il negozio “esista come fattispecie” e che, quindi, ci sia una figura esteriore valutabile nei suoi effetti come valida o invalida, ed eventualmente capace di ingenerare qualche effetto secondario, negativo o aberrante, benché poi questa figura si rilevi inconsistente a una analisi più approfonda. L'annullabilità, invece, comporta che il precetto dell'autonomia privata non abbia valore vincolante ma “essenzialmente inconsistente e precario, destinato a venir meno dietro rilievo dell'interessato, anche in posizione di convenuto” ( (26). Pertanto un negozio nullo è inidoneo a dar vita a quella nuova situazione giuridica che il diritto ricollega al rispettivo tipo legale in conformità con la sua funzione economico sociale; il negozio annullabile è quello che, pur non mancando degli elementi essenziali del tipo e pur dando vita precaria alla nuova situazione giuridica che il diritto ricollega a tale tipo, può essere rimosso “con forza retroattiva come precetto e considerato come non mai posto in essere” ( (27). Ciò perché dopo la pronuncia di annullamento la carenza virtuale si è tradotta in carenza attuale di valore precettivo con effetto ex tunc. La retroattività derivante dalla invalidità del negozio ha efficacia demolitoria e “pone nel nulla il negozio non solo per l'avvenire ma anche per il passato eliminando per quanto possibile fra le parti e rispetto ai terzi gli effetti già prodottisi” ( (28). Il negozio annullabile produce effetti in via precaria sino a che l'iniziativa intesa a porli nel nulla non si traduca in una sentenza costitutiva. L'efficacia precaria è conseguenza legale delle cause di annullabilità, ma l'ordinamento impone un'ulteriore attività a chi può valutare la convenienza dell'atto, ossia a chi lo ha prodotto, conferendogli il potere di incidere sulla produzione dei suoi effetti. L'effetto dell'atto annullabile è precario in quanto è instabile ed è instabile in quanto condizionato a uno specifico ulteriore comportamento ( (29). Peraltro, il giudice, che è chiamato a verificare quegli effetti, non può rilevare d'ufficio le circostanze da cui dipende l'annullabilità, anche se risultano dagli atti, in quanto solo l'interessato, alla cui iniziativa il giudice non può supplire, può proporre l'eccezione diretta a farle valere ( (30). A seguito dell'emanazione della sentenza di annullamento, il negozio annullabile esce dalla sfera del giuridicamente rilevante e viene ripristinata la situazione che le trasformazioni interinali hanno provocato. In tale effetto ripristinatorio si configura la differenza tra una sentenza meramente 101 dichiarativa della nullità di un negozio e quella costitutiva: gli effetti prodotti dal negozio annullabile vengono cancellati dal mondo giuridico e nessun'altra trasformazione potrà essere prodotta. Circa l'ambito soggettivo di estensione della annullabilità, essa di norma è assoluta: mentre non tutti possono promuovere l'azione di annullamento, tutti ne possono approfittare. Solo in alcuni casi, bene tipizzati dalle norme, vi è una limitazione degli effetti dell'annullamento ai soggetti che lo promuovono. Basti pensare all'art. 1445 c.c., secondo cui l'annullamento che non dipende da incapacità legale non può pregiudicare i diritti acquisiti a titolo oneroso dai terzi in buona fede, sempre che l'acquisto sia avvenuto anteriormente alla domanda di annullamento. E proprio con riferimento a questa fattispecie l'ordinamento pone anche una deroga al principio della retroattività dell'annullamento prevedendo che esso retroagisca fino al momento della trascrizione della domanda. Il potere del privato di chiedere l'annullamento è soggetto a prescrizione, per cui scaduto tale termine gli effetti precari del contratto si stabilizzano. A dire il vero, poiché l'annullabilità può essere fatta valere anche in via di eccezione per tutta la durata del rapporto cui l'annullamento del negozio porrebbe fine, non si può dire che, scaduto il termine, vi sia una stabilizzazione definitiva degli effetti. Dal punto di vista processuale, è stato chiarito che la caratteristica della sentenza costitutiva consiste nel produrre un effetto giuridico nuovo, un mutamento nello stato delle cose attuale, sempre però attraverso l'accertamento della volontà della legge ( (31). È la legge che subordina il mutamento giuridico alla pronuncia del giudice ( (32). In forza dell'art. 2908 c.c. tali sentenze, costituiscono, modificano o estinguono rapporti giuridici, quindi, garantiscono direttamente la realizzazione della pretesa o della soddisfazione ( (33). Di norma le sentenze costitutive hanno efficacia ex nunc ossia gli effetti del mutamento giuridico si hanno solo dal momento in cui il mutamento è prodotto e ciò accade quando la sentenza passa in giudicato. In casi specifici però la sentenza ha una portata retroattiva fino al momento della nascita dello stato giuridico che viene a cessare con la sentenza. Ciò accade con riferimento all'annullamento degli atti giuridici. È essenziale nella sentenza costitutiva non tanto la decorrenza degli effetti quanto piuttosto “la produzione di uno stato giuridico che prima della sentenza non era” ovvero la cessazione di uno stato giuridico esistente. Ovviamente i due effetti possono coesistere. Un'ulteriore importante precisazione consiste nel fatto che la pronuncia del giudice non ha carattere discrezionale poiché i suoi presupposti sostanziali sono stabiliti rigorosamente dalla legge ( (34). 1.3. Da questi principi civilistici la dottrina e la giurisprudenza amministrativa hanno tratto utili spunti per la ricostruzione della invalidità in generale e della annullabilità in particolare, sebbene fin dall'inizio delle teorizzazioni su questo argomento si è cercato di trovare una via tutta pubblicistica alle questioni relative alla invalidità ( (35). Si era in presenza di un sistema tutto incentrato sul carattere imperativo del provvedimento da cui scaturiva anche la equiparazione, quanto agli effetti, tra il provvedimento valido e quello invalido. A tale impostazione si era arrivati a seguito di una profonda evoluzione che, invece, aveva visto la legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E essere ispirata all'opposto modello della c.d. separazione, fondato sull'interpretazione del principio di legalità, in virtù del quale il provvedimento invalido non era idoneo a produrre i suoi effetti ( (36). Veniva, quindi, negata l'equivalenza, quanto all'imperatività, dell'atto illegittimo a quello valido e l'effetto degradatorio o estintivo del primo sui diritti soggettivi perfetti. A questo modello si contrapponeva, già nelle prime decisioni sui ricorsi amministrativi del Consiglio di Stato, un'altra concezione fondata sull'interpretazione letterale del principio di divisione dei poteri: il c.d. modello della equiparazione. Il provvedimento invalido, espressione del potere amministrativo, è produttivo di effetti sino a che l'amministrazione, o un giudice speciale al quale sia attribuito il potere di annullamento, non lo elimini dalla realtà giuridica ( (37). Questa considerazione sul modello dell'equiparazione e sui suoi presupposti denota la presenza di tratti di specialità a caratterizzare l'invalidità pubblicistica, o meglio a differenziare quella amministrativa da 102 quella privatistica. L'atto invalido è l'atto non conforme al diritto e in quanto tale, non è riconosciuto e protetto dall'ordine giuridico per cui non è capace di produrre effetti giuridici ( (38). Ogni questione sulla validità dell'atto si riferisce al momento iniziale in cui l'atto stesso viene emanato e l'effetto di controllo sull'atto, che porti a pronunciare l'invalidità, opera sempre da quello stesso momento ossia sempre ex tunc. Infatti, la validità dell'atto è una qualità immanente all'atto nella sua genesi. L'invalidità non consiste propriamente nella negazione della validità ma si caratterizza come fattispecie autonoma produttiva di propri effetti giuridici ( (39). Nel diritto amministrativo iniziano a prendere forma le costruzioni teoriche sulla patologia dell'atto che hanno proposto varie differenziazioni ( (40). Fino a un certo momento si era affermata l'idea che l'illegittimità, intesa come difformità dal paradigma normativo dovuta alla presenza dei vizi di violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza (relativa), dovesse considerarsi una peculiarità del diritto amministrativo. L'illegittimità e l'invalidità costituivano due facce della stessa medaglia: l'illegittimità più attenta al momento causale della patologia provvedimentale e l'invalidità, legata anche alla inopportunità, privilegiava il momento effettuale delle conseguenze giuridiche della fattispecie patologica ( (41). Ulteriori distinzioni non erano consentite poiché altre forme di invalidità, come la nullità, non erano considerate nel panorama delle patologie dell'atto ( (42). Il fulcro del regime delle invalidità amministrative era individuato nei vizi funzionali rispetto a quelli strutturali della fattispecie in quanto è centrale proprio il profilo funzionale nella figura del provvedimento amministrativo. Ciò determina una consistente differenziazione rispetto al regime della validità del negozio giuridico tutto focalizzato sulla mancanza o sullo stato viziato di elementi strutturali ( (43). Le cose sono gradualmente cambiate con le prime affermazioni della nullità in ambito giurisprudenziale e con alcune discipline settoriali ( (44), con le quali si introdussero alcune ipotesi di nullità per poi arrivare alla previsione da parte della legge 11 febbraio 2005, n. 15, della sua disciplina generale nel sistema della legge 7 agosto 1990, n. 241 (art. 21septies) ( (45). La novella alla legge 241, modificando la sistematica della originaria normativa, introduce un apposito capo (IV bis) dedicato alla efficacia e alla invalidità del provvedimento amministrativo. Se ne deduce che, sempre con le dovute differenziazioni, il regime della invalidità dell'atto, che ha acquisito una rilevanza autonoma rispetto alla illegittimità/annullabilità, si avvicina a quello privatistico: anche l'invalidità amministrativa ora è caratterizzata dalla nullità e annullabilità. Ma le differenziazioni permangono e sono dovute soprattutto al fatto che la nullità strutturale pubblicistica si caratterizza per vaghezza in quanto non sono state ben individuate le componenti strutturali del provvedimento, tanto è vero che a una ricostruzione della struttura fondata sul diritto privato ne contrappone un'altra tutta pubblicistica ( (46). L'illegittimità-annullabilità non è più, quindi, l'unica forma di invalidità del provvedimento ( (47). A questo punto potrebbero sorgere alcuni dubbi in merito alla distinzione tra il concetto di invalidità e quello di illegittimità. Dalla sistematica della legge emerge che l'atto invalido può essere nullo o annullabile; nello stesso tempo sempre dalla lettura delle norme (art. 21-nonies) si ricava che l'atto illegittimo, ai sensi del 21octies può essere annullato d'ufficio. Ma la legittimità, che a questo punto trova dignità legislativa, si riferirebbe solo alle ipotesi previste dall'art. 21-octies, ossia agli atti viziati da incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere. Da questa analisi scaturisce che l'ambito della invalidità, che comprende anche la nullità, non coincide con l'illegittimità, la quale sembra riferirsi solo al fenomeno della annullabilità. La dottrina, in precedenza, aveva già segnalato la differenziazione tra l'invalidità e l'illegittimità ma l'aveva ancorata al concetto della invalidità per inopportunità ( (48). Infine, vi possono essere casi in cui si assiste alla scissione tra l'illegittimità/annullabilità e l'annullamento. L'art. 21-octies, comma 2, della legge 241/1990 prevede l'ipotesi in cui l'atto illegittimo non sia 103 annullabile ex lege ( (49). Sarebbe stato più corretto dire che l'atto, ancorché annullabile, non poteva essere annullato dal giudice. Sulla questione si tornerà in seguito ma qui è sufficiente anticipare che l'atto di cui non si possa disporre l'annullamento è comunque atto illegittimo/annullabile. Situazione simile è quella della inoppugnabilità dell'atto amministrativo ( (50). Infatti, con l'inoppugnabilità si ha un atto che è illegittimo ossia annullabile, in quanto viziato, ma il giudice non ne può disporre l'annullamento. Come noto l'inoppugnabilità non è una qualità o una caratteristica dell'atto, bensì una preclusione ad aggressioni del provvedimento nelle forme e nei termini stabiliti dalle norme processuali che tendono al suo annullamento ( (51). L'atto divenuto inoppugnabile può essere revocato o annullato dalla stessa amministrazione allorché eserciti il potere di autotutela ovvero può essere disapplicato dal giudice. In sostanza, l'atto inoppugnabile non diventa per ciò solo intangibile ( (52). La consolidazione dell'atto “avviene di riflesso, in via puramente negativa, in quanto alla decadenza non si collega alcun effetto sulla validità ed efficacia dell'atto” ( (53). Non si può parlare di presunzione di legittimità in termini assoluti poiché se non è ammissibile l'impugnazione da parte degli interessati, è pur sempre possibile, in via generale, che il vizio venga rilevato d'ufficio o dietro semplice denuncia dell'autorità amministrativa che lo ha emanato o di quella a essa superiore. Non solo, ma la precarietà degli effetti dell'atto amministrativo, divenuto inoppugnabile, è dimostrata anche dalla circostanza che l'atto può essere impugnato da soggetti per i quali il termine di decadenza non è ancora decorso. Infatti, “l'inutile decorso del termine di decadenza previsto per impugnare il provvedimento amministrativo non farebbe venir meno la possibilità di tutelare le situazioni giuridiche soggettive di interesse legittimo ma soltanto di conseguire quella particolare tutela che è la tutela in forma specifica di annullamento o di adempimento” ( (54). Nel caso del termine di decadenza, oggetto di questo è il diritto di azione all'annullamento dell'atto, ma non anche il diritto di esperire un altro tipo di azione, come, per esempio, quella di risarcimento, di accertamento o di adempimento. In sostanza, si perde il potere di mutare lo stato di fatto o di diritto difettoso attraverso il processo di annullamento. Pertanto, con riguardo alla validità dell'atto, l'inoppugnabilità non ha conseguenze. Ciò è dimostrato da due dati: la disapplicabilità dell'atto inoppugnabile dal giudice ordinario e la possibilità per l'amministrazione di revocare o annullare d'ufficio l'atto inoppugnabile ( (55). Lo spirare del termine decadenziale preclude esclusivamente la domanda di annullamento e non altri mezzi di tutela. La decorrenza dei termini per l'impugnativa non elimina il vizio di illegittimità, per cui “l'inoppugnabilità non può essere considerata mezzo di sanatoria; essa non è una forma di convalida per decorso di tempo” ( (56). La scissione tra illegittimità e annullabilità certamente non consente di alterare i connotati dell'annullabilità e dell'annullamento. I tratti comuni, nel diritto pubblico e nel diritto privato, sono quelli delle cause “genetiche” della annullabilità e degli effetti precari dell'atto e, quindi, della diversità concettuale tra validità ed efficacia, nonché della retroattività della sua portata e della natura costitutiva della sentenza che provoca l'annullamento del provvedimento. Ovviamente, cambiano le cause di annullabilità e i presupposti sui quali si fonda anche perché nel diritto amministrativo vi sono differenti casi di annullabilità dell'atto: per via giurisdizionale e per via amministrativa. Comunque, quelli appena citati sembrano essere gli effetti dell'annullamento sia giurisdizionale sia in autotutela ( (57). Per di più nel diritto amministrativo l'annullamento a seguito della rilevata illegittimità è la “proiezione concreta dell'invalidità” ( (58) ovvero rappresenta il regime ordinario del provvedimento invalido ( (59). La centralità dell'annullamento è stata variamente spiegata. Per alcuni tale prevalenza potrebbe essere ricondotta alla circostanza che è la figura di invalidità più rispettosa del principio di certezza e di stabilità delle scelte della pubblica amministrazione e dei conseguenti rapporti di diritto pubblico ( (60). Ma sul punto è stato osservato che il rispetto del principio di stabilità e, di conseguenza, il ristretto 104 termine decadenziale cui è assoggettata l'azione di annullamento dipende, più che dalla annullabilità di per sé, dall'efficacia precaria che caratterizza l'annullabilità ( (61). Sicuramente, l'annullabilità risponde al meglio alla scelta di campo che è stata fatta in favore del sistema della equiparazione. Infatti, risulta perfettamente conforme al modo di essere dell'annullabilità che il provvedimento invalido resti ciò nonostante, efficace ( (62). Gli effetti dell'atto annullabile sono precari e sono destinati a venire meno allorché il provvedimento sia annullato a seguito dell'esercizio del potere di autotutela della pubblica amministrazione o a seguito dell'intervento giurisdizionale. La conseguenza della rilevata annullabilità dell'atto consiste perciò nel suo annullamento e nel momento in cui interviene l'annullamento i suoi effetti sono gli stessi nel diritto amministrativo come nel diritto privato. Per quanto si possa discutere sulla differenza tra l'annullamento nel diritto amministrativo e nel diritto privato le cose non cambiano. Ciò, infatti, non intacca gli effetti dell'annullamento che rimangono i medesimi nei due ambiti del diritto. Le differenziazioni si baserebbero sul fatto che il primo sarebbe da imputare alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'annullamento mentre il secondo sarebbe attivato su impulso della parte privata ( (63); l'uno sarebbe posto a tutela dell'interesse pubblico e l'altro a tutela dell'interesse privato. Ma a dire il vero, tali ricostruzioni sono solo in parte fondate poiché lo spartiacque della titolarità dell'interesse nel campo del diritto amministrativo è quanto mai mobile a seconda del tipo di annullamento che viene posto in essere. Infatti, nell'ambito dell'annullamento “amministrativo” si riscontrano casi in cui questa misura è posta a tutela dell'interesse pubblico, come nell'ipotesi di annullamento d'ufficio, e casi in cui l'annullamento può essere disposto per tutelare un interesse privato, come nell'ipotesi di annullamento giurisdizionale ( (64). Ognuna di queste ipotesi presenta tratti comuni con l'annullamento “privatistico”. Infatti, nell'annullamento d'ufficio è su iniziativa del soggetto che vi ha dato causa, che però non instaura una controversia per ottenerlo; l'annullamento giurisdizionale viene adottato con provvedimento costitutivo del giudice ma sulla base di una domanda del soggetto che ha subito il provvedimento e non che vi ha dato causa. Da ciò comunque emerge che l'unico e indiscutibile tratto in comune tra le varie tipologie di annullamento è quello degli effetti che il negozio o il provvedimento subisce a seguito dello stesso. Quanto a questi ultimi è stato spiegato che l'annullamento “è un atto costitutivo che priva fin dall'origine un precedente atto della sua forza di qualificazione giuridica, con gli effetti che da questa derivano secondo le norme e la volontà dei soggetti. La privazione dall'origine della forza qualificatoria è detta correntemente “retroattività” dell'annullamento. L'effetto di annullamento viene configurato come logica conseguenza in un effetto distruttivo e in un effetto ripristinatorio ( (65). L'effetto dell'annullamento è, quindi, l'estinzione delle situazioni giuridiche create dall'atto annullato (effetto distruttivo) e la ricostruzione delle situazioni giuridiche soggettive preesistenti (effetto ripristinatorio). A questi si affianca l'effetto preclusivo ossia se nel tempo intermedio tra l'adozione dell'atto e l'annullamento si avvera un fatto a effetto preclusivo, l'effetto rispristinatorio non si dispiega ( (66). L'annullamento che consegue alla rilevazione del vizio decorre ex tunc, privando l'atto dell'efficacia interinale che aveva dispiegato e imponendo l'obbligo della restituito in integrum delle situazioni soggettive eventualmente compromesse ( (67). Se, invece, l'annullamento non comportasse l'eliminazione retroattiva dell'atto, si assisterebbe a un fenomeno riconducibile alla disapplicazione dell'atto amministrativo a seguito dell'accertamento della sua illegittimità. In realtà siamo in presenza di due istituti evidentemente differenti ( (68). L'annullamento consiste, infatti, nella eliminazione della rilevanza ed efficacia giuridica attribuite a un atto viziato. La presenza del vizio non produce la inesistenza giuridica dell'atto, ma solo la sua precarietà, e l'ordinamento, concorrendo alcuni presupposti, può far venir meno la rilevanza e l'efficacia dell'atto stesso, il quale sopravvive unicamente come dichiarazione, fenomeno psicologico e 105 non più giuridico ( (69). Il problema dei limiti alla retroattività e agli effetti ripristinatori dell'annullamento si pone in casi del tutto specifici che dimostrano come l'effetto retroattivo sia la regola. Una deroga alla retroattività degli effetti dell'annullamento si ha con riferimento agli atti affetti da illegittimità sopravvenuta. Si tratta dell'ipotesi in cui l'invalidità sopravviene nel corso della vita dell'atto medesimo. L'atto, originariamente non viziato, viene colto da un vizio che però non si risolve in un ostacolo o in un impedimento alla sua efficacia ( (70). Si pensi all'ipotesi di un atto in origine rispondente alla formazione regolatrice della fattispecie e in seguito difforme rispetto a una nuova disciplina retroattiva; all'ipotesi di un atto posto in essere a seguito di norma dichiarata successivamente incostituzionale o ancora all'ipotesi di atto conforme a un decreto legge successivamente non convertito o modificato dalla legge di conversione. Il principio di carattere generale è che la legittimità di un provvedimento deve essere apprezzata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio tempus regit actum, con conseguente irrilevanza di eventuali sopravvenienze normative che determinino l'abrogazione della disciplina che aveva legittimato l'adozione del provvedimento stesso, fatta salva l'ipotesi eccezionale di invalidità successiva introdotta da una norma sopravvenuta espressamente retroattiva, nei limiti in cui ciò possa considerarsi costituzionalmente legittimo. Nel caso della dichiarazione di incostituzionalità vi sono fattispecie in cui tale declaratoria non rileva e fattispecie in cui essa incide sull'atto ( (71). Nella prima ipotesi viene in rilievo un atto divenuto inoppugnabile, per cui il rapporto si deve considerare esaurito e non possono riaprirsi i termini per l'impugnazione. Nella seconda può accadere che l'atto sia stato già impugnato o penda ancora il termine per l'impugnazione. In questi casi, il rapporto non si è esaurito e, quindi, la dichiarazione di incostituzionalità può sicuramente rilevare sull'atto impugnato o in via di autotutela da parte della amministrazione che attraverso di essa si adeguerebbe alla decisione della Corte. In ogni caso, la dichiarazione di incostituzionalità della legge attributiva di un potere amministrativo non rende di per sé nulli i provvedimenti che ne hanno fatto applicazione, che, invece, devono essere considerati affetti da illegittimità sopravvenuta ( (72). Con riferimento ai provvedimenti amministrativi adottati sulla base del decreto legge non convertito, preme evidenziare che non perdono efficacia direttamente ma occorre che gli interessati ne provochino la rimozione dal circuito giuridico attraverso i normali mezzi di impugnazione. Anche qui viene in rilievo un'ipotesi di illegittimità derivata e non di nullità del provvedimento che era stato adottato in modo pienamente conforme a una norma che disciplinava o attribuiva alla pubblica amministrazione il potere. È comunque evidente che si tratta di una figura piuttosto controversa, tanto che ne è stata negata la validità concettuale: si tratterebbe di una “strana creatura che oltretutto non è mai riuscita a farsi una faccia” ( (73). Essa sarebbe il prodotto di una “sopravvenienza normativa” per cui gli atti precedenti non risulterebbero più conformi alla norma, ovvero il prodotto di una sopravvenienza “fattizia eliminativa” di un elemento dell'atto, di solito presupposto. In questi casi, però, la vicenda non si può spiegare con l'illegittimità in quanto la sopravvenienza di illegittimità dovrebbe aprire automaticamente un nuovo termine per l'impugnativa e estinguere l'inoppugnabilità dell'atto, cosa che, invece, non si verifica. Secondo questa teoria, sarebbe preferibile applicare il concetto di inutilità sopravvenuta. L'atto non si invalida bensì diviene inidoneo a produrre i suoi effetti per l'avverarsi di un fatto giuridico che non può neppure dirsi estintivo ma solo impeditivo poiché agisce sull'efficacia dell'atto e, quindi, sul rapporto, ma non sull'atto medesimo, tanto che si può parlare di inefficacia e di caducazione dell'atto amministrativo ( (74). Questa teorizzazione è sicuramente quella che meglio aiuta a spiegare il fenomeno. Non trattandosi di invalidità vera e propria che, come visto in precedenza, attiene sempre al momento genetico dell'atto, non può comportare l'annullabilità dell'atto e non ha come conseguenza la 106 demolizione retroattiva dei suoi effetti. Anche se si volesse parlare di annullamento questo agirà dal momento in cui si è verificata la sopravvenuta causa di invalidità. A questo punto si tratterebbe di un annullamento, “retroattivo almeno fino al momento in cui è sopravvenuta la causa di invalidità”. E non si tratterebbe di una modulazione da parte del giudice degli effetti dell'annullamento, bensì di un'applicazione rigorosa dell'effetto retroattivo dello stesso ( (75): l'annullamento ex tunc opera retroagendo fino al momento dell'apparizione della sopravvenienza. Nel momento in cui si riconosce fondatezza giuridica al concetto di invalidità successiva, si deve concordare con la dottrina secondo cui le soluzioni trovate ai vari problemi accennati consentono di bilanciare due esigenze: quella della tutela dei privati e quella della certezza dei rapporti di diritto pubblico. Infatti, l'invalidità successiva rende necessaria comunque l'impugnazione entro il termine di decadenza che decorre dal momento in cui la causa dell'invalidità sopravvenuta si è realizzata, anche se poi gli effetti non sono retroattivi ( (76). 1.4. Tradizionalmente l'invalidità-illegittimità dell'atto, considerata come difformità sia dallo schema normativo sia dai principi del procedimento, comportava l'annullamento dello stesso. L'annullabilità era considerata lo stato caratterizzante l'atto illegittimo e perciò invalido. Le cose sono in parte mutate con l'intervento di alcuni fattori introdotti dalla legge n. 241/1990 e dalle sue modifiche, che hanno inciso sul modo tradizionale di concepire l'invalidità del provvedimento. Ci si riferisce alla introduzione a livello normativo della nullità, alla previsione di ipotesi di illegittimità che sfociano in una non annullabilità ex lege, nonché al richiamo delle norme e dei principi del diritto comunitario quali parametri di legittimità dell'atto amministrativo. Occorre indagare questi fenomeni e rilevare quali modificazioni sono state introdotte con riferimento ai confini dell'annullabilità onde verificare se l'affermazione della primazia dell'annullabilità sia ancora valida. Si deve, inoltre, valutare se lo stravolgimento della tradizionale configurazione dell'istituto sia conseguenza dalla espressa previsione del potere di annullamento d'ufficio. Tale analisi è funzionale alla verifica del mutamento o meno delle coordinate dell'annullamento quale conseguenza della annullabilità. È opportuno prendere le mosse dalla nullità del provvedimento. Dalla analisi delle norme e dalle prime applicazioni dell'istituto emerge che la nullità costituisce una forma speciale di invalidità che si verifica nei soli casi (definiti nell'art. 21-septies l. n. 241/1990) in cui sia specificamente sancita dalla legge, mentre l'annullabilità continua a essere la regola generale di invalidità ( (77). Le categorie della nullità e annullabilità, quali patologie che inficiano un atto giuridico costituente manifestazione di volontà, si presentano nel diritto amministrativo in relazione invertita rispetto alle omologhe figure valevoli per i negozi giuridici di diritto privato. Tale inversione è giustificata dalla circostanza che vengono in rilievo esigenze di certezza dell'azione amministrativa e queste non si conciliano con la possibilità che l'azione possa restare esposta a impugnative non assoggettate a termini di decadenza o prescrizione, quale quella di nullità disciplinata dal codice civile, tanto che il codice del processo amministrativo assoggetta la medesima azione a un preciso termine decadenziale, sebbene più ampio di quello valevole per l'azione di annullamento ( (78). L'art. 21-septies enuclea le cause di nullità dell'atto amministrativo considerate dalla giurisprudenza quali numerus clausus ( (79). In merito alla nullità nel diritto amministrativo occorre rilevare che vi possono essere sensibili differenziazioni rispetto alla configurazione tradizionale dell'istituto. Infatti, accanto alla tesi tradizionale della nullità come stato invalidante che impedisce la produzione di qualsiasi effetto giuridico (quod nullum est nullum producit effectum), se ne sono affacciate altre che, ispirate a maggiore pragmaticità, affermano la possibilità da parte dell'atto di produrre effetti giuridici apparenti che si manifestano nei risultati dell'attività amministrativa ( (80). Secondo questa 107 impostazione il provvedimento nullo, ancorché inefficace, sarebbe comunque frutto di una attività che si manifesta in un atto e produce risultati che potrebbero essere idonei a formare oggetto di una valutazione giuridica ( (81). D'altra parte, la stessa giurisprudenza in via generale ha affermato che anche il provvedimento amministrativo nullo ha una propria efficacia “interinale” (fin tanto che la nullità non venga accertata). Solo riconoscendo tale efficacia interinale risulta possibile definire l'atto come provvedimento amministrativo dotato di imperatività (e che, pertanto, si impone unilateralmente ai suoi destinatari) ( (82). Questi ultimi non possono sottrarsi agli effetti dell'atto, ovvero agire come se l'atto non esistesse e/o fosse improduttivo di effetti, opponendo la nullità dello stesso, ma, onde tutelare le proprie posizioni giuridiche, possono agire in giudizio al fine di ottenerne la declaratoria di nullità. Ovviamente lo stesso ragionamento vale anche per la pubblica amministrazione con riferimento a provvedimenti emanati da altra autorità amministrativa e ritenuti nulli, avverso i quali la prima amministrazione non può agire in autotutela. Queste considerazioni si pongono in antitesi con la costruzione tradizionale della nullità e dei suoi effetti, nonché con la costruzione della relativa azione in termini dichiarativi ( (83). Invece, se si accede alla tesi della improduttività degli effetti da parte dell'atto nullo, l'azione di accertamento deve limitarsi alla rilevazione dello stato patologico del provvedimento. Questa è l'impostazione più corretta dal punto di vista dogmatico: l'azione di nullità consiste esclusivamente nell'accertamento della sussistenza delle ipotesi previste dall'art. 21-septies l. n. 241/1990 ( (84). Ma, per come è concepita, l'azione di nullità sembra proprio presupporre che il provvedimento svolga qualche effetto. Invero, tale azione, prevedendo il termine di decadenza di centottanta giorni per l'introduzione della domanda di nullità, sembra far acquisire all'atto nullo caratteristiche non conosciute nel nostro ordinamento. Se la nullità non viene fatta valere nel termine decadenziale l'atto si stabilizza nell'ordinamento giuridico per cui anche i suoi effetti si cristallizzano. E se gli effetti si cristallizzano significa che sono idonei a produrre modificazioni sul piano giuridico e non più soltanto su quello fattuale. Ciò implica tutta una serie di conseguenze; se il giudice non può annullare l'atto poiché non è previsto nell'azione di nullità, per eliminare gli effetti di un atto nullo dovrà procedere alla sua disapplicazione. Se l'atto nullo produce effetti giuridici, questi possono ben essere disapplicati dal giudice amministrativo allorché il privato, anziché esperire azione di accertamento della nullità, domandi al giudice in via autonoma un risarcimento sulla base di violazioni poste in essere dal provvedimento apparentemente nullo. A dire il vero, non appare appropriata la previsione di un termine di decadenza per l'azione di nullità poiché ciò comporta solo confusione concettuale non solo sul piano processuale ma anche su quello sostanziale. Peraltro, sul piano processuale la disciplina in ordine al termine entro il quale far valere la nullità non appare razionale. Il soggetto ricorrente, leso dal provvedimento nullo, deve far valere la nullità entro il termine decadenziale, mentre la nullità può essere sempre opposta dalla parte resistente ovvero rilevata d'ufficio dal giudice, in una qualsiasi controversia. Comunque, ciò che emerge da questa confusa norma è che il provvedimento nullo può esplicare effetti giuridici e di conseguenza può essere disapplicato. Tale soluzione ancorché plausibile, appare dogmaticamente poco coerente. Ma tant'è. La norma afferma che vi deve essere un termine di decadenza e la giurisprudenza, come visto, ha riconosciuto la possibilità di effetti interinali. Ciò fa propendere per la trasformazione della nullità, per come la intendiamo civilisticamente, in una forma particolare di annullabilità per gravi motivi ( (85). Tanto è vero che forse anche per i provvedimento nulli si potrebbe parlare di inoppugnabilità e a questo punto sarebbe poco agevole distinguere tra sentenze dichiarative e costitutive ( (86). Poiché l'atto non viene annullato ma “dichiarato” nullo, se ha posto in essere effetti deve essere disapplicato ( (87). 108 Certo è che il nostro legislatore, sia sostanziale sia processuale, ha introdotto una disciplina della nullità poco chiara. Ma se si vuole trarre una conclusione sul rapporto fra la nullità e l'annullabilità, con riferimento alle reciproche linee di confine, si può affermare che l'introduzione della nullità non ha almeno creato grandi smottamenti nel campo della annullabilità. Al di là delle perplessità sulla identificazione degli elementi strutturali del provvedimento, l'art. 21-septies, cit., nell'individuare come causa di nullità il “difetto assoluto di attribuzione”, evoca la cosiddetta carenza di potere in astratto, vale a dire l'ipotesi in cui l'amministrazione assume di esercitare un potere che in realtà nessuna norma le attribuisce. Nel caso, però, in cui l'amministrazione è resa effettiva titolare del potere dalla legge, ma questo viene esercitato in assenza dei suoi concreti presupposti, non si è in presenza di un difetto assoluto di attribuzione. Qui, si pone il problema dell'esercizio del potere che eventualmente è viziato, ma non la questione di sua esistenza. Il provvedimento sarà annullabile, non già nullo. Sugli atti in violazione e in elusione del giudicato si è già detto e si deve sottolineare come la conclusione della loro nullità era stata già affermata in passato. Il campo che poteva essere in qualche modo inciso dall'introduzione della nullità, ossia quello della violazione di legge, è rimasto saldamente ancorato al vizio di legittimità, non essendo stata introdotta l'ipotesi della nullità c.d. virtuale, derivante dalla violazione di norme imperative. Ciò in quanto le regole dell'azione amministrativa vengono considerate tutte tendenzialmente imperative e dunque non disponibili da parte dell'amministrazione ( (88). La violazione delle norme, almeno quelle che riguardano l'azione della pubblica amministrazione, rientra, quindi, nel campo della annullabilità. Certamente non risultano modificati gli effetti della annullabilità: l'annullamento del provvedimento non ha risentito dell'introduzione da parte dell'art. 21-septies cit. di questa nuova figura. Anzi, si può affermare che alla luce della disciplina processuale della nullità è quest'ultima ad avvicinarsi quanto al trattamento all'annullabilità. Occorre ora verificare quale impatto sulla fattispecie dell'annullabilità ha avuto l'introduzione dell'art. 21-octies l. n. 241/1990. Il legislatore ha introdotto un'ipotesi di divieto di annullabilità dell'atto amministrativo in presenza di vizi meramente formali o procedimentali che impattino sul provvedimento vincolato, ovvero, nella ipotesi di omessa comunicazione di avvio del procedimento, anche nel caso di provvedimenti discrezionali. Tale norma dimostra l'evoluzione verso una concezione non rigidamente formalistica dell'invalidità degli atti amministrativi e il passaggio dalla legalità delle forme a quella dei contenuti ( (89). Essa, inoltre, è in linea con l'evoluzione del processo che da valutazione della legittimità di un singolo atto dovrebbe investire l'attività complessiva dell'amministrazione, cioè dell'intero procedimento, in relazione a un determinato assetto di interessi ( (90). Una delle questioni relative a questa disposizione di legge riguarda la definizione dello stato patologico che affligge gli atti che si trovino nelle condizioni descritte dalla norma. Sul punto sono state prospettate varie soluzioni: da quella della irregolarità, a quella di una illegittimità sanabile ex post, a quella della natura meramente processuale della norma, per cui l'atto amministrativo resta illegittimo ma il soggetto privato non è legittimato a chiederne l'annullamento o, comunque, è impedito al giudice di annullarlo. In quest'ultimo caso, l'atto rimarrebbe invalido e non soggetto ad alcuna sanatoria. La tesi della irregolarità dell'atto e, quindi, della natura sostanziale della norma, non è condivisibile ( (91). L'atto non annullabile è illegittimo in quanto l'art. 21-octies cit. prevede che in tale condizione si trovi l'atto in violazione di norme sul procedimento ( (92). Ma anche la tesi della sanatoria sui generis (secondo la quale il provvedimento finale sanerebbe i vizi), che prende spunto dalla considerazione della natura sostanziale della norma, non è condivisibile ( (93). Il provvedimento finale come provvedimento sanante costituisce una finzione poiché nel momento in 109 cui l'amministrazione adotta il provvedimento non è consapevole di tale sua valenza e, comunque, se ne avesse avuto contezza si sarebbe dovuta attivare ben prima, impedendo l'illegittimità procedimentale ( (94). La tesi preferibile è quella della natura processuale che definisce chiaramente in termini di illegittimità lo stato patologico degli atti nelle condizioni previste dall'art. 21-octies cit. L'atto non è annullabile, ma ciò non significa che non sia illegittimo. Esso è illegittimo poiché viola le norme poste a presidio del corretto agire della pubblica amministrazione. L'art. 21-octies cit. non comporta la degradazione del vizio di legittimità a mera irregolarità, ma fa sì che un vizio, che resta vizio di legittimità, non comporti l'annullabilità dell'atto sulla base di valutazioni attinenti al contenuto del provvedimento effettuate ex post dal giudice (il provvedimento non poteva essere diverso) ( (95). L'art. 21-octies cit. non si discosta dal paradigma della illegittimità dell'atto, realizzando, però, una separazione tra l'illegittimità e l'annullabilità dell'atto. Si tratta di una norma che regola il potere del giudice in ordine a queste controversie e che decreta, in caso di verifica giudiziale negativa per il ricorrente, l'impossibilità dello stesso giudice di annullare l'atto. Peraltro, che si tratti di atti illegittimi, lo si riscontra anche dalla lettura della norma di cui all'art. 21nonies della stessa legge, la quale prevede che “il provvedimenti illegittimo ai sensi dell'art. 21-octies, può essere annullato d'ufficio”. Tutti i provvedimenti che incorrono nelle condizioni previste dall'art. 21-octies cit. sono considerati illegittimi. E l'illegittimità comporta che anche i provvedimenti di cui al secondo comma, ossia quelli per i quali il giudice non può pronunciare l'annullamento, possano, invece, essere annullati in autotutela. L'art. 21-octies cit., in definitiva, non si discosta dalla tradizione, caratterizzata dalla piena corrispondenza tra la sussistenza dei vizi di legittimità e l'annullabilità ( (96). L'atto affetto da vizi formali rimane atto illegittimo e rimane anche atto annullabile, considerato che esso può essere oggetto del potere di autotutela da parte della pubblica amministrazione. Peraltro, la norma riferendosi al “giudizio” chiaramente limita l'ambito di applicazione della norma alle ipotesi in cui si possa prospettare un annullamento giurisdizionale. Quindi, l'art. 21-octies cit. nonsembra potersi riferire alle ipotesi di ricorsi amministrativi, non essendo espressione di giurisdizione, come non sembra potersi applicare alle ipotesi di arbitrato. Poiché si tratta di preclusione all'annullamento giurisdizionale da parte del giudice, essa può operare anche in ipotesi in cui il legislatore abbia conferito il potere di annullamento al giudice ordinario. Mentre risulta essere chiaro che questo meccanismo non tocca assolutamente il potere di disapplicazione da parte del giudice. Non si può in questo caso parlare di un mutamento dei confini della annullabilità quale stato invalidante, quanto piuttosto di una restrizione dei casi in cui l'annullabilità può comportare l'annullamento dell'atto. Ma anche in questo caso non si riscontra alcun elemento che consenta di affermare il mutamento degli effetti dell'annullabilità ossia tale norma non influisce minimamente sugli effetti dell'annullamento allorquando venga disposto. I connotati tradizionali dell'annullamento non sono stati neppure modificati dall'esplicito richiamo ai principi e alle norme comunitarie quali parametri di legittimità degli atti amministrativi ( (97). Se da un lato è chiaro che un atto violativo delle norme comunitarie si deve considerare invalido, dall'altro, però, non è ancora sicuro di quale fattispecie di invalidità si tratti. Sul punto si sono confrontate varie tesi: quella della nullità, quella della annullabilità e quella della disapplicabilità dell'atto amministrato anticomunitario. Non appare del tutto convincente quella impostazione che vorrebbe l'atto violativo del diritto comunitario affetto da nullità. Infatti, la violazione del diritto comunitario non viene configurata come causa di nullità del provvedimento dall'art. 21-septies cit., il quale, come già rilevato, contiene un elenco tassativo delle cause di nullità ( (98). Del pari non convincente è la tesi della disapplicabilità dell'atto quale nuova figura di invalidità in 110 quanto la disapplicazione non è che un potere del giudice di rendere inefficace un atto amministrativo contra legem allorché non ne venga richiesto l'annullamento ( (99). Ciò comporta che l'atto, dal punto di vista del regime giuridico, non diviene inoppugnabile, decorso il termine di decadenza, e il vizio può essere sempre fatto valere dall'interessato. La tesi della disapplicabilità dell'atto amministrativo parte dalla concezione del doppio regime di invalidità degli atti, a seconda della valenza nazionale o comunitaria della norma violata, ma non appare fondata. Non è possibile riscontrare una illegittimità comunitaria e una nazionale. Se viene in rilievo un provvedimento amministrativo contrario a un parametro normativo comunitario, comunque questo è da considerarsi illegittimo secondo quanto previsto dalla normativa nazionale ( (100). Il provvedimento “anticomunitario” è illegittimo e, proprio in quanto tale, può essere annullato dal giudice amministrativo sulla base della apposita domanda del privato. Se il privato richiede l'annullamento dell'atto perché violativo del diritto comunitario, deve impugnarlo nel termine di decadenza, altrimenti diviene inoppugnabile e non può essere più annullato. In sostanza, l'atto illegittimo per violazione del diritto comunitario può essere annullato e l'annullamento per tali ragioni ha i medesimi effetti dell'annullamento dell'atto per violazione della normativa nazionale. Si può, quindi, affermare che con il diritto comunitario si sono accresciuti i casi di “violazione di legge” per i quali può essere sindacato l'atto amministrativo, mentre i connotati dell'annullabilità e dell'annullamento non sono stati modificati. Un profilo problematico in relazione alla tenuta dei connotati tradizionali della annullabilità, o meglio, degli effetti dell'annullamento è rappresentato dalla codificazione dell'istituto dell'annullamento d'ufficio ex art. 21-nonies della legge n. 241/1990. Anche se la norma ha reso esplicito le modalità e le forme di esercizio del potere di autoannullamento che già erano riconosciute in dottrina e in giurisprudenza, la previsione della necessità di tenere conto degli interessi anche dei soggetti privati e, di conseguenza, del legittimo affidamento in essi ingenerato dal provvedimento, ha un indubbio valore innovativo ( (101). La codificazione dei presupposti dell'esercizio del potere di ponderazione da parte della pubblica amministrazione induce immediatamente a una riflessione sulla possibilità o meno da parte della amministrazione di disporre degli effetti dell'annullamento. Ci si chiede se al fine di tenere in debito conto gli interessi dei privati e tutelare il loro legittimo affidamento la pubblica amministrazione possa modulare l'efficacia retroattiva della propria decisione fino a farne assumere il carattere di un annullamento ex nunc ( (102). Certamente il provvedimento è annullabile in quanto affetto da violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza, ma non è detto che esso venga annullato. Quindi, in questo caso, come in quello di cui all'art. 21-octies cit., il provvedimento annullabile può non essere eliminato dal mondo giuridico. Pur essendo vero che l'annullamento d'ufficio ha come presupposto il vizio dell'atto amministrativo, l'amministrazione non si limita a compiere solo questa valutazione per eliminare il provvedimento. Essa, dopo aver verificato la presenza di un vizio di legittimità, deve interrogarsi circa l'idoneità di tale provvedimento a perseguire in maniera ottimale l'interesse pubblico rispetto all'assetto creato dal provvedimento illegittimo di cui si discute ( (103). La stessa pubblica amministrazione potrebbe valutare positivamente il mantenimento nell'ordinamento di un provvedimento idoneo a curare nel modo migliore possibile l'interesse pubblico ancorché illegittimo ( (104). Tale situazione è pienamente comprensibile in quanto l'interesse pubblico all'annullamento è sintomatico del potere discrezionale che possiede l'amministrazione ( (105). L'operazione che compie infatti è sempre quella di perseguire l'interesse pubblico primario che si voleva raggiungere con il provvedimento di primo grado ( (106). Non si tratta, quindi, solo di ripristinare la legalità violata poiché l'interesse pubblico potrebbe superare l'esigenza di legalità. In virtù dell'esercizio di questo potere di ponderazione di interessi che caratterizza l'esercizio del potere discrezionale di annullamento, la pubblica amministrazione deve tener presente anche gli interessi dei destinatari e dei controinteressati, ossia dei soggetti privati e, comunque, deve 111 operare entro un ragionevole lasso di tempo a salvaguardia del principio di legittimo affidamento ( (107). L'art. 21-nonies l. n. 241/1990 non fissa un termine ultimo oltre il quale l'esercizio dell'attività di autotutela è illegittima, riconducendo la valutazione concreta in ordine alla tempistica della vicenda al parametro di valutazione della ragionevolezza del termine. In sostanza nel prevedere il limite temporale del termine ragionevole ha dato vita a un parametro indeterminato ed elastico, lasciando all'interprete il compito di individuarlo in concreto, in considerazione del grado di complessità degli interessi coinvolti e del relativo consolidamento, sulla base del principio costituzionale di ragionevolezza Pertanto, maggiore è il tempo trascorso dall'emanazione del provvedimento illegittimo, più deve essere attenta e motivata la decisione di annullamento, che deve ponderare adeguatamente i contrapposti interessi coinvolti nella vicenda. A questo punto si pone il problema della disponibilità degli effetti dell'annullamento. Infatti, l'amministrazione, nel bilanciamento degli interessi derivanti dall'esercizio del proprio potere discrezionale, potrebbe ritenere non funzionale al perseguimento dell'interesse pubblico l'eliminazione del provvedimento ovvero potrebbe, tenendo conto del legittimo affidamento ingenerato dal provvedimento di primo grado adottato, modulare gli effetti retroattivi del provvedimento di annullamento, affermando la decorrenza temporale degli effetti solo per il futuro ( (108). Secondo questa impostazione l'interesse pubblico potrebbe essere adeguatamente tutelato attraverso provvedimenti demolitori con limitati effetti retroattivi. A tale tesi si contrappone chi ritiene, nel solco della dottrina tradizionale, che anche l'annullamento in sede di autotutela debba avere efficacia retroattiva ( (109). Infatti, la dottrina meno recente aveva sempre affermato la retroattività degli effetti dell'annullamento. Anzi, proprio questo effetto era considerato il solo elemento che accomunasse i vari tipi di annullamento, giurisdizionali e in autotutela. Peraltro, la norma di cui all'art. 21-nonies cit. non dispone nulla circa la possibilità da parte della amministrazione di modulare gli effetti dell'annullamento. Ciò significa che il legislatore non ha voluto intaccare i confini tradizionali dell'efficacia dell'annullamento. La stessa giurisprudenza successiva alla riforma è rimasta sempre coerente rispetto alla retroattività. Per cui l'annullamento d'ufficio viene disposto tramite l'emanazione di un provvedimento finalizzato all'eliminazione di un atto a carico del quale siano emersi profili di illegittimità, da valutarsi alla stregua della disciplina dettata dal precedente art. 21-octies e, di conseguenza, comporta la rimozione ex tunc dal mondo giuridico degli effetti prodotti dall'atto invalido. Inoltre, la rimozione retroattiva degli effetti giuridici comprende anche l'ipotesi nella quale in capo al privato siano sorte posizioni aventi consistenza di diritti soggettivi ( (110). L'unico limite che incontrerebbe la retroattività è quello del fatto compiuto per cui non potrebbero essere demoliti gli effetti irreversibili già integralmente realizzati prima della demolizione dell'atto stesso ( (111). Altrimenti ragionando, l'annullamento d'ufficio si confonderebbe con il potere di revoca, i cui effetti sono espressamente considerati dalla legge irretroattivi. Se si ammettesse l'annullamento ex nunc, non si capirebbe in concreto la differenziazione tra i due istituti che, invece, sono disciplinati separatamente dalla legge: non avrebbe nessuna rilevanza pratica affermare che l'annullamento è dovuto a vizi di legittimità e la revoca a un “ripensamento” o “pentimento” della pubblica amministrazione, se poi le conseguenze degli atti di ritiro sono le medesime. Infatti, in entrambi i casi l'effetto reale dell'atto di ritiro sarebbe quello di lasciare inalterati gli effetti che l'atto medio tempore ha prodotto a seguito di una valutazione discrezionale della pubblica amministrazione. A ben vedere, il vero discrimine tra i due istituti consiste proprio nella differente efficacia degli effetti del ritiro. Una volta ritenuto l'atto non conforme alle norme e ponderati adeguatamente gli interessi in gioco, la pubblica amministrazione lo elimina e demolisce tutti gli effetti dell'atto perché è viziato geneticamente. Nella revoca l'effetto ex nunc, invece, è giustificato dalla originaria legittimità dell'atto. Se il legislatore avesse voluto identificare i due istituti non avrebbe previsto due differenti norme e 112 comunque avrebbe affermato espressamente la facoltà dell'amministrazione di modulare gli effetti dell'annullamento, considerato che nell'ipotesi della revoca ha specificato l'irretroattività dei suoi effetti. Di conseguenza, l'amministrazione o decide di non rimuovere l'atto valutando superiore il legittimo affidamento, oppure, se decide di rimuovere lo stesso, lo deve fare con effetti retroattivi. Da quanto esposto si possono svolgere alcune considerazioni sul ruolo dell'annullamento nell'ambito della rinnovata invalidità amministrativa. Innanzitutto, l'annullabilità, anche dopo le modifiche della legge n. 241/1990, non ha perso la sua primaria importanza come stato invalidante il provvedimento. La previsione della nullità ha tolto poco o nulla al campo di applicazione della annullabilità: nessun ridimensionamento deriva dalla previsione dell'art. 21-octies cit., in cui l'atto è annullabile ma ne viene impedito ex lege solo l'annullamento giurisdizionale. Invece, può aver subito modifiche la possibilità di annullare l'atto a seguito del riscontrato stato invalidante. Infatti, l'innovazione più rilevante con riferimento al tema è la definitiva scissione tra l'annullabilità e l'annullamento dell'atto, benché tale scissione avvenga solo a livello processuale, poiché è al giudice che viene impedito di annullare l'atto ex art. 21-octies cit. In sostanza, queste modifiche normative non comportano rilevanti scostamenti dai connotati sostanziali dell'annullabilità. Ma anche gli effetti dell'annullamento non sono stati intaccati dalle modifiche legislative: una volta annullato l'atto, esso viene rimosso ex tunc, quindi, con efficacia retroattiva. A questo punto dell'indagine occorre valutare se nel corso dell'evoluzione del processo amministrativo che ha portato alla sua codificazione, vi sono stati cambiamenti tali da far ritenere mutata la concezione dell'annullamento, anche giurisdizionale, come conseguenza dell'annullabilità, che comporta tra i suoi effetti quello della rimozione ex tunc degli effetti dell'atto illegittimo. La fondamentale verifica da eseguire è se il processo amministrativo si è trasformato a tal punto da far ritenere che il giudice, rispetto a una domanda di annullamento dell'atto, una volta dichiarato questo illegittimo, possa disporre liberamente degli effetti dell'annullamento a fronte di autonome e concrete ponderazioni degli interessi rappresentati dalle parti processuali. 2.1. Per comprendere appieno l'evoluzione dell'azione di annullamento nel sistema processuale bisogna prendere le mosse da dati di tipo sostanziale. Non è possibile comprendere le mutazioni intervenute nel processo amministrativo se non si analizzano quelle intervenute nei fondamentali principi che governano l'azione amministrativa come, per esempio, quello di legalità ( (112). L'evoluzione del processo ha visto il modificarsi del sindacato del giudice sulla validità dell'atto da un giudizio di conformità o meno allo schema legale a un giudizio sul corretto esercizio della funzione e, quindi, da un giudizio riguardante il provvedimento a uno che coinvolge l'attività amministrativa nel suo complesso ( (113). Sono mutati i connotati fondamentali del controllo di invalidità/legittimità, non legato più esclusivamente alla violazione formale della legge, ma è divenuto sempre più un controllo sul ragionevole e corretto perseguimento delle finalità pubblicistiche ( (114). Attraverso la domanda del privato il giudice può verificare come la pubblica amministrazione ha operato e se essa ha agito razionalmente e in consonanza con quelli che sono le finalità prefissate dalla norma. Lo snodo fondamentale di tale evoluzione è stato individuato nella concezione dell'eccesso di potere come vizio della funzione, che ha disancorato il sindacato del giudice amministrativo dalla mera verifica del rispetto formale della legge ( (115). A ciò è corrisposto il passaggio dalla concezione del principio di legalità inteso in senso squisitamente formale a quello inteso in senso sostanziale, per cui il baricentro del sindacato sull'eccesso di potere si è spostato dall'esame della legittimità formale a quello del risultato. Per tutta l'attività amministrativa privatistica, consensuale e autoritativa, possono trovare applicazione un nucleo fondamentale di principi dai quali non si può prescindere, quali quello di giustizia sostanziale, di ragionevolezza, di logicità, di conformità alle regole dell'organizzazione amministrativa. 113 Di conseguenza, non è necessario che una norma di legge disciplini puntualmente tutte le fasi dell'azione, ma è sufficiente che la norma indichi il fine da perseguire, rimettendo all'am-ministrazione la scelta dello strumento da utilizzare, sulla base della effettiva idoneità al raggiungimento dello scopo dettato dalla norma. Emerge così una nuova concezione del principio di legalità, secondo cui la norma si limita a individuare il soggetto pubblico e ad autorizzarlo ad agire in vista della realizzazione dello scopo affidato. Tale evoluzione, superando la tradizionale dicotomia autorità/libertà, fornisce una nuova interpretazione della legalità amministrativa, che, nella sostanza, viene a identificarsi non tanto nella legalità in chiave di garanzia, quanto nella legalità in funzione di indirizzo dell'azione della pubblica amministrazione. Ai principi tradizionali fondanti l'attività amministrativa, si sono aggiunti altri di stampo prettamente economico e aziendalistico, che impongono all'amministrazione di agire secondo i canoni di efficienza e di efficacia, nell'ottica del conseguimento del risultato. Anche queste nuove modalità dell'azione amministrativa comportano il declino della concezione del principio di legalità che si era consolidato nella tradizione liberale. Il soggetto pubblico si impegna al raggiungimento dell'obiettivo piuttosto che al formale rispetto di prescrizioni e assume per le proprie decisioni parametri informali e di natura sostanziale, quali, tra l'altro, il miglioramento dei servizi assicurati, la tempestività degli interventi, la migliore utilizzazione delle risorse impiegate, il minor danno per i terzi, il rapporto costi benefici ( (116). In quest'ottica il giudice ha modificato il proprio sindacato sul procedimento anche grazie alle innovazioni legislative sostanziali come quella di cui all'art. 21-octies l. n. 241/1990, che ha consentito la dequotazione dei vizi formali. L'evoluzione appena tratteggiata, se da un lato ha favorito un sindacato più penetrante sull'attività amministrativa, dall'altro non ha modificato le linee fondamentali dell'azione di annullamento, che è rimasta azione costitutiva tendente a una pronuncia eliminatoria dell'atto amministrativo, con effetti di modificazione della situazione giuridica precedente. Ciò che è cambiato a seguito di questa evoluzione è la concezione dell'oggetto del giudizio amministrativo, che si è spostato dalla verifica del corretto esercizio della funzione fino a spingersi al rapporto sostanziale tra le parti. Da tale cambiamento è emerso semmai che l'azione di annullamento tradizionale non poteva essere pienamente satisfattiva delle pretese del privato, per cui si doveva allargare il novero delle azioni e delle conseguenti domande da proporre innanzi al giudice amministrativo. Infatti, una pronuncia di annullamento, considerata in funzione della sola verifica di legittimità dell'atto, senza alcuna incidenza sull'assetto del rapporto tra le parti, non può definirsi satisfattiva in quanto la funzione della giurisdizione amministrativa del processo è quella di proteggere gli interessi sostanziali giuridicamente qualificati ( (117). Sul fronte dell'annullamento si è cercato di porre rimedio a questo deficit di satisfattività facendo leva sugli ulteriori effetti della decisione di annullamento. Il rapporto sottostante alla questione controversa viene a essere inciso dalla decisione di annullamento; la successiva azione della pubblica amministrazione (espressa nella formula “salvi gli ulteriori provvedimenti dell'autorità amministrativa” contenuto nell'art. 45 del t.u. n. 1054/1924) viene fortemente limitata ( (118). Con la valorizzazione dell'effetto conformativo viene vincolata la successiva attività della amministrazione di riesercizio del potere, perché il giudice, quando accerta l'invalidità dell'atto e le ragioni che la provocano, delinea (in maniera più o meno piena o esplicita a seconda del tipo di potere che viene esercitato e del vizio riscontrato) il corretto modo di esercizio del potere. Quale effetto immediato, la sentenza di annullamento produce il c.d. effetto ripristinatorio, che implica la cancellazione delle modificazioni della realtà (giuridica e di fatto) intervenute per effetto dell'atto annullato, determinando l'adeguamento dell'assetto di interessi alla situazione giuridica esistente prima dell'adozione dell'atto impugnato. Tuttavia, in ordine agli effetti della sentenza, occorre precisare che quello demolitorio non è delimitato dai motivi di impugnazione, ma ha un'estensione commisurata a quanti atti sono stati impugnati, mentre quello conformativo dell'ulteriore attività 114 dell'amministrazione deve essere delimitato con riguardo alla tipologia (formale o sostanziale) e al numero dei motivi accolti. Non è possibile, cioè, dilatare il contenuto dispositivo e ordinatorio della sentenza sino a ricomprendervi nuovi vincoli per la successiva attività amministrativa che non siano esplicitati nelle statuizioni giudiziali, o che, pur potendosi ritenere potenzialmente inclusi nell'accertamento del rapporto che è alla base della pronuncia di annullamento, non siano un effetto diretto o immediato di quell'accertamento e di quella pronuncia. A ciò corrisponde la parallela evoluzione del giudizio di ottemperanza e dei poteri decisori del giudice in quella sede, con la sua configurazione come giurisdizione di merito e con il riconoscimento al giudice amministrativo, anche attraverso la nomina di commissari ad acta, del potere di sostituzione nell'esercizio delle competenze dell'amministrazione inadempiente. L'effetto ripristinatorio, unitamente a quello conformativo, derivante dall'annullamento giurisdizionale, sembravano costituire già una riparazione nella maniera più specifica e pertanto, anche satisfattiva, dal punto di vista sia materiale sia giuridico, rispetto alla situazione di illiceità caratterizzata dalla situazione di illegittimità dell'atto imputabile all'amministrazione. Tuttavia, ci si rendeva conto che, pur se dilatate all'ennesima potenza, le sentenze di annullamento potevano lasciare vuoti di tutela per cui il passaggio successivo era necessariamente quello di ammettere nuove azioni. La dottrina e la giurisprudenza amministrativa hanno svolto un ruolo primario in questa evoluzione già prima che il legislatore nel Duemila si rendesse conto dello stato dei fatti e proponesse una riforma del processo la quale, da un lato, recepiva e cristallizzava conclusioni da tempo raggiunte in sede giudiziale e, dall'altro, introduceva nuovi istituti sconosciuti al processo amministrativo ( (119). In generale, si avvertiva l'inadeguatezza dello schema del giudizio di annullamento e l'esigenza di estendere il sindacato del giudice al rapporto tra amministratori e amministrati ( (120). Se per oggetto del giudizio si intende la res in iudicio deducta, ossia la situazione complessiva oggetto dei poteri di cognizione del giudice in relazione al tipo di provvedimento richiesto, sulla quale incidono, con effetto di giudicato, i suoi poteri decisori in vista della soddisfazione degli interessi sostanziali sottesi alla controversia ( (121), ciò significa che l'oggetto del giudizio è direttamente collegato alla satisfattività del processo in relazione agli interessi sostanziali dei quali si richiede la tutela. L'oggetto del giudizio, dunque, non si identifica nell'azione di annullamento ossia nella mera verifica della legittimità dell'atto impugnato con il conseguente effetto demolitorio del giudicato amministrativo, senza alcuna incidenza sull'assetto del rapporto sostanziale ( (122). Da questo punto di vista è possibile conciliare il giudizio di annullamento con la visione sostanzialistica del processo. Negli anni Sessanta del secolo scorso Cannada Bartoli ( (123) affermava di “ritenere eliminata ogni contraddizione nel definire la giurisdizione amministrativa come giurisdizione su atti e nel ritenerne, al contempo, la natura soggettiva, trattandosi di valutazioni compatibili siccome concernenti aspetti differenti del problema”. La natura soggettiva del processo veniva dimostrata anche dal fatto che “il ricorrente può riferirsi ad atti successivi al provvedimento impugnato per dimostrare, ad esempio, che questo è viziato da eccesso di potere. Ciò significa che il provvedimento è, per il privato, l'oggetto dell'impugnativa, ma non il limite delle deduzioni, se non nel senso che con esse deve contestare un vizio di quell'atto, giacché egli difende i propri interessi contro l'assetto disposto con il provvedimento”. Infatti, quando un privato ritiene illegittimamente lesa una sua situazione giuridicamente garantita, avente i caratteri dell'interesse legittimo, “il ricorrente critica l'assetto conferito agli interessi, ne propone un altro, e chiede al giudice di farlo proprio ed imporlo all'amministrazione”. In tal modo, il giudizio amministrativo si conferma un giudizio su un conflitto sostanziale di interessi, poiché “la sentenza amministrativa non si limita ad eliminare l'atto, ma necessariamente si pone come attività di identificazione del corretto modo di esercizio del potere (id est, del corretto assetto di interessi) e cioè come regola del comportamento futuro dell'amministrazione” ( (124). L'unica conseguenza di tutto questo è che, “divenuto inoppugnabile un 115 provvedimento, non si può chiedere quella tutela che si sarebbe potuto chiedere tempestivamente, poiché, in tal modo, gli interessi avvantaggiati a causa dell'inoppugnabilità risulterebbero messi in discussione” ( (125). Chiaramente queste lungimiranti visioni erano figlie di un'epoca in cui non era concepibile svincolarsi dall'identificazione del processo amministrativo con l'azione di annullamento. Esse hanno avuto il merito, però, di collocare l'azione di annullamento in una concezione sostanzialistica del processo che ha aperto la strada ai successivi mutamenti legislativi. Il giudice amministrativo, istituito come giudice di annullamento, sia per successive nuove attribuzioni, sia per una sua forza espansiva, si è trasformato nel tempo. La giurisdizione non è più soltanto la sede per ottenere l'annullamento dell'atto illegittimo in quanto l'istanza giurisdizionale è risolutiva di vari tipi di controversie, in cui protagonista non è più solo ed esclusivamente l'atto amministrativo, ma la potestà amministrativa, articolata attraverso il procedimento amministrativo, che, peraltro, tende a perdere il connotato autoritativo per acquisire quello prevalente di composizione di interessi ( (126). Si intravede anche l'apertura verso la definizione della giurisdizione amministrativa come giurisdizione piena: per cui l'allargamento dei poteri del giudice non è che un riflesso della concezione del giudizio amministrativo come giudizio sul rapporto ( (127). La dottrina che ha teorizzato l'evoluzione della giurisdizione nel senso della pienezza ha individuato i limiti della sentenza di annullamento, affermando che il problema centrale della decisione di annullamento è quello di ricavare dal contenuto di accertamento tutti gli effetti costitutivi che ne derivano ( (128). L'annullamento, in sostanza non è in grado di ristorare completamente la lesione arrecata dall'attività amministrativa al privato e non assicura alcuna stabilità al godimento da parte del ricorrente della pretesa sostanziale, in quanto la pubblica amministrazione potrebbe comunque dettare un provvedimento limitativo della medesima situazione di vantaggio del ricorrente. La pronuncia giurisdizionale, al più, può concorrere con la successiva azione della pubblica amministrazione a definire il contenuto del rapporto, ma non può imporre in modo integrale ed esaustivo una disciplina sostitutiva di quella espressa dalla pubblica amministrazione dal momento che non assorbe il potere della amministrazione di definire e disciplinare ulteriormente il rapporto sostanziale ( (129). Al di là dell'effetto preclusivo e dell'effetto conformativo del giudicato amministrativo, il limite della incompletezza dell'accertamento costitutivo del giudice consiste nell'incapacità di prospettare un precisa regola e una direttiva definitiva all'ulteriore azione della amministrazione in relazione alla pretesa sostanziale del ricorrente. Secondo questa impostazione, il risultato al quale dovrebbe aspirare l'effettività del giudicato amministrativo è quello di rendere pregnante l'incidenza della pronuncia giurisdizionale sull'assetto degli interessi, ma storicamente questo obiettivo non è stato raggiunto dalla sentenza di annullamento, tanto che la giurisprudenza ha cercato di supplire al vuoto di tutela dilatando i confini del giudizio di ottemperanza. Già con la legge n. 205/2000, e prima ancora con il d.lgs. n. 80/1998, la situazione sembrava essere destinata a modificarsi nel senso della trasformazione della tradizionale giurisdizione di legittimità in una giurisdizione caratterizzata dalla pienezza della tutela assicurata alle posizione giuridiche soggettive del privato grazie alla previsione dell'azione risarcitoria (volta a una condanna dell'amministrazione sia in forma specifica sia per equivalente). Nella giurisdizione piena la pronuncia del giudice potrà consistere in una sentenza di condanna alla reintegrazione anche in forma specifica della situazione giuridica del privato, che avrà come presupposto l'accertamento del rapporto sostanziale e come finalità assicurare soddisfazione alle pretese sostanziali del ricorrente con contenuti costitutivi solo eventuali. Di conseguenza, l'annullamento potrà costituire il contenuto o parte del contenuto di tale sentenza di condanna. L'accertamento costitutivo che caratterizza la sentenza non lascia alcun margine di manovra all'amministrazione e cristallizza l'assetto degli interessi vincolando a 116 tale fotografia il successivo operato della amministrazione ( (130), con una tutela più stabile e completa rispetto a quella assicurata dall'azione di annullamento ( (131). Alla luce di queste considerazioni si è posto il problema del ruolo del processo di impugnazione. In tale mutato contesto alcuni hanno sostenuto che il processo di impugnazione rappresenterebbe un'immagine che lentamente si “allontana e sbiadisce” ( (132), in quanto la situazione si è del tutto ribaltata rispetto al passato per cui il potere di annullamento è occasionale e il ripristino della legalità dell'agire dei pubblici poteri solo eventuale ( (133). A dire il vero più che un'immagine sbiadita il processo impugnatorio si configura come una delle forme possibili di tutela del privato nell'ambito della giurisdizione di legittimità. 2.2. Data l'evoluzione sopra evidenziata, occorre stabilire se con l'approvazione del codice del processo amministrativo l'azione di annullamento ha subito mutazioni significative. Come già osservato, anche nel codice del processo l'azione di annullamento è stata disciplinata conformemente alla sua concezione tradizionale. Semmai ciò che è profondamente mutato è il contesto intorno a questa azione. Il mutamento è stato il frutto di una evoluzione legislativa e giurisprudenziale alla quale ha collaborato in maniera decisiva la dottrina. L'azione di annullamento è un'azione tipica in quanto la legge la sottopone a una disciplina propria circa i termini, le modalità procedurali e i provvedimenti giurisdizionali che conseguono al suo accoglimento ( (134). Anche gli effetti della sentenza di accoglimento sono tipizzati dal legislatore almeno nel loro contenuto minimo che, come si è visto, è quello demolitorio, visto che secondo lo stesso uno dei possibili contenuti delle sentenze del giudice è l'annullamento totale o parziale del provvedimento (art. 34, comma 1, lettera a). Il codice del processo sotto questo profilo non apporta alcuna innovazione rispetto al passato come nessuna innovazione è possibile riscontrare con riferimento agli effetti di una sentenza di annullamento. Questa consiste in una pronuncia che, a seguito dell'accertamento della illegittimità dell'atto impugnato con riferimento ai vizi denunciati, elimina l'atto dal mondo giuridico. Si ha, dunque, un effetto caducatorio e un effetto costitutivo con modificazione della situazione giuridica precedente ( (135). Pertanto, accanto all'effetto eliminatorio, la sentenza di annullamento ha anche un effetto ripristinatorio in quanto, operando ex tunc, non solo demolisce l'atto eliminandolo dalla realtà giuridica, ma impone che quell'assetto di interessi sia eliminato fin dall'origine. Infine, ha altresì un effetto conformativo soprattutto nell'ipotesi in cui non sia autoesecutiva ( (136). L'accertamento della illegittimità dell'atto per un vizio dedotto comporta sempre che, una volta eliminato l'atto e i suoi effetti ex tunc, l'amministrazione non rieserciti il proprio potere adottando un atto che riproduce il vizio per il quale è stato annullato. L'azione di annullamento e la conseguente sentenza hanno un contenuto tipico e solo ed esclusivamente il legislatore può eventualmente escludere alcuni dei contenuti tipizzati. È stato correttamente rilevato che l'art. 113, terzo comma, della Costituzione impone sulla materia una vera e propria riserva di legge ( (137): al legislatore deve essere riconosciuta la possibilità di prevedere espressamente in capo a un giudice (appartenente a qualsiasi ordine giudiziario) il potere di annullare un atto amministrativo e allo stesso deve essere riconosciuto il potere di stabilire quali debbano essere gli effetti di tale annullamento. Tale riserva di legge è giustificata dal fatto che l'annullamento incide in maniera radicale sulla realtà giuridica. La Corte costituzionale al riguardo ha affermato che deve essere rimessa alla scelta discrezionale del legislatore ordinario, suscettibile di modificazioni in relazione a una valutazione delle esigenze di giustizia e a un diverso assetto dei rapporti sostanziali, il conferimento a un giudice del potere di conoscere ed eventualmente annullare un atto della pubblica amministrazione o di incidere sui rapporti sottostanti, secondo le diverse tipologie di intervento giurisdizionale previste ( (138). La norma costituzionale, in particolare il comma terzo, affermando che deve essere il legislatore a definire gli effetti dell'annullamento, dimostra che i costituenti davano per scontato che il nucleo 117 ineliminabile e imprescindibile di tali effetti dovesse essere la demolizione dell'atto con effetti retroattivi e prefiguravano il potere del legislatore di estendere i poteri del giudice al di là del mero effetto demolitorio, consentendo interventi più penetranti nei confronti della pubblica amministrazione ( (139). Quindi, il potere di tale definizione spetta al legislatore e non certo al giudice. Se il ricorrente vuole un provvedimento differente non dovrà esperire un'azione di annullamento, ma dovrà porre in essere altre domande finalizzate a un altro tipo di tutela, facendo scattare poteri alternativi all'annullamento. Rispetto al passato, il codice del processo amministrativo prevede soluzioni differenti e più articolate rispetto all'azione impugnatoria qualora il ricorrente non ritenga che l'annullamento possa arrecargli utilità rispetto alla protezione della sua posizione giuridica soggettiva. Alcune norme assumono particolare rilevanza in tale ottica. Basti pensare all'azione di condanna e al suo possibile contenuto che è stato individuato dall'art. 34, comma 1, lett. c) del codice. Secondo quest'ultima il giudice può condannare sia al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento, sia all'adozione delle misure idonee, compreso il rilascio del provvedimento richiesto dal ricorrente, a tutelare le situazione giuridiche soggettive dedotte in giudizio. Si tratta, quindi, della possibilità di condanna a un facere specifico che ripropone l'azione di adempimento così come prevista nella originaria versione del codice. Lo stesso art. 34 (comma 1, lett. e) afferma che la sentenza può disporre le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina del commissario ad acta ( (140). È, quindi, un'anticipazione alla fase della cognizione di quanto avveniva in quella di ottemperanza ( (141). È stato rilevato che il criterio della “idoneità”, flessibile e polimorfo ( (142), fa venire in rilievo la questione degli effetti della pronuncia e del loro collegamento con la soddisfazione della situazione soggettiva ritenuta, nel giudizio, meritevole di protezione. La valutazione della idoneità della misura alla quale condannare l'amministrazione non potrà prescindere, infatti, dall'apprezzamento dell'assetto di interessi come conformato dall'azione amministrativa e, ove questa sia affetta da illegittimità, dalla prefigurazione di quell'assetto ''come avrebbe dovuto essere''. Ciò conferma che, anche a prescindere dall'annullamento, il giudice amministrativo può, e anzi deve, operare sull'atto per soddisfare la pretesa del ricorrente. È stato rilevato che tale sistema combinato di azioni funzionerebbe, per esempio, nei casi in cui l'atto lesivo sia a contenuto negativo, per cui occorre qualche cosa di più perché il titolare possa ottenere soddisfazione, ossia vi deve essere una azione di condanna strettamente connessa a quella di annullamento, attraverso la quale si possa richiedere al giudice, una volta annullato l'atto lesivo e accertato che un atto positivo doveva essere emanato, di ordinare all'amministrazione l'adozione di tale atto ( (143). In ciò consisterebbe l'azione di condanna all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica dedotta in giudizio, anche mediante la nomina di un commissario ad acta prevista dal codice ( (144). Tale esigenza, che in precedenza veniva colmata con il contenuto conformativo della sentenza di annullamento, adesso sembrerebbe essere superabile dal combinato disposto delle azioni e della possibile anticipazione in sede di cognizione di misure che prima il giudice adottava nella fase esecutiva. In sostanza, ora il tutto si può “risolvere” con una sentenza dal contenuto multiforme di annullamento e di condanna. Si tratta, quindi, di norme che assegnano alla fase della cognizione un ruolo centrale, senza la necessità di posticipare il momento dell'effettiva tutela delle situazioni giuridiche del privato dedotte in giudizio alla fase di esecuzione ovvero, impropriamente, di anticiparla alla preventiva fase della tutela cautelare ( (145). Da ciò scaturisce, tra l'altro, il problema della sovrapposizione tra giurisdizione e amministrazione nella fase di cognizione. Nell'ottica della pienezza e della effettività della tutela, il giudice della cognizione è chiamato a delineare l'assetto degli interessi conseguente alla domanda di annullamento, per cui la cognizione si arricchisce di contenuti che precedentemente erano rinviati alla sede del giudizio di 118 esecuzione della sentenza, ossia poteri sostitutivi che sono stati attribuiti al giudice in sede di cognizione ( (146). In sostanza, sarebbe il legislatore ad avere superato gli steccati fra cognizione ed esecuzione, ponendo le basi per un superamento del concetto stesso di giurisdizione di merito fino ad arrivare a una concezione di azione unica e atipica nel processo amministrativo ( (147). Secondo le impostazioni più innovative, anche prima del codice del processo le norme che si sono occupate del giudizio amministrativo hanno dato vita a un giudizio che non si limita più ad accertare l'illegittimità di un atto, ma “si estende anche all'accertamento relativo alla “spettanza” della pretesa sostanziale fatta valere in giudizio e/o alla effettiva sussistenza del danno ingiusto, essendo tale accertamento finalizzato alla reintegrazione, anche in forma specifica, dell'eventuale danno ingiusto subito dal ricorrente”. Il contenuto della pretesa giudiziale, dunque, non è più la verifica della legittimità del provvedimento e, di conseguenza, “la valutazione sulla validità (o meno) di un atto o provvedimento amministrativo non costituisce più l'oggetto dell'accertamento giudiziale così come l'annullamento non è più il contenuto principe della sentenza che il giudice andrà ad assumere. L'invalidità (o meno) di un atto costituirà il presupposto per la qualificazione in termini di illiceità (o di ingiustizia) dell'eventuale pregiudizio subito dal ricorrente, mentre l'annullamento costituirà uno dei possibili contenuti della sentenza di condanna, una delle possibili forme di reintegrazione in forma specifica. In questi termini è evidente che soltanto ove si dimostri la spettanza della pretesa sostanziale fatta valere in giudizio vi sarà in capo al ricorrente un interesse all'annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo. La mancata soddisfazione dell'interesse materiale, per essere ingiusta e, quindi, riparabile (eventualmente in forma specifica con l'annullamento del provvedimento), deve presupporre l'accertamento da parte del giudice della fondatezza della pretesa alla soddisfazione di detto interesse. La lesione, infatti, non sarebbe contra jus (o, meglio, non vi sarebbe affatto lesione) se l'interesse sostanziale non avesse dovuto ottenere soddisfazione e, quindi, non ne potrebbe scaturire un'azione diretta alla sua riparazione” ( (148). A questo punto l'annullamento prescinderebbe totalmente dalla apposita domanda e il giudice potrebbe decidere autonomamente se annullare o meno l'atto ovvero da quando far decorrere gli effetti dell'annullamento in vista della migliore protezione degli interessi del privato. Su queste questioni si tornerà nel prosieguo del lavoro; occorre solo rilevare che, sebbene non si sia ancora arrivati alla azione unica e atipica, le innovazioni del codice comportano un notevole affievolimento dei confini tra le tipologie di giurisdizione ( (149). Si è di fatto approdati a una uniformità di tutela tra le varie situazioni giuridiche soggettive per cui potrebbe non avere più senso parlare di giurisdizione di legittimità e di giurisdizione esclusiva, così come l'anticipazione di contenuti sostitutivi nell'ambito della giurisdizione di cognizione potrebbe portare a una elisione della differenza tra giurisdizione di merito e di legittimità ( (150). Queste innovazioni dovrebbero essere cristallizzate in una ulteriore complessiva riforma della giurisdizione amministrativa che per ora non si intravede ma che comunque potrebbe in futuro realizzarsi date le basi gettate dal codice. È sicuro, però, che l'azione di annullamento è una delle varie azioni proponibili dinanzi al giudice amministrativo e non più l'azione egemone del processo. È il privato che, in virtù della propria libera determinazione, in ossequio al principio della domanda, è libero di individuare l'azione che tutela nel modo migliore la propria situazione giuridica soggettiva. Tale conclusione dal punto di vista sistematico è incontestabile considerato che il codice non opera giudizi di primazia con riferimento alle azioni ma, anzi, stabilisce il principio dell'autonomia dell'azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento. Certo non si può negare che il codice, anche quando prevede l'autonomia dell'azione risarcitoria, sembra mettere alcuni paletti che potrebbero far pensare a una pregiudizialità rientrata dalla finestra. Si pensi alla norma sull'azione di adempimento la quale prevede che l'azione di condanna della pubblica amministrazione alla adozione del provvedimento richiesto deve essere proposta contestualmente alla impugnazione del provvedimento di diniego. Si pensi anche al meccanismo previsto dall'art. 30, 119 comma 3, c.p.a., secondo il quale, nel determinare il risarcimento, il giudice deve valutare tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e deve escludere il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare utilizzando l'ordinaria diligenza e gli strumenti di tutela previsti. Il codice introduce così un meccanismo di valutazione del danno simile a quello previsto dall'art. 1227 c.c. ( (151) D'altronde il danno ingiusto deriva sempre da comportamenti e non dall'atto che non sia l'effetto di tale attività: non è necessaria la proposizione dell'annullamento, ma l'aver proposto tale azione può mantenere la sua rilevanza ai fini dell'esame dell'azione risarcitoria autonoma. Il meccanismo in questione non incide sulla ammissibilità dell'azione autonoma di risarcimento, ma sulla fondatezza nel merito della stessa, per cui l'omessa impugnazione dell'atto è solo un elemento che può essere valutato dal giudice per stabilire l'an o il quantum del risarcimento dovuto. Viceversa, affinché il comportamento del creditore possa essere ritenuto conforme all'ordinaria diligenza, non è indispensabile il necessario esperimento degli ordinari rimedi giurisdizionali d'impugnazione, atteso che ciò sarebbe contrario alla ratio dell'art. 30 c.p.a. (che ha escluso la necessità di previa impugnazione dell'atto ai fini dell'ammissibilità dell'azione di risarcimento del danno patrimoniale) nonché alla lettera del terzo comma dell'art. 30, che chiaramente si riferisce a strumenti di tutela non di natura giurisdizionale, comunque, non considerandoli ineluttabili ( (152). La pretermissione della previa domanda di giustizia contro l'atto stesso non costituisce sempre una violazione del canone di ordinaria diligenza ai sensi dell'art. 1227 c.c.: essa può impedire o limitare il sorgere del diritto al risarcimento soltanto se, in concreto, emerge che la mancata azione giudiziale è caratterizzata da colpevolezza (secondo una concreta e ordinaria esigibilità) e se fra la pretermissione e l'insorgenza del danno sussiste un nesso di conseguenzialità diretta, ossia il secondo non si sarebbe verificato se l'interessato avesse debitamente svolto l'azione di annullamento (ad esempio, provocando la rimozione dell'atto in via di autotutela) ( (153). Se il giudice amministrativo può conoscere immediatamente della domanda risarcitoria, per decidere non deve tener conto degli effetti lesivi del provvedimento amministrativo, dopo averne accertato l'illegittimità in via principale. A questo punto si pone il problema dello strumento che il giudice può utilizzare per tale operazione in caso di proposizione autonoma dell'azione risarcitoria. Per valutare la sussistenza e la consistenza del danno occorre operare un confronto tra la fattispecie lesiva scaturente dal provvedimento amministrativo e quella che si sarebbe presentata senza l'adozione dello stesso. A tal fine, si devono rimuovere gli effetti del provvedimento illegittimo, e se non è stato richiesto l'annullamento dell'atto, l'unico strumento che il giudice può utilizzare è quello della disapplicazione del provvedimento causativo del danno con riguardo alla sola causa da decidere della cui ammissibilità nel processo amministrativo si è discusso altrove ( (154). Lo strumento della disapplicazione (al pari dell'annullamento dell'atto, ma ovviamente in maniera più incisiva), escludendo l'applicazione dell'atto nella fattispecie dedotta in giudizio e togliendo efficacia al provvedimento, consente la qualificazione del danno prodotto dall'atto illegittimo, accertato, proprio con questo strumento, come danno ingiusto. Tale qualificazione non potrebbe essere possibile alla luce di una mera dichiarazione di illegittimità del provvedimento che non avesse sull'atto amministrativo alcuna conseguenza pratica. Non è possibile predicare l'autonomia delle due azioni senza prevedere uno strumento per incidere sul provvedimento come la disapplicazione. Peraltro, il danno può derivare, oltre che dall'efficacia del provvedimento, anche dalla sua esecutività o dalla sua materiale esecuzione (per i provvedimenti non autoesecutivi). Il punto centrale, al di là dell'efficacia del provvedimento, è quello della sua esecuzione produttiva di danni materiali: l'annullamento o la disapplicazione dal momento che privano di efficacia il provvedimento in quanto illegittimo rendono la sua esecuzione anche priva di cause di giustificazione e, quindi, produttiva di danni ingiusti. Il provvedimento ha l'attitudine “a realizzare un assetto di interessi incompatibile, ove non venga rimosso, con ogni pretesa di illiceità: costituendo, invero, la persistente efficacia del provvedimento 120 titolo legittimante la condotta produttiva di danni. Per ravvisare il fatto illecito occorre considerare il provvedimento stesso non regolatore della fattispecie, cosa che può avvenire solo (in disparte l'annullamento) tramite la sua disapplicazione” ( (155). Finché il provvedimento, valido o invalido, produce effetti, non sarà possibile valutare la fondatezza della domanda risarcitoria perché non sussiste il presupposto della illegittimità ( (156). Allorché, invece, gli effetti del provvedimento illegittimo siano stati rimossi, vuoi attraverso lo strumento dell'annullamento, vuoi attraverso quello della disapplicazione, allora si potrà procedere alla risoluzione della questione risarcitoria, visto che in entrambi i casi il provvedimento è stato ritenuto illegittimo dal giudice amministrativo, verificandosi uno degli elementi necessari per valutare la fondatezza della domanda. Non solo, ma l'art. 34 del codice prevede che la pubblica amministrazione possa essere condannata all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica dedotta in giudizio, per cui il soggetto danneggiato, attraverso la reintegrazione in forma specifica, consegue le stesse utilità che gli sono garantite dalla legge. Si tratta di una tutela che soddisfa pienamente il danneggiato in quanto realizza il suo interesse sostanziale. Questo tipo di tutela, trasposto nel processo amministrativo, comporta la condanna della amministrazione a un dare, a un facere o a un praestare specifico che ripari il pregiudizio subito dal privato, configurando una vera azione di adempimento. Questa soluzione in passato è stata fortemente criticata da parte della dottrina e della giurisprudenza che hanno proposto una lettura dell'istituto della reintegrazione fedele alla sua origine civilistica, restringendone l'ambito di operatività ai soli interessi di tipo oppositivo o, al più, ai casi in cui, in presenza di interessi pretensivi l'attività rinnovatoria della pubblica amministrazione era totalmente vincolata ( (157). Qualunque sia l'interpretazione della portata di queste forme di tutela, occorre osservare che il giudice, prima di disporre la reintegrazione in forma specifica o condannare la pubblica amministrazione a un facere, compresa l'adozione di un provvedimento, deve “disinnescare” il precedente provvedimento amministrativo causativo del danno, obliterandone gli effetti o con l'annullamento o con la disapplicazione, se è stata proposta azione autonoma di risarcimento. Infatti, per reintegrare in forma specifica è necessario un intervento sulla realtà fattuale e giuridica creata dal provvedimento illegittimo, idoneo a porre in essere le condizioni per tutelare in maniera effettiva la posizione del privato. Se la pubblica amministrazione deve restituire un bene (nel caso di interessi oppositivi) ovvero ordinare un facere specifico come l'adozione di un provvedimento (nel caso di interessi pretensivi), l'intervento sulla realtà fattuale e giuridica non può che essere quello di elidere gli effetti del provvedimento illegittimo, altrimenti sarebbe impedito al giudice di soddisfare l'interesse del ricorrente. Della perdita della centralità o indispensabilità dell'annullamento vi è traccia anche nell'art. 34 c.p.a ( (158), il cui comma 2 prevede che il giudice non possa conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l'azione di annullamento, salvo che nell'ipotesi in cui venga proposta in via autonoma l'azione risarcitoria, mentre il successivo comma prevede che, se nel corso del giudizio l'annullamento del provvedimento impugnato non è più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto ai fini risarcitori ( (159). Si tratta di una conversione dell'azione di annullamento in azione di accertamento, in quanto l'accertamento dell'illegittimità dell'atto impugnato è contenuto nel “petitum” di annullamento come un antecedente necessario ( (160). La norma di cui all'art. 34, comma 3, valorizza un principio di carattere generale volto da un lato a inibire l'annullamento di atti che abbiano ormai esaurito i loro effetti e, dall'altro, a tutelare, in presenza dei necessari presupposti, l'interesse all'accertamento. L'azione costitutiva si riduce ad azione di accertamento, qualora rilevi l'interesse risarcitorio e il giudice, laddove non possa escludere l'interesse del ricorrente a esercitare un'azione risarcitoria in separato giudizio, è tenuto a esaminare il merito del ricorso ai fini della mera declaratoria dell'illegittimità dell'atto. Sulla manifestazione di tale interesse al risarcimento si sono confrontate due impostazioni, una più rigorista e formalista e l'altra più morbida. 121 Secondo la prima impostazione la verifica del giudice rispetto all'interesse risarcitorio non può essere effettuata in astratto e a prescindere da ogni domanda della parte. L'art. 34, comma 3, infatti, non può essere interpretato nel senso che, in seguito a una semplice segnalazione della parte o, addirittura d'ufficio, lo stesso giudice debba verificare la sussistenza di un interesse ai fini risarcitori, ma può trovare applicazione soltanto allorché la domanda risarcitoria sia stata proposta nello stesso giudizio, oppure quando la parte ricorrente dimostri che ha già incardinato un separato giudizio di risarcimento o è in procinto di farlo ( (161). Secondo l'impostazione più morbida quando residui la sola possibilità di un risarcimento per equivalente, il giudice adito con azione di annullamento, anche in assenza di domanda risarcitoria, proponibile ex art. 30, comma 5, c.p.a. sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza, accerta l'illegittimità degli atti impugnati, pur mancando l'interesse all'annullamento ma sussistendo l'interesse all'accertamento ai fini risarcitori ( (162). L'azione di annullamento si trasforma in azione di condanna per danno e l'annullamento del provvedimento ha natura di accertamento incidentale. Quindi, il giudice sarebbe comunque tenuto a pronunziarsi nel merito della causa quando il ricorrente abbia manifestato la permanenza di un interesse alla decisione, anche ai soli fini risarcitori. Appare preferibile la tesi più rigorista in quanto il soggetto dovrebbe concretizzare il proprio interesse al risarcimento anche attraverso la proposizione nel corso del giudizio di annullamento di una formale specifica domanda. La norma, infatti, non sembra affermare che spetti al giudice rilevare ex officio l'ipotetica presenza di un interesse la cui azionabilità è ancora nel potere della parte interessata, come non spetta al giudice verificare se vi sia o meno utilità per il ricorrente all'annullamento. Secondo una impostazione “intermedia”, se è proposta l'azione di annullamento il ricorrente deve segnalare, sembrerebbe senza la presentazione di una apposita domanda in via giurisdizionale, il proprio perdurante interesse ai fini risarcitori, altrimenti il giudice emetterà una pronuncia di rito dichiarando il ricorso improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse ( (163). 3.1. Il presente studio ha preso spunto da alcune recentissime decisioni del giudice amministrativo che sembrano mettere in dubbio risultati acquisiti in materia di annullamento giurisdizionale e di azione impugnatoria. Per questo motivo si è tentato di esaminare, precisandone i concetti giuridici, l'annullabilità e l'annullamento, nonché di approfondire l'evoluzione dell'azione di annullamento nel quadro dei profondi cambiamenti che ha subito negli ultimi anni il processo amministrativo. Le conclusioni che si possono trarre fino a questo momento sono anzitutto che l'annullabilità in quanto stato invalidante non ha perso molto terreno nella nuova configurazione delle patologie dell'atto e, anzi, rimane lo stato invalidante principale; in secondo luogo, l'annullamento conserva i suoi effetti tipici, tra cui l'effetto minimo demolitorio con efficacia retroattiva sia in sede giurisdizionale sia in sede di autotutela, avendo l'annullamento la funzione di eliminare un atto amministrativo viziato fin dalla sua emanazione; in terzo luogo che, nell'ipotesi in cui non si ritiene di eliminare l'atto, non si ricorre neppure all'annullamento (infatti, le amministrazioni, sulla base di valutazioni di opportunità, possono decidere di mantenere in vita l'atto viziato); infine che, se l'amministrazione decide di annullare l'atto, l'effetto demolitorio retroattivo si spiegherà così come avviene nell'ambito dell'annullamento giurisdizionale. Sul versante delle innovazioni processuali, l'analisi compiuta dimostra che l'azione di annullamento si inserisce in un contesto completamente rinnovato che sembra preludere a ulteriori cambiamenti (si pensi alla possibilità di arrivare alla eliminazione delle tipologie di giurisdizione e a una concentrazione di poteri, di cognizione e di esecuzione in una sola fase di giudizio). Ma in tale contesto non sembra perdere i suoi connotati tradizionali per trasformarsi in una azione dal contenuto atipico e disponibile da parte del giudice. Per rispondere al quesito se dalla nuova disciplina del processo amministrativo possa ritenersi sussistente una azione e conseguentemente una sentenza di annullamento alternativa rispetto al passato occorre analizzare criticamente le decisioni “innovative” e gli argomenti posti a fondamento del presunto nuovo corso dell'annullamento giurisdizionale ( (164). 122 La pronuncia che ha aperto la strada a questo dibattito è la sentenza del Consiglio di Stato n. 2775/2001 ( (165). Tale decisione ha affermato che spetta al giudice definire la portata della propria pronuncia giurisdizionale in relazione all'utilità per la parte ricorrente e agli effetti di un eventuale annullamento. Il giudice, perciò, potrebbe limitare gli effetti della propria pronuncia in materia di annullamento, stabilendo quali debbano essere in concreto i poteri dell'amministrazione per eseguire la sentenza stessa ( (166). 3.2. Il primo argomento a favore di questa azione annullatoria dagli effetti “flessibili” è quello della effettività della tutela giurisdizionale e della conseguente affermazione del principio della atipicità delle azioni. In sostanza possono essere esperite tutte le azioni che siano necessarie per tutelare in concreto l'interesse sostanziale e ciò in coerenza con il dettato sia della legge delega sia del codice del processo che prevede l'emanazione di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa sostanziale. Infatti, potrebbe accadere che il ricorrente impugni l'atto per giovarsi dell'effetto conformativo pro futuro, laddove si lamenti della insufficienza di determinate misure adottate con il provvedimento ( (167). Tale possibilità sarebbe dimostrata anche dallo stesso codice il quale prevede la scissione tra l'illegittimità dell'atto e la sua annullabilità (art. 34, comma 3, c.p.a.). Sulla questione della effettività della tutela giurisdizionale si è già detto in precedenza. Occorre ribadire che se il nostro sistema sta andando verso la direzione della diversificazione della tutela giurisdizionale, ciò non può comportare la deformazione delle azioni quando queste siano tipizzate dal legislatore. La possibilità che il giudice pronunci sentenze che siano flessibili e duttibili per la tutela del privato (basti pensare all'art. 34 c.p.a.) non consente di affermare che il contenuto tipizzato dell'azione di annullamento possa essere differente da quello che le norme ci consegnano ( (168). D'altra parte, se il provvedimento è fin dall'origine illegittimo, la sentenza che lo annulla ha sicuramente effetto retroattivo, in quanto questo è diretta conseguenza della illegittimità riscontrata ( (169), per cui il giudice non ha la possibilità di disporre degli effetti dell'annullamento, dipendendo essi dalla illegittimità riscontrata. In questo senso si può affermare che, a seguito dell'accoglimento della domanda di annullamento, si avrà una sentenza dotata degli effetti sopra descritti. Pertanto, il ricorrente che abbia proposto una domanda di annullamento vuole che il giudice accerti l'illegittimità dell'atto al fine di demolirlo con effetti retroattivi, ripristinando la situazione quo ante che dovrebbe consentigli di conseguire o mantenere il bene della vita a cui aspira. La circostanza che vi sia una norma come quella di cui all'art. 34, comma 3, c.p.a., secondo cui l'accertamento della illegittimità non comporta necessariamente l'annullamento dell'atto, non dimostra affatto, a differenza di quanto sostenuto dalla decisione, che vi sia un principio generale in virtù del quale il giudice possa modulare gli effetti demolitori ed eventualmente ripristinatori della sentenza. La citata norma del codice prevede che, allorquando sia proposta un'azione di annullamento, solo nell'ipotesi in cui il giudice ritenga del tutto inutile la demolizione dell'atto e solo qualora si possa ravvisare un interesse risarcitorio, lo stesso possa limitarsi ad accertare l'illegittimità dell'atto prescindendo dal richiesto annullamento. Il mero accertamento in via incidentale della illegittimità viene in rilievo ai fini risarcitori. Tale norma non sembra trovare applicazione nel caso in cui vi sia una semplice segnalazione della parte o addirittura nell'ipotesi in cui d'ufficio lo stesso giudice verifichi la sussistenza di un interesse risarcitorio; la disposizione si applica solo allorquando la domanda risarcitoria sia stata proposta nello stesso giudizio, oppure quando la parte ricorrente dimostri che ha già incardinato un separato giudizio di risarcimento o che è in procinto di farlo ( (170). Ma anche a voler ammettere un'interpretazione più elastica che non prevede la proposizione della domanda risarcitoria bensì solo la segnalazione dell'interesse alla dichiarazione di illegittimità a fini risarcitori, la norma non può certamente essere interpretata nel senso di ammettere una modifica in via 123 generale degli effetti di una pronuncia di annullamento. La portata innovativa della citata norma è un'altra. Infatti, l'accertamento autonomo della illegittimità è espressamente precluso nelle ipotesi di atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare chiedendone l'annullamento (ai sensi dell'art. 34, comma 2, c.p.a.). Ma, in realtà, l'onere di impugnare l'atto sussiste solo se il ricorrente ne chieda l'annullamento, mentre, nei casi in cui il ricorrente voglia chiedere una misura differente non avrà tale onere. Dunque, ben può venire in rilievo l'accertamento della illegittimità svincolato dall'annullamento, con conseguente utilizzo di poteri alternativi da parte del giudice amministrativo ( (171). Ciò è dimostrato non solo dall'art. 34 c.p.a. che elenca i poteri del giudice, ma anche da altre norme come l'art. 21-octies l. n. 241/1990 che, sancendo l'impossibilità del giudice di annullare, impedisce di configurare un onere di impugnazione in capo al privato. Del pari non sussiste alcun onere di impugnazione nelle ipotesi di provvedimenti nulli o in quelle in cui la giurisprudenza ha ammesso l'azione di accertamento autonomo. D'altronde, sono oramai numerosi i casi in cui il privato non è obbligato a impugnare il provvedimento dinanzi al giudice amministrativo. Questa è l'innovazione apportata dalla norma, non certo quella di alterare i poteri annullatori del giudice e modificare l'azione di annullamento nelle sue fondamenta. Neppure l'argomento in base al quale l'art. 21-octies cit. dimostrerebbe la possibilità di un annullamento “atipico” è da condividere, anzi la norma in questione appare coerente con la nuova visione del processo amministrativo, confermata dal codice, che tende a ridurre il ruolo dell'azione di annullamento ai soli casi in cui l'effetto demolitorio sia richiesto e abbia una effettiva utilità per il soggetto privato. Al ricorrente sono forniti ulteriori strumenti di tutela. Sotto questo profilo è possibile accostare all'art. 21-octies l'art. 34, comma 3, del c.p.a., per il quale il giudice si può limitare al solo accertamento della illegittimità dell'atto qualora il suo annullamento non sia utile per il ricorrente. La norma non solo si pone in posizione di continuità e coerenza con la nuova visione del processo amministrativo, ma può comportare un sicuro effetto deflattivo del contenzioso, visto che un gran numero di controversie, infondate nel merito, viene intentato sulla base di contestazioni formali, al solo fine di bloccare l'azione amministrativa. La norma ha natura processuale. L'atto non annullabile è un atto illegittimo poiché viola le norme poste a presidio del corretto agire della pubblica amministrazione, per cui l'art. 21-octies non comporta la degradazione del vizio di legittimità a mera irregolarità, ma fa sì che un vizio, che resta vizio di legittimità, non comporti l'annullabilità dell'atto sulla base di valutazioni attinenti al contenuto del provvedimento effettuate ex post dal giudice, nel senso che la finalità pubblica cui il provvedimento mira era stata adeguatamente conseguita in quanto il provvedimento non poteva essere diverso. Al giudice viene solo impedito di demolire il provvedimento, anche se un provvedimento viziato solo formalmente può comunque comportare pregiudizi per il soggetto. L'interrogativo da porsi è se qui possano scattare ulteriori poteri del giudice amministrativo funzionali a una reintegrazione, anche patrimoniale, del privato leso ( (172). La norma di cui all'art. 21-octies cit. conferma quanto espresso in precedenza sulla valenza dell'art. 113 della Costituzione e sulla non necessaria relazione tra l'illegittimità dell'atto amministrativo e l'annullamento dello stesso. È un caso in cui il legislatore, in conformità a quanto previsto dal citato art. 113, ha stabilito una deroga al principio generale della caducazione con effetti retroattivi dell'atto a seguito dell'accertamento della sua illegittimità. Anche in questa ipotesi il legislatore non ha inteso modificare il contenuto demolitorio e ripristinatorio di una sentenza di annullamento. L'atto non annullabile è un atto illegittimo poiché viola le norme poste a presidio del corretto agire della pubblica amministrazione, per cui l'art. 21-octies cit. non comporta la degradazione del vizio di legittimità a mera irregolarità. 124 Non è questione di modulazione di effetti dell'annullamento, bensì di sussistenza o meno del potere di annullamento pur sussistendo le condizioni per ritenere annullabile l'atto. Un ulteriore argomento afferma che la legislazione non precluderebbe al giudice amministrativo l'esercizio del potere di determinare gli effetti delle proprie sentenze di accoglimento. A tal fine viene richiamato l'art. 21-nonies, l. n. 241/1990 in materia di annullamento d'ufficio, che prevede, quale limite agli effetti demolitori dell'annullamento d'ufficio, il legittimo affidamento del destinatario del provvedimento ( (173). Anche il rapporto tra annullamento d'ufficio e annullamento giurisdizionale è stato approfondito in precedenza, ma sul punto occorre ribadire che l'annullamento d'ufficio e quello giurisdizionale sono istituti da tenere distinti in quanto espressione di differenti poteri, l'uno amministrativo e l'altro giurisdizionale, per cui hanno presupposti e, talvolta, effetti completamente differenti. Il giudice non ha la discrezionalità che possiede la pubblica amministrazione: “se il giudice accerta una invalidità nella specie di illegittimità non può che annullare” ( (174), a meno che non ci si trovi nelle ipotesi previste dall'art. 21-octies, l. n. 241/1990, o dall'art. 34 c.p.a. ove però, come dimostrato, non si ha una modulazione degli effetti dell'annullamento, bensì la previsione della non annullabilità a seguito o di una precisa valutazione legislativa o di una valutazione di un specifico interesse processuale. In nessun caso il giudice opera una valutazione di opportunità sull'interesse pubblico di modulare gli effetti dell'annullamento. In realtà, come rilevato in precedenza, anche nell'ipotesi di annullamento d'ufficio la valutazione di opportunità attiene alla decisione se mantenere in vita o meno il provvedimento. Quando la pubblica amministrazione annulla, opera una rimozione retroattiva dell'atto che travolge i suoi effetti. Se si considerano le decisioni citate emerge chiaramente che la modulazione degli effetti viene posta in essere a seguito di una operazione di ponderazione degli interessi che non appartiene al compito del giudice amministrativo allorché si muova nell'ambito della giurisdizione di legittimità. Il giudice ritiene di non dover annullare con effetto retroattivo perché dalla demolizione degli atti sarebbe ingiustamente e incongruamente compresso uno specifico interesse pubblico ( (175). Se si ammettesse tale operazione il giudice si sostituirebbe all'amministrazione in modo indebito facendo peraltro entrare nel giudizio valutazioni che dovrebbero rimanerne fuori sulla tutela dell'interesse pubblico. Il giudizio, infatti, è finalizzato a rendere giustizia e non a curare l'interesse pubblico ( (176), tantoché il principio del giusto processo esclude che la sede giurisdizionale si trasformi in un luogo di confronto e di sintesi tra le situazioni giuridiche dei privati e gli interessi della pubblica amministrazione per cui il giudice, nella giurisdizione di legittimità, non deve farsi carico dell'interesse pubblico, imponendogli la funzione giurisdizionale di tutelare le situazioni giuridiche soggettive ( (177). In questo modo si oggettivizza la giurisdizione amministrativa poiché è il giudice che decide quando sia congruo l'annullamento, ex tunc, ex nunc o l'effetto conformativo. Tuttavia, come è noto, la concezione della funzione giurisdizionale accolta nella Costituzione è chiaramente orientata in senso soggettivistico o, meglio, individualistico, ponendo al centro del sistema la tutela del diritto dell'individuo e solo su un secondo piano la tutela del diritto obiettivo configurata quale effetto indiretto e secondario della tutela individuale ( (178). Lo Stato non viene posto al centro del sistema e il processo non assume il ruolo esclusivo di tutela e conservazione dell'ordine giuridico. Vi è l'assoluta centralità dell'azione come momento fondante la giuridicità dell'ordinamento ( (179). Che il processo sia strumentale alla tutela della parte che l'ha proposto è un principio oramai irrinunciabile che riguarda anche il processo amministrativo, non solo perché in Costituzione l'interesse legittimo è considerato, al pari del diritto soggettivo, una situazione sostanziale, ma anche perché tutti i principi inerenti alla giurisdizione devono essere applicati anche al giudice amministrativo quale terzo, indipendente e imparziale ( (180). Il processo amministrativo è anch'esso, come quello civile, un processo di parti. 125 Alla concezione oggettivistica, come restaurazione dell'ordine giuridico violato, si oppone il principio di effettività che si incentra “nella concretezza e nella particolarità dell'episodio di vita a cui ciascun processo si riferisce e, quindi, al modo in cui il soggetto che chiede tutela vive la lesione subita” ( (181). L'ulteriore svolgimento di questo discorso implica una completa signoria del soggetto in relazione alla scelta del miglior modo di tutelare la propria situazione giuridica soggettiva allorché la pubblica amministrazione l'abbia lesa. L'interessato, leso nella sua posizione giuridica, può decidere quale sia il modo più utile per conseguire il risultato. Un passo decisivo in questa direzione è stato compiuto dal codice del processo amministrativo il quale, sia con la previsione del principio del giusto processo e della effettività della tutela, sia con il complesso sistema di azioni delineato, accoglie la visione soggettiva del processo. Concepire la disponibilità degli effetti dell'annullamento come giustificata da una valutazione di opportunità operata dal giudice amministrativo e ancorata alla tutela dell'interesse pubblico appare, quindi, del tutto dissonante rispetto ai principi ormai acquisiti e consolidati nell'ambito della giurisdizione amministrativa. Oltre a contrastare con la caratterizzazione in chiave soggettiva della giurisdizione amministrativa, la modulazione degli effetti dell'annullamento da parte del giudice contrasta con uno dei principi fondamentali del giudizio amministrativo, ossia con il principio della domanda. Il giudice deve annullare su apposita domanda del ricorrente formulata sulla base di specifiche doglianze dedotte con il ricorso, rispettando il principio della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato. In tal modo esso resta vincolato ai motivi di ricorso fatti valere dalla parte. L'accertamento dell'illegittimità d'ufficio da parte del giudice è inconcepibile e proprio in quest'ottica il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato opera in termini tradizionali. L'unica via per tentare di superare il principio della domanda è quella prevista dall'art. 32, comma 2, c.p.a. secondo il quale il giudice qualifica la domanda in base ai suoi elementi sostanziali e, sussistendone i presupposti, può disporre la conversione dell'azione ( (182). In tal caso il giudice, nell'esercizio del suo potere/dovere di interpretare e qualificare la domanda, non è in alcun modo condizionato dalle formule in concreto adottate dalle parti, ma deve tener conto del solo contenuto effettivo della pretesa ( (183). Tale norma, a dire il vero, non muta il ruolo che il principio jura novit curia ha tradizionalmente svolto nell'ambito del processo amministrativo ( (184). In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che i motivi di ricorso risultano muniti di adeguata consistenza e specificazione non già allorché si limitano a descrivere le conclusioni cui essi sono indirizzati, ma se e quando indicano le ragioni poste a base di siffatte conclusioni e danno dimostrazione, secondo l'intendimento del ricorrente, del titolo e della causa delle richieste e delle norme che le giustificano ( (185). Ciò fermo restando che non può essere invocato il principio iura novit curia in presenza di motivi generici (o addirittura non distinguibili), perché la conoscenza che il giudice ha e deve avere delle norme dell'ordinamento non esonera il ricorrente dallo specificare adeguatamente le sue richieste. Il principio non può essere interpretato nel senso che il giudice debba ovviare con la sua attività all'incapacità delle parti di reperire un qualunque fondamento per le loro pretese. Certamente, in presenza di motivi non generici il giudice può ovviare alla erronea qualificazione dell'azione da parte del ricorrente. Ma si tratta di una operazione di “riqualificazione” dell'azione che non può superare il principio della domanda ( (186). Ossia, se viene chiaramente richiesto al giudice di annullare il provvedimento, il giudice stesso non può arrogarsi il potere di convertire l'azione in una azione di condanna, a meno che l'annullamento non sia più utile al ricorrente, così come specificato dall'art. 34, comma 3, cit.; per tale conversione devono, quindi, sussisterne i presupposti previsti dalla legge. Ma ciò non può avvenire in base a una valutazione di opportunità in ordine all'interesse pubblico da curare come, invece, sembra essere avvenuto nei casi in cui il giudice ha disposto la modulazione degli effetti dell'annullamento. Nei casi in questione il giudice non ha riqualificato l'azione, bensì si è 126 arrogato un potere di ponderazione degli interessi che non gli spettava. In sostanza, è come se avesse riqualificato l'azione di annullamento in una azione di merito. Ma questo non è possibile, non solo per quanto detto in precedenza, ma anche perché le fattispecie di giurisdizione di merito rappresentano un numerus clausus nel nostro ordinamento processuale. Proprio questa ultima considerazione potrebbe portare ad affermare che una sentenza di tal genere rischierebbe di violare i limiti esterni della giurisdizione amministrativa e, quindi, ben potrebbe essere censurata dalla Corte di cassazione per eccesso di potere giurisdizionale, poiché porrebbe in essere un inammissibile sconfinamento del giudice nell'attività riservata alla pubblica amministrazione. Infatti, per costante giurisprudenza la sostituzione del giudice all'amministrazione si ha allorché il primo sostituisca la propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità della seconda. Ciò si realizza anche quando tale sconfinamento sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell'area dell'annullamento dell'atto. Sul punto occorre osservare che, come chiarito da tempo, per la Cassazione la norma sulla giurisdizione non è solo quella che individua i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che fornisce il contenuto a tale potere stabilendo le forme di tutela attraverso le quali tale potere si esplica. La Corte, attraverso questa estensione della formula “motivi inerenti la giurisdizione”, può nell'ambito del suo sindacato sulla giurisdizione interpretare la norma attributiva di tutela e verificare se il giudice amministrativo la ha correttamente osservata ( (187). Questo principio è stato precisato anche da recentissime sentenze della Corte di cassazione con riguardo alla giurisdizione di legittimità ( (188). L'eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 8, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito, è configurabile quando l'indagine svolta non è rimasta nei limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, ma sia stata strumentale a una diretta e concreta valutazione dell'opportunità e convenienza dell'atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell'annullamento, esprime una volontà dell'organo giudicante che si sostituisce a quella dell'amministrazione, nel senso che, procedendo a un sindacato di merito, si estrinsechi in una pronunzia autoesecutiva. La sentenza ha tale carattere quando possiede il contenuto sostanziale e l'esecutorietà stessa del provvedimento sostituito, senza salvezza degli ulteriori provvedimenti dell'autorità amministrativa. Chiarito questo profilo, preme rilevare che, in virtù del principio della domanda, l'elasticità dei poteri decisori non può dipendere dalla iniziativa del giudice, ma consente al giudice di rispondere in modo adeguato alle domande di parte per soddisfare al meglio le pretese della parte vittoriosa. Se il ricorrente ha chiesto l'annullamento, il giudice non può rifiutarlo qualora ritenga fondata la domanda e limitarsi a stabilire il contenuto conformativo della sentenza. Altrimenti negherebbe il soddisfacimento pieno della pretesa del ricorrente ( (189). Questa attività di modulazione, forse, potrebbe venire in rilievo in sede di ottemperanza. Il giudice potrebbe graduare nel tempo non tanto gli effetti della propria sentenza di annullamento, quanto il contenuto dell'attività sostitutiva nei confronti dell'amministrazione inottemperante ( (190). In questo caso, l'operazione sarebbe possibile perché in sede di ottemperanza il giudice gode di una giurisdizione estesa al merito. Quest'ultimo richiamo alla giurisdizione di merito e ai poteri sostitutori del giudice amministrativo consente di analizzare l'ulteriore argomento, interno alla giustizia amministrativa, che è stato utilizzato per giustificare la disponibilità degli effetti dell'annullamento da parte del giudice. Tale potere del giudice si ricaverebbe anche dalle norme di cui agli artt. 121 e 122 c.p.a., secondo cui, a seguito della rilevata fondatezza del ricorso, il giudice può esercitare un potere valutativo sulla determinazione dei concreti effetti della propria pronuncia ( (191). Si tratta delle norme sul rito speciale negli appalti, che riconoscono al giudice, una volta annullata l'aggiudicazione, la possibilità di dichiarare l'inefficacia o meno del contratto stipulato ovvero di modulare la dichiarazione di inefficacia. Tale modulazione della dichiarazione di inefficacia può avvenire sulla base di vari 127 parametri che contemplano sia valutazioni in ordine all'interesse pubblico al mantenimento in vita del negozio, sia valutazioni sugli interessi delle parti, sulla effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l'aggiudicazione, sullo stato di esecuzione del contratto e sulla possibilità di subentrare nello stesso. Queste norme hanno indotto parte della dottrina a ritenere che nel caso in questione il giudice si sostituisca davvero alla pubblica amministrazione ( (192). Il richiamo agli artt. 121 e 122 c.p.a. non si può condividere. Innanzitutto, se è vero che il giudice può operare alcune valutazioni in ordine alla inefficacia o meno del contratto, la circostanza rilevante è che alla base di tale valutazione vi è sempre una sentenza di annullamento. Infatti, la valutazione della sorte del contratto interviene solo a seguito dell'eliminazione retroattiva della aggiudicazione, ossia un annullamento giurisdizionale con efficacia retroattiva. In sostanza, una “pregiudiziale” di annullamento incombe nella fattispecie in questione ( (193). Peraltro, l'inefficacia non è conseguenza automatica dell'annullamento dell'aggiudicazione. Questo determina solo il sorgere del potere in capo al giudice di valutare se il contratto debba o meno continuare a produrre effetti, sicché la privazione degli effetti del contratto a seguito dell'annullamento dell'aggiudicazione deve formare oggetto di una pronuncia giurisdizionale tipica su apposita domanda del soggetto ricorrente. In questo caso un eventuale potere di modulazione degli effetti (non dell'annullamento ma del contratto) deriva comunque da una domanda specifica per cui il giudice non può ex se operare tali valutazioni. Questa fattispecie rappresenta un unicum nel panorama del processo amministrativo, tanto è vero che ancora non è del tutto chiaro se con riferimento al potere del giudice di dichiarare l'inefficacia del contratto si sia in presenza di una occulta giurisdizione di merito. Infatti, il giudice compie valutazioni di opportunità che vanno ben al di là della verifica di rispondenza dell'atto al parametro normativo e ciò accade in sede di giudizio di cognizione e non più in sede di esecuzione del giudicato. Comunque, questa operazione di valutazione in relazione alla portata, non dell'annullamento giurisdizionale, bensì della dichiarazione di inefficacia del contratto è consentita dalla norma in un'ipotesi di un rito speciale riguardante una ben determinata materia e non può essere presa come giustificazione per un generale potere di valutazione del giudice amministrativo che lo porti sistematicamente a sostituirsi all'amministrazione. Finora si sono analizzati argomenti, tutti interni alla giustizia amministrativa, volti a giustificare la disponibilità degli effetti della decisione da parte del giudice, ma i sostenitori di tale tesi, sia in giurisprudenza sia in dottrina, hanno utilizzato anche argomenti “estranei” a tale materia. Un primo argomento è tratto dal diritto comunitario o, meglio, dall'influenza che il diritto comunitario ha avuto e ha tutt'ora nel processo amministrativo in riferimento al principio dell'effettività della tutela giurisdizionale. Ciò avrebbe reso necessario l'adeguamento degli strumenti processuali nazionali allo standard europeo ( (194) Secondo tale impostazione gli effetti meramente conformativi sarebbero possibili proprio alla luce della giurisprudenza comunitaria ( (195). Dalla normativa comunitaria e dalla sua interpretazione da parte della giurisprudenza emergerebbe che il giudice può emettere le statuizioni che risultino in concreto satisfattive dell'interesse fatto valere, con la conseguenza che il principio della efficacia ex tunc dell'annullamento non avrebbe portata assoluta e il giudice comunitario potrebbe dichiarare l'annullamento di un atto anche ex nunc ovvero stabilire che l'atto medesimo conservi i propri effetti fino a che l'istituzione comunitaria modifichi o sostituisca l'atto impugnato ( (196). Il diritto comunitario prevede la possibilità da parte del giudice comunitario di modulare gli effetti dell'annullamento dell'atto ( (197). Infatti, l'art. 264 TFUE prescrive che la Corte dichiara nullo o non avvenuto l'atto impugnato e, ove lo reputi necessario, “precisa gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi” ( (198). 128 Sul punto occorre precisare che la Corte non ha alcun potere di condanna nei confronti dell'istituzione convenuta e non può imporle alcun comportamento specifico né può modificare o sostituire l'atto impugnato, bensì solo pronunciarne l'annullamento ( (199). La Corte neppure può sostituire il proprio giudizio a quello dell'istituzione che ha emanato l'atto ( (200). La sentenza che pronuncia l'annullamento ha una efficacia erga omnes ed elimina l'atto fin dal momento in cui è stato emanato. Quindi, l'efficacia demolitoria dell'annullamento appare essere la medesima dell'ordinamento nazionale. La sentenza ha natura di accertamento costitutivo in quanto modifica la situazione preesistente: infatti, l'accertamento di legittimità, che fa considerare l'atto “non avvenuto” (ossia annullato), comporta che deve essere ricostruita la situazione preesistente all'emanazione dell'atto eliminando gli effetti prodotti e che sopravvivono al momento del suo annullamento, per cui è necessaria un'ulteriore attività dell'istituzione comunitaria. Nell'ipotesi in cui il ripristino della situazione precedente non sia possibile (perché per esempio gli effetti prodotti dall'atto si sono esauriti) o sia inopportuna (in quanto l'eliminazione dell'atto risulterebbe contraria al principio della certezza del diritto o al rispetto del principio dei diritti acquisiti) viene conferito alla Corte il potere di non demolire gli effetti prodotti. In questa ipotesi gli effetti non deriverebbero dall'atto ritenuto illegittimo ma dal contenuto dispositivo della pronuncia giurisdizionale. Questo argomento è stato utilizzato per affermare analogo principio anche nel diritto nazionale ( (201). Ma la modulazione degli effetti dell'annullamento nel caso del diritto comunitario è fondata su presupposti peculiari e non si può certamente considerare una regola applicabile anche al processo amministrativo nazionale. Infatti, tale modulazione, fino ad arrivare all'esclusione della caducazione dell'atto, almeno fino al momento della riedizione del potere, si ha nell'ipotesi in cui il vizio sia solo formale o in cui vi è un interesse particolarmente forte al mantenimento in vita dell'atto. Per la Corte di giustizia, tuttavia, tale potere deve essere utilizzato con estrema parsimonia, nella consapevolezza che si potrebbe trattare di fattispecie in cui viene sacrificata l'esigenza di tutela piena ed effettiva del privato, derogando a quanto da esso richiesto con il ricorso. Potrebbe essere utile richiamare anche la giurisprudenza che ha riguardato i rapporti tra la normativa processuale comunitaria e nazionale in tema di tutela di posizioni giuridiche soggettive di matrice comunitaria. È principio consolidato che, pur essendo imprescindibile l'esigenza di garantire l'attuazione del diritto comunitario e di assicurare l'effettività della tutela giurisdizionale di situazioni soggettive di matrice comunitaria, la Corte europea, pur riconoscendo che i giudici nazionali hanno l'obbligo di assicurare tale tutela, ha chiarito che, in mancanza di una puntuale disciplina processuale comunitaria nella materia controversa, compete all'ordinamento degli Stati membri la regolamentazione delle modalità procedurali relative alla proposizione e alla definizione dei ricorsi giurisdizionali contro atti amministrativi nazionali asseritamente lesivi di tali posizioni ( (202). Ciò implica che le modalità procedurali intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario non possano essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna, né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario. Solo se le norme nazionali processuali si dimostrano insufficienti e precludono una tutela effettiva delle posizioni soggettive costituite dal diritto comunitario, impedendo al giudice nazionale di assicurarne l'applicazione, possono applicarsi norme procedurali più favorevoli in ambito comunitario. Di conseguenza, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare la normativa processuale interna. Ciò posto si può concludere che solo qualora non vi siano norme sufficienti a garantire il principio dell'effettività della tutela giurisdizionale in ambito nazionale per garantire una posizione soggettiva derivante dal diritto comunitario, il giudice può derogare al regime processuale nazionale e fare applicazione di quello comunitario. Solo in tale ipotesi potrebbe trovare applicazione la norma che consente al giudice di modulare gli effetti dell'annullamento, norma che non esiste nel nostro ordinamento. 129 Occorre osservare, infine, che il giudice, nell'operazione di modulazione degli effetti sella sua sentenza di annullamento, sembra “imitare” la Corte costituzionale ( (203). La Costituzione non attribuisce il potere di determinare gli effetti dell'annullamento delle leggi ma semplicemente prevede che le sentenze abbiano efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione e la legge 11 marzo 1953, n. 87 prevede che la legge dichiarata incostituzionale non possa più essere applicata ( (204). Dal combinato disposto di queste due disposizioni la giurisprudenza costituzionale ha affermato che la dichiarazione di illegittimità costituzionale, per il suo carattere sostanzialmente invalidante, produce conseguenze assimilabili a quelle dell'annullamento, incidendo anche sulle situazioni pregresse, salvo il limite invalicabile del giudicato e quello derivante da situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili ( (205). Quindi, anche le sentenze della Corte si possono qualificare come sentenze costitutive o di accertamento costitutivo. Risulta pacifico che le sentenze di accoglimento abbiano effetti retroattivi, per cui la dichiarazione di illegittimità della norma opera dal momento in cui si è verificata l'incostituzionalità di quest'ultima e travolge tutti i rapporti sorti sulla base della norma successivamente dichiarata incostituzionale, tranne i noti limiti ( (206). Questa pacifica conclusione è stata messa in discussione da una prassi giurisprudenziale, avviata intorno alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso volta alla modulazione degli effetti temporali delle sentenze di accoglimento ( (207). Ciò perché si avvertiva che la possibilità di graduare l'efficacia nel tempo delle pronunce costituzionali non si risolveva in un depotenziamento della stessa bensì in un suo perfezionamento, perché consentiva alla Corte un margine di manovra tale da rendere in concreto più agevole il rispetto della Costituzione. La limitazione temporale degli effetti poteva essere dovuta a una illegittimità sopravvenuta o successiva per cui una determinata disciplina conforme a Costituzione al momento della sua entrata in vigore, può diventare incostituzionale successivamente al sopravvenire di fatti nuovi, come un mutamento legislativo. In questo caso solo da quel momento deve decorrere l'effetto della dichiarazione di incostituzionalità. Ulteriore ipotesi era quella della decisione di accoglimento non retroattiva o parzialmente retroattiva dovuta al c.d. bilanciamento di valori. L'operazione che in questo caso svolge la Corte è quella di non far retroagire gli effetti dell'annullamento poiché, per tutelare un valore costituzionale, si provocherebbero danni rispetto a un altro valore ugualmente protetto dalla Carta fondamentale. Qui il giudice tenta di individuare il punto di minore sofferenza per entrambi i valori costituzionali in gioco, anche attraverso l'utilizzo delle c.d. sentenze monitorie ( (208). La possibilità di modulare gli effetti delle sentenze di accoglimento, anche al di là di una specifica previsione di legge, nel caso della Corte costituzionale si giustifica in base al ruolo che la stessa svolge nel nostro ordinamento democratico. Un ruolo del tutto peculiare che ha dato vita al dibattito sintetizzato da Sandulli nella domanda se la Corte si dovesse considerare “giudice o co-legislatore” ( (209). L'Autore, pur ritenendo che la Corte non faccia “politica”, precisa che essa ha una potestà, per sua stessa natura insindacabile, che “viene a incidere nettamente nella sfera del politico (delle scelte politiche, della direzione politica della società), poiché ne sono oggetto le leggi, gli atti politici per antonomasia, e le conseguenze delle pronunce della Corte sono politiche” ( (210). È tale potestà che fa assumere alla Corte il ruolo di organo costituzionale, pur non facendole perdere la caratteristica di organo giurisdizionale. Non è la sede per ripercorrere il dibattito sul ruolo della Corte nel nostro ordinamento e se essa svolga o meno funzioni anche di indirizzo politico, certo è che la Corte assume un ruolo del tutto peculiare che le permette, in vista della salvaguardia di alcuni valori costituzionali, di modulare gli effetti delle proprie sentenze e ciò anche al fine di favorire, in chiave di collaborazione, l'operato del Parlamento senza mai sostituirsi a esso ( (211). In alcuni frangenti la Corte, in funzione di mediatore sociale e poi di arbitro dei conflitti ha assunto un ruolo politico, tuttavia non è mai diventata un organo del sistema politico, cercando sempre di misurare “la politica sul metro del diritto” ( (212). La peculiarità della funzione della Corte nell'ambito del 130 nostro sistema democratico non consente di poter operare un paragone tra la sua potestà di modulazione degli effetti delle sentenze riguardanti le leggi e la potestà di modulazione del giudice amministrativo. Mentre la Corte, nell'opera di individuazione del punto di minor sofferenza tra i valori costituzionali in gioco, non sembra mai essersi sostituita all'organo legislativo invadendone il campo, il giudice amministrativo, allorché utilizza l'autoproclamato potere di modulazione degli effetti dell'annullamento, lo fa proprio in chiave sostitutoria della pubblica amministrazione, operando una valutazione sulla opportunità o meno del mantenimento degli effetti per tutelare un interesse pubblico. Ma questo non è il ruolo che l'ordinamento ha assegnato al giudice amministrativo, almeno, non è il ruolo che gli è stato assegnato all'interno del processo di annullamento. 3.3. Analizzati criticamente gli argomenti favorevoli a una “nuova” azione di annullamento, occorre ora soffermarsi su alcune criticità in ordine alle conseguenze pratiche derivanti dalla previsione della modulazione degli effetti dell'annullamento. Le decisioni più rilevanti in tal senso hanno riguardato atti di pianificazione, tantoché la dottrina si è chiesta se la mera dichiarazione di illegittimità di questi atti, senza alcuna ripercussione sulla loro vigenza, possa portare al privato più vantaggi o svantaggi ( (213). Per gli atti di pianificazione, l'accertamento della invalidità senza l'annullamento lascia in vigore gli effetti dell'atto stesso, per cui l'amministrazione potrebbe adottare atti di attuazione dello stesso sulla base di una pianificazione illegittima ( (214). A dire il vero tale situazione si verrebbe a creare anche nell'ipotesi di atti non aventi natura pianificatoria, allorché questi siano presupposti di ulteriori atti amministrativi: questi ultimi sarebbero comunque illegittimi ( (215). Ma anche in sede di esecuzione l'incertezza sarebbe massima: la pubblica amministrazione, infatti, non sarebbe affatto costretta a eliminare l'atto dichiarato illegittimo e ben potrebbe mantenerlo in vita senza intaccarne gli effetti, che comunque non sono mai venuti meno, eludendo nella sostanza la dichiarazione di illegittimità effettuata dal giudice. Il problema della sopravvivenza del provvedimento afferisce al momento dell'esecuzione del giudicato, allorché la pubblica amministrazione dovrà ponderare l'interesse pubblico al mantenimento in vita del provvedimento ovvero alla sua sostituzione con un atto che non contenga i vizi per i quali il precedente è stato dichiarato illegittimo. Ma allora ci si deve chiedere se la strada da percorrere non potesse essere un'altra, ossia quella di affermare che nelle ipotesi in cui l'annullamento non possa venire in rilievo, alla dichiarazione di illegittimità deve conseguire la devitalizzazione dell'atto attraverso la disapplicazione dello stesso da parte del giudice amministrativo. Un'affermazione di tal sorta avrebbe comportato una maggiore chiarezza e una successiva attività esecutiva sicuramente più semplice per l'amministrazione e per lo stesso giudice in sede di ottemperanza considerato che con la disapplicazione la pubblica amministrazione si sarebbe trovata di fronte a un provvedimento “disinnescato”, inerme, rispetto alle parti della controversia, ancorché non demolito. Sarebbe stato sicuramente più semplice per l'amministrazione nell'esecuzione del giudicato attribuire al privato l'utilità perseguita. D'altra parte lo scopo era evitare l'annullamento di un atto generale illegittimo ma comunque necessario. Nelle fattispecie risolte dalle citate sentenze vi sarebbero stati altri strumenti per far fronte alla situazione. Qualora l'annullamento di atti normativi o generali possa ledere interessi pubblici la soluzione migliore sarebbe quella di riconoscere al giudice amministrativo il potere di disapplicazione dell'atto generale nei confronti del solo ricorrente vittorioso ( (216). Proprio questo potere rappresenta uno dei nuovi orizzonti che l'evoluzione del processo amministrativo prospetta. Sul punto occorre rilevare che recentemente si è riproposta la questione della disapplicazione provvedimentale sia con riferimento ai regolamenti sia con riferimento agli atti di carattere generale. Se la disapplicazione dei regolamenti è stata ritenuta ammissibile, più problematica è l'ammissibilità di 131 tale potere nei confronti degli atti a contenuto generale, in quanto provvedimenti amministrativi che non possiedono la “specialità” dei regolamenti. Ammettere la disapplicazione degli atti generali avrebbe comportato a cascata, l'ammissione della possibilità di disapplicazione dei provvedimenti da parte del giudice amministrativo. Ma tale conclusione non è stata ancora pienamente accettata dalla giurisprudenza. In questo contesto si colloca una decisione riguardante clausole di un bando di gara non tempestivamente impugnate ( (217). Il Consiglio di Stato afferma la possibilità di disapplicazione della clausola di un bando, per consentire la massima partecipazione, approdando a una soluzione condivisibile ma secondo un iter argomentativo forzato ( (218). Infatti, pur di non affermare la disapplicabilità di un provvedimento amministrativo, quale è il bando di gara e, in particolare, di una sua clausola, il Consiglio di Stato richiama il principio della disapplicazione dei regolamenti che nulla hanno a che vedere con la fattispecie in questione ( (219). Il giudice ha operato l'interpretazione di una clausola, prevista a pena di esclusione, in linea con il principio del favor partecipationis. Nel momento in cui tale clausola non veniva tempestivamente impugnata dall'escluso, la strada obbligata per il giudice amministrativo era quella di superarla attraverso una disapplicazione della stessa e, quindi, una disapplicazione parziale del bando di gara ( (220). Secondo il giudice, che ha richiamato la disapplicazione regolamentare, si tratterebbe di una disapplicazione finalizzata a salvaguardare il principio di legalità. In questo caso, però, non si tratta di disapplicazione regolamentare, ma di vera e propria disapplicazione provvedimentale. Il bando è atto a contento generale ma non regolamentare e la disapplicazione in questo caso non poteva essere giustificata dalla salvaguardia del principio di gerarchia delle fonti come avviene per i regolamenti ( (221). La decisione appena citata, anche se con molta timidezza e in maniera, a dire il vero, non pienamente convincente, fa intravedere, come una delle possibili soluzioni nell'ipotesi di mancata tempestiva impugnazione di un provvedimento, quella della disapplicazione dello stesso, purché, ovviamente sia stato impugnato il relativo atto esecutivo. Sulla questione del rapporto tra la disapplicazione e l'annullamento deve essere chiaro che il primo potere è del tutto alternativo al secondo. La disapplicazione può venire in rilievo solo laddove il ricorrente non richieda la tutela demolitoria. Entrambi i poteri conseguono a uno scrutinio di legittimità ma incidono in maniera differente sull'atto amministrativo, per cui in modo differente devono essere utilizzati. Solo se l'annullamento non viene richiesto ovvero non è più utile per il ricorrente, allorché viene proposta una domanda diversa dall'annullamento, può rilevare la disapplicazione provvedimentale. L'annullamento è un'azione tipica, se non si chiede, vengono in rilievo altri poteri. Si pensi alla azione di condanna atipica o a quella risarcitoria, ovvero alla possibilità di anticipare alla fase di cognizione l'esecuzione della sentenza, per cui il giudice può indicare nel dettaglio il contenuto dell'obbligo conformativo che grava sulle parti. In tutti questi casi, il giudice può dichiarare l'inefficacia dell'atto e considerarlo tamqam non esset nel processo. La disapplicazione del provvedimento dovrebbe essere oggetto di specifica domanda del ricorrente e i motivi per cui essa viene richiesta devono essere esplicitati nel ricorso, in conformità con il principi tradizionali del processo amministrativo. Da ciò deriva che il rispetto del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato deve valere anche per la domanda di annullamento. Se il ricorrente chiede che l'atto venga annullato il giudice deve pronunciarsi su tale richiesta e, se ritiene l'atto illegittimo, non può assolutamente in via d'ufficio arrogarsi il potere di modulare a proprio piacimento gli effetti di una sua pronuncia di illegittimità. Anche nelle ipotesi in cui sembra prevedersi solo la mera dichiarazione di illegittimità, non accompagnata a nessun effetto sull'atto (art. 34 c.p.a. e art. 21-octies l. n. 241/1990), il giudice dovrà intervenire sulle conseguenze dell'atto stesso attraverso lo strumento disapplicatorio, se vuole offrire qualche utilità al privato ricorrente. 132 In definitiva, annullamento e disapplicazione sono due strumenti tipizzati dall'ordinamento e sicuramente utili per il privato che vuole far valere una sua pretesa nei confronti della pubblica amministrazione chiedendo, quantomeno, che gli effetti dell'atto siano congelati. Il ricorrente non si aspetta che il giudice a fronte di una dichiarazione di illegittimità, non prenda alcuna posizione sugli effetti dannosi dell'atto stesso, anzi ne continui a dichiarare la perduranza ovvero salvi gli effetti che l'atto ha compiuto sino a quel momento. In tal modo, il potere officioso del giudice servirebbe per sostituirsi alla pubblica amministrazione, ma in chiave di esclusiva tutela dell'interesse pubblico e non a tutela delle posizioni soggettive dedotte in giudizio ( (222). Si può, quindi, pienamente condividere la posizione di chi ha considerato il “nuovo” potere di annullamento (che annullamento non è) come una fuga in avanti foriera di conseguenze negative e preoccupanti ( (223). Se tale tendenza dovesse confermarsi nella giurisprudenza amministrativa, ciò comporterebbe il pericoloso superamento del principio della domanda, che, invece, rimane e deve ancora rimanere centrale ed essenziale nel processo amministrativo, che si caratterizza come processo dispositivo. Il codice ha fornito nuovi poteri in relazione all'ampliamento delle azioni proponibili, poteri che in alcuni casi sono caratterizzati da elasticità e duttilità, ma tale elasticità e duttilità deve essere utilizzata sempre nel rispetto dei presupposti previsti dalla legge L'elasticità del potere del giudice non può dipendere dalla sua mera iniziativa, bensì deve consentire allo stesso, in virtù di apposite previsioni legislative, di rispondere in maniera adeguata alle domande della parte che reclama giustizia. Note: (1) Il testo è stato già oggetto di due decreti correttivi. Il primo decreto correttivo (d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195) ha apportato numerose modifiche al testo precedente, ma non ha intaccato la struttura del codice. Il secondo (d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160) è sicuramente destinato a essere più incisivo. Infatti, con riferimento alle sentenze del giudice prevede, modificando l'art. 34, comma 1, lett. c), che “l'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all'articolo 31, comma 3, contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio”. Come si vedrà successivamente tale norma sembra aver introdotto l'azione di adempimento nell'ambito del codice, anche se con una portata ristretta. Per un'analisi delle innovazioni del primo decreto correttivo si vedano M.A. Sandulli, Il processo davanti al giudice amministrativo nelle novità legislative della fine del 2011, in www.giustamm.it, 2, 2012; C.E. Gallo, Il decreto correttivo al codice del processo amministrativo, in Urb. app., 2012, 23. Sul secondo correttivo si vedano M.A. Sandulli, Il codice del processo amministrativo nel secondo correttivo: quali novità?, in www.federalismi.it, 9/2012; R. De Nictolis, Il secondo correttivo del codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 9/2012; A. Carbone, L'azione di adempimento è nel codice. Alcune riflessioni sul D.Lgs. 14 settembre 2012, n. 160, in www.giustamm.it, 9/2012. In particolare, sia M.A. Sandulli sia R. De Nictolis, ritengono che il secondo correttivo, pur utile, sia poca cosa rispetto alla bozza licenziata dalla commissione speciale, che aveva proposto di sancire il principio di atipicità delle azioni e di prevedere il termine di un anno per l'azione risarcitoria autonoma e per quella proposta contestualmente o successivamente all'azione di annullamento. Per una analisi del codice del processo in generale si vedano F. Merusi, Il codice del giusto processo amministrativo, in questa Rivista, 2011, 1; A. Pajno, Il codice del processo amministrativo e il superamento del sistema della giustizia amministrativa. Una introduzione al libro I, in questa Rivista, 2011, 100; A. Quaranta, V. Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011. Come è noto, alcune delle più importanti innovazioni recepite dal codice sono state anticipate dalla giurisprudenza amministrativa e in particolare dal Consiglio di Stato, il quale ha operato come vero e proprio propulsore del cambiamento. Tale ruolo è stato evidenziato nelle analisi storiche riguardanti questa istituzione, soprattutto nella recente occasione del centottantesimo anno dalla sua istituzione. In particolare, S. Cassese, Le molte vite del Consiglio di Stato, in Giorn. dir. amm., 2011, 1276, ha affermato che 133 proprio il Consiglio di Stato ha sempre fornito un contributo positivo al funzionamento delle istituzioni e che la sua forza futura consisterà nella capacità di mantenere un proficuo dialogo con altre corti non nazionali e nella perseveranza con la quale indurrà le amministrazioni italiane ad adottare i moduli propri della democrazia amministrativa, soprattutto consentendo la partecipazione degli interessati alla formazione delle decisioni collettive. In altro scritto dello stesso Autore (Continuità e fratture nella storia del Consiglio di Stato, in Giorn. dir. amm., 2011, 547) si pone in evidenza che tale organo ha assicurato la propria continuità grazie a una straordinaria capacità di cambiare, rispondendo alle esigenze dei diversi contesti storici e rimediando alle storiche e strutturali debolezze dell'amministrazione italiana nonché agli inconvenienti degli assetti politici. Inoltre, ha saputo essere un organo multi purpose, amministratore e giudice, vivaio di grandi commessi, guida legislativa, consigliere del governo. Secondo l'Autore, proprio queste ambivalenze sono all'origine della sua lunga durata e della sua posizione costituzionale. Infine, oltre a svolgere una notevole opera in via diretta, ha saputo supplire alle carenze di altri organi. (2) Cons. Stato, Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755, in Urb. app., 2011, 927; Cons. Stato, Sez. VI, 9 marzo 2011, n. 1488, in Foro amm.-C.d.S., 2011, 953. (3) La pericolosità di tali fughe in avanti del giudice amministrativo rispetto al sistema sono state evidenziate da R. Villata, Spigolature “stravaganti” sul nuovo processo amministrativo, in questa Rivista, 2011, 856, e in Ancora “spigolature” sul nuovo processo amministrativo?, in questa Rivista, 2011, 1512, nonché da F.G. Scoca, Risarcimento del danno e comportamento del danneggiato da provvedimento amministrativo, in Corr. giur., 2011, 988. (4) In particolare F.G. Scoca, Attualità dell'interesse legittimo?, in questa Rivista, 2011, 380, esamina in chiave critica le tesi che negano l'autonomia della figura dell'interesse legittimo come posizione giuridica soggettiva per assimilarla a quella del diritto soggettivo. L'Autore rileva che le disposizioni costituzionali hanno reso “palpabile” il carattere sostanziale dell'interesse legittimo e che la legge sul procedimento amministrativo ha notevolmente aumentato i mezzi sostanziali per la sua tutela. Si riconosce che anche il codice del processo ha profondamente rafforzato i mezzi di tutela processuale, perciò “tra l'ampliamento del ventaglio delle azioni di cognizione e la rivisitazione del giudizio di ottemperanza, l'interesse legittimo ha acquisito una consistenza giuridica tale da superare le perplessità e i dubbi di inadeguatezza” esposti dalle impostazioni dottrinali contrarie alla sua configurazione come autonoma situazione giuridica soggettiva (op. cit., 409). Si veda anche F. Caringella, Il sistema delle tutele dell'interesse legittimo alla luce del codice e del decreto correttivo, in Urb. app., 2012, 14. Sul punto è significativa l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 23 marzo 2011, n. 3, in Foro amm.C.d.S., 2011, 826, che nel ribadire con forza la natura di situazione giuridica soggettiva dell'interesse legittimo, ha riconosciuto che con il codice il processo amministrativo ha superato le tradizionali limitazioni alla tutela di tale posizione soggettiva, ammettendo il principio della pluralità di azioni idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa. Commentando tale decisione F.G. Scoca, Risarcimento del danno e comportamento, cit., 988, sostiene non solo che il codice del processo ha esaltato il ruolo del giudice e rafforzato il sistema delle tutele dei privati nei confronti delle pubbliche amministrazioni, ma anche che l'interesse legittimo esce rafforzato nel sistema di tutela processuale, non trasformandosi affatto in diritto soggettivo. Nell'ottica della pienezza della tutela dell'interesse legittimo come posizione soggettiva, ha poi affermato che l'azione meramente risarcitoria sia “proponibile in via autonoma rispetto all'azione impugnatoria e non si atteggi più a semplice corollario di detto ultimo rimedio secondo la logica gerarchica che il codice del processo ha con chiarezza superato”. (5) F.G. Scoca, Attualità, cit., 410. (6) Per le innovazioni che hanno comportato una ridefinizione dei confini tra le azioni impugnatorie e quelle non impugnatorie nell'ambito del processo amministrativo si veda M.A. Sandulli, Il superamento della centralità dell'azione di annullamento, in Libro dell'anno del diritto 2012, Treccani, Roma, 829. Il 134 superamento della centralità della azione di annullamento è stato chiaramente affermato anche dalla citata decisione della Adunanza plenaria n. 3/2011. (7) Anche se R. Villata, in Ancora “spigolature”, cit., 1513, rivendica la centralità dell'azione quale conseguenza ineliminabile della circostanza che spetta all'amministrazione disporre in ordine al caso concreto, giacché la tutela piena e satisfattiva dell'interessato passa per l'eliminazione dell'atto precettivo. (8) In Riv. giur. edilizia, 2011, 513 con nota di M.A. Sandulli. L'Adunanza plenaria, concependo la denuncia di inizio attività come atto del privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività ammessa dalla legge, afferma che il terzo, che subisce da una denuncia di inizio attività una lesione in un arco di tempo anteriore al decorso del termine perentorio fissato dalla legge per l'esercizio del potere inibitorio, può esperire innanzi al giudice amministrativo un'azione di accertamento tesa a ottenere una pronuncia che verifichi l'insussistenza dei presupposti di legge per l'esercizio dell'attività oggetto di d.i.a. (s.c.i.a.), con i conseguenti effetti conformativi in ordine ai provvedimenti spettanti alla pubblica amministrazione. Il silenzio serbato dalla amministrazione nel termine perentorio previsto dalla legge per l'esercizio del potere inibitorio comporta l'esito negativo della procedura finalizzata all'adozione del provvedimento restrittivo e integra l'esercizio del potere amministrativo attraverso l'adozione di un provvedimento tacito negativo equiparato dalla legge a un atto espresso di diniego dell'adozione del provvedimento inibitorio. Una volta spirato il termine perentorio fissato dalla legge per l'esercizio del potere inibitorio, da parte dell'Amministrazione, dell'attività dichiarata con la d.i.a., viene meno l'ostacolo frapposto alla definizione del giudizio dall'art. 34, comma 2, c.p.a. secondo cui “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”. Da ciò deriva che se l'amministrazione adotta un provvedimento di divieto, satisfattorio dell'interesse del terzo, si determina la cessazione della materia del contendere; mentre, se l'amministrazione non adotta il provvedimento inibitorio, il giudice potrà pronunciarsi sul merito del ricorso, senza che sia necessaria la proposizione, da parte del terzo ricorrente, di motivi aggiunti ex art. 43 c.p.a., poiché, in forza del principio di economia processuale, l'azione di accertamento, una volta maturato il termine per la definizione del procedimento amministrativo, si converte automaticamente in domanda di impugnazione del provvedimento sopravvenuto. La proposizione di motivi aggiunti, invece, dovrà essere effettuata, pena l'improcedibilità del ricorso già presentato, nell'ipotesi in cui la pubblica amministrazione, all'esito del procedimento amministrativo inaugurato con la presentazione della d.i.a., adotti un atto espresso che evidenzi le ragioni della mancata adozione della determinazione inibitoria. Il giudice, inoltre, sostiene che l'azione di accertamento, non espressamente disciplinata, può scaturire da un'interpretazione sistematica delle norme del codice del processo. Queste prevedono la definizione del giudizio con sentenza di merito puramente dichiarativa agli art. 31, comma 4 (sentenza dichiarativa della nullità), 34, comma 3 (sentenza dichiarativa dell'illegittimità quante volte sia venuto meno l'interesse all'annullamento e persista l'interesse al risarcimento), 34, comma 5 (sentenza di merito dichiarativa della cessazione della materia del contendere), 114, comma 4, lett. b) (sentenza dichiarativa della nullità degli atti adottati in violazione od elusione del giudicato), 34, comma 2, che, prevedendo che “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”, non può che riferirsi all'azione di accertamento. Successivamente, la legge 14 settembre 2011, n. 148, di conversione del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo, ha prescritto che la s.c.i.a. non può essere impugnata ma il mancato esercizio del potere di controllo deve essere fatto valere attraverso l'azione sul silenzio inadempimento. Ciò avrebbe potuto indebolire la tesi favorevole alla ammissibilità dell'azione di mero accertamento. Comunque, anche successivamente alla presa di posizione del legislatore, non sono mancate decisioni favorevoli all'accertamento. Sul punto si veda anche recentemente Tar Lazio, Roma, Sez. II, 4 maggio 2012, n. 4007, in Foro amm.-Tar, 2012, 1613. Secondo tale decisione mentre l'azione avverso il permesso di costruire è una tipica azione impugnatoria di provvedimento amministrativo, 135 con richiesta di annullamento a efficacia retroattiva, la c.d. impugnativa della s.c.i.a. è configurabile quale vera e propria azione di accertamento dell'illegittimità della segnalazione per mancanza dei relativi presupposti. (9) In Foro amm.-Tar, 2011, 1491, con nota di A. Carbone, Fine delle perplessità sull'azione di adempimento. Con tale decisione si afferma che l'accoglimento della domanda di annullamento non consente sempre e comunque di fissare la regola del caso concreto. Ciò sarà consentito solo in presenza di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità, benché sia possibile che anche un'attività connotata da discrezionalità, a seguito della progressiva concentrazione in giudizio delle questioni rilevanti (ad esempio, mediante il combinato operare di ordinanza propulsiva e motivi aggiunti), possa risultare oramai segnata nel suo sviluppo. In questo caso è possibile l'azione di condanna volta a ottenere l'adozione dell'atto amministrativo richiesto. Infatti, l'art. 34, comma 1, lett. c), nel precisare i contenuti della sentenza di condanna, prevede anche l'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio, configurando un potere di condanna senza restrizione di oggetto, modulabile a seconda del bisogno differenziato emerso in giudizio. (10) M.A. Sandulli, Il codice del processo, cit., ritiene che la nuova azione (tipica) di adempimento si pone in rapporto di specialità rispetto alla più generale azione di condanna. La norma si preoccupa di porre dei paletti a questa nuova azione, per cui il riferimento ai limiti previsti dall'art. 31, comma 3, c.p.a. per l'azione diretta all'accertamento della pretesa nel rito avverso il silenzio mira a impedire la sostituzione del giudice alla pubblica amministrazione, lasciando al tempo stesso ampio margine di intervento all'organo giudicante, anche attraverso l'esercizio di poteri sollecitatori degli adempimenti istruttori e la valutazione dell'esaurimento della discrezionalità. (11) F.G. Scoca, Attualità, cit., 412. D'altra parte ciò è coerente con una definizione di res in iudicio deducta, come situazione complessiva oggetto dei poteri di cognizione del giudice in relazione al tipo di provvedimento richiesto, sulla quale incidono, con effetto di giudicato, i suoi poteri decisori in vista della soddisfazione degli interessi sostanziali sottesi alla controversia. L'oggetto del giudizio è dunque direttamente collegato alla satisfattività del processo in relazione agli interessi sostanziali dei quali si richiede la tutela (V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 2003, 514). (12) Anche se occorre subito rilevare che il rapporto nei suoi tratti caratteristici non si può identificare con quello civilistico, in quanto nell'azione dei pubblici poteri è sempre insito il principio di funzionalizzazione che caratterizza il procedimento, il provvedimento e la patologia dell'atto amministrativo. (13) G. Roehrssen, La giustizia amministrativa nella Costituzione, Milano, 1988, 73. D'altra parte il principio della effettività della tutela è il criterio ispiratore della disciplina costituzionale in materia di giurisdizione e ciò è dimostrato dalla costituzionalizzazione del giusto processo da parte della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, di modifica dell'art. 111 della Costituzione. Con specifico riguardo alla giustizia amministrativa, vengono in rilievo il primo, il secondo, il sesto e l'ottavo comma dell'art. 111. In particolare, il secondo comma stabilisce che: “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge in contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti al giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. Nell'ambito del processo amministrativo questa norma comporta, in primo luogo, che qualsiasi posizione giuridica soggettiva riconosciuta al privato riceva una giusta tutela dinanzi a un giudice terzo e imparziale in contraddittorio tra le parti e, in secondo luogo, che la durata del processo sia ragionevole. Ora questi principi trovano espressa previsione nel codice del processo amministrativo, in particolare negli artt. 1 e 2. (14) S. Raimondi, Le azioni, le domande proponibili e le relative pronunzie nel codice del processo amministrativo, in questa Rivista, 2011, 913; S. Baccarini, “Scelta” delle azioni e valutazione della “necessità” dell'annullamento per la tutela del ricorrente, in questa Rivista, 2011, 1261. 136 (15) M.S. Giannini, A. Piras, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 256, furono anticipatori delle nuove tendenze a cui approderà il giudice amministrativo affermando che egli, pure in sede di legittimità, verifica l'intero procedimento amministrativo e applica le norme anche non scritte relative allo svolgimento della funzione amministrativa, come esercitata nel rapporto amministrativo concreto, valutando tutti gli atti in cui la funzione si manifesta. (16) G. Della Cananea, C. Franchini, I principi dell'amministrazione europea, Torino, 2010, 89; R. Chieppa, Il codice del processo amministrativo, Milano, 2010, 47. (17) D'altra parte, che il ruolo dell'azione di annullamento stesse mutando è stato rilevato da A. Police, Riflessi processuali della disciplina generale dell'azione amministrativa, in La disciplina generale dell'azione amministrativa, cit., 446, secondo il quale, anche alla luce delle modifiche alla disciplina generale dell'azione amministrativa, come per esempio l'art. 21-octies l. n. 241/1990, si può rilevare una profonda trasformazione della giurisdizione generale di legittimità e dell'azione di annullamento, che oggi si fonda su un giudizio di accertamento della spettanza e sull'esito dell'azione amministrativa. Tale evoluzione era stata già avviata dalla giurisprudenza amministrativa che aveva portato, ben prima delle modifiche alla legge n. 241/1990, a una modifica del sindacato di legittimità del giudice amministrativo come verifica della validità sostanziale dell'azione amministrativa, superando la logica del giudizio sulla legalità formale (op. cit., 459). (18) M. Clarich, Commento all'art. 29-azione di annullamento, in A. Quaranta, V. Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo, cit., 2630. (19) Cons. Stato, n. 2755/2011, cit., con commento di A. Travi, Accoglimento dell'impugnazione di un provvedimento e “non annullamento” dell'atto illegittimo”, in Urb. app., 2011, 927. Tale decisione aveva ad oggetto il piano faunistico venatorio della regione Puglia. Questo era stato impugnato da una associazione ambientalista che deduceva la mancata attivazione del procedimento di valutazione ambientale strategica. Il Consiglio di Stato, affermando l'applicabilità alla fattispecie in questione del procedimento di valutazione strategica ambientale, accertava l'illegittimità del piano e, richiamando l'art. 34, comma 1, lett. e), del codice del processo, imponeva innanzitutto alla regione di applicare le norme sulla valutazione ambientale strategica e, inoltre, considerate le circostanze relative al particolare atto in discussione, riteneva che la sentenza avrebbe dovuto avere solo effetti conformativi e non anche effetti demolitori (né ex tunc né ex nunc). Infatti, secondo il Consiglio di Stato l'effetto demolitorio sarebbe risultato incongruo e manifestamente ingiusto nonché in contrasto con il principio dell'effettività della tutela giurisdizionale. Tale effetto avrebbe travolto tutte le prescrizioni del piano con la “gravissima e paradossale conseguenza di privare il territorio pugliese di qualsiasi regolamentazione e di tutte le prescrizioni di tutele sostanziali contenute nel piano già approvato”. Ulteriori decisioni hanno affermato il principio della parziale eliminazione degli effetti del provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo, salvando gli effetti che fino a quel momento si sono prodotti ed eliminando il provvedimento dal mondo giuridico dal momento della sentenza. In particolare, la sentenza del Consiglio di Stato, n. 1488/2011, cit., avente ad oggetto l'irrogazione di una sanzione disciplinare, ha affermato che il giudice amministrativo, nel valutare se l'amministrazione abbia rispettato il principio di proporzionalità in sede di emanazione di un provvedimento di destituzione, deve ponderare unitariamente quali siano le conseguenze delle proprie statuizioni e può anche seguire una soluzione diversa e intermedia tra le due alternative tradizionalmente ritenute giuridicamente possibili (reiezione del ricorso di primo grado, con perdita irrimediabile del posto di lavoro; accoglimento del ricorso di primo grado, con attribuzione degli emolumenti arretrati in ragione della portata retroattiva della sentenza di annullamento). La soluzione potrebbe anche consistere nell'accoglimento della domanda di annullamento e nell'accertamento della non spettanza di emolumenti arretrati, qualora il dipendente abbia commesso una mancanza la cui obiettiva gravità in sede giurisdizionale sia ritenuta, tuttavia, non giustificativa del provvedimento espulsivo, per le 137 circostanze del caso e trattandosi della prima mancanza meritevole di punizione disciplinare. Si veda, inoltre, Tar Abruzzo, Pescara, 13 dicembre 2011, n. 693, in Urb. app., 2012, 707, con commento di S. Foà, Annullamento ex nunc, e condanna dell'amministrazione ad un facere specifico; tale decisione ricalca il ragionamento seguito dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 2755/2011 cit. (20) E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1960, 469; F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, 1966, 241. (21) S. Tondo, Invalidità e inefficacia del negozio giuridico, in Noviss. dig. it., VIII, Torino, 1965, 995. Più recentemente critica tale impostazione A. Cataudella, I contratti, Torino, 2000, 256, affermando che la nozione di invalidità ricomprende solo i casi normativamente previsti, mentre quella di inefficacia in senso stretto abbraccia tutte le ipotesi nelle quali l'inefficacia non discende dalla invalidità del contratto. Su tale problema occorre rilevare che la disgiunzione tra il profilo della validità e quello della efficacia ha rappresentato da sempre uno dei punti fermi della teoria della invalidità dell'atto amministrativo e in particolare della teorizzazione di A. De Valles, La validità degli atti amministrativi, 1916, rist. Padova, 1986. L'altro pilastro della teoria del De Valles è la costruzione della validità del provvedimento in termini di conformità del provvedimento amministrativo al parametro legale posto dal diritto positivo. Sulla questione si veda recentemente anche B.G. Mattarella, Il provvedimento amministrativo, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, V, 4738. (22) C. M. Bianca, Diritto civile, Il contratto, Milano, 1987, 574. (23) La distinzione tra nullità e annullabilità è stata elaborata dalla Pandettistica tedesca: B. Windsheid, Il diritto delle pandette, I, Torino 1930, 264 (trad. C. Fadda e P.E. Bensa). Il negozio nullo è quello che non produce alcun effetto giuridico a cui mira, proprio come se non fosse stato mai concluso; il negozio annullabile genera l'effetto giuridico a cui mira ma questo si appalesa inetto a produrre o a conservare quello stato di fatto che gli corrisponde. V. Scialoja, nel volume “Negozi giuridici” del 1938 (Negozi giuridici, Roma 1938, 232), che raccoglieva le lezioni di diritto romano svolte nell'anno accademico 1892/1893, chiariva che la nullità si ha quando il negozio è viziato al massimo grado, ossia è tale che si ha solo l'apparenza degli effetti che il negozio giuridico avrebbe dovuto creare. Questa è una apparenza che, però, talvolta può produrre effetti giuridici gravissimi sebbene indirettamente. Veniva, peraltro, criticata la qualificazione del negozio come inesistente o meglio la identificazione della inesistenza con la nullità, proprio perché il negozio, ancorché nullo o inesistente, avrebbe potuto produrre effetti. Con riferimento alla annullabilità Scialoja chiariva che il negozio è capace di produrre effetti giuridici normali. L'impugnazione del negozio annullabile può dar luogo a due figure diverse a seconda che l'effetto si sia già prodotto o non si sia ancora prodotto. Nel primo caso si rende improduttivo di effetti il negozio, nel secondo ci sarà un mezzo che tenderà a far sì che questi effetti si distruggano e le cose siano rimesse allo stato in cui quale sarebbero state se il negozio non fosse esistito. Si è anche distinto tra imperfezioni sanabili e imperfezioni non sanabili (G. Conso, Il concetto e la specie di invalidità, Milano, 1955, 57, anche se recentemente è stato stato precisato da F. Luciani, L'invalidità e le altre anomalie dell'atto amministrativo: inquadramento teorico, in V. Cerulli Irelli, L. De Lucia, L'invalidità amministrativa, Torino, 2009, 5 che la nozione di sanabilità o meno non coincide con quelle delle due citate sottocategorie in quanto queste operano sul regime di efficacia dell'atto nel periodo successivo alla sua adozione). (24) F. Santoro Pasarelli, op. cit., 242, sosteneva che l'inesistenza giuridica del negozio non può riassumersi nella nozione di invalidità in quanto solo un negozio esistente può essere valido o invalido. (25) E. Cannada Bartoli, L'inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950, 26, considerava l'inesistenza come un concetto per sua natura assoluto che non ammette specificazioni relative a un determinato ramo del diritto e esprime una valutazione completamente negativa da parte dell'ordinamento che consiste nella mancanza assoluta di valore giuridico. (26) E. Betti, Teoria generale, cit., 470. 138 (27) E. Betti, Teoria generale, cit., 475. Quindi, in generale si ha annullabilità quando manchi un presupposto di validità o quando un elemento essenziale del negozio risulti semplicemente viziato; mentre la nullità si ha solo quando un elemento costitutivo del negozio è proprio assente o deficiente nella configurazione dalla legge richiesta. (28) F. Santoro Passarelli, Dottrine generali, cit., 256. (29) Ciò caratterizza l'efficacia dell'atto annullabile da quella degli atti validi che sono potenzialmente e attualmente definitivi e, semmai, sono eliminabili attraverso i meccanismi della risoluzione e della rescissione. (30) E. Betti, Teoria generale, cit., 485. (31) La distinzione tra sentenze dichiarative di nullità e sentenze costitutive di annullamento è stata fatta risalire alla natura più o meno grave della invalidità contrattuale. Sul punto è stato anche osservato, superando tale tradizionale suddivisione, che l'ordinamento, laddove ritiene di tutelare interessi più generali affinché le contrattazioni siano conformi a principi e a regole che l'ordinamento si è dato, rende azionabile il rimedio della tutela da parte di chi vi abbia interesse alla eliminazione dell'atto; nel caso in cui gli interessi tutelati non siano generali ma particolari e individuali relativi al soggetto della singola contrattazione, perché solo lui può essere pregiudicato dalla mancata osservanza delle prescrizioni, l'azionabilità del rimedio di tutela sarà a lui esclusivamente riservata e l'ordinamento, tramite la pronuncia del giudice, interverrà a realizzare l'eliminazione richiesta con la sentenza costitutiva (A. di Majo, Tutela giurisdizionale dei diritti, Milano, 1987, 322). (32) G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1960, 173, il quale riprendendo gli approdi della dottrina tedesca, ricollega la tutela costitutiva ai diritti potestativi. L'efficacia costitutiva della sentenza dipende dal diritto stesso che essa dichiara, il quale consiste nel potere giuridico di produrre un effetto giuridico mediante la sentenza del giudice. (33) S. Satta, Diritto processuale civile, Padova, 227. Proprio per tale motivo le sentenze costitutive avrebbero carattere eccezionale, per cui il legislatore prevede casi tassativi. (34) A. di Majo, Tutela giurisdizionale dei diritti, Milano, 1987, 310, secondo il quale le caratteristiche della tutela costitutiva possono essere valutate in un'ottica che ha riguardo alla tutela considerata nelle forme sostanziali, poiché queste non utilizzano tecniche coercitive e, pur servendosi della via giurisdizionale, danno vita a modificazioni giuridiche di ordine sostanziale. La tutela costitutiva può rispondere a diverse e distinte finalità e ciò giustificherebbe la diversa portata in termini di retroattività delle sentenze costitutive. È una tutela che si può considerare giurisdizionale nelle forme anche se assume un carattere sostanziale per le modificazioni giuridiche che produce, attribuendo ai soggetti concrete utilità. (35) A. De Valles, op. cit., 330, il quale, già nel 1916, lamentava che l'errore di metodo era stato fino a quel momento di porre la teoria del diritto privato come punto di partenza e di applicarla nel diritto pubblico, con ciò ripetendo anche gli errori della teoria privatistica. La costruzione in termini privatistici della teoria della invalidità non tiene conto dei peculiari caratteri per i quali i rapporti di diritto pubblico si distinguono da quelli di diritto privato, pertanto deve essere costruita una teoria della invalidità “tutta secondo il diritto pubblico”. Ne deriva anche l'affermazione che la distinzione tra nullità e annullabilità non avrebbe alcun valore giuridico in quanto il diritto positivo non stabilisce una graduazione di vizi e, quindi, una diversificazione dei rimedi. Sul punto si deve rilevare che la successiva insistenza nella ricostruzione dell'atto amministrativo in termini negoziali ha reso necessaria un'opera di avvicinamento alle categorie proprie del diritto civile (O. Ranelletti, Le guarentigie amministrative e giurisdizionali della giustizia nell'amministrazione, Milano, 1930 e, successivamente, G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, I, Milano, 1936, 334). (36) M.S. Giannini-A. Piras, Giurisdizione amministrativa, cit., 239. (37) Ciò perché come spiegava M. Nigro, Silvio Spaventa e la giustizia amministrativa come problema politico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1970, 715, nella logica dello Stato liberale ottocentesco “l'atto 139 amministrativo è la formale enunciazione della volontà dello Stato nel caso concreto (...) esso segna il momento della prevalenza irresistibile dell'autorità sulla libertà, ma anche quello in cui la libertà giustifica e limita l'autorità”. Un spiegazione di tale evoluzione è fornita da F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in S. Amorosino (a cura di), Le trasformazioni del diritto amministrativo, Milano, 1995, 264, secondo il quale l'equiparazione si spiega con il rilievo funzionale del provvedimento congiunto con il principio della giuridica prevalenza dell'intesse pubblico sugli interessi che gli si contrappongono. Differente, ma sicuramente sulla stessa direttrice, è la spiegazione di chi afferma che la disgiunzione tra validità ed efficacia e, di conseguenza, l'equiparazione è effetto di una valutazione di preferenza per l'interesse alla rapidità nell'azione amministrativa rispetto all'interesse alla produzione dei soli effetti giuridici conseguenti ad atti invalidi (B.G. Mattarella, L'imperatività del provvedimento amministrativo, Padova, 2000, 229). (38) A. De Valles, op. cit., 64 e 67. Il concetto di validità si riferisce al momento iniziale dell'atto che determina la nascita del rapporto: la volontà, diretta a effetti pratici, che non sia legittima, non è riconosciuta e protetta dal diritto come la fonte di effetti capaci di divenire giuridici. Per ciò la invalidità successiva, termine che indica il sopraggiungere di fatti che creano un contrasto tra il rapporto e la legge, non è considerata una vera invalidità, semmai il determinarsi di un effetto per causa sopravvenuta che non impedisce all'atto, nel periodo tra la nascita del rapporto e la successiva modificazione o estinzione, di produrre conseguenze giuridiche e di essere valido. (39) M.S. Giannini, Diritto amministrativo, II, Milano, 1993, 299. Si tratta di effetti che possono configurarsi come automatici, potenziali o eventuali a seconda del modo in cui nei diritti positivi l'invalidità viene disciplinata. Differente dalla invalidità è il discorso sulla illiceità del provvedimento. Infatti, il provvedimento non può mai considerarsi illecito (R. Villata-M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2006, 338); esso è sempre e solo sottoposto a un giudizio di validità e non di liceità in quanto l'illiceità dipende dalle violazioni di norme che impongono doveri e si riferisce ad un comportamento dell'amministrazione, mentre l'invalidità dipende dalla violazione di norme che attribuiscono poteri ed è riferibile ad un provvedimento amministrativo. Anche F. Modugno, Annullabilità ed annullamento, Dir. pubbl. in Enc. giur., II, Roma, 1988, osserva che il fondamento dell'efficacia giuridica dell'atto invalido non può non essere rinvenuto in una forma di esistenza giuridica dell'atto e, in definitiva, in una specie di diversa validità come corrispondenza ad uno schema normativo distinto da quello dell'atto valido. L'invalidità è, quindi, fattispecie diversa e distinta, ma non antinomica rispetto alla validità. (40) Così come illustrato da A. Bartolini, Illegittimità del provvedimento amministrativo, in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, IV, 2006, 2863. (41) A. Police, Annullabilità e annullamento, in Enc. dir. annali, I, Milano, 2007, 50, Ora, invece, secondo l'Autore l'evoluzione della legittimità, ossia delle cause della patologia, ha inciso profondamente sulla teoria della invalidità e, quindi, degli effetti dell'atto. (42) M.S. Giannini, Illegittimità, in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 131. (43) F.G. Scoca, La teoria del provvedimento, cit., 263. (44) Si pensi a Cons. Stato, Sez. VI, 26 ottobre 1984, n. 664, in Giur. it., 1985, III, 1, 276, in cui si afferma la nullità degli atti emessi in violazione o in elusione del giudicato. (45) M. D'Orsogna, Annullabilità del provvedimento, in N. Paoloantonio, A. Police e A. Zito (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione, Torino, 2005, 581, ritiene che, al di là della indubbia portata innovativa, la legge rappresenti un'occasione persa, in quanto non è stata dettata una disciplina generale né dell'efficacia né della invalidità del provvedimento e non è stata fornita una definizione letterale di questi concetti fondamentali. La riforma conterrebbe “schegge normative” inadeguate alla costruzione di una disciplina generale. (46) Sul punto si veda F.G. Scoca, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2011, 259, il quale conclude, a seguito di una rivisitazione critica degli elementi “privatistici” della struttura del 140 provvedimento, che gli elementi essenziali del provvedimento sono, almeno sul piano logico, solo il contenuto decisionale e la sua esternazione; sul piano del diritto positivo va aggiunto l'oggetto, senza l'individuazione del quale il provvedimento sarebbe inutile e, quindi, nullo. Ma anche l'oggetto è rapportabile al contenuto decisionale. Recentemente, Cons. Stato, Sez. IV, 2 aprile 2012, n. 1957, in Foro amm.-C.d.S., 2012, 864 ha tentato di precisare quali sono gli elementi del provvedimento da considerarsi essenziali, la cui carenza comporti la nullità. Proprio perché il provvedimento amministrativo costituisce un atto di scelta del modo di curare interessi pubblici (se discrezionale), ovvero di esercizio del potere predefinito nel fine dalla norma, in coerenza con la riconduzione del caso concreto al tipo normativo (se vincolato), gli elementi essenziali del medesimo sono rapportati: alla totale irriferibilità del provvedimento a un organo emanante, in modo tale da rendere impossibile l'imputazione degli effetti del medesimo; al difetto di identificazione (e di identificabilità) del destinatario nella cui sfera giuridica occorrerebbe che si producessero gli effetti del provvedimento amministrativo, posto che ciò incide sulla tipicità dell'atto e rende non percettibile l'imperatività del medesimo. Non costituiscono, invece, elementi essenziali dell'atto la volontà e l'oggetto, se non nel caso di difetto “totale” di tali elementi, evenienza difficilmente ipotizzabile in relazione a provvedimenti amministrativi. Infatti, al di là di queste ipotesi estreme e poco plausibili, la volontà, quale elemento del provvedimento amministrativo, è volontà procedimentale, di modo che singole violazioni rilevano come tipici vizi di legittimità. Per altro verso, l'oggetto del provvedimento amministrativo attiene all'interesse pubblico, alla cura del quale è volto l'esercizio in concreto del potere amministrativo, per il tramite, almeno nel caso di provvedimento discrezionale, di un processo di storicizzazione dell'interesse pubblico primario e della sua conseguente comparazione con gli interessi secondari coinvolti nel procedimento. Anche in questo caso appare evidente come forme di patologia del provvedimento non possono che proporsi se non per il tramite di uno dei tradizionali vizi di legittimità del provvedimento amministrativo, e, segnatamente, per il tramite del vizio di eccesso di potere. Sulla nullità si vedano A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002; M. Tiberi, La nullità e l'illecito. Contributo di diritto amministrativo, Napoli, 2002; M. D'Orsogna, Il problema della nullità in diritto amministrativo, Milano, 2004; N. Paolantonio, Nullità dell'atto amministrativo, in Enc. dir., annali, I, 2007, 855. (47) A. Bartolini, Illegittimità, cit., 2870, sostiene che entrambe le forme di invalidità si caratterizzano per il fatto di voler sanzionare la violazione di norme imperative (essendo tali tutte le norme di diritto pubblico). Mentre l'illegittimità si configura come una causa ordinaria di invalidità, la nullità colpisce i casi più gravi di violazione di norme tassativamente indicate dalla legge. In sostanza, l'illegittimità si pone sia come ipotesi generale d'invalidità sia come forma residuale rispetto alla nullità. L'illegittimità può venire alla luce tutte le volte in cui vi siano violazioni di norme imperative non espressamente sanzionate con la nullità. (48) Già E. Cannada Bartoli, L'inapplicabilità degli atti amministrativi, cit., 50, segnalava che sia la legittimità sia la validità esprimono la conformità dell'atto al diritto obiettivo ma non coincidono: un atto amministrativo può essere viziato in merito e, quindi, invalido, senza essere affetto da un vizio di legittimità. Un conto è l'invalidità, altro le sue conseguenze e altro ancora le sue ragioni. Lo studio delle forme di divergenza dell'atto posto in essere rispetto al suo schema astratto e delle relative conseguenze dà luogo alla teoria della invalidità. Lo studio delle situazioni cui la validità si connette dà luogo alla teoria della illegittimità. La legittimità denota la corrispondenza di un atto alle norme giuridiche che lo disciplinano e costituisce la situazione a cui l'ordinamento collega la validità dell'atto stesso. Per valutare la legittimità bisogna fare riferimento non solo alle norme giuridiche in senso stretto ma anche ai principi generali e ai criteri di condotta riconosciuti inderogabili. M. S. Giannini, Diritto amministrativo. cit., II, 300, distinguendo tra invalidità e legittimità, affermava che l'invalidità si incentra su una figura principale che è la illegittimità accanto alla quale ve né è un'altra più limitata che è l'inopportunità. In entrambi i casi lo stato viziato che ricorre è quello della annullabilità. 141 (49) M. D'Orsogna, Annullabilità, cit., 609. (50) M. Bracci, L'atto amministrativo inoppugnabile ed i limiti dell'esame del giudice civile, in Studi in onore di Federico Cammeo, I, Padova, 1933, 149, il quale distingue tra diversi gradi di definitività. Il primo grado corrisponde a quell'atto che non è soggetto, o non lo è più, a ricorsi gerarchici, sia perché questo rimedio è già stato esperito, sia perché quello specifico atto viene considerato dall'ordinamento l'ultima parola dell'amministrazione su quell'oggetto. Il secondo grado di definitività è proprio dell'atto nei confronti del quale non possono più essere proposti ricorsi ma che tuttavia può essere revocato dalla stessa amministrazione. Questa condizione si identifica con l'inoppugnabilità ossia l'impossibilità di far valere ulteriormente, in via di azione, gli interessi legittimi lesi. Il momento in cui l'atto diventa inoppugnabile segna la fine del potere del privato di difendere giuridicamente i propri interessi lesi dall'atto amministrativo. Il terzo grado costituisce la vera definitività: gli atti, oltre a non essere più suscettibili di ricorsi gerarchici o d'impugnazione dinanzi al giudice amministrativo, non possono essere neppure più revocati dalla stessa amministrazione. Questa specie di atti può essere designata come “irrevocabile”. (51) P. Stella Richter, L'inoppugnabilità, Milano, 1970, 20. A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1982, I, 542, fa derivare l'inoppugnabilità direttamente dalla autoritarietà dell'atto. L'autoritarietà con riferimento ai provvedimenti negativi comporta, invece, l'esclusione della possibilità da parte degli interessati di pretendere ulteriormente dalla amministrazione le modificazioni giuridiche richieste che l'amministrazione abbia rifiutato. In queste ipotesi, salvo autonomi ripensamenti della pubblica amministrazione, la decisione della “non spettanza” risulta definitiva. Inoltre, l'inoppugnabilità opera soltanto sul piano giustiziale, consistendo nell'inattaccabilità dell'atto ai fini caducatori in sede giurisdizionale. M.S. Giannini, Atto amministrativo, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 189, tuttavia, constata l'incertezza in ordine alla qualificazione dell'istituto. Posizione ribadita nel suo Diritto amministrativo, cit., II, 305, ove afferma che il principio dell'inoppugnabilità è innanzitutto una deroga vistosa al principio di legalità, perché, se decorrono i termini per l'esperimento delle misure di tutela delle situazioni giuridiche senza che esse siano esperite, le situazioni soggettive medesime non sono più tutelabili. In proposito, però, rileva che “comunque non è la trasformazione della fattispecie invalida in fattispecie valida (ossia non è un fatto convalidante); né è la cessazione di uno stato di pendenza o precarietà del provvedimento (cioè non è una consolidazione); né è assimilabile a un fatto di durata con effetto impeditivo (come la prescrizione)”. L'inoppugnabilità (per i provvedimenti invalidi ma anche e soprattutto per quelli validi) si deve considerare come una garanzia dell'efficacia del provvedimento di cui la norma ha munito l'amministrazione ai fini della tutela dell'interesse pubblico. Conseguentemente, il mutamento dell'interesse pubblico e, quindi, la possibilità da parte dell'amministrazione di adottare provvedimenti espressione del potere di autotutela possono far venir meno tale garanzia. (52) R. Villata-M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, cit., 305: di conseguenza, l'inoppugnabilità “in relazione al fatto preclusivo della decorrenza dei termini per l'impugnazione costituisce una garanzia dell'efficacia della statuizione provvedimentale, sia questa valida o invalida. Siffatta garanzia dell'efficacia del provvedimento è in ogni caso disponibile per l'amministrazione, dal momento che una mutazione dell'interesse pubblico può condurre l'amministrazione a mutare decisione e in ciò essa non trova ostacolo nell'inoppugnabilità formatasi”. (53) E. Cannada Bartoli, L'inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1962, 22. (54) A. Police, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, cit., II, 383. (55) E. Cannada Bartoli, L'inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, cit., 24, ove osserva che, in quanto l'atto impugnato può nel nostro ordinamento essere disapplicato dai tribunali e annullato dall'amministrazione, si deve ritenere che la decorrenza dei termini non esplichi alcun effetto sulla validità. L'inoppugnabilità, quindi, non può essere considerata come un mezzo di sanatoria dell'atto 142 invalido, una forma di convalida per il decorso del tempo. Sul rapporto tra inoppugnabilità e autotutela la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha precisato che la potestà di intervenire in via di autotutela su provvedimenti che versano in condizione di inoppugnabilità è rimessa alla più ampia valutazione di merito dell'amministrazione in relazione all'attualità dell'interesse pubblico che giustifichi il riesame della vicenda (Cons. Stato, Sez. IV, 12 maggio 2006, n. 2661, in Foro amm.-C.d.S., 2006, 1392). (56) E. Cannada Bartoli, L'inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, cit., 26; nonché in Annullamento di ufficio ed inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi (nota a Cons. Stato, Sez. VI, 30 settembre 1964, n. 654), in Foro amm., 1964, 143. (57) Certo dell'effetto retroattivo dell'annullamento in generale, sia esso giurisdizionale sia espressione del potere di autotutela era S. Romano, Annullamento degli atti amministrativi, in Nov. dig. it., 1, Torino, 1957, 642, il quale individuava l'effetto dell'annullamento nella eliminazione di un atto dal mondo giuridico con efficacia ex tunc. (58) E. Cannada Bartoli, Annullabilità e annullamento (diritto amministrativo), in Enc. dir., II, Milano, 1958, 484. (59) R. Villata-M. Ramajoli, Il provvedimento, cit., 382. (60) M. D'Orsogna, Il problema, cit., 98. (61) R. Villata-M. Ramajoli, Il provvedimento, cit., 383. (62) F. G. Scoca, La teoria, cit., 268. (63) Secondo parte della dottrina non sarebbe possibile accostare in toto annullamento privatistico e pubblicistico, in quanto in diritto privato l'equiparazione tra atto invalido e atto valido con riferimento agli effetti rispecchia il riconoscimento dell'autonomia, che non è possibile concepire nel diritto amministrativo (F. Ledda, La concezione dell'atto amministrativo e dei suoi caratteri, in U. Allegretti, A. Orsi Battaglini, D. Sorace (a cura di), Diritto amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurisprudenza, Bologna, 1987, II, 796). Nel campo del diritto privato l'annullamento resta nella disponibilità del titolare dell'interesse, che decide o meno di avvalersi della tutela, laddove nel campo del diritto pubblico tale soluzione non può esportarsi in quanto la violazione della norma realizza una lesione dell'interesse sottostante che è pubblico per definizione (A. Romano Tassone, Brevi note sull'autorità degli atti dei pubblici poteri, in Scritti per M. Nigro, II, Milano, 1991, 401). (64) R. Villata-M. Ramajoli, Il provvedimento, cit., 388. (65) Con efficace espressione A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1982, II, 669 afferma che l'invalidità indica una “mancanza di forza inarrestabile e intangibile”. (66) M.S. Giannini, Diritto amministrativo, cit., 581. Con specifico riferimento all'annullamento giurisdizionale P. Stella Richter, L'inoppugnabilità, Milano, 1970, 148 sostiene che l'effetto ripristinatorio è quello veramente importante per il soggetto privato che chiede tutela al giudice. Infatti, il privato, in virtù del petitum sostanziale, rappresentato dalla piena tutela del pregiudizio arrecato dall'atto impugnato, ottiene la reintegrazione nella posizione in cui si trovava in seno al rapporto amministrativo anteriormente all'emanazione del'atto lesivo. Questa reintegrazione costituisce il risultato logicamente secondario, ma praticamente più importante dell'annullamento giurisdizionale. Tale effetto ripristinatorio si accompagna al più appariscente effetto distruttivo. (67) F. Modugno, Annullabilità, cit., 3, afferma che l'invalidità si presenta come annullabilità dell'atto, chiaramente accedendo alla tesi della prevalenza di questa situazione rispetto alla nullità. (68) Per la differenziazione tra i due istituti sia consentito rinviare a R. Dipace, La disapplicazione nel processo amministrativo, Torino, 2011. (69) E. Cannada Bartoli, L'inapplicabilità, 42. Alla annullabilità l'Autore affiancava un ulteriore stato patologico dell'atto che era quello della inapplicabilità. L'inapplicabilità non si risolve nella improduttività degli effetti che si connettono all'atto, ma nella possibile irrilevanza dei medesimi ancorché prodotti. Questo concetto non si può riferire agli atti nulli in quanto giuridicamente inesistenti e intrinsecamente inefficaci. L'atto invalido non annullato non si comporta come un atto valido e 143 regolare: l'inapplicabilità è una caratteristica degli effetti dell'atto amministrativo viziato, per cui deve essere configurata come un concetto di diritto sostanziale. Rispetto agli organi giurisdizionali questo carattere comporta la possibilità della disapplicazione. All'epoca la teorizzazione della inapplicabilità era possibile in quanto non sussisteva alcuna previsione normativa delle ipotesi di invalidità dell'atto amministrativo. Ora, invece, l'inapplicabilità, come autonoma figura di illegittimità, non è più in linea con la legislazione vigente sulla patologia del provvedimento. La nuova formulazione della legge n. 241/1990 prevede espressamente due ipotesi di invalidità del provvedimento amministrativo: la nullità e l'annullabilità. Neppure la previsione di cui all'art. 21-octies, per cui l'atto illegittimo non può essere annullato, apre la via ad una nuova situazione patologica che si possa avvicinare alla inapplicabilità, in quanto, sancendo la non annullabilità del provvedimento, il legislatore ha voluto escludere solamente la possibilità che esso (comunque illegittimo) venga eliminato dal giudice amministrativo. (70) La individuazione dei connotati essenziali dell'istituto si devono a S. Romano, Osservazioni sulla invalidità successiva degli atti amministrativi, in Studi di diritto pubblico in onore di Giovanni Vacchelli, Milano, 1938, 431. (71) Si veda G. Mari, Sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 43 t.u. espropriazioni e sorte del provvedimento di acquisizione precedentemente adottato e sub judice, in Foro amm.-T.a.r., 2011, 324. (72) Dalla sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della norma di legge sulla quale si fonda il provvedimento impugnato discende l'illegittimità derivata dell'atto medesimo qualora l'interessato abbia posto in rilievo la norma di che trattasi, ancorché non censurandola specificamente sotto il profilo della poi dichiarata incostituzionalità (Cons. Stato, Sez. IV, 3 maggio 2011, n. 2623, in Foro amm.C.d.S., 2011, 5, 1502). Con riferimento al problema delle acquisizioni sananti è stato osservato che la sentenza della Corte costituzionale n. 293/2010, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 43 d.p.r. n. 327/2001 (t.u. espropriazioni) per eccesso di delega, non travolge, nel senso di farne cessare direttamente l'efficacia, il provvedimento amministrativo di acquisizione in precedenza adottato in applicazione della predetta norma. La declaratoria di incostituzionalità della disposizione normativa attributiva del potere esercitato non esplica di per sé un simile effetto (soprattutto laddove la legge sia risultata affetta da un vizio formale), né possono essere valorizzati, ai fini del decidere, i profili di illegittimità derivata (o sopravvenuta) dell'atto medesimo, qualora il ricorrente abbia proposto censure non riferibili direttamente alla norma, bensì all'applicazione che ne è stata fatta dall'amministrazione resistente (Tar Piemonte, Sez. I, 14 gennaio 2011, n. 21, in Riv. giur. ed., 2011, 659). A dire il vero questa conclusione, che sembra la più coerente, non è unanimemente condivisa dalla giurisprudenza. Infatti, secondo alcune decisioni, qualora la declaratoria di incostituzionalità concerna una norma attributiva del potere, l'atto adottato nel suo esercizio sarebbe nullo per carenza di potere (o difetto assoluto di attribuzione ex art. 21-septies l. n. 241/1990). La nullità potrebbe essere rilevata dal giudice amministrativo a prescindere dalla circostanza che il ricorrente abbia dedotto l'illegittimità costituzionale della norma e a prescindere dalla circostanza che la norma sia stata invocata dal ricorrente nei motivi di ricorso come parametro di legittimità dell'atto (Cons. Stato, Sez. VI, 25 agosto 2009, n. 5058, in Foro amm.-C.d.S., 2009, 1906). (73) M. S. Giannini, Atto amministrativo, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 78. (74) M. S. Giannini, Atto amministrativo, cit., 79. (75) A.M. Sandulli, Manuale, cit., 645, precisa che l'annullamento agisce per norma fin dal momento del venire in essere dell'atto invalido. (76) R. Villata-M. Ramajoli, Il provvedimento, cit., 398. (77) Si veda Cons. Stato, Sez. IV, n. 1957/2012, cit. Vi è una differenza rispetto al diritto civile dove la regola generale in caso di violazione di norme imperative è quella della nullità. Secondo la citata sentenza questo rapporto tra la nullità e l'annullabilità consegue non solo alla tradizionale identificazione della invalidità del provvedimento amministrativo con la illegittimità del medesimo, per 144 effetto della presenza dei vizi di incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere, ma è conseguente e coerente con una configurazione dell'illegittimità quale forma patologica comprendente ogni violazione dello schema tipico del provvedimento amministrativo, atteso che quest'ultima si sostanzia nella connessione, fissata dalle norme, tra i suoi vari elementi e nella predeterminazione normativa degli effetti che esso può produrre. Inoltre, la riconduzione della invalidità del provvedimento amministrativo, in via generale, alla specie della illegittimità risulta coerente con la imperatività del provvedimento, posto che, mentre è plausibile la coesistenza della invalidità (illegittimità) dell'atto con la produzione unilaterale degli effetti, in particolare nella sfera giuridica di terzi, risulta meno configurabile un rapporto tra atto nullo ed efficacia del medesimo. Si veda anche R. Chieppa, La nullità del provvedimento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, Milano, 2011, 930, il quale distingue tra nullità a protezione dell'interesse pubblico, come le nullità testuali e nullità a tutela del privato come le nullità previste dalle altre categorie individuate dall'art. 21septies. (78) Sul punto vi è giurisprudenza costante. Da ultimo si veda Cons. Stato, Sez. V, 16 febbraio 2012, n. 792, in Foro amm.-C.d.S., 2012, 352. Lo stesso giudice ha affermato che l'art. 21-septies non prevede fra i casi di nullità dell'atto amministrativo la violazione di norme imperative, il che costituisce una soluzione di compromesso in considerazione del fatto che le norme riguardanti l'azione amministrativa, avendo carattere pubblicistico, sono sempre imperative e la comminazione della nullità per la loro violazione risulterebbe particolarmente pericolosa rispetto alle esigenze di certezza e di stabilità dell'azione amministrativa; di conseguenza tali violazioni si convertono in cause di annullabilità del provvedimento, da farsi valere entro il breve termine di decadenza a tutela della stabilità del provvedimento amministrativo e di certezza dei rapporti giuridici (Cons. Stato, Sez. IV, 23 agosto 2010, n. 5902, Foro amm.-C.d.S., 2010, 1458). (79) La sentenza Cons. Stato, Sez. VI, 15 febbraio 2012, n. 750 in Foro amm.-C.d.S., 2012, 400, proprio in virtù di tale considerazione ha escluso che la violazione del diritto comunitario faccia parte delle cause di nullità del provvedimento. (80) A. Bartolini, Nullità e risultato, in M. Immordino, A. Police (a cura di), Principio di legalità e amministrazione di risultati, Torino, 2003, 82. (81) F. Modugno, Annullabilità, cit., 2, osserva che risulta praticamente molto difficile distinguere quando l'atto giuridico sia nullo e quando questo sia annullabile nonché ammettere con disinvoltura che il destinatario dell'atto “preteso” nullo possa sottrarsi alla sua osservanza, esercitando la c.d. resistenza individuale agli ordini dell'autorità dal momento che, in definitiva, è nel potere del giudice dichiarare la nullità dell'atto. (82) Cons. Stato, Sez. IV, 28 ottobre 2011, n. 5799, in Foro amm.-C.d.S., 2011, 3128. (83) Anche parte della dottrina processualcivilistica (A. Proto Pisani, Appunti sull'azione di mero accertamento, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, 665) ha ritenuto che l'azione di nullità non sia riconducibile al mero accertamento poiché l'atto nullo si presenta come idoneo a produrre effetti quantitativamente minori o diversi da quelli dell'atto valido o annullabile. L'azione di nullità non può essere considerata come azione di mero accertamento, anzi rappresenta uno strumento indispensabile per privare degli effetti l'atto nullo, pertanto sarebbe configurabile come azione costitutiva. (84) Per la natura di azione di mero accertamento, F.G. Scoca, La tutela processuale del silenzio, in G. Morbidelli (a cura di), Funzione ed oggetto della giurisdizione amministrativa. Nuove e vecchie questioni, Torino, 2000, 96. (85) R. Chieppa, op. cit., 948, la definisce “super annullabilità di incerti contorni” e afferma che sarebbe stato preferibile ritenere che l'azione di nullità fosse stata sottoposta a termini di proposizione variabili a seconda dell'interesse a cui è asservità. (86) A. di Majo, op. cit., 378, afferma che “tutte le pronunce dei giudici, rese sui contratti invalidi, non possono esercitare la loro concreta funzione di tutela che nel momento in cui vengono rese. Per il 145 periodo anteriore, tanto il contratto nullo quanto quello annullabile produrranno tutti gli effetti di cui sono capaci”. (87) Si pensi all'ipotesi degli atti adottati in violazione ed elusione del giudicato. Per questi casi, è dubbia la qualificazione in termini di nullità poiché è dubbia la natura esclusivamente pratica e non giuridica degli effetti prodotti dall'atto. La qualificazione di nullità data al provvedimento elusivo e violativo del giudicato trova la sua ragion d'essere nell'esigenza di consentire in queste ipotesi il ricorso al giudizio di ottemperanza senza imporre al privato un nuovo giudizio di impugnazione. È stato chiarito dalla giurisprudenza che contro tali atti non va attivato un nuovo giudizio di cognizione, ma il giudizio di ottemperanza nel termine di prescrizione dell'actio iudicati. Laddove invece l'atto nuovo successivo al giudicato non sia elusivo o violativo, ma autonomamente lesivo, perché copre spazi lasciati in bianco dal giudicato, va azionato il rimedio del ricorso ordinario (Cons. Stato, Sez. V, 23 maggio 2011, n. 3078, in Foro amm.-C.d.S., 2011, 3718). In sostanza, la qualificazione in termini di nullità deriva dalla necessità di risolvere un problema processuale e, proprio per questo motivo, appare particolarmente incerta. Secondo una opinione l'atto adottato in violazione ed elusione del giudicato non sarebbe nullo poiché in grado di produrre effetti giuridici fino al momento della sua rimozione (R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in questa Rivista, 1989, 383). Più problematica è l'ipotesi di un atto adottato in elusione del giudicato. Ci si trova di fronte alla riedizione di un potere solo formalmente rispettoso dei vincoli posti dalla sentenza. L'accertamento della elusione può scaturire da una ulteriore e approfondita analisi delle scelte della pubblica amministrazione. Non dovrebbe trattarsi di una carenza di potere. Visto che l'atto non è stato impugnato, il giudice dell'ottemperanza potrebbe anche disapplicarlo ad onta della qualificazione legislativa in termini di nullità. Peraltro, sul punto viene in aiuto quella giurisprudenza che ammette il giudizio di ottemperanza in ogni caso, anche dopo l'adozione di atti esecutivi a contenuto discrezionale, senza necessità di operare la distinzione concettuale tra elusione e violazione del giudicato, qualora il petitum sostanziale del ricorso tenda a far valere non già la difformità dell'atto sopravvenuto rispetto alla legge sostanziale, bensì la non conformità specifica dell'atto rispetto all'obbligo di attenersi esattamente all'accertamento contenuto nella sentenza da eseguire. Il giudizio di ottemperanza assume una natura anfibia: giudizio di esecuzione, quando è proposta l'azione di ottemperanza; giudizio di cognizione allorquando vengono proposte le azioni di nullità e inefficacia, con il risultato di ottenere la concentrazione delle tutele nel giudizio di ottemperanza, sia per evidenti ragioni di economia processuale sia per assicurare il principio di effettività della tutela giurisdizionale. A conferma della circostanza che qui viene in rilievo il potere di disapplicazione del giudice, vi è la norma di cui all'art. 114, comma 4, lett. c), del codice del processo, secondo la quale il giudice, nel caso di “ottemperanza a sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, determina le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvede di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano”. Lo stesso legislatore sembra confermare che l'atto adottato in violazione o elusione del giudicato non è nullo, anzi produce effetti giuridici, per cui lo disapplica considerandolo inefficace. Il legislatore appare poco coerente; da un lato definisce nulli alcuni tipi di provvedimenti, dall'altro afferma che i giudici ne possono dichiarare l'inefficacia. (88) F.G. Scoca, Manuale, cit., 302. (89) A. Police, L'illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi c.d. formali e vizi sostanziali, in Dir. amm., 2003, 735; M. D'Orsogna, L'annullabilità del provvedimento, in N. Paolantonio, A. Police, A. Zito (a cura di), La pubblica amministrazione, cit., 581; F. Fracchia, M. Occhiena, L'annullabilità del provvedimento, in N. Paoloantonio, A. Police, A. Zito (a cura di), La pubblica amministrazione, cit., 608; D. Corletto, Vizi « formali » e poteri del giudice amministrativo, in questa Rivista, 2006, 33; L. Ferrara, I riflessi sulla tutela giurisdizionale dei principi dell'azione amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento: verso il tramonto del processo di legittimità, in Dir. amm. 2006, 591; F. Luciani, L'annullabilità degli atti amministrativi, in V. Cerulli 146 Irelli (a cura di), La disciplina generale dell'azione amministrativa, Napoli, 2006, 377; G. Bergonzini, L'art. 21-octies della legge n. 241/1990 e l'annullamento d'ufficio dei provvedimenti amministrativi, in Dir. amm., 2007, 231; F. Luciani, Invalidità ed altre anomalie dell'atto amministrativo: inquadramento teorico, in V. Cerulli Irelli, L. De Lucia (a cura di), L'invalidità amministrativa, Torino, 2009, 4; R. Giovagnoli, I vizi formali e procedimentali, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, cit., 950. Prima della riforma della legge n. 241/1990, la dottrina più attenta, che aveva proposto la visione sostanzialistica del processo amministrativo (V. Caianiello, Manuale, cit., 519), considerava un inutile spreco di attività processuale l'annullamento degli atti per meri vizi di forma o per difetto di motivazione. Precorrendo la soluzione legislativa, Caianiello sosteneva, a ragione, che tale inconveniente si sarebbe potuto evitare con l'accertamento nel giudizio della assenza di lesione nella posizione del ricorrente, mentre l'annullamento giurisdizionale per vizi formali, senza aver effettuato la verifica dell'assetto sostanziale degli interessi in gioco, avrebbe consentito all'amministrazione di reiterare il provvedimento con una defatigante sequenza di atti che finiscono per vanificare il compito del giudice. L'Autore, però, ritiene che tale visione sostanzialistica non debba comportare il superamento della regola dell'inoppugnabilità per incidere anche sull'assetto fissato da atti presupposti o anteriori non impugnati nel termine di decadenza. Intervenire sul rapporto significa determinarne l'assetto, considerando pur sempre immodificabili le situazioni prodotte da atti non tempestivamente impugnati. Altrimenti verrebbe meno la certezza di quelle situazioni giuridiche (Manuale, cit., 519). (90) A. Police, L'illegittimità dei provvedimenti amministrativi, cit., 735, esaminando alcuni arresti giurisprudenziali precedenti, rileva che già si era ritenuto sotto molti aspetti inutile per il privato un annullamento fondato su vizi formali, per cui l'intervento del legislatore si dimostrerebbe quanto mai tardivo e comunque inutile. Anche perché il giudice, al di là della distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali, comunque avrebbe potuto contemperare le esigenze di flessibilità dell'azione amministrativa protesa al raggiungimento del risultato con quelle del rispetto del principio di legalità attraverso la valorizzazione della indagine sull'interesse a ricorrere. Tutto ciò nell'ottica del giudizio di spettanza, per cui il giudice dovrebbe compiere una indagine sulla possibilità di conseguire il bene della vita da parte del ricorrente e solo in questo caso accogliere il suo ricorso, altrimenti dichiararlo inammissibile per carenza di interesse. (91) Tale tesi è sostenuta dal F. Fracchia-M. Occhiena, Articolo 21-octies, cit., 609. (92) Sono da condividere le considerazioni di A. Bartolini, Illegittimità del provvedimento amministrativo, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, IV, cit., 2863, secondo il quale la norma ha semplicemente un effetto preclusivo all'annullamento del giudice pur in presenza di una illegittimità. D'altra parte, osserva che “se la legge avesse voluto introdurre il concetto di irregolarità, la medesima avrebbe dovuto agire almeno su uno dei seguenti piani: o affermare espressamente che il vizio formale è causa di irregolarità, oppure stabilire che in siffatta evenienza non sia possibile ravvisare una illegittimità”. (93) E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2009, 520, descrive il fenomeno considerando il provvedimento legittimo l'elemento che sana il procedimento illegittimo: l'illegittimità dell'episodio dell'attività verrebbe sanata dal provvedimento finale che, in una prospettiva statica, raggiunge lo scopo voluto dalla legge. Si tratterebbe, per l'Autore, di una convalida sui generis, che prescinde dalla dimostrazione della sussistenza di un interesse pubblico, “atteso che è l'ordinamento stesso a riconoscere che la corrispondenza del contenuto concreto con quello che avrebbe dovuto essere adottato è sufficiente ai fini del recupero della legittimità. L'art. 21-octies, in tal modo impedisce l'automatico riflettersi sul provvedimento finale della invalidità prodotta in un momento endoprocedimentale”. Tuttavia, lo stesso Autore ammette che la tesi spiega la non annullabilità per vizi propri di un atto endoprocedimentale, mentre non spiega la non annullabilità per vizi propri dell'atto finale. Peraltro, nella fattispecie in questione il medesimo provvedimento sarebbe al tempo stesso 147 quello viziato e quello con effetto sanante. Si tratterebbe di un'autosanatoria che stride con la costruzione dell'istituto della sanatoria stessa la quale presuppone un provvedimento viziato e prevede un successivo provvedimento sanante. (94) Come è stato osservato da R. Villata-M. Ramajoli, Il provvedimento, cit., 541. (95) L'irregolarità opera, invece, ex ante e in astratto; il provvedimento amministrativo affetto da vizio formale minore è un atto ab origine meramente irregolare, come già ritenuto dalla giurisprudenza in caso di mancata indicazione nell'atto impugnato del termine e dell'autorità cui è possibile ricorrere. La negazione della natura sostanziale della norma è stata sostenuta da parte della dottrina che ha continuato ad affermare l'illegittimità dell'atto: F.G. Scoca-M. D'Orsogna, L'invalidità dell'atto, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2011, 309) secondo i quali nel caso in questione ci si trova di fronte a una sorta di “sanatoria processuale” o meglio si tratta di una questione pregiudiziale di merito che se accolta impedirebbe l'esame di tutti gli altri motivi di ricorso. (96) M. D'Orsogna, Annullabilità, cit., 581; A. Police, Annullabilità, cit., 49. (97) L'applicazione dei principi del diritto europeo è oramai pacifica anche sul piano processuale. Il codice del processo afferma esplicitamente (art. 1) che la giurisdizione amministrativa assicura una piena ed effettiva tutela secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo. (98) La tesi è stata avallata anche dalla giurisprudenza più recente: Cons. Stato, Sez. VI, 15 febbraio 2012, 750, in Foro amm.-C.d.S., 2012, 400; Cons. Stato, Sez. VI, 31 marzo 2011, n. 1983, in Foro amm.-C.d.S., 2011, 1000. Da ciò consegue, sul piano processuale, l'onere dell'impugnazione del provvedimento contrastante con il diritto comunitario dinanzi al giudice amministrativo entro il termine di decadenza, pena la inoppugnabilità e, sul piano sostanziale, l'obbligo per l'amministrazione di dar corso all'applicazione dell'atto, salvo l'utilizzazione del potere di autotutela. Chiaramente il problema diviene più complesso se viene in rilievo l'ipotesi di un provvedimento applicativo di una legge anticomunitaria. In questo caso si sono prospettate varie tesi. Una prima impostazione configura la radicale nullità dell'atto applicativo di una norma anticomunitaria per carenza di potere. La legge nazionale in contrasto con il diritto comunitario sarebbe nulla e, di conseguenza, anche l'atto amministrativo sarebbe nullo o inesistente. Parte della dottrina ha accolto la tesi della nullità senza operare alcuna distinzione fra l'ipotesi in cui la norma attribuisca il potere di emanazione dell'atto e quella in cui si limiti a disciplinare i modi di esercizio del potere stesso (R. Manfrellotti, Sistema delle fonti e indirizzo politico nelle dinamiche dell'integrazione europea, Torino, 2004, 227). L'ordinamento comunitario toglierebbe alla norma anticomunitaria il potere di esplicare i propri effetti, tra cui quello di autorizzare lo svolgimento di attività amministrative previste dalla stessa norma anticomunitaria, per cui ogni attività verrebbe posta in essere in carenza di potere. Questa impostazione ha notevoli riflessi in punto di giurisdizione poiché la controversia relativa a un atto anticomunitario nullo non potrebbe essere conosciuta dal giudice della legittimità bensì da quello dei diritti, ossia dal giudice ordinario. In una diversa prospettiva, sicuramente meno rigida, si è posta quella parte della dottrina che ha distinto tra norme che attribuiscono il potere e norme che ne disciplinano le modalità di esercizio: nel primo caso l'atto applicativo della norma sarebbe nullo, mentre nel secondo sarebbe annullabile (R. Garofoli, Annullamento di atto amministrativo contrastante con norme Ce self executing, in Urb. app., 1997, 339). (99) L. Torchia, Il giudice disapplica e il legislatore reitera: variazioni in tema di rapporti tra diritto comunitario e diritti nazionali, in Foro it., 1990, III, 203; M. Antonioli, Inoppugnabilità e disapplicabilità degli atti amministrativi, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 1370; M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, 2009, 463. La tesi della disapplicabilità fa leva su una visione peculiare dell'invalidità dell'atto amministrativo anticomunitario, per cui la configurazione del potere di disapplicazione, come sanzione tipica dell'ordinamento comunitario, diviene una regola generale dell'ordinamento italiano. Per questa tesi non è corretto configurare il diritto nazionale e quello comunitario come insieme indistinto di norme di uguale valore giuridico, costituenti parametri di 148 legittimità dell'azione amministrativa. Il nuovo parametro di legittimità non si amplia quantitativamente. I giudici devono trattare il diritto comunitario come un diritto superiore applicabile direttamente all'interno degli ordinamenti degli Stati membri da parte di tutti coloro che sono coinvolti nei procedimenti di rilievo comunitario. Questo diritto “preminente” non può essere confuso con la generica nozione di legge. Inoltre, le pubbliche amministrazioni, quando adottano atti amministrativi di rilievo comunitario, operano anche nell'interesse del diritto comunitario. L'azione amministrativa, quindi, tutela questo interesse e ciò giustifica eventuali limiti e condizionamenti alla disciplina nazionale, sia sostanziale sia processuale, dell'invalidità amministrativa (M.P. Chiti, op. ult. cit., 478). (100) R. Caranta, Giustizia amministrativa e diritto comunitario. Studio sull'influsso dell'integrazione giuridica europea sulla tutela giurisdizionale dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, Napoli, 1992; C. Leone, Diritto comunitario e atti amministrativi nazionali, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 1174; Id., Disapplicabilità dell'atto amministrativo in contrasto con la disciplina comunitaria? Finalmente una parola chiara da parte della Corte di Giustizia, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2003, 898; G. Greco, Argomenti di diritto amministrativo, 2008, 49. (101) Si veda A. Police, Annullabilità, cit., 66. (102) Il problema non si pone allorché specifiche normative prevedano ipotesi di annullamento fondate solo sulla verifica della legittimità dell'atto. Non sembra creare particolari problemi il potere di annullamento straordinario previsto dall'art. 138 del testo unico sugli enti locali (d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267). In questa ipotesi viene attribuita al Governo, a tutela dell'unità dell'ordinamento, la potestà di annullare, d'ufficio o su denunzia, in qualunque tempo, gli atti degli enti locali viziati da illegittimità. L'atto viene adottato con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'interno, sentito il Consiglio di Stato. Sulla base dell'art. 2, comma 3, lett. p), della legge 23 agosto 1988, n. 400 dichiarata però incostituzionale con sentenza 21 aprile 1989, n. 229, ove prevedeva l'adozione da parte del Consiglio dei Ministri delle determinazioni concernenti l'annullamento straordinario degli atti amministrativi illegittimi delle regioni e delle province autonome. Si pensi anche all'annullamento di cui all'art. 159 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (codice dei beni culturali). In questo caso la soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio, può annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa, completa documentazione. In questo caso la pubblica amministrazione non esercita un potere di autotutela ma una azione di tutela del vincolo paesaggistico basata sul meccanismo della “cogestione”, ossia di una azione ripartita tra enti territoriali e locali da un lato ed enti statali dall'altro lato; laddove l'annullamento di cui all'art. 21-nonies è meramente eventuale, l'azione di controllo sulle autorizzazioni paesaggistiche è in ogni caso necessaria, costituendo una specifica modalità di esercizio dei poteri statali; mentre nell'esercizio dei poteri di cui all'art. 21-nonies l'amministrazione deve sempre operare un adeguato bilanciamento tra interessi pubblici e privati, anche in considerazione delle posizioni di legittimo affidamento medio tempore maturatesi in ordine all'assetto di interessi stabilito dall'atto illegittimo, nell'azione di controllo in materia di tutela del paesaggio l'amministrazione statale deve prioritariamente orientarsi alla cura dell'interesse paesaggistico; infine, per l'esercizio dell'annullamento in autotutela non è stabilito un termine decadenziale, per l'azione di controllo di cui all'art. 159 è previsto un termine perentorio (pari a 60 giorni), di modo che non potrebbero mai radicarsi, per dette ipotesi, posizioni di legittimo affidamento in capo al privato. Da ciò deriva che in caso di annullamento ex art. 159 è sicura l'efficacia ex tunc dell'atto, senza nessuna possibilità da parte della amministrazione di modularne gli effetti. (103) Anche se vi sono ipotesi in cui la giurisprudenza ha affermato il mero riscontro dell'illegittimità possa giustificare l'annullamento d'ufficio; si sono così introdotte alcune eccezioni alla regola della necessaria valutazione di un interesse pubblico “ulteriore”. Si tratta delle ipotesi in cui il provvedimento di riesame comporti in re ipsa la soddisfazione di un interesse pubblico non ponderabile, consistente nel ripristino della legalità violata. Ciò avviene nell'annullamento d'ufficio 149 disposto in ottemperanza a una decisione del giudice ordinario passata in giudicato che abbia ritenuto illegittimo un atto amministrativo; nel caso dell'annullamento d'ufficio a seguito di una decisione di un'autorità di controllo cui non competa direttamente il potere di annullare l'atto; l'annullamento di un atto dipendente, come necessaria conseguenza dell'annullamento (giurisdizionale o amministrativo) dell'atto presupposto. (104) F. Benvenuti, Autotutela, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 544, poneva in luce questa caratteristica affermando che la pubblica amministrazione non può trascurare le situazioni anomale con gli amministrati poiché tali anomalie rappresentano un contrasto con l'interesse pubblico che la stessa amministrazione deve tutelare. Ciò, però, non comporta che l'amministrazione debba esercitare il proprio potere di autotutela. Infatti, l'autotutela è sempre in funzione dell'interesse dell'amministrazione per cui questa deve valutare caso per caso, con una valutazione ampiamente discrezionale, la prevalenza dell'interesse particolare soddisfatto dall'atto invalido e quella dell'interesse particolare che sarebbe soddisfatto dall'atto di autotutela o quella dell'interesse generale alla rimozione del conflitto. L'Autore, però, non faceva derivare dal riconoscimento del potere discrezionale della amministrazione la possibilità di modulare gli effetti retroattivi dell'annullamento (105) M. Immordino, I provvedimenti amministrativi di secondo grado, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2011, 315 sostiene che con la novella alla legge 241/1990 le differenze tra l'annullamento e la revoca si sono attenuate in quanto tutte e due sono strumenti funzionalizzati alla cura dell'interesse pubblico. (106) M.S. Giannini, Diritto amministrativo, II, Milano, 1993, 578. (107) M.T.P. Caputi Jambrenghi, Il principio del legittimo affidamento, in M. Renna, F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 159. (108) M. Immordino, I provvedimenti, cit., 329. Prima della riforma si veda A. Contieri, Il riesame del provvedimento amministrativo. I. Annullamento e revoca tra posizioni “favorevoli” e interessi sopravvenuti, Napoli, 1991, 219, secondo il quale se l'effetto rispristinatorio collide con interessi meritevoli di tutela non può essere soggetto a retroattività. L'amministrazione, quindi, può stabilire discrezionalmente la retroattività o meno dell'annullamento. Si veda anche E. Casetta, Manuale, cit., 529, secondo il quale l'effetto retroattivo potrebbe trovare qualche eccezione nella violazione del principio della buona fede dell'affidamento ingenerato in capo a chi, sul presupposto della legittimità dell'atto, vi abbia dato esecuzione. (109) R. Villata-M Ramajoli, op. cit., 579. (110) Tar Campania, Napoli, Sez. IV, 3 aprile 2012, 1527, in Foro amm.-C.d.S., 2012, 1318, la quale chiarisce anche l'ordine di priorità dei presupposti per l'annullamento d'ufficio. Infatti, vi è la necessità di un concorrente interesse pubblico in stretta e inderogabile connessione con il dovere di ripristino della legalità violata. L'esercizio del potere discrezionale di autotutela trova, poi, un limite positivamente tracciato dal ragionevole termine per l'adozione della relativa statuizione. Infine, sussiste l'obbligo della graduazione degli interessi in gioco, il che comporta, in primis, la definizione della soglia dell'interesse pubblico all'annullamento, da porre successivamente a raffronto con quelli dei destinatari del provvedimento di autotutela e degli eventuali controinteressati. Sulla efficacia ex tunc si veda anche Tar Puglia, Bari, Sez. III, 25 maggio 2011, n.796, in Foro amm.-Tar, 2011, 5, 1716 secondo la quale al pari della richiesta di annullamento giurisdizionale, l'annullamento in autotutela ai sensi dell'art. 21-nonies, legge n. 241 del 1990 mira alla caducazione con effetto ex tunc di provvedimenti illegittimi ai sensi dell'art. 21-octies, comma 1, in quanto consapevolmente ritenuti dal soggetto istante lesivi della propria posizione sostanziale. Ulteriori pronunce in tal senso si rinvengono nelle decisioni Cons. Stato, Sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8291, in Foro amm.-C.d.S., 2010, 2343, nonché Cons. Stato, Sez. VI, 3 novembre 2010, n. 7749, in Foro amm.-C.d.S., 2010, 2430, le quali affermano che sia l'annullamento in autotutela sia quello giurisdizionale si fondano sull'originaria illegittimità dell'atto amministrativo che viene rimosso con effetto ex tunc. 150 (111) Come nel caso dell'annullamento di una nomina di un dipendente. In virtù di questa regola non potranno essere recuperati gli emolumenti da esso percepiti. (112) Sul principio di legalità la letteratura è vasta. Per avere un quadro di riferimento si vedano: G. Zanobini, L'attività amministrativa e la legge, in Riv. dir. pubbl., 1924, 384; M. Nigro, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966; L. Carlassarre, Regolamenti dell'esecutivo e principio di legalità, Padova, 1966; F. Satta, Principio di legalità e pubblica amministrazione nello Stato democratico, Padova, 1969; S. Fois, Legalità (principio di), in Enc. dir., XXIII, Milano, 1973, 659; L. Carlassarre, Legalità (principio di), in Enc. giur., XVIII, Roma, 1990, 3; G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992; R. Guastini, Legalità (principio di), in Dig. disc. pubbl., IX, 1994, 86; N. Bassi, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, 2001. (113) Ripercorre i tratti salienti di tale evoluzione A. Police, Annullamento, cit., 53. (114) O. Ranelletti, Principi di diritto amministrativo, Napoli, 1912, 390, chiariva che ogni attività, come ogni azione in cui essa si concreta, si distingue dalle altre in base allo scopo cui è destinata e la figura giuridica di un atto, come di un'attività, è data dalla funzione che a essi è propria nella vita sociale o statuale. L'amministrazione ha l'obbligo di agire nel rispetto dell'interesse pubblico, di conseguenza, il potere pubblico viene visto anche come un dovere di agire nel pieno rispetto degli interessi collettivi. L'individuazione della funzione amministrativa attraverso il criterio teleologico è stata ripresa da F. Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 134, secondo il quale la funzione amministrativa ha come obiettivo quello di soddisfare in via prioritaria l'interesse pubblico dello Stato e poi quello secondario ed eventuale dei cittadini. (115) Sul punto si veda S. Cassese, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 2009, 9. In questo senso per norma non si deve intendere solo ed esclusivamente la norma posta dalla legge formale, ma la regola di diritto che può essere determinata anche da fonti non nazionali né statuali. Il principio di legalità non solo è entrato in crisi perché, con riferimento all'azione consensuale ha perso la sua naturale funzione di garanzia nei confronti del cittadino, ma anche perché si avvia a essere superato il tradizionale monopolio statuale delle fonti del diritto. L'argomento è stato ampiamente studiato e in questa sede è sufficiente tratteggiarne i caratteri fondamentali. Un primo fenomeno è quello della erosione della sovranità statale, sia dall'alto, attraverso l'azione degli enti sopranazionali e l'adesione ad accordi internazionali, sia dal basso, attraverso le riforme in senso federalistico. Sul primo fenomeno si veda M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, 2004, 161 nonché F. Cintioli, Fonti interne e norme comunitarie tra unità e pluralità di ordinamenti: recenti tensioni e prospettive di sviluppo, in Dir. e formaz. 2001, 3. Sul secondo si veda F. Sorrentino, Le fonti del diritto amministrativo, in G. Santaniello (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, XXXV, Padova, 2004, 193. A questi fenomeni si aggiungono altri fattori che mettono in crisi le fonti statali del diritto. Basti pensare alla frammentazione e alla distribuzione del potere pubblico secondo schemi non previsti dalle norme costituzionali. Questo fenomeno è stato messo in luce da M. S. Giannini, Il pubblico potere, stati ed amministrazioni pubbliche, Bologna, 1986, e ha avuto come significativa manifestazione la massiccia istituzione di poteri indipendenti dal circuito democratico con funzioni di regolazione di settori particolarmente rilevanti della vita economica (sui motivi della istituzione delle autorità indipendenti si veda S. Cassese, Le autorità indipendenti: origini storiche e problemi odierni, in S. Cassese e C. Franchini (a cura di), I garanti delle regole, Bologna, 1996, 217). Altro fattore di crisi della fonte legislativa statuale si deve alla globalizzazione dell'economia che crea regole che si formano al di fuori del circuito pubblico, vincolanti per i protagonisti economici. Si tratta della nuova lex mercatoria definita come il “diritto creato dal ceto imprenditoriale, senza la mediazione del potere legislativo degli Stati e formato da regole destinate a disciplinare in modo uniforme (...) i rapporti commerciali che si instaurano entro l'unità economica dei mercati” (F. Galgano, Diritto civile e commerciale, I, Padova, 1990, 86). La legge è entrata in crisi anche perché, come è stato rilevato da F. Sorrentino, op. cit., 11, ha perso la sua classica vocazione ordinante, per assumere sempre più il ruolo di strumento per la 151 realizzazione dell'indirizzo politico governativo. Sempre più frequentemente vengono in rilievo leggi di settore, leggi speciali, leggi provvedimento e si assiste al proliferare di decreti legge e decreti legislativi a dimostrazione della appropriazione della funzione legislativa da parte del Governo. La crisi della legge come fonte del diritto, quindi, è generalizzata e non riguarda solo il campo dell'azione amministrativa. Con specifico riferimento a quest'ultima, oltre i fattori appena enunciati vengono in rilievo ulteriori nodi problematici. Il primo è che il principio di legalità non ha una solida base costituzionale. Nella nostra Costituzione non vi sono norme che espressamente sottopongano la pubblica amministrazione alla legge, ma vi sono solo nozioni che si avvicinano a quella della legalità, come quella di riserva di legge. Si veda sul punto S. Cassese, Le basi costituzionali, in Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo generale, Milano, 2003, tomo I, 213 (sempre dello stesso Autore si veda, Alla ricerca del sacro Graal. A proposito della rivista di diritto pubblico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1995, 795). Il principio di legalità dell'azione amministrativa si costruisce come règle de droit. Un ruolo rilevante in questo processo evolutivo lo ha avuto la giurisprudenza amministrativa (A. Travi, Giurisprudenza amministrativa e principio di legalità, in Dir. pubbl., 1995, 91), la quale ha concepito il principio come fattore di riduzione delle disuguaglianze tra i destinatari dell'azione amministrativa, stabilendo in modo generale e astratto come quest'ultima si debba svolgere e anche che essa possa essere adeguatamente esercitata attraverso norme secondarie, regolamentari. Pertanto, il principio di legalità deve essere inteso come principio di previa determinazione di criteri generali dell'azione della pubblica amministrazione, indipendentemente dal fatto che tali criteri vengano fissati da una norma primaria o secondaria. Ciò significa che il principio di legalità, inteso come prevalenza della legge formale che disciplina in ogni spazio l'azione dei pubblici poteri, non sembra essere più in linea con l'evoluzione dell'ordinamento. Questo aspetto è stato colto da F. Satta, Principio di legalità e pubblica amministrazione nello Stato democratico, Milano, 1969, 170, secondo il quale il principio di legalità è stato messo in crisi anche dal mutare dei rapporti tra lo Stato e i cittadini. In origine, tali rapporti erano fondati sull'antagonismo. Il cittadino, nel corso dell'Ottocento, non veniva visto come collaboratore ma come nemico, doveva essere il destinatario di un'azione della pubblica amministrazione calata dall'alto, imposta. Come contrappeso a tale imposizione vi era la garanzia che il soggetto pubblico avrebbe agito seguendo procedimenti ed adottando provvedimenti previamente disciplinati dalla legge. Già con il passaggio allo Stato sociale, il rapporto tra i cittadini e lo Stato è mutato. Lo Stato ha assunto, infatti, come primario interesse il benessere economico della collettività. Il privato, nello svolgimento della sua attività economica, si trova nella situazione di soddisfare non solo l'interesse al proprio benessere ma anche l'interesse pubblico strumentale alla realizzazione dell'interesse della collettività. Lo Stato, a sua volta, si trova nella situazione in cui il privato, suo tradizionale nemico, è divenuto lo strumento per realizzare un proprio fine. Quindi, soprattutto nel campo economico, si è verificato l'incontro tra Stato e cittadino. La trasformazione del rapporto tra tali soggetti in un rapporto di collaborazione che rende non più preminente la tradizionale concezione del principio di legalità fondato, appunto, sull'antagonismo tra questi soggetti. Si tratta di una nuova configurazione del principio inteso come predeterminazione normativa, non necessariamente legislativa, dell'attività amministrativa. Sul punto è chiara la posizione di F.G. Scoca, Attività amministrativa, in Enc. dir., VI, agg., Milano, 2002, 95, il quale afferma che il principio di legalità non può trovare il suo fondamento né nel principio democratico, né nella costruzione dello Stato di diritto, né nella sovranità popolare. Solo il principio di imparzialità potrebbe costituire il fondamento della legalità in quanto comporta che l'adozione di atti e provvedimenti della amministrazione sia preceduta dalla formulazione di criteri generali e astratti. Di conseguenza, l'Autore rileva che il principio di legalità non risponde più alla sua originaria funzione di presidio del potere legislativo nei confronti di quello esecutivo, bensì assume la funzione di garantire “la correttezza, la razionalità e l'imparzialità dell'azione concreta delle amministrazioni pubbliche, sottoponendola a regole generali ed astratte preventivamente stabilite ed universalmente conoscibili”. 152 (116) Sul punto si veda L. Iannotta, Principio di legalità ed amministrazione di risultato, in C. Pinelli (a cura di), Amministrazione e legalità, Atti del convegno dell'Università degli studi di Macerata, 21-22 maggio 1999, Milano, 2000, 37. Inoltre, secondo M. R. Spasiano, Funzione amministrativa e legalità di risultato, Torino, 2003, 265, il risultato verrebbe attratto nella funzione amministrativa e, di conseguenza, il mancato raggiungimento costituirebbe di per se stesso esercizio illegittimo della funzione amministrativa. L'assenza di risultato, secondo questa impostazione, violerebbe principi generali e precise disposizioni legislative oltre ad essere espressione di irragionevolezza dell'azione della pubblica amministrazione. Quindi, non vi può essere mai contrasto tra principio di legalità e risultato amministrativo. Ciò comporta la necessaria evoluzione del giudizio di legittimità, non più costituito dal mero riscontro di corrispondenza tra norma e atto. Infatti, la norma non è più l'unica fonte del diritto e l'atto non è più l'espressione esclusiva del potere amministrativo. Il giudizio di legittimità, quindi, deve assumere come canone integrativo “un giudizio di idoneità fra fatti reali, beni della vita coinvolti, diritti della persona, principi fondamentali, interessi e misure adottate” (op. cit., 276). (117) V. Caianiello, Manuale, cit., 515. (118) Si deve richiamare quella particolare giurisprudenza che in passato aveva affermato la consumazione del potere amministrativo a seguito dell'emanazione dell'atto. (119) In proposito, A. Romano, Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la l. 205/2000 (Epitaffio per un sistema), in questa Rivista, 2001, 602, ritiene che il sistema alla luce delle citate riforme sia stato “scardinato”. (120) V. Domenichelli, Le azioni nel processo amministrativo, in questa Rivista, 2006, 1, per il quale il cambiamento delle forme organizzatorie e dei modelli operativi, che hanno assunto rapidamente forme privatistiche, non si concilia del tutto con la struttura impugnatoria del processo. (121) Seguendo la definizione di V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, cit., 514. (122) Sul punto occorre rilevare che un significativo passo verso l'effettività della tutela giurisdizionale si deve altresì alla configurazione della tutela cautelare come tutela atipica in grado di proteggere nel migliore modo possibile la situazione del privato in vista della sentenza di merito. (123) E. Cannada Bartoli, Processo amministrativo. Considerazioni introduttive, in Nov. dig. it., XIII, Torino, 1966, 1078. (124) M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1994, 236. Si veda anche, E. Cannada Bartoli, Processo amministrativo, cit., 1082, secondo il quale la tutela dell'interesse legittimo si attua attraverso l'annullamento del provvedimento, il quale viene impugnato perché dispone un illegittimo assetto di interessi, confermandosi che la questione sulla legittimità del provvedimento impugnato si lega con quella concernente la disposizione degli interessi. Infatti, “in quanto conosce di codesto assetto, il giudice conosce di tali interessi, ma [...] congelati nel provvedimento”. (125) E. Cannada Bartoli, L'inoppugnabilità, cit., 32. (126) V. Caianiello, Le azioni proponibili e l'oggetto del giudizio amministrativo, in Problemi dell'amministrazione e della giurisdizione, Padova, 1986, 720. (127) Sul punto si vedano anche le considerazioni di C. Franchini, Giustizia e pienezza della tutela nei confronti della pubblica amministrazione, in www.giustamm.it, 6/2009. (128) A. Police, Annullabilità, cit., 70. Infatti, secondo l'Autore l'annullamento di un rifiuto di un provvedimento favorevole non soddisfa l'interesse sostanziale del ricorrente a conseguire quel provvedimento e il beneficio concreto da esso derivante. L'annullamento pone soltanto le premesse per una successiva azione della pubblica amministrazione e solo da essa il privato potrà conseguire la soddisfazione della propria pretesa sostanziale. (129) A. Police, Annullabilità, cit., 71. Secondo l'Autore ciò deriverebbe dalla permanenza (si tratta di una situazione precedente alla codificazione) delle norme che fanno salvi gli effetti degli ulteriori provvedimenti (art. 26, comma 1, legge n. 1034/1971 e art. 45, comma 1, t.u. l. Cons. Stato). Questa 153 conclusione oggi può essere messa in discussione dal fatto che le citate norme sono state abrogate e che è stata introdotta una azione di adempimento da parte dell'ultimo correttivo al codice del processo amministrativo. (130) A. Police, Annullabilità, cit., 73. (131) Ulteriore approdo di questa impostazione è quello di superare le differenziazioni in ordine alle tipologie di giurisdizioni riguardanti l'azione dei pubblici poteri. Il legislatore, nel costruire la giurisdizione piena, ha disegnato un sistema unitario di azioni per superare il sistema binario fondato sul riparto fra il giudice amministrativo e il giudice ordinario (A. Police, Il ricorso di piena giurisdizione, II., cit., 383). Ciò comporta che “proprio per l'unitarietà del sistema delle tutele, infatti, con la medesima azione il ricorrente fa valere in giudizio non tanto una singola e ben classificabile situazione giuridica soggettiva quanto proprio la complessiva pretesa sostanziale nei confronti dell'amministrazione medesima, pretesa che è costituita il più delle volte da una intricata serie di relazioni con la pubblica amministrazione, relazioni che sono in parte di diritto soggettivo e in parte di interesse legittimo” (op. cit., 385). In particolare, il carattere unitario dell'azione non consente più di scindere la tutela del diritto soggettivo da quella dell'interesse legittimo e, di conseguenza, di prevedere differenti termini per la proposizione dell'azione che deve avvenire nel termine più ampio possibile garantendo una parificazione tra la tutela del diritto soggettivo e quella dell'interesse legittimo, come si ricava dai principi di cui agli artt. 24 e 113 della Costituzione. (132) L'espressione è di L. Ferrara, I riflessi sulla tutela giurisdizionale dei principi dell'azione amministrativa, cit., 592. (133) A. Police, Annullabilità, cit., 74. (134) Sulla tipicità dell'azione di annullamento si veda anche V. Cerulli Irelli, Giurisdizione amministrativa e pluralità delle azioni (dalla Costituzione al codice del processo amministrativo), in questa Rivista, 2012, 437. L'azione di annullamento così come quella di nullità sono previste con norme di portata generale a fronte di ogni atto lesivo delle situazioni giuridiche dei privati. (135) V. Caianiello, Manuale, cit., 504. (136) A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2010, 300. (137) A. Travi, Accoglimento dell'impugnazione, cit., 938. (138) Corte cost., ord. 9 settembre 2002, n. 525, in www.lexitalia.it. In dottrina si veda P. de Lise, Le nuove frontiere del giudice amministrativo: pregiudiziale, risarcimento, translatio, in www.giustamm.it, 11, 2007, il quale afferma che la Costituzione lascia libero il legislatore di individuare i poteri da affidare all'uno o all'altro giudice. (139) F. Saitta, Art. 113, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivieri (a cura di), Commentario alla Costituzione, II, Torino, 2006, 2137. (140) La giurisprudenza (Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 13 ottobre 2011, n. 2429, in Foro amm.-Tar, 2011, 3053) ha chiarito che, nell'intento di garantire una maggiore effettività della tutela, la nuova disciplina del processo amministrativo dispone che il giudice amministrativo allorché ritenga fondati uno o più motivi di ricorso, non debba limitarsi ad annullare l'atto impugnato, ma possa contestualmente indicare alla amministrazione le conseguenze che derivano dal giudicato, senza dover più attendere, a tal fine, la riedizione del potere (art. 34, comma 1, lett. e). Tale facoltà, se raccordata con il principio della domanda (anch'esso richiamato dal comma 1 dell'art. 34), comporta che il giudice amministrativo non possa dichiarare assorbiti uno o più motivi di ricorso qualora il loro accoglimento possa arricchire il contenuto del giudicato aggiungendo vincoli più specifici al riesercizio del potere amministrativo. In tal caso, la domanda di annullamento viene a integrarsi con un distinto petitum sul quale il giudice ha l'obbligo di pronunciarsi. Da ciò deriva che deve ritenersi escluso il carattere assorbente del vizio di incompetenza e il giudice deve passare a esaminare gli altri motivi di gravame proposti (Tar Toscana, Sez. II, 16 giugno 2011, n. 1076, in www.giustizia-amministrativa.it). Infatti, la predetta regola trova senz'altro applicazione nel caso in cui il ricorrente, accanto a censure di ordine 154 sostanziale, deduca anche il vizio di incompetenza. Il codice del processo amministrativo non prevede più che nel caso di accoglimento di tale motivo il giudice debba necessariamente rimettere l'intero affare all'autorità competente senza potersi pronunciare sulle restanti censure. (141) La dottrina aveva anticipato questa conclusione. Basti pensare a A.M. Sandulli, I tribunali amministrativi regionali, Napoli, 1972, 19 il quale aveva chiaramente sostenuto l'infruttuosità delle sentenze di annullamento dell'atto, spesso inadatte a ripristinare lo status quo ante. L'Autore si domanda perché il cittadino debba esser costretto a instaurare un ulteriore giudizio per ottenere che l'amministrazione si conformi al giudicato. Sarebbe più logico e giusto, secondo Sandulli, che, in occasione della sentenza di annullamento, il giudice amministrativo dettasse le regole per ripristinare la situazione di fatto e di diritto alterata dal provvedimento annullato e che, laddove non fosse possibile, la legge prevedesse meccanismi per fare proseguire il medesimo giudizio oltre l'annullamento fino a una statuizione in grado di assicurare un risultato utile per il cittadino. Sandulli anticipa il concetto di giurisdizione piena del giudice amministrativo. Tale evoluzione era stata anche auspicata da F. Benvenuti, Giustizia amministrativa, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 604, secondo il quale il sistema basato sulla mera impugnazione dell'atto impedisce di accertare il rapporto sostanziale tra il cittadino e l'amministrazione, giacché il giudice conosce solo la definizione che di quel rapporto ha dato il provvedimento. Il difetto principale della giustizia amministrativa è quello di aver perso di efficacia sostanziale. Per tale motivo l'Autore auspica un'evoluzione del sistema verso la valorizzazione della giurisdizione di merito intesa come giudizio di giurisdizione piena, con la possibilità da parte del giudice amministrativo di cognizione completa dei fatti posti alla base della controversia. In questo ambito il giudizio di legittimità avrebbe dovuto assumere una funzione residuale. L'introduzione della giurisdizione di merito e della giurisdizione esclusiva è stata vista come dimostrazione della sensibilità del legislatore verso la necessità di una tutela diretta delle posizioni giuridiche dei cittadini. Ma il provvedimento imperativo ha assunto il ruolo di polo attrattivo di tutte le espressioni amministrative e ha imposto come modello processuale principale quello della verifica della legittimità formale dell'atto e non quello del rapporto tra amministrazione e cittadino. (142) Sul punto si veda L. Torchia, Le nuove pronunce nel codice del processo amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2010, 1319, secondo la quale il Codice fornisce esempi significativi di misure che il giudice può adottare con le pronunce di condanna e che sono, per un verso, strettamente correlate alla soddisfazione della situazione soggettiva dedotta in giudizio e, per altro verso, configurano un rapporto fra giurisdizione e amministrazione davvero assai lontano da quello tradizionalmente cristallizzato nella formula “fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell'amministrazione”, formula che, non a caso, è stata abbandonata; tali esempi riguarderebbero il rito sul silenzio e il rito speciale in materia di appalti. (143) La recente giurisprudenza ha affermato che la condanna atipica (azione di adempimento) debba essere esperita contestualmente a un'altra azione. La sentenza del Tar Lombardia Milano, Sez. IV, 4 settembre 2012, n. 2220, in www.giustizia-amministrativa.it, ha precisato che la domanda tesa a una pronuncia che imponga l'adozione del provvedimento satisfattorio non è ammissibile se non accompagnata dalla rituale e contestuale proposizione della domanda di annullamento del provvedimento negativo o del rimedio avverso il silenzio. Soluzione che poi è stata adottata dal secondo correttivo al codice che ricalca quanto previsto dalla originaria formulazione dell'azione di adempimento da parte della commissione governativa incaricata di redigere il codice. (144) V. Cerulli Irelli, op. cit., 499. (145) D. Vaiano, Sindacato di legittimità e « sostituzione » della pubblica amministrazione, in www.giustamm.it, 6, 2012. L'Autore afferma che, almeno in un caso, la sostituzione del giudice all'amministrazione è conclamata e sarebbe quella prevista dagli artt. 121 e 122 c.p.a. in materia di contratti pubblici, con riguardo alla dichiarazione, all'esito del giudizio di cognizione, dell'inefficacia del contratto di appalto, sottoscritto con una pubblica amministrazione, a seguito dell'annullamento dell'aggiudicazione. In questo caso si tratterebbe di valutazioni che coinvolgono direttamente gli 155 interessi generali dei quali l'amministrazione è istituzionalmente portatrice, la cui ponderazione viene rimessa dall'ordinamento al prudente apprezzamento del giudice. Anche se poi si riconosce che si tratta di norme settoriali, esse coprono una significativa percentuale del contenzioso amministrativo. (146) D. Vaiano, op. cit., 24. (147) Si veda F.G. Scoca, Risarcimento del danno e comportamento del danneggiato, cit., 989. R. Villata, Ancora spigolature, cit., 1513, critica la visione della azione unica e atipica affermando che la atipicità può rinvenirsi nel superamento della relazione biunivoca tra natura del diritto soggettivo difeso e domanda proponibile al giudice. Al di là di tale considerazione, l'Autore rileva che le domande proponibili attraverso l'azione atipica sono sempre quelle di annullamento, di condanna e di accertamento nei limiti fissati dalle norme processuali e dalle disposizioni sostanziali, le quali non garantiscono sempre il “risultato” al quale aspira il ricorrente. (148) A Police, L'illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra vizi c.d. formali e vizi sostanziali, cit., 2003, 797. (149) M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in questa Rivista 2005, 557. (150) D. Vaiano, op. cit., 25, parla di ''dequotazione” della giurisdizione di merito, la cui esistenza viene bensì confermata dall'art. 7, comma 6, c.p.a. (e dall'art. 134 cui esso rinvia) ma la cui rilevanza viene fortemente sminuita proprio dal potenziamento e dalla più generale riconfigurazione dei poteri cognitori e decisori riconosciuti al giudice amministrativo sia nella giurisdizione generale di legittimità che in quella esclusiva. (151) F. Cintioli, Il processo amministrativo risarcitorio senza la pregiudizialità, in www.giustamm.it, 2009, ritiene che la strada del riferimento all'art. 1227 c.c. sia quantomeno opinabile considerato che l'ordinamento non riconosce alcun dovere della parte di collaborare con l'amministrazione per renderla edotta della illegittimità dei propri atti. G. Greco, Che fine ha fatto la pregiudizialità amministrativa?, in www.giustamm.it, 12, 2010, sostiene che proprio con questa norma la pregiudizialità cacciata dalla porta è rientrata dalla finestra. Utili precisazioni sull'applicabilità del citato meccanismo sono state fornite dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 23 marzo 2011, n. 3, cit., con commento di M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche amministrazioni: tra soluzioni di vecchi problemi e nascita di nuove questioni. La decisione dopo aver ritenuto che la mancata proposizione dell'impugnazione attiene al merito e non è questione di ammissibilità della domanda risarcitoria, afferma che la mancata impugnazione è contraria a buona fede solo nell'ipotesi in cui si verifichi che una reazione tempestiva avrebbe evitato o mitigato il danno. (152) Si veda Cons. Stato, Sez. V, 29 novembre 2011, n. 6296, in Foro amm.-C.d.S., 2011, 3442. Secondo F.G. Scoca, Risarcimento del danno e comportamento, cit., 992, il comportamento diligente del privato potrebbe anche consistere nella rappresentazione all'amministrazione dell'illiceità della sua condotta e delle conseguenze dannose che ne derivano, per cui non risulterebbe dovuto né inutile o superfluo l'esperimento dell'azione di annullamento. Il danneggiato deve essere lasciato libero di scegliere tra i vari mezzi di tutela che sono posti a sua disposizione, senza vincolo di pregiudizialità e senza che la scelta di non impugnare il provvedimento possa pregiudicare la valutazione sulla diligenza o meno del ricorrente. (153) Cons. Stato, Sez. V, 2 novembre 2011, n. 5837, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale in materia di pregiudiziale amministrativa dagli artt. 30 ss. c.p.a. emerge che il legislatore delegato non ha condiviso né la tesi della pregiudizialità amministrativa né, al contrario, quella della totale autonomia dei due rimedi, impugnatorio e risarcitorio, ma ha optato per una soluzione intermedia, che valuta l'omessa tempestiva proposizione del ricorso per l'annullamento del provvedimento lesivo non come fatto preclusivo dell'istanza risarcitoria, bensì come mera condotta che, nell'ambito di una valutazione complessiva del comportamento delle parti in causa, può autorizzare il giudice a escludere il risarcimento o a ridurne l'importo, ove accerti che la tempestiva proposizione del 156 ricorso per l'annullamento dell'atto lesivo avrebbe evitato o limitato i danni da quest'ultimo derivanti. (154) Sia consentito rinviare a R. Dipace, La disapplicazione, cit., 2011. (155) R. Villata, Pregiudizialità amministrativa nell'azione risarcitoria per responsabilità da provvedimento?, in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, IV, Padova, 2007, 468. (156) G. Greco, Inoppugnabilità e disapplicazione dell'atto amministrativo nel quadro comunitario e nazionale (note a difesa della c.d. pregiudizialità amministrativa), in Riv. it. dir. pubbl. com., 2006, 513 523, che, però, conclude per il necessario annullamento dell'atto. Lo stesso Autore, successivamente all'entrata in vigore del codice, afferma che l'accertamento della illegittimità senza essere accompagnato da nessuna necessità di annullamento o di disapplicazione non è “dogmaticamente condivisibile” in quanto il nostro sistema consente all'atto amministrativo non annullato o sospeso di produrre effetti e ne impone l'esecuzione autorizzando la pubblica amministrazione persino alla sua realizzazione coattiva. Sicché, tale sistema, se non vuole cadere in contraddizione, non può considerare illecita una condotta comunque consentita o protetta con il solo accertamento della illegittimità senza alcuna conseguenza, creando una precisa causa di giustificazione che escluderebbe l'antigiuridicità della condotta, a meno che l'atto non venga cancellato ovvero i suoi effetti vengano elisi. (157) A. Travi, Commento all'art. 35, comma 1, in D.lgs. n. 80/1998, in Le nuove leggi civ. comm., 1999, 1546). La stessa giurisprudenza ha cercato di restringere l'ambito di applicazione del risarcimento in forma specifica nel processo amministrativo. È stato affermato che questo troverebbe applicazione solo nell'ipotesi di interessi di tipo oppositivo come nel caso in cui venga richiesta la riconsegna e la ripristinazione del bene illegittimamente sottratto al privato ovvero la consegna di cosa uguale a quella illegittimamente distrutta o la riparazione dei danni conseguenti all'esecuzione di un provvedimento illegittimo. Questa lettura sarebbe la più rispondente alla natura civilistica dell'istituto. Mentre in presenza di interessi pretensivi non è possibile pensare a una reintegrazione in forma specifica perché il silenzio, il ritardo o l'illegittimo diniego incidono sempre su una situazione che era e rimane insoddisfatta, per cui non vi è nulla che possa essere reintegrato; in relazione a interessi di tipo oppositivo, la questione riguarda il diverso istituto dell'esecuzione in forma specifica di una pronuncia di annullamento dell'atto negativo (Cons. Stato, Sez. VI, 31 maggio 2008, n. 2622, in Foro amm.C.d.S., 2008, 1581). Secondo questo indirizzo, l'adozione da parte dell'amministrazione di un determinato atto amministrativo a seguito di un illegittimo diniego e dell'accertata spettanza del provvedimento amministrativo richiesto, non costituisce una misura risarcitoria, ma la doverosa esecuzione di un obbligo che grava sull'amministrazione, salvi gli eventuali danni causati al privato. Tale fase non appartiene alla reintegrazione. Riportarla alla tutela risarcitoria significa estendere a tale fase anche tutti i limiti di tale tutela, che risultano più rigorosi rispetto a quelli previsti per l'esecuzione. Infatti, mentre la reintegrazione in forma specifica richiede una verifica in termini di onerosità ai sensi dell'art. 2058, comma 2, c.c., essa non è richiesta per l'esecuzione in forma specifica della prestazione originariamente dovuta, per la quale può rilevare la sola sopravvenuta impossibilità (Cons. Stato, Sez. VI, 18 giugno 2002, n. 3338, in Cons. Stato, 2002, I, 1328). In altre occasioni si è affermata una soluzione mediana che esclude il risarcimento in forma specifica degli interessi pretensivi solo nell'ipotesi di attività discrezionale della pubblica amministrazione, per cui, se dopo il ripristino dello status quo ante l'attività rinnovatoria della pubblica amministrazione risulti totalmente vincolata nel merito poiché l'atto richiesto dal privato è dovuto, il giudice può, già in fase di cognizione dichiarare l'amministrazione obbligata ad adottare quell'atto e ordinarle di adottarlo. Si rimette il privato nella medesima situazione favorevole in cui si sarebbe trovato se l'amministrazione non avesse agito illegittimamente. (158) Si è oramai arrivati a concepire l'azione di accertamento anche da parte della giurisprudenza amministrativa. Sul punto si veda la citata sentenza della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011. (159) Si pensi all'ipotesi di una impugnazione di un provvedimento nel corso del giudizio annullato 157 d'ufficio o revocato dall'amministrazione. (160) Cons. Stato, Sez. IV, 18 maggio 2012, n. 2916, in www.giustizia-amministrativa.it. (161) Si veda Tar Lombardia, Milano, Sez. IV, 5 ottobre 2011, n. 2352, in Foro amm.-Tar, 2011, 3056. Infatti, non può ammettersi che la mera e indimostrata allegazione di un generico interesse ai fini risarcitori possa rappresentare un vero e proprio lasciapassare attraverso il quale aggirare il dato oggettivo costituito dall'insussistenza di un interesse all'ulteriore coltivazione del ricorso e attraverso cui far surrettiziamente rientrare nel giudizio un interesse all'impugnativa di cui si sia in concreto accertata l'insussistenza (Cons. Stato, Sez. VI, 20 luglio 2011, n. 4388, in Foro amm.-C.d.S., 2011, 2531). Inoltre, è stato chiarito che la domanda risarcitoria proposta in sede giurisdizionale, per lesione di interessi legittimi, è ammissibile anche in caso di declaratoria di improcedibilità riferita alla domanda di annullamento dell'atto cui dovrebbe ricondursi la dedotta lesione. In tal caso, la scissione tra formale pronuncia sulla legittimità del provvedimento impugnato e valutazione dell'istanza risarcitoria non è idonea di per sé a pregiudicare la ragione sostanziale di un danno risarcibile (Cons. Stato, Sez. IV, 7 luglio 2011, n. 4064). (162) Cons. Stato, Sez. V, 12 maggio 2011, n. 2817, in www.giustizia-amministrativa.it. (163) G. Corso, Art. 34, in A. Quaranta-V. Lopilato, Il processo amministrativo, cit., 341. (164) Sul punto si vedano C.E. Gallo, I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, in questa Rivista, 2012, 280; A. Giusti, La “nuova” sentenza di annullamento nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, in questa Rivista, 2012, 293. (165) Come detto in precedenza la controversia aveva ad oggetto l'impugnativa da parte di una associazione ambientalista del piano faunistico venatorio della regione Puglia e gli atti intermedi del procedimento; si lamentava, fra l'altro, che non era stato attivato il procedimento di valutazione ambientale strategica previsto dalla legislazione statale e che, quindi, erano state disposte misure protettive inadeguate per la fauna rispetto a quelle che si sarebbero ragionevolmente disposte ove si fosse operato con la Vas. La regione sosteneva di aver attivato un procedimento di valutazione di incidenza, per cui non sarebbe stato necessario operare con la Vas. Il giudice di primo grado respingeva il ricorso ritenendo che la Vas sarebbe stata una inutile duplicazione rispetto alla valutazione di incidenza. Il Consiglio di Stato, dopo aver ricostruito minuziosamente l'ambito di applicazione della disciplina della valutazione ambientale strategica, affermava la necessità di utilizzare tale strumento nel procedimento di approvazione del piano faunistico. Gli atti impugnati si ponevano in contrasto con le norme di cui al d.lgs. n. 152/2006 (codice dell'ambiente, al cui art. 11, comma 5, si prevede che “la VAS costituisce per i piani e programmi a cui si applicano le disposizioni del presente decreto, parte integrante del procedimento di adozione ed approvazione. I provvedimenti amministrativi di approvazione adottati senza la previa valutazione ambientale strategica, ove prescritta, sono annullabili per violazione di legge”). Veniva, quindi, accolta la censura circa la violazione dell'art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006 (“la valutazione ambientale di piani, programmi e progetti ha la finalità di assicurare che l'attività antropica sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile, e quindi nel rispetto della capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle risorse, della salvaguardia della biodiversità e di un'equa distribuzione dei vantaggi connessi all'attività economica. Per mezzo della stessa si affronta la determinazione della valutazione preventiva integrata degli impatti ambientali nello svolgimento delle attività normative e amministrative, di informazione ambientale, di pianificazione e programmazione”). Accertata l'illegittimità del piano, il Consiglio di Stato passava all'esame degli effetti della propria decisione. Innanzitutto, con riferimento alla portata conformativa della decisione, il Consiglio di Stato, in applicazione dell'art. 34, comma 1, lett. e), stabiliva che la Regione in sede di emanazione degli ulteriori atti avrebbe dovuto applicare le norme sulla Vas facendo applicazione addirittura delle norme più stringenti, nel frattempo intervenute, rispetto a quelle previste al momento dell'adozione degli atti impugnati. Ciò perché in sede di rinnovo del procedimento si deve ritenere applicabile il principio del tempus regit actum. Inoltre, ed è questa la parte della decisione più 158 interessante e innovativa, il Consiglio di Stato riteneva che la sentenza avrebbe dovuto avere solo effetti conformativi del successivo esercizio della funzione pubblica e non anche i consueti effetti di annullamento ex tunc, demolitori, degli atti impugnati né quelli ex nunc. Ciò perché, secondo la decisione, la previsione di effetti demolitori nella fattispecie in questione sarebbe risultata “incongrua e manifestamente ingiusta” ovvero in contrasto con il principio della effettività della tutela. La regola della retroattività degli effetti demolitori, infatti, deve trovare deroghe o con la parziale limitazione della retroattività o con la decorrenza ex nunc ovvero escludendo del tutto gli effetti dell'annullamento e disponendo gli effetti conformativi. Secondo il Collegio, nessuna norma impedisce tale operazione e comunque vi sono ipotesi normative, come quelle previste degli artt. 121 e 122 c.p.a., che riconoscono tale potere valutativo al giudice (nel caso di stabilire la perduranza o meno degli effetti di un contratto). Nella fattispecie il giudice precisa che il ricorso era stato proposto da un'associazione ambientalista non a tutela della sua specifica sfera giuridica ma nella qualità di soggetto legittimato ex lege a impugnare provvedimenti di portata generale con una portata lesiva sull'ambiente e che tale ricorso non mirava a far rimuovere, in quanto tali, gli atti generali impugnati bensì a farne rilevare l'illegittimità per l'inadeguatezza della tutela prevista dal piano faunistico. Ove la decisione annullasse ex tunc, ovvero anche ex nunc, il piano, sarebbero travolte tutte le prescrizioni del piano in contrasto con la pretesa azionata con il ricorso e con la paradossale conseguenza di privare il territorio di qualsiasi regolamentazione. Altrimenti ragionando, secondo il Collegio, si contrasterebbe il principio della effettività della tutela giurisdizionale. Uno dei pilastri del ragionamento del Consiglio di Stato consiste nell'affermare che anche a livello comunitario il Trattato prevede che la Corte di giustizia, ove lo reputi, possa precisare gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi (art. 264 TFUE). In attesa della rinnovazione del piano faunistico, la sentenza non produce ulteriori conseguenze sulla legittimità e sulla efficacia di qualsiasi atto o provvedimento che sia stato emanato in applicazione del piano illegittimo. (166) Altra sentenza adesiva a questa impostazione è Tar Abruzzo, Pescara, 13 dicembre 2011, n. 693, in Urb. app., 2012, 707. In questo caso, la vicenda prende le mosse dall'azione di una società privata proprietaria di un terreno edificabile sul quale si sarebbe dovuta realizzare una struttura alberghiera; esperite con successo le procedure per l'ottenimento del titolo abilitativo, la società si vedeva adottare dal comune una variante nella quale l'area rimaneva edificabile, ma soggetta alla previa formazione di un piano attuativo. La società chiedeva al Tar di accertare la formazione di un valido titolo abilitativo (in quanto prima della variante il comune aveva comunicato alla società l'esito positivo della istruttoria e l'aveva invitata a ritirare il permesso stesso) e di annullare la variante in quanto non sottoposta alla valutazione ambientale strategica, prevista in via generale dalla normativa europea e nazionale di recepimento. Infatti, sulla base di tale normativa sono assoggettati alla procedura di valutazione ambientale tutti gli atti e provvedimenti di pianificazione e programmazione comunque denominati, oltre che le loro modifiche. La Vas deve essere adottata nella fase procedimentale preparatoria, dopo l'adozione e prima dell'approvazione definitiva dello strumento pianificatorio. Infatti, la variante ha comportato una sostanziale e incisiva modifica di standard, parametri, quantità e qualità degli interventi ammissibili per cui l'introduzione di nuovi strumenti attuativi ha di fatto comportato un ridimensionamento degli standard edilizi e urbanistici e un'alterazione dell'edificabilità il cui impatto ambientale doveva essere accertato. Ritenendo illegittima la variante, la decisione richiama i principi enunciati dalla citata sentenza del Consiglio di Stato in ordine alla disponibilità da parte del giudice degli effetti dell'annullamento. Inoltre, accerta l'esistenza del valido permesso a costruire a favore della ditta ricorrente; annulla le norme tecniche di attuazione nella parte che nelle aree della parte ricorrente impone lo strumento attuativo, a far tempo dall'adozione; annulla in toto le norme tecniche di attuazione a partire dal momento — successivo all'adozione, la quale conserva quindi il suo valore anche in salvaguardia — in cui è mancata la sottoposizione alla valutazione ambientale strategica e alla verifica di conformità alla pianificazione sovraordinata, come visto necessario nel caso concreto. Il 159 Comune in relazione all'intera variante in questione (a parte le parti annullate già dall'adozione), dovrà sottoporla alla valutazione ambientale e di conformità alla pianificazione superiore, eventualmente riesaminarla in toto nella sua discrezionalità, usufruendo delle norme di salvaguardia entro un tempo massimo di mesi otto dalla notificazione o comunicazione della presente sentenza, trascorso il quale la variante stessa perderà efficacia con riviviscenza della precedente normativa e obbligo di rideterminarsi. (167) F. Caringella, op. cit., 16. (168) Sul punto si veda A. Travi, Accoglimento dell'impugnazione, cit., 937, secondo il quale nel nostro ordinamento l'azione di annullamento ha un contenuto “tipico” che si esprime proprio nella circostanza che gli effetti dell'accoglimento della domanda sono quelli previsti dalla legge. (169) Sul punto si veda da ultimo C.E. Gallo, I poteri del giudice amministrativo, cit., 281, il quale cita la costante dottrina che ha riconosciuto l'effetto retroattivo alle sentenze di annullamento. Infatti, quando vi è illegittimità sopravvenuta l'annullamento non ha l'effetto integralmente retroattivo ma decorre dal momento in cui l'illegittimità si è manifestata. (170) Tar Lombardia, Milano, Sez. IV, 5 ottobre 2011, n. 2352, in Foro amm.-Tar, 2011, 10, 3056. Ne deriva che la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione della domanda costitutiva di annullamento dell'atto non priva il ricorrente dell'interesse alla decisione della domanda di accertamento dell'illegittimità del provvedimento. (171) Cons. Stato, Sez. V, 12 maggio 2011, n. 2817, in Urb. app., 2011, 1347, con commento di R. Proietti, Inutilità dell'annullamento dell'atto e accertamento dell'illegittimità del provvedimento. La decisione afferma che la norma di cui all'art. 34 c.p.a. introduce un principio di carattere generale volto da un lato a inibire l'annullamento di atti che abbiano oramai esaurito i loro effetti nel giudizio e dall'altro tutelare l'interesse all'accertamento. Secondo la sentenza in questo caso l'azione costitutiva si depotenzia di quel quid pluris (la modificazione di una situazione giuridica soggettiva) che la caratterizza rispetto al contenuto di accertamento proprio di ogni azione per ridursi a mero accertamento, per il quale il presupposto è costituito dall'interesse risarcitorio. (172) Ciò può avvenire allorché l'atto illegittimo non annullabile ex lege esplichi effetti che il privato deve elidere per trovare piena soddisfazione. Infatti, il privato può comunque avere interesse all'accertamento della illegittimità dell'atto in varie situazioni. In primo luogo, qualora da tale accertamento derivi la responsabilità civile o disciplinare di chi ha posto in essere l'atto. In secondo luogo, nei casi di responsabilità della pubblica amministrazione in quanto apparato (è possibile, infatti, che da un provvedimento viziato solo formalmente possano scaturire, ad esempio, danni patrimoniali nella sfera del privato). Infine, per richiedere la condanna all'adozione di provvedimenti, così come previsto dalle c.d. condanne atipiche. Se il ricorrente vuole esperire un'azione risarcitoria, lo può fare senza necessità di impugnare l'atto ai fini del suo annullamento, essendo il problema della pregiudizialità risolto in senso negativo sia dalla legge che impedisce l'annullamento del provvedimento sia dal codice del processo. Tra l'altro, per l'azione di danni, il privato può avvalersi del termine di centoventi giorni decorrenti dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da esso di cui all'art. 30, comma 3, del c.p.a. Con riguardo alle ipotesi dannose derivanti da provvedimenti vincolati o dalla mancata comunicazione di avvio del procedimento possono venire in rilievo tutte quelle violazioni da parte della pubblica amministrazione di obblighi procedimentali che comportino un danno al patrimonio del privato. La prospettiva risarcitoria per la violazione di pretese istruttorie può essere varia. Basti pensare alla sussistenza di un danno economico di tipo patrimoniale derivante dalla incertezza della situazione per carenza di conoscenza effettiva della stessa da parte del ricorrente. (173) F. Caringella, op. cit., 17. (174) M.S. Giannini, Diritto amministrativo, cit., 579. (175) Tale considerazione, nel caso della sentenza del Consiglio di Stato, in qualche modo è 160 mascherata dall'affermazione che l'annullamento del piano faunistico avrebbe pregiudicato gli interessi di ordine ambientale perseguiti dall'associazione ricorrente. Essa, infatti, aveva promosso il ricorso perché riteneva inadeguata la tutela ambientale realizzata dal piano, ma, secondo il giudice, l'annullamento del piano avrebbe ulteriormente ridotto i margini di protezione. Il giudice, quindi, ha operato una valutazione di opportunità dell'azione proposta verificando la coerenza fra le finalità perseguite dalla parte con l'impugnazione e gli effetti della sentenza. Giustamente, A. Travi, Accoglimento dell'impugnazione, cit., 937 sostiene che il sindacato del giudice può estendersi fino alla verifica delle condizioni dell'azione, come l'interesse a ricorrere, e non arrivare fino a valutare l'opportunità dell'azione proposta, poiché questa è una valutazione che è riservata all'autonomia della parte e si esprime proprio con la proposizione del ricorso. Forse il giudice avrebbe potuto più facilmente decidere dichiarando la carenza di interesse del ricorrente all'annullamento, in quanto dalla eliminazione del provvedimento non sarebbe scaturito alcun effetto utile. Ma tale decisione avrebbe impedito al giudice di agire attraverso l'effetto conformativo proprio solo di una decisione di merito e non di rito. (176) R. Villata, Ancora “spigolature”, cit., 1516, e F.G. Scoca, Risarcimento del danno, cit. 989. (177) A. Police, Attualità e prospettive della giurisdizione di merito del giudice amministrativo, in Studi in onore di Alberto Romano, II, Napoli, 2012, 1449. Tale sintesi, invece, può avvenire nella giurisdizione di merito, dove il giudice, oltre che a tutelare le situazioni dei privati, può farsi anche carico della cura dell'interesse pubblico. Ma ciò può avvenire solo nei casi tassativamente indicati dalla legge. (178) Sul punto si veda A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1994, 10, che pone al centro del sistema l'essere umano e i suoi bisogni e presenta l'individuo come il referente principale del principio di effettività della tutela. (179) S. Satta, Giurisdizione (nozioni generali), in Enc. dir., XIX, 1970, 219, secondo il quale “l'ordinamento senza azione è mero flatus vocis, non esistendo altro che nel pensiero, o in una visione statica e scolastica della vita”, e ancora “il diritto fa la sua apparizione soltanto nel momento del giudizio, quando cioè sorge l'esigenza di valutare l'azione che si è compiuta e di affermare in ordine ad essa l'ordinamento nel momento cioè della giurisdizione”. Secondo Satta l'ordinamento si identifica nel giudizio e la giurisdizione esprime l'affermazione dell'ordinamento nel caso concreto: essa, quindi, è l'unico momento essenziale dell'organizzazione della societas, perché senza la giurisdizione verrebbe meno lo stesso ordinamento o meglio la giuridicità dell'ordinamento, che è giuridico solo in quanto può e deve essere affermato. Secondo G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale, cit., 20, la giurisdizione consiste nella attuazione concreta della legge mediante il processo, definito come il complesso degli atti coordinati allo scopo di attuare la effettiva volontà della legge medesima, rispetto a un bene che si pretende da questa garantito. L'azione si configura come uno dei diritti che può nascere dalla lesione di un altro diritto e attraverso il quale, in caso di mancata realizzazione della volontà concreta della legge mediante la prestazione dell'obbligato, si ottiene la realizzazione di quella stessa volontà tramite il processo. L'azione, quindi, è il potere giuridico di porre in essere la condizione per l'attuazione della legge. Questa affermazione, che, in linea di principio, si potrebbe interpretare come un'adesione al principio oggettivistico della funzione giurisdizionale, sembra stemperarsi nella già ricordata celebre definizione del principio della effettività della tutela: “il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha il diritto di conseguire”. (180) Ciò trova conferma nel codice del processo amministrativo, il quale all'art. 1 richiama sia i principi costituzionali, fra cui quello del giusto processo, secondo il quale il processo si svolge in condizioni di parità tra le parti, in contraddittorio e dinnanzi a un giudice terzo e imparziale (art. 111 Cost., secondo comma; art. 2 c.p.a.), sia i principi del diritto europeo, ove, come già evidenziato, viene in rilievo il diritto del cittadino a un equo processo dinanzi a un giudice indipendente e imparziale (art. 161 47 Cedu). (181) Affermazione pienamente condivisibile di A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato, Per una giustizia « non amministrativa », Milano, 2005, 51. (182) R. Chieppa, Il codice del processo, cit., 253, ha affermato che questa è una norma che facilita la concentrazione delle azioni o il passaggio da un'azione a un'altra, avendo sempre riguardo al contenuto sostanziale delle stesse. Si tratta, quindi, della conferma dell'eliminazione di ogni formalismo e della prevalenza che il giudice deve dare alla sostanza delle domande che vengono proposte dalle parti. (183) G. Corso, Commento art. 32, in A. Quaranta-V. Lopilato, Il processo, cit., 324. (184) Con tale principio si esprime la regola per cui anche nei processi ispirati al principio dispositivo il giudice ha il potere-dovere di individuare le norme applicabili, anche di sua iniziativa, per applicare ai fatti dedotti e accertati le norme giuridiche che, secondo il diritto vigente e in base alle regole sull'efficacia della legge nel tempo e nello spazio debbano disciplinare i fatti stessi. Come è noto, sul fondamento del principio si sono confrontate varie opzioni interpretative. Si è affermato, da un lato che il principio debba essere dedotto dall'ordinamento nel suo complesso; dall'altro, che debba essere dedotto dal solo richiamo all'art. 113 c.p.c. secondo il quale “nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme di diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità” (G. Verde, Domanda (principio della), (Dir. proc. civ.), in Enc. giur., XXII, Roma, 1989, 5). (185) Cons. Stato, Sez. V, 13 luglio 2006, n. 4419, in Foro amm.-C.d.S., 2006, 2185, anche se al principio è stata riconosciuta portata notevole, essendo stato chiarito che il potere dei collegi decidenti di individuare le norme considerate dalle parti a fondamento delle proprie tesi è amplissimo in sede di esame del ricorso amministrativo, in quanto costituisce unico limite al suo esercizio la circostanza che esso sia svolto nell'ambito della riferibilità delle norme prese in considerazione al contenuto oggettivo (anche di fatto) delle tesi sottoposte tempestivamente e utilmente (Cons. Stato, Sez. IV, 17 dicembre 2003, n. 8323, in Foro amm.-C.d.S., 2003, 3649). (186) G. Corso, op. cit., 327. (187) Si veda Cass., Sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30254, in questa Rivista, 2009, 460 con nota di G. Greco, La Cassazione conferma il risarcimento autonomo dell'interesse legittimo: progresso e regresso del sistema? La decisione, affrontando il tema del sindacato sulla giurisdizione, afferma che, ai fini dell'individuazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, che tradizionalmente delimitano il sindacato consentito alle Sezioni unite sulle decisioni del Consiglio di Stato che quei limiti travalichino, si deve tenere conto dell'evoluzione del concetto di giurisdizione — dovuta a molteplici fattori: il ruolo centrale della giurisdizione nel rendere effettivo il primato del diritto comunitario; il canone dell'effettività della tutela giurisdizionale; il principio di unità funzionale della giurisdizione nella interpretazione del sistema ad opera della giurisprudenza e della dottrina, tenuto conto dell'ampliarsi delle fattispecie di giurisdizione esclusiva; il rilievo costituzionale del principio del giusto processo, ecc. — e della conseguente mutazione del giudizio sulla giurisdizione rimesso alle Sezioni unite, non più riconducibile a un giudizio di pura qualificazione della situazione soggettiva dedotta, alla stregua del diritto oggettivo, né rivolto al semplice accertamento del potere di conoscere date controversie, attribuito ai diversi ordini di giudici di cui l'ordinamento è dotato, ma nel senso di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi che comprende, dunque, le diverse tutele che l'ordinamento assegna a quei giudici per assicurare l'effettività dell'ordinamento. Nella fattispecie la Cassazione ha ritenuto che la reiezione di una azione risarcitoria da parte del giudice amministrativo si sarebbe dovuta configurare come rifiuto all'esercizio della propria giurisdizione, in quanto tale sindacabile dinanzi al giudice della legittimità. (188) Cass., Sez. un., 25 giugno 2012, n. 10503. (189) F.G. Scoca, Risarcimento, cit., 989. (190) C.E. Gallo, op. cit., 283. (191) Sui poteri del giudice in materia di appalti la dottrina è veramente cospicua. Tra gli altri si 162 segnalano F. Astone, Interesse pubblico, contratti delle pubbliche amministrazioni e tutela giurisdizionale: la prospettiva comunitaria (e quella interna dopo il recepimento della direttiva ricorsi e il Codice del processo amministrativo), in www.giustizia-amministrativa.it; E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120-124 del Codice del processo amministrativo, in www.giustamm.it; F. Fracchia, Il rito speciale sugli appalti e la sorte del contratto: un giudizio a geometria variabile e a oggetto necessario nel contesto della concorrenza, in www.giustamm.it; G. Greco, Illegittimo affidamento dell'appalto, sorte del contratto e sanzioni alternative nel d. lgs. n. 53/2010, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2010; V. Lopilato, Categorie contrattuali, contratti pubblici e nuovi rimedi previsti dal decreto legislativo n. 53 del 2010 in attuazione della direttiva ricorsi, in questa Rivista, 2010; M. Lipari, Il recepimento della “direttiva ricorsi”: il nuovo processo super accelerato in materia di appalti e l'inefficacia flessibile del contratto nel d. lgs. n. 53 del 2010, in www.federalismi.it, 2010; M. Ramajoli, Osservazioni sui riti speciali, in www.giustamm.it; E. Sticchi Damiani, Annullamento dell'aggiudicazione e inefficacia funzionale del contratto, in questa Rivista, 2011. (192) D. Vaiano, op. cit. Secondo altri (F. Saitta, La dichiarazione di inefficacia del contratto del giudice amministrativo: quale giurisdizione?, in www.giustamm.it., 2011), la valutazione che viene effettuata dal giudice amministrativo nelle ipotesi di cui agli artt. 121 e 122 c.p.c. non sarebbe diversa dalla valutazione che viene effettuata anche dal giudice civile ex art. 2058 c.c. in presenza di una richiesta di tutela reintegrativa in forma specifica. In sostanza, tale valutazione non si sostituisce ad alcuna decisione in linea di principio riservata all'amministrazione e di conseguenza non ci si trova in presenza di un caso di giurisdizione amministrativa con cognizione estesa al merito. La valutazione deve, invece, essere effettuata in sede di cognizione, allo stesso modo in cui viene resa nel giudizio civile. In questa, infatti, la sussistenza di eventuali limiti alla possibilità di reintegrazione in forma specifica degli interessi della parte vittoriosa nel processo già in sede di cognizione prima ancora che in sede di esecuzione forzata (art. 2933, comma 2). Per Vaiano, però, non ci si può riferire all'art. 2058 c.c. Infatti, come rilevato anche dalla giurisprudenza, nel caso degli artt. 121 e 122 c.p.a. non si può operare una indebita commistione tra il piano dell'adempimento, al quale appartiene anche la domanda di subentro nel contratto e quello del risarcimento del danno. Una domanda di reintegrazione in forma specifica può proporsi solo se fondata sulla dimostrazione di un danno subito e non per ottenere tutela specifica al legittimo interesse al bene della vita attribuibile dalla pubblica amministrazione (o in questo caso direttamente dal giudice), ossia al subentro nel contratto. Peraltro, nella vicenda dell'inefficacia del contratto assume rilievo centrale la valutazione dell'interesse generale. Essa non è assimilabile a quella sull'eccessiva onerosità per il debitore che viene compiuta dal giudice civile ai sensi e per gli effetti dell'art. 2058 c.c. La valutazione ex artt. 121 e 122 c.p.a. è una valutazione che attiene, in via generale, all'interesse pubblico alla sollecita realizzazione dell'opera pubblica, ovvero al completamento di una fornitura già in massima parte eseguita o di un servizio ormai quasi del tutto reso, onde evitare ritardi nel completamento dell'opera o della fornitura e/o situazioni di discontinuità in grado di pregiudicare l'ottimale resa dei servizi. I poteri del giudice sono in linea di massima poteri di merito. Poiché, però, non è un caso di giurisdizione di merito non essendo previsto espressamente dalla legge, questa impostazione risolve il problema della sostituzione del giudice affermando che di sostituzione dell'amministrazione si può parlare anche in un senso non coincidente con quello della sostituzione nelle valutazioni di opportunità e di convenienza amministrativa, ossia in quello, di natura strettamente processuale, della sostituzione del debitore nell'ambito del giudizio di esecuzione, o meglio, e più precisamente, della sostituzione nel dovere di prestare l'attività mancante e necessaria volta a procurare, mediante l'attuazione del contenuto della decisione, il soddisfacimento effettivo dell'interesse che deve essere tutelato secondo la sentenza. Sulla base di tale considerazione il potere del giudice può essere compreso anche nell'ambito della giurisdizione di legittimità, alla luce del nuovo rapporto delineato dall'art. 34 del codice del processo amministrativo tra i momenti processuali della 163 cognizione e dell'ottemperanza. Non vi sarebbe una sostituzione in senso classico bensì l'anticipazione alla sede del giudizio di cognizione di quella sostituzione del soggetto tenuto a portare ad esecuzione la sentenza che prima si realizzava solo in sede di giudizio di ottemperanza al giudicato. Il punto però è che la dichiarazione dell'inefficacia non si identifica con una misura risarcitoria nei confronti del soggetto vittorioso, quanto piuttosto rappresenta una conseguenza non automatica dell'annullamento dell'aggiudicazione, necessaria per la condanna della pubblica amministrazione. Il vero risarcimento del danno consiste nel subentro nel contratto ovvero nel risarcimento per equivalente. (193) È stato recentemente chiarito dal Consiglio di Stato, Sez. III, 30 maggio 2011, n. 3243, in Foro amm.-C.d.S., 2011, 1497, che la declaratoria di inefficacia del contratto, pronunciata ai sensi dell'art. 122 c.p.a., quale conseguenza immediata e diretta dell'annullamento giurisdizionale dell'aggiudicazione di appalto pubblico, non è dotata di autonomia assoluta, essendo invece strettamente dipendente dall'annullamento, per cui ove la sentenza appellata fosse riformata quanto a detto capo, cadrebbe anche il capo da esso dipendente. (194) Su tale problema si veda, per tutti, cfr. D.U. Galetta, L'autonomia procedurale degli Stati membri dell'Unione europea: paradise lost?, Torino, 2009. (195) F. Caringella, op. cit., 17. (196) La citata decisione del Consiglio di Stato n. 2577/2011 richiama la giurisprudenza comunitaria, che ha da tempo affermato che il principio dell'efficacia ex tunc dell'annullamento, seppur costituente la regola, non ha portata assoluta e che la Corte di giustizia Ue può dichiarare che l'annullamento di un atto (sia esso parziale o totale) abbia effetto ex nunc o che, addirittura, l'atto medesimo conservi i propri effetti sino a che l'istituzione comunitaria modifichi o sostituisca l'atto impugnato. Analogamente, si deve ritenere che anche il giudice amministrativo ha il potere di statuire la perduranza, in tutto o in parte, degli effetti dell'atto risultato illegittimo, per un periodo di tempo che può tenere conto non solo del principio di certezza del diritto e della posizione di chi ha vittoriosamente agito in giudizio, ma anche di ogni altra circostanza da considerare rilevante. Ne deriva che anche il giudice amministrativo nazionale può differire gli effetti di annullamento degli atti impugnati, risultati illegittimi, ovvero non disporli affatto, statuendo solo gli effetti conformativi, volti a far sostituire il provvedimento risultato illegittimo. (197) Tale possibilità prima era prevista solo per i regolamenti. Successivamente, con le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, tale facoltà è stata estesa a tutti gli atti comunitari. A dire il vero già la Corte aveva esteso in via pretoria l'ambito applicativo di tale disposizione anche alle decisioni, alle direttive e a ogni altro atto recante portata generale. Sul punto si veda la critica di M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, cit., secondo il quale “la Corte ha ampliato il potere di precisare gli effetti dell'annullamento, attribuito in via espressa per i soli regolamenti e nel contesto dell'azione di annullamento, anche al caso di annullamento di direttive e alla conclusione del procedimento di ricorso pregiudiziale. Pur condividendo le esigenze sostanziali che hanno portato la Corte ad assumere questa impostazione, ovvero l'omogeneità tra regolamenti e direttive ed i loro effetti molto spesso similari per i giudici e i singoli, va rilevato che le norme processuali non possono essere modificate in via giurisprudenziale, pena il vanificarsi proprio dei principi di certezza del diritto che pure la Corte ha inteso privilegiare”. Tra le sentenze che affermano tale principio si vedano CGCE 15 maggio 1986, Johnston, C-222/84; CGCE 15 ottobre 1987, Heylens, C-222/86; CGCE 23 maggio 1996, Lomas, C5/94; CGCE 30 settembre 2003, Koebler, C-224/01; CGCE 13 maggio 2006, Traghetti del Mediterraneo, C-173/06 CGCE 22 febbraio 1999, Parlamento c. Consiglio, cause riunite C-164 e 165/97, dove la Corte si è pronunciata affermando che “gli effetti dei regolamenti annullati saranno integralmente conservati fintantoché il Consiglio non adotti, entro un termine ragionevole, nuovi regolamenti aventi lo stesso oggetto”. (198) Sulla natura della invalidità si veda M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, 2011, il quale afferma che, al di là della lettera della disposizione, si tratta di un effetto di annullamento, più che 164 di nullità, conforme al carattere costitutivo dell'azione di annullamento. (199) R. Adam, A. Tizzano, Lineamenti di diritto dell'unione europea, Torino, 2010. (200) Per un'analisi degli standard di controllo giudiziale sugli atti comunitari si veda G. Della Cananea, C. Franchini, I principio dell'amministrazione europea, cit., 293. (201) Sul punto si vedano le osservazioni critiche di S. Foà, L'annullamento, cit., 712; C.E. Gallo, op. cit., 284, A. Giusti, La “nuova” sentenza, cit., 318, e M. MacchiaL'efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo: prove di imitazione, in Giorn. dir. amm., 2011, 1310, il quale analizza il potere dei giudici di modulare gli effetti delle sentenze anche in una prospettiva comparata. L'Autore rileva che la mancanza di una previsione di legge non ha fermato le corti le quali hanno costantemente finito per auto attribuirsi la competenza di modulare gli effetti delle proprie sentenze. E ciò potrebbe anche essere coerente con il ruolo creativo del giudice amministrativo, il quale perfeziona e integra gli strumenti processuali aprendo la strada al principio di atipicità. Una decisione del tutto peculiare e in parte sovrapponibile all'argomento in questione è quella della Corte di giustizia Grande sezione, 28 febbraio 2012, n 41, in Foro amm.-C.d.S., 2012, 187, secondo cui il giudice nazionale, investito di un ricorso diretto all'annullamento di un atto nazionale costituente un “piano” o “programma” ai sensi della direttiva 2001/42, tenuto conto delle specifiche circostanze del procedimento principale, potrà eccezionalmente essere autorizzato ad applicare la disposizione nazionale che gli consente di mantenere determinati effetti di un atto nazionale annullato qualora, a seguito dell'annullamento di detto atto impugnato, venga a crearsi, quanto alla trasposizione della direttiva 91/676, un vuoto giuridico che sarebbe ancor più nocivo, nel senso che tale annullamento si tradurrebbe in una minor protezione delle acque contro l'inquinamento da nitrati provenienti da fonti agricole. Ciò a condizione che il mantenimento eccezionale degli effetti di un tale atto valga solo per il lasso di tempo strettamente necessario all'adozione delle misure in grado di rimediare all'irregolarità constatata. (202) Corte di giustizia, 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck; 14 dicembre 1995, cause riunite C-430/93 e C-431/93, Van Schijndler, cause che però riguardavano il differente problema del termine perentorio e della disapplicazione degli atti dal parte del giudice nazionale. Anche se il principio generale può essere invocato anche nei casi della modulazione degli effetti. (203) Si veda ancora M. Macchia, op. cit., 1313. (204) Sugli effetti della dichiarazione di incostituzionalità si veda F. Modugno, Annullabilità, cit., 5. (205) Si vedano le decisioni della Corte costituzionale n. 127/1966, in Giur. cost., 1966, 1697 e 49/1970, in Giur. cost., 1970, 555. Per una ricostruzione del dibattito circa la natura e la portata delle decisioni della Corte costituzionale si veda G. Parodi, M.O. Caputo, Annullamento, in S. Cassese (a cura di) Diz. dir. pubbl., I, Torino, 2006, 328; G. Parodi, Art. 136, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivieri (a cura di), Commentario alla Costituzione, II, cit., 2648. (206) S. Cicconetti, Lezioni di diritto costituzionale, Torino, 2001, 71. (207) Tra le sentenze che hanno avviato tale filone giurisprudenziale rilevano Corte cost. 5 maggio 1988, n. 501, in Foro it., 1989, I, 639, e 26 marzo 1991, n. 124 in Foro it., 1991, I, 1333. Per una ricostruzione sul dibattito intervenuto in tale materia si veda M. Ruotolo, La dimensione temporale della invalidità della legge, Padova, 2000. (208) S. Cicconetti, op. cit., 73. Alcune decisioni che operano il bilanciamento dei valori costituzionali e limitano gli effetti retroattivi della dichiarazione di incostituzionalità sono successive alla C. cost. n. 3/2001. La Corte in alcuni casi ha dichiarato l'incostituzionalità di disposizioni statali lesive della potestà legislativa regionale, affermando che la disciplina statale non avrebbe cessato di esistere fino all'adozione della specifica normativa regionale e, quindi salvando i procedimenti in corso fondati proprio sulla normativa dichiarata illegittima anche se non ancora esauriti. Ciò al fine di evitare che un vuoto normativo potesse ledere interessi costituzionalmente protetti. Emblematica è Corte cost., 23 dicembre 2003, n. 370, in Giur. cost., 2003, 3. Tale decisione ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 70, commi 1, 3 e 8, l. 28 dicembre 2001 n. 448, sull'istituzione di un fondo per gli asili 165 nido nell'ambito dello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in quanto violativo dell'art. 119 Cost. Ma la particolare rilevanza sociale del servizio offerto, relativo a prestazioni che richiedono continuità di erogazione in relazione ai diritti costituzionali implicati, ha indotto la Corte a non far retroagire gli effetti della sentenza e, quindi, a far salvi gli eventuali procedimenti di spesa in corso, anche se non esauriti. (209) A.M. Sandulli, La Corte e la politica, in Scritti in onore di Vittorio Bachelet, Milano, 1987, II, 113. (210) A.M. Sandulli, op. ult. cit., 114. (211) Il dibattito sul ruolo della Corte non si è mai sopito come rileva, a proposito dei recentissimi sviluppi della giurisprudenza costituzionale, A. Celotto, La giustizia costituzionale nel 2011, in Libro dell'anno del diritto, cit., 416. (212) E. Cheli, Il giudice delle leggi, Bologna, 1996, 13. (213) A. Travi, Accoglimento, cit., 936, il quale osserva come, nel caso del piano faunistico della regione Puglia, l'effetto di impedire che la caccia riprendesse in ambiti tutelati, facendo salvo il piano venatorio non si può ritenere raggiunto in quanto l'esercizio della caccia in tali zone può riprendere, Infatti, il piano, pur dichiarato illegittimo, non è stato rimosso e la violazione di un divieto posto da un atto vigente, anche se illegittimo, non è sanzionabile. La sentenza ha avuto, dunque, un risultato pratico molto modesto a fronte delle complicazioni che sono state evidenziate da M. Macchia, op. cit., 1316. (214) M. Macchia, op. loc. ult. cit. (215) Peraltro, dal mantenimento in vita dell'atto presupposto illegittimo verrebbe messo in discussione anche il consolidato principio della efficacia caducante, poiché la caducazione dell'atto presupposto necessita l'annullamento dell'atto consequenziale. (216) F.G. Scoca, Risarcimento, cit., 989. (217) Cons. Stato, Sez. V, 13 gennaio 2011, n. 172, affronta la questione relativa al mancato rispetto da parte di un'impresa delle modalità di presentazione dell'offerta previste a pena di esclusione dal bando di gara. In particolare, si trattava del mancato inserimento in un'apposita busta sigillata della documentazione amministrativa. Il giudice di primo grado affermava che il mancato inserimento nella busta dei documenti non avrebbe integrato alcuna violazione, dato che l'offerta sarebbe stata contenuta in una busta chiusa e, con i documenti, nella busta più grande a sua volta regolarmente chiusa e sigillata. Tale sentenza veniva impugnata dall'impresa soccombente, sostenendo che la clausola del bando non era stata tempestivamente impugnata e, quindi, non era disapplicabile da parte del giudice amministrativo. Il Consiglio di Stato ha affermato che la clausola di esclusione, pur se prevista dal bando, avrebbe potuto ritenersi operante nella sola ipotesi in cui l'acquisizione anticipata di elementi relativi all'offerta, tecnica o economica, avesse alterato il regolare svolgimento delle operazioni di gara e il principio della par condicio. Secondo il giudice, la portata delle singole clausole deve essere valutata alla stregua dell'interesse che la norma violata deve presidiare per cui nel caso in cui non sia ravvisabile la lesione di un interesse pubblico deve essere favorita la massima partecipazione con l'applicazione del principio della sanabilità delle irregolarità formali e la correlativa attenuazione del rilievo delle prescrizioni solo formali della procedura di gara. Il fatto che la clausola non sia stata tempestivamente impugnata non rileva tenuto conto che il bando è solo uno strumento e non un fine per cui deve farsene un uso razionalmente preordinato al perseguimento dei fini pubblici e la circostanza che non vi sia stato alcun danno autorizza all'interpretazione estensiva della clausola. Secondo il Consiglio di Stato tale ragionamento è supportato dal fatto che è unanimemente accettato il principio della disapplicabilità delle disposizioni regolamentari da parte del giudice amministrativo (C. Contessa, L'abuso delle clausole escludenti nelle pubbliche gare e suoi possibili rimedi: un ritorno alla disapplicazione?, in Giur. it., 2011, 2166; C. Mucio, Superabilità della clausola “a pena di esclusione, in Urb. app., 2011, 984; G. De Rosa, Disapplicazione del bando di gara: il Consiglio di Stato riapre il dibattito?, in questa Rivista, 2011, 1478). 166 (218) Cons. Stato, Ad. plen., 4 maggio 2012, n. 9, in www.giustizia-amministrativa.it, riprendendo l'antico dibattito sulla differenziazione tra atti normativi e generali, ha chiarito che, al fine di distinguere tra atto normativo e atto amministrativo generale, occorre fare riferimento al requisito della indeterminabilità dei destinatari, nel senso che atto normativo è quello i cui destinatari sono indeterminabili sia a priori sia a posteriori (essendo proprio questa la conseguenza della generalità e dell'astrattezza), mentre l'atto amministrativo generale ha destinatari indeterminabili a priori, ma certamente determinabili a posteriori in quanto è destinato a regolare non una serie indeterminati di casi ma, conformemente alla sua natura amministrativa, un caso particolare e/o una vicenda determinata, esaurita la quale vengono meno anche i suoi effetti. Un atto, quindi, può essere qualificato normativo anche se non si indirizza, indistintamente, a tutti i consociati, e ciò in quanto la generalità e l'astrattezza che contraddistinguono la norma non possono e non devono essere intesi nel senso di applicabilità indifferenziata a ciascun soggetto dell'ordinamento ma, più correttamente, come idoneità alla ripetizione nell'applicazione (generalità) e come capacità di regolare una serie indefinita di casi (astrattezza); pertanto, il carattere normativo di un atto non può essere disconosciuto solo perché esso si applica esclusivamente agli operatori di un settore (nelle specie ai titolari di impianti per la produzione di energia da fonte solare) dovendosi, al contrario, verificare se, in quel settore, l'atto è comunque dotato dei sopradescritti requisiti della generalità e dell'astrattezza. Tale decisione come rilevato da M. Massa, L'impugnazione dei regolamenti amministrativi, in Nel diritto, 2012, ammette la disapplicazione anche per un regolamento viziato sotto il profilo procedurale per un motivo differente dal contrasto con norma sostanziale sovraordinata. (219) Sulla disapplicazione dei regolamenti e sulla evoluzione del relativo giudizio si veda M. Massa, Regolamento amministrativi e processo. I due volti dei regolamenti e i loro riflessi nei giudizi costituzionali e amministrativi, Napoli 2011, il quale sostiene la profonda diversità del giudizio sui regolamenti rispetto a quello sui provvedimenti amministrativi, anche se si svolge dinanzi al giudice del provvedimento. Secondo l'Autore si tratterebbe di un giudizio che presenta spiccate caratterizzazioni oggettive che lo avvicinano molto al giudizio sulla legittimità costituzionale delle leggi, stante la natura normativa del potere regolamentare. In questo particolare contesto dovrebbe leggersi la previsione del potere di disapplicazione del regolamento da parte del giudice amministrativo. Il giudice, secondo l'Autore, potrebbe disapplicare il regolamento (op. cit., 535) alle stesse condizioni alle quali potrebbe sollevare la questione di legittimità costituzionale delle leggi, con la differenza che con riguardo ai regolamenti, può esercitare la cognizione sull'illegittimità in modo autonomo anche se solo a fini incidentali. In questo giudizio la disapplicazione, pur con i suoi limiti nei casi in cui non è utile o non è possibile l'impugnazione congiunta del regolamento e del provvedimento, rappresenta una valida alternativa. Altrove si è affrontato l'argomento della disapplicazione regolamentare (R. Dipace, La disapplicazione, cit., 149) cercando di inquadrare il giudizio sui regolamenti nell'ambito dei giudizi “ordinari” del giudice amministrativo e la disapplicazione come una manifestazione del potere del giudice di applicare la legge, non fondata esclusivamente sul principio di gerarchia delle fonti, come invece ha fatto la giurisprudenza ricalcando il ragionamento relativo alla disapplicazione delle fonti interne primarie contrastanti con quelle del diritto comunitario. Si è negata in radice la tesi contraria alla disapplicazione regolamentare che aveva come conseguenza la sola necessaria rimozione erga omnes della norma regolamentare. Questa tesi, infatti, portava all'affermazione di una concezione oggettiva della giurisdizione sul regolamento, ossia esclusivamente fondata sulla verifica di conformità della norma secondaria a quella primaria, a prescindere dall'interesse delle parti, con conseguente eliminazione del regolamento, che non rientra nell'interesse del soggetto privato, per il quale rilevano soltanto le sorti dell'atto applicativo. Il giudizio in questo caso non riguarderebbe un interesse che si assume leso e ci si troverebbe completamente al di fuori dei principi fondamentali sul processo amministrativo che, invece, ha natura soggettiva ed è fondato sull'interesse della parte a veder ripristinata la propria posizione soggettiva o, al più, a veder riparata la 167 lesione subita. Inoltre, la disapplicazione regolamentare ha infranto il tabù della necessaria impugnazione dell'atto nel termine di decadenza, allorché l'annullamento non si riveli funzionale alla richiesta processuale del ricorrente. In effetti, la disapplicazione potrebbe comportare la concentrazione del ricorrente sull'atto immediatamente lesivo della sua posizione giuridica che sarebbe l'atto applicativo per cui gli atti presupposti o comunque pregiudiziali, potrebbero essere disapplicati. Sulla natura del processo sui regolamento occorre rilevare che esso non può classificarsi come nuovo processo speciale solo perché viene previsto il potere di disapplicazione; questo potere, infatti, come si è cercato di dimostrare altrove, è connaturato alla funzione giurisdizionale per cui deve essere attributo a qualsiasi giudice. Il giudizio sui regolamenti è pur sempre un giudizio dinanzi al giudice amministrativo avente ad oggetto un atto lesivo da impugnare nei termini e che comprende la disapplicazione di una norma regolamentare, la quale, a sua volta, è al contempo fonte del diritto e atto amministrativo e della quale vengono disconosciuti gli effetti sul caso singolo. È pertanto limitativo affermare che ciò avvenga unicamente sulla base del principio della gerarchia delle fonti, dal momento che la disapplicazione regolamentare non è nient'altro che una manifestazione della disapplicazione provvedimentale. (220) D'altra parte questa appare la soluzione più convincente, mentre quella della immediata impugnazione della clausola escludente risulta eccessivamente onerosa per il privato. Difatti, non sempre è possibile prevedere sin dalla pubblicazione del bando l'effetto escludente della clausola, poiché questa potrebbe essere oggetto di interpretazioni contrarie da parte della commissione di gara. Quest'ultima potrebbe interpretare la clausola secondo il principio del favor partecipationis che escluderebbe una sua interpretazione formalistica. La mancata impugnazione nei termini porterebbe all'assurdo risultato di ritenere inammissibile un ricorso avverso un atto applicativo sorretto da un bando illegittimo. La soluzione più adeguata sarebbe quella di ammettere in via generale la possibilità di impugnazione congiunta del bando e del provvedimento applicativo, e ammettere la disapplicazione della clausola del bando. Infatti, se cade il presupposto della necessaria immediata impugnazione, si può ritenere concepibile un giudizio in cui il privato chieda la cognizione incidentale di legittimità del bando per disapplicarlo e mettere direttamente a confronto la norma primaria violata dal bando e il provvedimento di esclusione illegittimo. In definitiva, il potere di disapplicazione dell'atto generale può venire in rilievo tutte le volte in cui questo non sia stato ritualmente impugnato, allorché lo scrutinio di legittimità di un atto presupposto (non tempestivamente impugnato) sia propedeutico alla decisione del rapporto giuridico regolato dall'atto presupponente (oggetto del ricorso). Sul punto si vedano anche le considerazioni di F.G. Scoca, La prospettiva amministrativistica, in AA.VV., Nuove forme di tutela delle situazioni giuridiche soggettive nelle esperienze processuali: profili pubblicistici, Milano, 2004, 3, secondo il quale sarebbe del tutto inutile, al fine di verificare la legittimità dell'atto generale, arrivare al suo annullamento erga omnes, essendo la misura della disapplicazione più che satisfattiva della utilità che i ricorrenti intendono perseguire con la proposizione del ricorso avverso l'atto lesivo. In questo modo, peraltro, cadrebbe qualsiasi ostacolo “per estendere l'istituto anche agli atti amministrativi presupposti non tempestivamente impugnati”. (221) Come peraltro afferma autorevole dottrina, pur non condividendo la soluzione adottata dal Consiglio di Stato: R. Villata, Ancora “spigolature”, cit., 1517, per il quale tale decisione finirebbe per far propria la tesi secondo cui il giudice amministrativo ha il potere di disapplicare atti non impugnati in termini, dopo averne accertata d'ufficio l'illegittimità. (222) Che vi sia ancora una spiccata voglia di “oggettivizzazione” del processo amministrativo lo si può ricavare anche da alcune recenti norme. Si prenda ad esempio l'attribuzione alla Autorità garante della concorrenza e del mercato della legittimazione ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato” (art. 21-bis l. n. 287/1990, introdotto dal d.l. 35 d.l. n. 201/ 2011). In questo caso sembra di assistere alla introduzione di un pubblico ministero della concorrenza 168 che sconvolgerebbe i tradizionali canoni della giurisdizione amministrativa (sul punto si veda F. Cintioli, Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, in www.giustamm.it., 1/2012). Un altro elemento di riflessione è apportato dall'azione per l'efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici prevista dal d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198. Questa rappresenta un'assoluta novità nel panorama delle azioni esperibili dinanzi al giudice amministrativo. Infatti, questa azione non ha per oggetto il ripristino della legalità violata ovvero il conseguimento da parte del ricorrente del bene della vita a cui aspira, bensì il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, concetti che non evocano immediatamente la violazione di norme relative all'azione dei pubblici poteri. O meglio, accanto a ipotesi che potrebbero rientrare nella violazione di norme ve ne sono altre che, invece, sono riconducibili a comportamenti “antieconomici” o inefficienti della pubblica amministrazione. Il giudice, che ha giurisdizione esclusiva e non di merito, contrariamente a quanto previsto dalla originaria legge di delega, potrebbe entrare nelle maglie dell'organizzazione amministrativa e imporre le misure che ritiene più idonee per porre fine alle violazioni sopra citate. In particolare, se il giudice accerta la violazione, l'omissione o l'inadempimento da parte delle pubbliche amministrazioni o dei soggetti ad esse equiparati può ordinare di porvi rimedio anche se la legge non indica quali misure o provvedimenti possa adottare. Tale azione, che ha come scopo la tutela del principio del buon andamento della pubblica amministrazione, a ben vedere potrebbe far assumere al giudice un ruolo differente rispetto al passato, trasformandolo in giudice-amministratore, ordinando al soggetto pubblico di adottare le misure più opportune per il ripristino del corretto svolgimento della funzione pubblica. Sul punto occorre rilevare che a discapito delle apparenze tale azione rientra comunque nell'alveo della giurisdizione soggettiva poiché è ancorata a un interesse individuale. La decisione del giudice amministrativo in questi casi ha anche un effetto “correttivo”. Il privato aziona una sua posizione giuridica soggettiva richiedendo di rimuovere le inefficienze della pubblica amministrazione perché tali inefficienze gli hanno arrecato un pregiudizio. Alla base dell'azione vi è una posizione soggettiva personale e individuale del ricorrente differenziata rispetto alla generalità che probabilmente potrebbe qualificarsi come posizione di interesse legittimo. Si tratta, di un'azione volta alla condanna ad un facere specifico per la pubblica amministrazione, simile all'azione di adempimento. Ed, anzi, si può proprio affermare che si tratta di una azione volta all'esatto adempimento da parte della pubblica amministrazione, consistente nell'eliminazione di una disfunzione amministrativa. (223) F.G. Scoca, Risarcimento del danno, cit. 989; R. Villata, Ancora spigolature, cit. 1516. 169 QUESTIONI DI GIURISDIZIONE ED ESIGENZE DI COLLABORAZIONE TRA LE GIURISDIZIONI SUPERIORI Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, fasc.5, 2012, pag. 705 LUIGI MARUOTTI Classificazioni: COOPERAZIONE INTERNAZIONALE Sommario: 1. La rilevanza delle disposizioni sulla giurisdizione esclusiva. — 2. Le divergenze tra gli orientamenti della Corte di Cassazione e quelli del Consiglio di Stato. — 3. Il giudice degli ’interessi legittimi fondamentali'. — 4. L'ambito di applicazione dell'art. 111, ottavo comma, della Costituzione e l'esigenza di tenere conto dei lavori della Assemblea Costituente. 1. La rilevanza delle disposizioni sulla giurisdizione esclusiva. Il mio compito è quello di evidenziare quale è — in estrema sintesi — il possibile punto di vista di un giudice amministrativo, in tema di riparto della giurisdizione. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, vi è stato un processo riformatore per il quale non si può più dire che il criterio generale, di riparto della giurisdizione, si basa sulla distinzione tra diritti ed interessi. Ciò si poteva affermare solo nella prima fase storica della giustizia amministrativa e cioè da quando nel 1889 fu istituita la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, perché allora si trattava di interpretare le due leggi sul riparto, cioè quella di unificazione del 1865, allegato E, e quella del 1889 sul Consiglio di Stato. Oggi non si può più dire che il criterio generale si basa sulla distinzione tra diritti ed interessi. Infatti, le leggi talvolta hanno attribuito la giurisdizione al giudice civile (come la legge n. 689 del 1981 per alcune sanzioni amministrative pecuniarie, o altre leggi ad esempio in tema di diritto di asilo dello straniero), mentre più spesso le leggi hanno previsto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (con disposizioni ora trasfuse nell'art. 133 del Codice). Già nel corso del Novecento vi sono state tre fondamentali tendenze legislative che hanno inciso sui criteri di riparto. La prima tendenza legislativa è stata la progressiva emersione della giurisdizione esclusiva. Già nel 1923 la legge la previde nella materia del pubblico impiego, non solo per evitare le lungaggini collegate alla determinazione del giudice avente giurisdizione, ma anche per rafforzare la tutela del dipendente, col potere di sospensione e di annullamento di ogni atto dell'amministrazione, anche per il vizio di eccesso di potere. Nel 1971 la giurisdizione esclusiva ha riguardato anche i rapporti di concessione di beni e di servizi pubblici, in ragione degli interessi pubblici da soddisfare con la gestione di tali beni o servizi, sia in sede di emanazione di atti abilitativi, sia in sede di emanazione di atti di autotutela, quali l'annullamento, la revoca, la decadenza. Vi è stata dal 1990 in poi la proliferazione dei casi di giurisdizione esclusiva, connessa all'esercizio del potere pubblico. Basti pensare all'art. 11 della legge n. 241 del 1990, sugli accordi di diritto amministrativo, alla legge n. 481 del 1995 sugli atti delle Autorità indipendenti. La ratio legis è stata anche quella di evitare che sorgano dubbi sulla sussistenza della giurisdizione amministrativa, quando si tratti di atti espressione di pubblici poteri. Molto importante è la giurisdizione esclusiva nelle materie della urbanistica e della edilizia (ex art. 34 del d.lg. 80 del 1998, riscritto con la legge n. 205 del 2000 e ora trasfuso nell'art. 133 del Codice), perché ai soli fini della tutela giurisdizionale l'urbanistica riguarda l'uso del territorio, espressione che indica non solo la programmazione urbanistica e paesaggistica, gli atti abilitativi e repressivi in materia edilizia, ma anche il danno ambientale, la gestione dei beni paesaggistici, la localizzazione e la gestione 170 delle discariche di rifiuti, l'installazione e la gestione di impianti di produzione di energia elettrica (si tratta di tematiche tutte prese in considerazione dall'art. 133 del Codice). La seconda tendenza legislativa è stata l'analitica disciplina delle modalità di esercizio del potere. Mentre in precedenza vi erano leggi solo per alcuni specifici procedimenti (quello espropriativo, quello disciplinare nei confronti del dipendente pubblico), la legge n. 241 del 1990 ha indicato le regole essenziali per l'esercizio del potere e per l'emanazione degli atti autoritativi. Come si evince dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 2004, laddove c'è il potere vi è il procedimento amministrativo e al termine del procedimento amministrativo vi è l'atto autoritativo incidente sull'interesse legittimo. A mio avviso, l'interesse legittimo può essere definito come un ’miracolo dell'ordinamento', per il quale — a decorrere dall'entrata in vigore della legge del 1889 — ogni volta che vi è un atto autoritativo illegittimo il suo destinatario può chiedere al giudice amministrativo il suo annullamento. Tale regola sull'automatismo della configurabilità dell'interesse legittimo può però essere derogata dalle leggi che attribuiscano la giurisdizione al giudice civile (così come è avvenuto con la riforma che ha ‘privatizzato' gran parte dei rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti): sarebbe però auspicabile che tali leggi evitino quanto è avvenuto con tale ‘privatizzazione', e cioè che la conseguente inapplicabilità della legge n. 241 del 1990 degradi gli interessi legittimi a diritti privi di effettiva tutela, non potendosi più reagire in presenza di atti immotivati. La terza tendenza legislativa è stata quella di ammettere la tutela risarcitoria nel caso di lesione arrecata con un provvedimento illegittimo, lesivo di un interesse legittimo. Il codice civile del 1942, come tutti i codici civili europei, non aveva disciplinato le conseguenze dell'esercizio del pubblico potere. L'assenza di norme di diritto civile era stata affermata non solo dalla pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione fino al 1998, ma anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 35 del 1980 e con l'ordinanza n. 165 del 1998. Prima con la legge n. 142 del 1992, poi con l'art. 35 del d.lg. n. 80 del 1998 e con la legge n. 205 del 2000 (le cui regole sono state in parte modificate dal Codice del processo amministrativo), il legislatore ha disciplinato la responsabilità dell'Amministrazione per la lesione arrecata all'interesse legittimo, introducendo norme che la Corte Costituzionale ha già considerato conformi alla costituzione con le sentenze nn. 292 del 2000, 204 del 2004 e 191 del 2006. 2. Le divergenze tra gli orientamenti della Corte di Cassazione e quelli del Consiglio di Stato. Malgrado questo quadro normativo apparentemente chiaro, vi sono state divergenze di vedute tra la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato. Tuttavia, a mio avviso si può formulare l'auspicio che le divergenze possano essere superate, poiché la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato (qualificati entrambi come ‘giurisdizioni superiori' dall'art. 135 della Costituzione) non possono che tenere conto degli inviolabili principi desumibili dai lavori della Assemblea Costituente e dalle sentenze della Corte Costituzionale. Vorrei evidenziare dapprima quali sono i più salienti punti di divergenza tra la Cassazione ed il Consiglio di Stato, per poi sottolineare i principi costituzionali e formulare alcune riflessioni. La Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato hanno spesso fatto riferimento a categorie giuridiche inconciliabili tra loro. Individuo alcune aree tematiche in cui vi è stata l'affermazione di opposti orientamenti giurisprudenziali. La prima area tematica è quella riguardante la patologia dei provvedimenti amministrativi. Per il Consiglio di Stato, già prima dell'art. 21 septies della legge n. 241 del 1990, e a maggior ragione dopo la sua entrata in vigore, ogni vizio del provvedimento amministrativo comporta la violazione di legge e dunque l'annullabilità dell'atto. Non importa se il vizio è grave o meno grave: vi è sempre la violazione di legge. 171 Solo se la legge sancisce la nullità di un atto amministrativo, si è in presenza di un atto privo di effetti (si pensi alla legge n. 444 del 1994, in tema di atti emessi in violazione della normativa sulla proroga degli organi amministrativi ad tempus, o al testo unico n. 3 del 1957, se vi è un atto di assunzione non preceduto dal necessario concorso). Invece, per le Sezioni Unite in alcuni casi la violazione di legge, se grave, comporta la carenza di potere e dunque la nullità dell'atto. In materia espropriativa, la Cassazione ha affermato la nullità della dichiarazione di pubblica utilità emessa in violazione dell'art. 13 della legge del 1865, poi abrogata dal testo unico sugli espropri, e la nullità del decreto di esproprio emesso dopo la scadenza del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità. La carenza di potere (con la conseguente giurisdizione ordinaria) è stata in un lontano passato ravvisata anche quando si ravvisava l'assenza dell'urgenza, posta a base di un atto contingibile ed urgente, ma tale orientamento non poteva essere condivisibile, per il semplice fatto che in materia, sin dalla legge del 1890 sulle giunte provinciali amministrative, vi era la giurisdizione amministrativa estesa al merito. Le divergenze sopra esposte non dovrebbero più esservi, sia perché in materia espropriativa vi è la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, che quindi può ravvisare interessi legittimi senza essere smentito, sia perché l'art. 21 septies della legge n. 241 del 1990 ha abiurato la pseudocategoria della carenza di potere, affermando che la nullità dell'atto si ha nei casi di ‘difetto assoluto di attribuzione', cioè nel caso di scuola in cui ad esempio un provveditore agli studi ritiri una patente di guida o un funzionario di una asl emani un decreto di esproprio. Quindi, non nullità, ma annullabilità. E va segnalato che l'art. 133 del Codice del processo amministrativo ha ora previsto la giurisdizione esclusiva in tema di impugnazione degli atti contingibili ed urgenti, in coerenza con l'orientamento legislativo di restringere le ipotesi di giurisdizione di merito. Altre divergenze si rinnovano periodicamente sugli atti di autotutela, quando si tratti di contributi di denaro o di sovvenzioni pubbliche. Le Sezioni Unite e il Consiglio di Stato concordano che i dinieghi di sovvenzioni incidano su interessi legittimi. Quando si tratta di atti di autotutela, la giurisprudenza è invece più variegata. Vi è pure concordia sulla natura autoritativa degli atti di annullamento delle sovvenzioni, con conseguente giurisdizione amministrativa di legittimità. Vi è invece un contrasto quando la sovvenzione è revocata o dichiarata decaduta, ad esempio perché il beneficiario non ha utilizzato la somma e si è reso inadempiente, lasciando incompiuto il capannone industriale. I giudici amministrativi tendono a ravvisare nella revoca e nella decadenza un provvedimento autoritativo di autotutela, da motivare e da far precedere dall'avviso di avvio del procedimento, e dunque incidente su interessi legittimi. Invece, per le Sezioni Unite — a volte seguite dalla giurisprudenza amministrativa per ragioni di riguardo istituzionale — l'accoglimento dell'istanza di sovvenzione fa sorgere un diritto, di cui conosce il giudice civile anche quando l'amministrazione ritira l'atto per inadempimento del beneficiario. In realtà, credo che la giurisdizione amministrativa in tal caso derivi da tre distinte ragioni. La giurisdizione amministrativa deriva in primo luogo dalla incontestabile natura autoritativa dell'atto di autotutela e in particolare della revoca o della decadenza, in secondo luogo, dalla chiara previsione dell'art. 7 del Codice del processo, sulla rilevanza dell'atto espressione di un pubblico potere e, in terzo luogo, dalla natura concessoria dell'atto di sovvenzione (espressamente affermata dall'art. 12 della legge n. 241 del 1990), sicché vi è la giurisdizione esclusiva ex art. 133 del Codice, sui rapporti di concessione di un bene pubblico (anche il denaro è un bene). Altri contrasti riguardano la contestazione degli atti vincolati. 172 Talvolta la Corte di Cassazione afferma che essi incidono su diritti soggettivi. Il Consiglio di Stato, invece, così come la Corte Costituzionale con la sentenza n. 127 del 1998, afferma che mantiene il suo carattere autoritativo e incide su un interesse legittimo quel provvedimento che dovrebbe avere uno specifico contenuto ed invece ne ha uno diverso (incide su un interesse legittimo anche l'atto di esclusione da un concorso, basata sull'erronea lettura del timbro postale di trasmissione della domanda di partecipazione). Ma anche in tal caso la questione si potrebbe considerare superata, se si tiene conto dell'art. 31, comma 3, del Codice, che presuppone la giurisdizione amministrativa anche quando si tratti di ‘attività vincolata'. Anche in tema di discrezionalità tecnica alcune sentenze hanno ravvisato la lesione di diritti soggettivi, ma tale orientamento non può essere condiviso, perché si tratta di atti autoritativi di esercizio del potere pubblico (sono impugnabili innanzi al giudice amministrativo l'atto di imposizione di un vincolo paesaggistico, culturale o archeologico, l'autorizzazione paesaggistica o il relativo diniego, le determinazioni delle Autorità indipendenti, l'atto con cui è respinta l'istanza di un magistrato sulla dipendenza di una sua infermità da causa di servizio). Differenti categorie giuridiche sono state affermate anche sulla risarcibilità della lesione arrecata all'interesse legittimo. Già si è visto come nessun codice civile europeo abbia disciplinato la responsabilità derivante dall'illegittima emanazione di un atto espressione di potere. La Corte di Cassazione, a partire dalle note sentenze n. 500 e 501 del 1999, ha ritenuto applicabile l'art. 2043 del codice civile. Invece, la preferibile giurisprudenza amministrativa, confortata dall'ordinanza n. 165 del 1998 e dalle sentenze n. 204 del 2004 e 191 del 2006 della Corte Costituzionale, ritiene che si tratti di una responsabilità ‘amministrativa' in senso tecnico, sottoposta a peculiari regole di diritto pubblico; ciò ora è desumibile dalle fondamentali disposizioni dell'art. 30 del Codice del processo amministrativo. La diversità dei sistemi giuridici di riferimento comporta divergenze di vedute anche sulle tecniche di tutela. Sino alla sentenza n. 191 del 2006 della Corte Costituzionale, le Sezioni Unite hanno affermato la concorrente proponibilità di una domanda ‘autonoma risarcitoria' dinanzi al giudice civile, mentre dopo tale sentenza hanno affermato che la domanda risarcitoria è sì proponibile soltanto al giudice amministrativo, ma anche prescindendo dal rispetto del termine di impugnazione dell'atto lesivo. Invece, per il Consiglio di Stato va applicato il principio di non contraddizione (conosciuto anche nel diritto societario, associativo, condominiale e nel diritto tributario), per il quale chi non contesta entro il termine di decadenza un atto lesivo (una delibera assembleare, un licenziamento) non può poi chiedere il risarcimento dei danni derivanti dall'atto non impugnato tempestivamente. Ora l'art. 30 del Codice del processo amministrativo non a caso ha ribadito il principio di non contraddizione, disponendo che la domanda risarcitoria possa essere proposta entro il termine di centoventi giorni, cioè quello decorso il quale l'atto lesivo diventa inoppugnabile, per decorrenza del termine per il ricorso straordinario al Capo dello Stato. Ulteriori contrasti, ora superati dallo ius superveniens, hanno riguardato l'impugnazione delle sanzioni pecuniarie in materia urbanistica ed edilizia. Con la sentenza n. 18040 del 2008, le Sezioni Unite hanno affermato che vi era la giurisdizione civile, con la competenza del giudice di pace, ai sensi dell'art. 22 bis della legge n. 689 del 1981, come modificata dal decreto legislativo n. 507 del 1999. Questo orientamento sembrava particolarmente opinabile e di fatto in contrasto con la quotidiana giurisprudenza amministrativa che si occupava di tali ricorsi. Infatti, gli atti che irrogano sanzioni pecuniarie in materia urbanistica ed edilizia sono espressione di pubblici poteri e già rientra vano nell'ambito di applicazione dell'art. 34 del decreto legislativo n. 80 del 173 1998, trasfuso nella legge del 2000. Ma anche il richiamo all'art. 22 bis della legge n. 689 del 1981 non sembrava pertinente. Infatti, vi era un'altra specifica disposizione, sulla giurisdizione esclusiva per le sanzioni pecuniarie in materia urbanistica ed edilizia, e cioè l'articolo 16 della legge n. 10 del 1977, poi abrogato dal testo unico sull'edilizia, entrato in vigore il 30 giugno 2003, ma solo perché nel frattempo si era sovrapposta la più ampia giurisdizione esclusiva prevista dalla legge n. 205 del 2000. Dovrebbero aver chiuso ogni questione interpretativa gli articoli 7 e 133 del Codice, sul rilievo degli atti espressione del potere e dell'ambito della giurisdizione esclusiva, nonché l'art. 22 bis della legge n. 689 del 1981, che ha abrogato l'art. 34 del decreto legislativo n. 150 del 2011. I giudici amministrativi possono quindi serenamente esercitare i propri poteri sui ricorsi contro le sanzioni amministrative pecuniarie in materia urbanistica ed edilizia. Infine, richiamo un'ultima tematica, sulla tutela dei diritti fondamentali. Alcune tendenze giurisprudenziali e dottrinali ritengono riservate al solo giudice civile le controversie sui diritti fondamentali, anche quando queste siano proposte nei confronti della pubblica amministrazione. Alla luce dei principi costituzionali e della giurisprudenza della Corte Costituzionale, invece riterrei opportune maggiori cautele per la individuazione sia dei veri diritti fondamentali, sia del giudice che decida sulle relative pretese. Per esigenze di sintesi, non esamino quali siano le varie classificazioni dei diritti fondamentali, effettuate da storici, filosofi, internazionalisti, costituzionalisti. La mia ottica ora riguarda l'ordinamento nazionale, sotto il profilo delle pretese tutelabili e del riparto della giurisdizione. Un rilievo particolare hanno i diritti fondamentali di prima generazione, quelli innati ed universali, affermatisi col giusnaturalismo (già sulla base di una intuizione di Ulpiano, del III secolo), e resi anche oggetto di tutela transnazionale. Si tratta dei diritti inerenti alla integrità psico-fisica (al rispetto della vita, della salute, della esistenza, dell'onore e del decoro della persona) ed alle libertà individuali (quella religiosa, di pensiero, di coscienza, di espressione, di informazione). I comportamenti che ledono tali diritti sono anche penalmente vietati e il giudice ordinario, sia in sede penale che in sede civile, conosce delle ’vie di fatto', cioè dei comportamenti illeciti, anche di appartenenti alle forze dell'ordine o in genere della pubblica amministrazione. In realtà, la Costituzione italiana all'art. 32 definisce come fondamentale il solo diritto alla salute, ma si può condividere una nozione più ampia, per cui sono fondamentali tutti i diritti previsti da ‘norme fondamentali', non solo dalla Costituzione, ma anche dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dalla Carta di Nizza, che ha il medesimo valore giuridico dei trattati, a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona il 1º dicembre 2009. Ma il diritto alla salute, così come il diritto all'istruzione, diventa ‘di seconda generazione', quando non si tratta più soltanto di tutelarlo da altrui comportamenti illeciti, ma quando l'ordinamento attribuisce pretese giuridicamente tutelate a ricevere prestazioni da parte della pubblica amministrazione: in tal senso, collimano l'art. 32 della Costituzione e l'art. 35 del Trattato di Nizza, per il quale la prevenzione sanitaria e le cure mediche spettano nei soli limiti stabiliti dalle legislazioni nazionali. Si può parlare al riguardo di diritti fondamentali ‘di seconda generazione' o di diritti sociali, che riguardano la valorizzazione della persona e l'uguaglianza sostanziale, auspicata dall'art. 3, secondo comma, della Costituzione. Si tratta di istanze ed esigenze disciplinabili dalle leggi e vi è la tutela giurisdizionale degli interessati nei confronti delle scelte politiche o amministrative effettuate dalle autorità competenti. A volte, sussistono diritti ad ottenere somme di denaro, che per legge sono conosciuti dal giudice civile (si pensi alle controversie di natura previdenziale e assistenziale, ai sensi dell'art. 442 c.p.c.). 174 Altre volte, le leggi consentono di presentare una istanza, il cui accoglimento comporta la nascita del diritto di ricevere la prestazione, con un atto ampliativo della sfera giuridica del richiedente. L'istanza talvolta dà luogo alla giurisdizione esclusiva, altre volte a quella di legittimità del giudice amministrativo. Sussiste la giurisdizione esclusiva ad esempio quando vi sono atti in materia del pubblico servizio sanitario, all'esito di un procedimento amministrativo, per l'art. 133, comma 1, lettera b), del Codice. In altri casi vi è la giurisdizione di legittimità. I diritti alla tutela della salute, all'istruzione, alla casa, al lavoro, sono in realtà interessi legittimi pretensivi, quando si chieda di ricevere una ‘prestazione' (ad esempio il rimborso di una spesa sostenuta per un intervento chirurgico all'estero e da porre a carico del SSN, potendo l'amministrazione esercitare la propria discrezionalità tecnica e valutare se sussista la patologia, se l'intervento sia stato necessario e se poteva essere effettuato in Italia): alla stessa istanza può seguire un diniego, purché con adeguata motivazione, basata sulla esistenza di risorse o sulla peculiarità del caso. Allo stesso modo, sono configurabili interessi legittimi se vi sono istanze di assegnazione di case pubbliche, domande di partecipazione a concorsi pubblici di assunzione, istanze di ammissione o a corsi universitari o a classi scolastiche, o per l'assegnazione di insegnanti di sostegno. L'amministrazione competente per legge può accogliere le istanze, sulla base delle risorse disponibili e valutando se sussistono i presupposti. Sono convinto che, oltre ai diritti fondamentali, vi sono gli ‘interessi legittimi fondamentali', per la tutela dei bisogni fondamentali, legati al progresso materiale e civile della nazione e alle risorse disponibili. Tali risorse a volte sono direttamente fissate dalla legge, altre volte sono determinate dall'amministrazione competente per legge. 3. Il giudice degli ‘interessi legittimi fondamentali'. A questo punto, va verificato quale giudice nel nostro ordinamento abbia giurisdizione, quando si tratti della mancata soddisfazione dei bisogni essenziali. È agevole la soluzione. I dinieghi che respingono le istanze sono impugnabili al giudice amministrativo, perché incidono su interessi legittimi. Già nell'Ottocento si riteneva pacifico che non fossero configurabili posizioni di diritto, quando era emanato un atto di imperio. Perciò fu istituita nel 1889 la Quarta Sezione del Consiglio di Stato. Anche ora si può affermare che, rispetto al provvedimento autoritativo, espressione di un pubblico potere, non vi è un diritto, ma un interesse legittimo. Adesso questo principio è stato affermato dall'art. 7 del Codice, perfettamente conforme al principio desumibile dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 191 del 2006, per cui il giudice amministrativo è il giudice naturale dell'esercizio della funzione pubblica. Specifiche considerazioni vanno svolte sul giudice che — avendo giurisdizione nel caso di mancato accoglimento delle istanze — può conseguentemente esaminare la ragionevolezza della scelta politica o amministrativa sulla quantificazione delle risorse poste a disposizione dei bisogni fondamentali. Innanzitutto, qualora vi sia il silenzio sulla istanza, sussiste la giurisdizione amministrativa e si applica l'art. 31 del Codice del processo amministrativo. Qualora invece l'istanza sia respinta, può accadere che tale rigetto — che incide su un interesse legittimo — dia attuazione ad una scelta di una istituzione dell'Unione Europea ovvero di una istituzione nazionale. Se l'amministrazione respinge l'istanza in applicazione di un atto dell'Unione Europea, il giudice amministrativo — se ravvisa un vizio di quest'atto — può sollevare una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia della Unione Europea, ai sensi dell'art. 267 del TFUE. 175 Ove l'amministrazione respinga l'istanza in applicazione, invece, di una scelta di una Autorità nazionale, vanno distinte le seguenti tre ipotesi. Se l'amministrazione respinge l'istanza in applicazione di una legge (che ad esempio riduca la spesa sanitaria, fissi tetti massimi di spesa e vieti alcune prestazioni o ne indichi la tempistica), il giudice amministrativo, se ravvisa profili di incostituzionalità, può emanare una ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale. Se invece il provvedimento respinge l'istanza in applicazione di una legge che risulti in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, attualmente la Corte Costituzionale ravvisa la propria competenza a decidere sulla conseguente violazione dell'art. 117 della Costituzione; io invece riterrei preferibile che — come in altri sistemi europei, rispetto ai quali non può esservi uno standard inferiore di incondizionata, immediata e piena tutela — ogni giudice nazionale possa ravvisare la prevalenza della disposizione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Infine, qualora il diniego dia applicazione ad un regolamento di una autorità amministrativa o ad un atto generale (ad esempio, ad un atto regionale che abbia fissato tetti di spesa), il giudice della scelta sulle risorse è esclusivamente il giudice amministrativo, che può annullare il regolamento e l'atto applicativo, ove questi risultino in contrasto con una fonte superiore. Ritengo dunque doverose le seguenti conclusioni. Per i diritti fondamentali di prima generazione (quelli incondizionati, sulla tutela della vita, dell'integrità e dell'esistenza della persona), le relative lesioni sono conosciute dal giudice penale e da quello civile. Quando si tratti di diritti fondamentali o sociali di seconda generazione, cioè delle pretese connesse a bisogni essenziali, l'ordinamento prevede che vari giudici conoscono dei dinieghi e accertino se siano state rispettate le fonti superiori. Il giudice civile (col rito del lavoro) decide le controversie previdenziali e quelle assistenziali (e potrebbe sollevare questioni di costituzionalità sulle leggi che riducano le prestazioni erogabili in misura la cui intollerabilità può essere decisa solo dalla Corte Costituzionale). Il giudice amministrativo decide le controversie quando l'amministrazione è silente o respinge una istanza attinente ad un interesse legittimo pretensivo, cioè a una pretesa connessa a bisogni essenziali su cui si esprime un atto autoritativo. In sede di impugnazione di tale atto, il giudice amministrativo può valutare la legittimità dei regolamenti e degli atti generali con cui l'amministrazione abbia effettuato le valutazioni consentite dalla legge, ovvero può sollevare la questione di legittimità costituzionale della legge applicata col rigetto della istanza. Ciò che importa è il rispetto delle regole sulla sindacabilità delle scelte politiche o amministrative relative all'utilizzo delle risorse finanziarie e patrimoniali. Tali risorse vanno gestite con ragionevolezza e senza ingiustificate disparità di trattamento. In caso contrario, l'ordinamento consente la rimozione degli atti di scelta sull'utilizzo delle risorse, o da parte della Corte Costituzionale, se si tratta di leggi, o da parte del giudice amministrativo, se si tratta di regolamenti amministrativi o di atti generali. 4. L'ambito di applicazione dell'art. 111, ottavo comma, della Costituzione e l'esigenza di tenere conto dei lavori della Assemblea Costituente. Passo ora alle conclusioni sul riparto della giurisdizione, che posso ottimisticamente formulare, auspicando che le Sezioni Unite tengano conto della bontà delle ragioni che il Consiglio di Stato ed i TAR pongono a base delle sentenze che ravvisano la propria giurisdizione. Due auspici, uno sulla puntuale applicazione dell'art. 111, ottavo comma, della Costituzione, l'altro sul rigoroso rispetto delle leggi sul riparto della giurisdizione. Il primo auspicio è che le Sezioni Unite — quando sussiste la giurisdizione amministrativa di legittimità, di merito o esclusiva — non intendano sindacare le modalità di esercizio di tale 176 giurisdizione, eccedendo i poteri attribuiti dall'art. 111, ottavo comma, della Costituzione. Per una consolidata giurisprudenza, riportata nei manuali universitari, le Sezioni Unite possono verificare il rispetto dei limiti ‘esterni' della giurisdizione, e cioè possono annullare la sentenza del Consiglio di Stato solo quando abbia deciso la controversia spettante alla giurisdizione del giudice civile, contabile o speciale, ovvero abbia esercitato una giurisdizione di merito quando sussista solo quella di legittimità. Invece, le Sezioni Unite non possono sindacare i cd limiti interni della giurisdizione, e cioè sindacare come la causa sia stata decisa, anche per i suoi profili processuali. Talvolta, le Sezioni Unite hanno sindacato i cd limiti interni della giurisdizione, al di là di quanto consentito dall'art. 111, ottavo comma: basti pensare alle celebri, ma da me non condivise, sentenze n. 30254 del 2008 e n. 736 del 2012. Sul punto, sono certo che si tratta di orientamenti minoritari e da considerare isolati. È stata molto chiara la Corte Costituzionale, con la già citata sentenza n. 77 del 2007, al § 7, nell'affermare che — quando sussiste la giurisdizione amministrativa, anche esclusiva — la Corte di Cassazione non può vincolare il Consiglio di Stato “sotto alcun profilo quanto al contenuto, di merito o di rito” della sua decisione: quando vi è la giurisdizione amministrativa, senza eccezione alcuna il Con siglio di Stato è la giurisdizione superiore avente la funzione di nomofilachia. Alle osservazioni della Corte Costituzionale ne aggiungerei altre, basate sul decisivo rilievo dei lavori dell'Assemblea Costituente. L'Assemblea Costituente ha attribuito alla Corte di Cassazione il potere di decidere le questioni di giurisdizione, dopo analitiche discussioni della legislazione ordinaria sui rapporti tra la stessa Corte ed il Consiglio di Stato. Era infatti vigente l'art. 48 del t.u. 1054 del 1924 (riproduttivo sul punto dell'art. 40 del testo unico n. 638 del 1907), per il quale la Corte di Cassazione può annullare le sentenze del Consiglio di Stato “soltanto per assoluto difetto di giurisdizione”: l'art. 48 è ancora in vigore ed ancora va applicato dalla Corte di Cassazione. La disposizione dell'art. 111, ottavo comma, contiene una norma ‘dinamica', da leggere unitamente all'art. 103 della Costituzione: l'Assemblea Costituente, nel consentire al legislatore ordinario l'introduzione di ulteriori casi di giurisdizione esclusiva, ha previsto senza eccezioni la regola sulla limitata impugnabilità delle decisioni del Consiglio di Stato, per i soli motivi inerenti alla giurisdizione (ovvero soltanto per assoluto difetto di giurisdizione). In altri termini, la Costituzione consente che la legge ordinaria, nel prevedere la giurisdizione esclusiva sulle controversie riguardanti diritti, incida anche sulla giurisdizione superiore avente la funzione nomofilattica nella relativa materia. Ove le Sezioni Unite intendano dunque sindacare le sentenze del Consiglio di Stato al di là di quanto consentito dall'art. 48, mi sembrerebbe necessario un ’passaggio intermedio', e cioè una sentenza di incostituzionalità della medesima disposizione (sentenza che ritengo molto improbabile, proprio perché l'art. 48 è stato il fulcro del dibattito svolto presso l'Assemblea Costituente e la base della sua scelta istituzionale). Condivido pienamente quanto autorevolmente affermato dal Primo Presidente della Corte di Cassazione nel corso dell'incontro di studio svoltosi il 29 settembre 2010 (il cui resoconto è stato pubblicato a cura dell'Ufficio del massimario e del ruolo della Corte Suprema): una disposizione riguardante il riparto della giurisdizione va interpretata nel suo chiaro significato testuale e va dunque applicata, salva la possibilità di sollevare una questione di costituzionalità, ove ve ne siano i relativi presupposti. Le Sezioni Unite, in altri termini, non possono sostituirsi alla Corte Costituzionale, sulla base di una interpretazione ’costituzionalmente orientata', in realtà contrastante col dato testuale della legge (addirittura quando essa sia stata ritenuta conforme alla Costituzione dalla stessa Corte Costituzionale o 177 preventivamente, addirittura, dalla Assemblea Costituente). Il secondo auspicio riguarda il rispetto istituzionale che compete al Consiglio di Stato nel sistema costituzionale. Rilevano in particolare gli articoli 103, 135 e 111. Per l'articolo 103, la tutela degli interessi legittimi spetta alla giurisdizione amministrativa. Perciò risulta addirittura costituzionalmente imposta la scelta della legge che ha attribuito in via esclusiva alla giurisdizione amministrativa le domande risarcitorie nel caso di lesione di interessi legittimi. Questi hanno ottenuto la tutela d'annullamento con la riforma del 1889 e poi la tutela risarcitoria con le prima richiamate riforme realizzatesi tra il 1992 ed il 2000. Quanto all'articolo 135 Cost., sia la Corte di Cassazione che il Consiglio di Stato sono ‘giurisdizioni superiori', nel senso che vanno considerati come organi istituzionali equivalenti, di vertice delle due giurisdizioni. Anche l'art. 135 corrobora il principio — ribadito dalla Corte Costituzionale — per cui la Corte di Cassazione non può sindacare le modalità con cui il Consiglio di Stato eserciti la giurisdizione attribuitagli dalla legge. Quanto all'art. 111, ottavo comma, auspico vivamente che le Sezioni Unite — qui autorevolmente rappresentate — esercitino le proprie funzioni tenendo sempre presenti le pagine dei lavori della Assemblea Costituente (da A.C. 2562 a 2594). Sono passati 121 anni dal caso Laurens, in cui le Sezioni Unite nel 1891 ritennero che un armatore navale non potesse chiedere l'annullamento di un ordine ministeriale che vietava di utilizzare una propria nave. Sono passati 115 anni dal caso Trezza, in cui le Sezioni Unite nel 1897 affermarono che il secondo classificatosi in una gara d'appalto non potesse impugnare l'atto di aggiudicazione. E sono passati 81 anni dal caso delle Terme Stabiane, in cui le Sezioni Unite ritennero che l'aggiudicatario di una gara d'appalto non potesse chiedere l'annullamento dell'atto governativo che aveva rimosso gli atti di gara. E altre recenti sentenze delle Sezioni Unite, come si è ricordato, hanno annullato sentenze del Consiglio di Stato per quelli che sono i cd limiti interni della giurisdizione. Al riguardo, un ex Presidente della Corte Costituzionale (il Caianiello) ha sostenuto nel suo Manuale che le sentenze delle Sezioni Unite sarebbero nulle ed inefficaci per carenza di potere, quando annullino le sentenze del Consiglio di Stato al di là dei limiti previsti dall'art. 111, ottavo comma. Personalmente, ritengo preferibile sostenere invece che il Consiglio di Stato possa sollevare un conflitto di attribuzione innanzi alla Corte Costituzionale, che nel disegno costituzionale è la sede naturale dove vanno decisi i conflitti tra gli organi le cui funzioni sono salvaguardate dalla Costituzione. Certo, non auspico che si verifichino i presupposti di un così grave conflitto, ma è certo che la Costituzione non ammette ‘zone franche', perché tutti, proprio tutti, devono attenersi ai propri poteri come delineati dalla Carta Fondamentale. Ancora personalmente, ritengo che da tempo sia giunto il momento di una riforma costituzionale che istituisca un Tribunale dei conflitti a composizione mista. Una commissione governativa nel 1907 ritenne che i tempi non erano ancora maturi, perché allora non tutti riconoscevano la natura giurisdizionale della Sez. IV del Consiglio di Stato. Ora nel disegno costituzionale risulta in modo chiaro l'unità funzionale della giurisdizione e pertanto non sussistono più ostacoli alla istituzione di tale Corte. Come è noto, in Francia le questioni di giurisdizione sono decise dal 1872 dal Tribunale dei Conflitti, con una composizione paritaria di magistrati della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato e col potere del Ministro della giustizia di decidere nel caso di parità di voti (così i magistrati sono stimolati 178 a trovare soluzioni condivise). Grazie alla istituzione del Tribunale dei Conflitti, in Francia si è formata una giurisprudenza stabile e da tutti condivisa: dal 1872, solo in dodici casi vi sono state soluzioni ‘a maggioranza'. In attesa di una riforma costituzionale, auspicherei che una legge ordinaria integri le Sezioni Unite con due componenti del Consiglio di Stato quando si tratti di questioni di giurisdizione riguardanti tale Istituto: in tal modo, si avrebbe una circolazione di idee e una collaborazione istituzionale che gioverebbero alla certezza del diritto, alla ragionevole durata dei processi, alla effettività della tutela. Sin dalla fine dell'Ottocento, i giudici amministrativi hanno elaborato regole e istituti che hanno realizzato l'effettività della tutela. La mia impressione è che talvolta le incomprensioni o la mancanza di dialogo tra i giudici civili e quelli amministrativi derivino dalla assenza di meccanismi istituzionali che consentano la piena collaborazione tra le Istituzioni e la convergenza sulle categorie giuridiche rilevanti. In attesa di riforme sulla istituzione del Tribunale dei Conflitti o sulla integrazione — con legge ordinaria — dei collegi delle Sezioni Unite, ben vengano questi convegni, utili per uno scambio di punti di vista e per conoscere meglio le diverse reciproche posizioni. In ogni caso, affinché nel frattempo si formi una giurisprudenza per quanto possibile stabile e condivisa sui criteri di riparto, riterrei indispensabile che tutti abbiano come punti di riferimento i lavori della Assemblea Costituente e le sentenze della Corte Costituzionale. Soltanto quando ci sarà tale condivisione il dibattito potrà incentrarsi sulle due tematiche che — consentitemi — più mi stanno a cuore, e cioè sulla effettività della tutela delle posizioni salvaguardate dalle regole sostanziali e sulla ragionevole durata del processo. E soltanto quando si realizzerà tale condivisione si potrà tendere all'effettivo conseguimento dei valori per i quali noi tutti siamo qui, e cioè potrà aversi l'effettività della tutela di chi sia leso da atti o comportamenti della pubblica amministrazione, e, dunque, un sistema di giustizia amministrativa che reprima le illegalità e che contenga regole addirittura idonee a prevenire gli illeciti e a farli diventare rare eccezioni. 179 L'ILLEGITTIMITÀ DEGLI ATTI AMMINISTRATIVI PER VIZI DI FORMA DEL PROCEDIMENTO E LA TUTELA DEL CITTADINO (*) Diritto Amministrativo, fasc.3, 2011, pag. 471 EBERHARD SCHMIDT-AßMANN Classificazioni: ATTO AMMINISTRATIVO - In genere I. La regolamentazione dei vizi procedimentali nella legge sul procedimento amministrativo del 1976 (VwVfG). — 1. Tre regolamentazioni di « fiancheggiamento », in sintesi; a) Chiarificazione (§ 44 VwVfG); b) Possibilità di una « sanatoria » (§ 45 VwVfG); c) Non impugnabilità degli atti endoprocedimentali dell'autorità (§ 44a VwGO) (Legge sul processo amministrativo). — 2. Irrilevanza per mancanza di causalità (§ 46 VwVfG); a) Storia della previsione normativa: formulazioni di ampiezza diversa; b) La storia del dibattito scientifico: Pro e contro; aa) Incongruenze di politica del diritto; bb) Pregiudizio per la tutela giurisdizionale; cc) Diritti fondamentali (« Tutela dei diritti fondamentali attraverso il procedimento » verso « situazioni di diritti fondamentali multipolari »): un argomento ambivalente; dd) Principio dello Stato di diritto e « discrezionalità sanzionatoria »; ee) Diritto europeo (« precetto di effettività »): un argomento ambivalente. — 3. Un primo risultato: un pragmatismo illuminato. — II. Alcune questioni concrete relative all'interpretazione del § 46 VwVfG. — 1. Quali violazioni procedimentali sono comprese?; a) Non sono compresi i vizi assoluti; b) Sono compresi i vizi relativi; c) In particolare, la comunicazione dell'avvio del procedimento. — 2. Quali tipi di decisioni amministrtive sono compresi?; a) La precedente realtà giuridica: la teoria dell'« unica decisione giusta »; b) Nuova formulazione: causalità - « continuità » o « cambiamento di prospettiva »? — 3. L'evidenza e il problema dell'onere della prova. — 4. Gli effetti giuridici. Esclusione della pretesa all'annullamento (o di più)? — 5. Excursus: Regole speciali relative a vizi del procedimento in altri settori giuridici e in altre forme di attività; a) Corrispondente applicazione all'attività di diritto privato dell'amministrazione; b) L'agire in forma normativa: la dottrina della nullità versus « il principio della conservazione dei piani ». — III. La discussione intorno alla riforma del diritto amministrativo e il futuro ruolo del diritto del procedimento amministrativo. — 1. Le tre tradizionali caratteristiche del diritto amministrativo tedesco. — 2. Convergenti sviluppi in Europa: tra una crescente « sostanzializzazione » e una crescente « procedimentalizzazione »; a) Verso un maggior rilievo del diritto sostanziale e un rafforzamento della tutela giurisdizionale; b) Necessità di una più ampia procedimentalizzazione. — 3. Un regime giuridico dei vizi adeguato funzionalmente, quale compito della scienza amministrativa europea. Per ogni ordinamento giuridico il trattamento dei vizi di forma e del procedimento rappresenta una questione centrale, perché il diritto stesso è per parti importanti forma e procedura. Ciò vale in particolar modo per il diritto amministrativo e specialmente per l'atto amministrativo, quale forma dell'agire amministrativo particolarmente importante e ampiamente utilizzata (1). La codificazione del procedimento amministrativo del 1976 (Verwaltungsverfahrensgesetz: VwVfG) ha perciò sin dall'inizio attribuito valore a questo tema: essa ha creato, attraverso numerose disposizioni tra loro collegate, un sistema di regole che si fonda sui seguenti tre assunti (2): — Primo: le violazioni delle disposizioni sulla forma e sul procedimento sono vizi giuridici e portano fondamentalmente, al pari delle violazioni del diritto sostanziale, alla illegittimità dell'atto amministrativo interessato. — Secondo: l'illegittimità può avere diverse conseguenze: nullità ex lege, annullabilità (impugnabilità, ritirabilità), conversione, risarcimento del danno e altre. Per stabilire le conseguenze (dell'illegittimità) il legislatore e i tribunali godono in certi limiti della cosiddetta « discrezionalità sanzionatoria ». — Terzo: le prescrizioni relative alla forma e al procedimento hanno nei confronti del diritto sostanziale (solo) una funzione servente. Questo giustifica, in una certa misura, che le conseguenze 180 delle loro violazione siano sanzionate in modo meno grave delle violazioni del diritto sostanziale (3). Già a questo punto viene in evidenza una ambivalenza, che durante il contributo diventerà progressivamente più chiara. La mia relazione (I) innanzitutto ricostruirà, in sintesi, questo sistema di regole della legge sul procedimento amministrativo; (II) successivamente prenderà in esame alcune questioni concrete riguardanti specialmente quella previsione normativa che in Germania è molto controversa e che corrisponde all'art. 21 octies della legge italiana sul procedimento amministrativo; (III) nella terza parte formulerò alcune tesi sulle sfide future e sugli sviluppi del diritto del procedimento amministrativo. In questo modo verranno collegate tra loro questioni di dogmatica giuridica e di politica del diritto. Complessivamente il tema, almeno in Germania, è attuale non solo in conseguenza del diritto europeo. Come indizio di ciò può valere che l'associazione dei professori di diritto pubblico nell'incontro annuale del 2010 nell'ultimo autunno a Berlino si è occupata della « Specificità del procedimento nel diritto amministrativo » (4). I. Le problematiche delle quattro regolamentazioni da esaminare, relative ai vizi del procedimento, possono essere indicate con le seguenti parole-chiave: « chiarimento preliminare », « possibilità di sanatoria », « non impugnabilità » e « irrilevanza ». Di seguito, illustrerò (1) brevemente le prime tre parole chiave. (2) Successivamente farò riferimento alla « irrilevanza », ossia a quella previsione che costituisce il centro del sistema ed esprime nel modo più chiaro « la funzione servente » del procedimento (5). 1. a) Innanzitutto la legge prevede alcuni chiarimenti sulla controversa delimitazione tra gli atti amministrativi nulli ex lege e quelli illegali ma solo annullabili (§ 44 VwVfG). Questo dimostra che le violazioni delle previsioni relative alla forma e al procedimento non devono essere sottovalutate. Alcune (tuttavia, poche) violazioni vengono considerate dalla legge tanto gravi, da portare de plano alla nullità (comma 2). Ciò vale ad esempio, quando un'autorità abbia adottato un provvedimento in riferimento ad un terreno che non rientra nel suo territorio e abbia così in maniera evidente oltrepassato la sua competenza per territorio. Per converso, la legge prevede in modo chiaro che alcuni vizi del procedimento, anche se evidenti, non danno luogo a nullità del'atto amministrativo (comma 3). Ciò vale per esempio quando un funzionario abbia agito nel procedimento, nonostante che fosse sospettabile di parzialità (6). Tale atto amministrativo è, e rimane, certamente illegittimo. Gli atti amministrativi illegittimi possono essere impugnati dal soggetto leso nei suoi diritti innanzi ai tribunali amministrativi nel rispetto di determinati termini. Gli stessi atti possono essere annullati dall'amministrazione (in ogni caso nel rispetto del principio di tutela dell'affidamento). b) Per certe violazioni procedimentali viene in rilievo la cosiddetta sanatoria. Essa ha luogo quando un'attività procedimentale omessa venga successivamente realizzata. Per esempio, quando ad un cittadino, non ascoltato prima dell'emanazione dell'atto amministrativo, venga data successivamente l'opportunità di esporre il suo punto di vista; quando la motivazione dell'atto amministrativo venga resa successivamente (7). Una tale sanatoria elimina il vizio originario. L'atto amministrativo, intervenuta la sanatoria, diventa legittimo (8). La legge consente all'amministrazione di sanare l'atto amministrativo addirittura nel corso di un procedimento giurisdizionale (9). Si deve, però, evitare che questa sanatoria diventi una vuota routine e che essa rimanga senza conseguenze sulla decisione amministrativa già assunta. Se l'autorità permette l'audizione in un momento successivo, allora questa deve svolgersi in modo tale da consentire ai nuovi argomenti addotti di poter dar luogo ad una modificazione della decisione già adottata. In letteratura si parla di « principio di piena compensazione » (10). Appare incerto se la sanatoria che avviene nel corso di un processo davanti al tribunale possa ancora corrispondere a tale principio. Perciò vengono manifestati dubbi circa la legittimità costituzionale di questa previsione normativa (11). Questo non dipende però da una astratta possibilità, ma piuttosto dall'effettiva percezione del singolo caso. c) La terza regolamentazione rilevante ai nostri fini non si trova nella legge sul procedimento 181 amministrativo, ma nella legge sul processo amministrativo (VwGO). Essa è stata introdotta nel 1976 in connessione con la legge sul procedimento amministrativo. Perciò è giustificato cogliere anche in essa qualcosa dello « spirito » della codificazione. Viene, dunque, stabilito che le attività procedimentali dell'autorità svolte nel corso di un procedimento amministrativo [cd. atti endoprocedimentali: aggiunta del traduttore] non possono essere impugnate in maniera autonoma davanti ai tribunali (12). Ad esempio, se nel corso di un procedimento per la concessione dell'asilo viene negato al richiedente l'accesso agli atti, egli non può intentare un'azione esclusivamente a tutela del diritto di accesso agli atti (13). Deve aspettare che la sua istanza di concessione dell'asilo venga rigettata. In compenso, quando egli potrà esercitare l'azione in via giurisdizionale, nel processo potrà anche far valere che il diniego di accesso agli atti ha reso più difficile la difesa del suo diritto. Se l'amministrazione accoglie la domanda di asilo, allora il richiedente non risulta in definitiva danneggiato dal diniego di accesso agli atti. Anche in questo caso, la legge segue il concetto della « funzione servente » del procedimento amministrativo (14). 2. La più contestata disposizione delle quattro regolamentazioni del sistema è il § 46 VwVfG (15), secondo cui non può essere richiesto l'annullamento di un atto amministrativo, se la violazione procedurale non abbia influito in maniera evidente sull'oggetto della decisione. a) Le difficoltà che qui si incontrano diventano chiare alla luce della storia tormentata di questa previsione normativa, nel corso della quale si sono alternate fasi diverse che hanno visto formulazioni più ampie e formulazioni più ristrette: — La concezione tedesca più risalente nel tempo trattava le violazioni del diritto sostanziale e procedimentale in modo diverso e prestava attenzione all'importanza della previsione violata e alla rilevanza delle conseguenze del vizio (16). — I primi progetti della legge sul procedimento amministrativo formulavano il § 46 VwVfG in modo abbastanza ampio. Escludevano sempre l'annullamento dell'atto amministrativo a causa di violazioni delle previsioni normative relative al procedimento « quando nessuna altra decisione avrebbe potuto essere assunta nel caso concreto o quando è da presumere che la violazione non abbia influito sull'oggetto della decisione ». Erano comprese, dunque, sia le decisioni vincolate che quelle discrezionali. — Contro questa ampia formulazione già negli anni '70 furono sollevati rilevanti dubbi. La legge del 1976 formulò, perciò, la norma in modo più circoscritto e la limitò — al pari del diritto italiano — alle decisioni vincolate (« quando nessuna altra decisione nel caso concreto avrebbe potuto essere adottata »). — La formulazione attuale trova origine negli anni '90, quando la Germania fu coinvolta nel cosiddetto « dibattito sulla accelerazione dell'azione amministrativa »: i procedimenti amministrativi dovevano essere semplificati specialmente per rendere più veloci le autorizzazioni di impianti industriali e la predisposizione di infrastrutture come strade, aeroporti, linee ferroviarie. Il § 46 — dopo lunghe discussioni — ha assunto all'epoca (1996) l'attuale ampia formulazione. Ora sono comprese anche le decisioni discrezionali. b) I sostenitori della norma richiamavano, e richiamano, soprattutto due argomentazioni: — la prima deriva dal diritto romano: l'obiezione « dolo facit, qui petit, quod redditurus est », — la seconda deriva dall'economia: l'« economia procedimentale ». I critici facevano valere un ampio spettro di considerazioni, che vanno dalla politica del diritto al diritto europeo. Un'analisi accurata mostra, però, anche qui alcune ambivalenze (17). (aa) Quando fu approvata la legge sul procedimento amministrativo nel 1976 (e la Germania per la prima volta nella sua storia ebbe un suo diritto del procedimento codificato e generale) furono sollevati soprattutto dubbi di politica del diritto. Si disse: se la codificazione attribuisce ai cittadini determinati diritti procedimentali, allora è poco convincente che la violazione di tali diritti procedimentali venga 182 poi dichiarata irrilevante in un'altra norma della legge. La disposizione normativa veniva criticata anche per una ricaduta « antieducativa » (Erichsen) rispetto all'impegno dei funzionari dell'amministrazione. (bb) In seguito furono fatte valere considerazioni di tipo costituzionale: si sosteneva che il § 46 VwVfG violasse la garanzia della piena tutela dei diritti (art. 19, comma 4, GG). La dottrina oggi dominante, però, non segue questa opinione. Innanzitutto è già discutibile se sussista una violazione dei diritti all'azione processuale, quando la decisione nel caso concreto doveva essere adottata in quel modo e non diversamente. In via del tutto generale può affermarsi che al ricorrente manca l'interesse ad agire per l'esercizio dell'azione, se nel caso concreto egli è destinatario di una decisione legittima. Tutto al più, se nella violazione del diritto procedimentale è riscontrabile una durevole prassi amministrativa sfavorevole al ricorrente, allora può essere presa in considerazione un'azione di accertamento contro questa prassi, ma non contro l'originario atto amministrativo. (cc) Un'ulteriore obiezione di natura costituzionale si basa sui diritti fondamentali. Dietro questa obiezione sta l'idea di una tutela dei « diritti fondamentali attraverso il procedimento », come sviluppata specialmente dalla Corte costituzionale federale (ma non solo da essa!) e come è stato di nuovo messo in rilievo in una recente decisione di soli pochi mesi fa (sulla quale tornerò più nel prosieguo: II 5 b) (18). La realizzazione dei diritti fondamentali è quindi affidata ai rispettivi procedimenti amministrativi e a determinati diritti procedimentali. Se questo riconoscimento è importante, si deve, però, osservare anche che molte previsioni normative sul procedimento sono tutto al più marginali e non di grande rilevanza per l'affermazione dei diritti fondamentali. I procedimenti sono intrecci di regole nei quali le singole previsioni hanno un peso molto diverso. Inoltre, una riflessione riguardante i diritti fondamentali mette in evidenza come nei rapporti giuridici amministrativi siano spesso parti una pluralità di soggetti portatori di diritti fondamentali con interessi contrapposti. Queste « situazioni di diritti fondamentali multipolari » si trovano, ad esempio, nel diritto urbanistico, nel diritto dell'ambiente e nel diritto amministrativo dell'economia. Tali situazioni danno luogo innanzi ai tribunali amministrativi ad azioni tra confinanti e ad azioni tra concorrenti nelle quali solo una delle parti vuole ottenere l'annullamento dell'atto amministrativo, mentre l'altra ha interesse al suo mantenimento e si appella perciò ai diritti fondamentali. La tutela dei « diritti fondamentali attraverso il procedimento » si neutralizza qui chiaramente. In ogni caso, essa non è un argomento che si può addurre nella sua pienezza contro il § 46 VwVfG. Ma certamente i diritti fondamentali possono costituire motivo di una interpretazione restrittiva di questa norma, quando previsioni procedimentali particolarmente importanti sono state violate. (dd) Occasionalmente vengono fatte valere come obiezioni contro il § 46 il principio dello Stato di diritto e il vincolo di conformità alla legge e al diritto dell'amministrazione. Si teme che questo vincolo (che comprende anche il vincolo del diritto del procedimento) venga ridimensionato, se vengono minimizzate le conseguenze delle violazioni procedimentali. Questo argomento non ha una forte natura costituzionale, ma piuttosto di politica del diritto. In ogni caso da tempo la dottrina tedesca ha riconosciuto che il principio dello Stato di diritto non comporta che ogni violazione del diritto da parte dell'amministrazione debba necessariamente portare all'annullamento del relativo atto amministrativo. Il legislatore e i giudici hanno un potere discrezionale nell'individuazione delle sanzioni. All'interno di questo spazio valutativo devono essere bilanciati, da un lato, i punti di vista della certezza del diritto, della tutela dell'affidamento e dell'efficienza amministrativa e, dall'altro, l'affermazione del rigoroso vincolo di conformità dell'amministrazione alla legge. Al contrario, è troppo limitativo prestare attenzione solo al tema dell'accelerazione dei tempi procedimentali. (ee) Le più recenti obiezioni vengono dal diritto europeo. Quando gli Stati membri attuano il diritto dell'Unione e a tal fine (in mancanza di prescrizioni europee di tipo procedimentale) applicano il diritto nazionale, devono, però, anche rispettare, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, il principio di equivalenza e quello di effettività. Il diritto procedurale nazionale allora deve innanzitutto essere 183 applicato in modo che non risulti impossibile o essenzialmente difficoltosa la tutela delle posizioni giuridiche nascenti dal diritto europeo. Questa obiezione non riguarda sempre e comunque il § 46 VwVfG, ma solo quei casi nei quali deve trovare applicazione il diritto europeo. In questo caso, infatti, si deve fare attenzione! La violazione di importanti previsioni dell'Unione europea non può essere considerata come irrilevante per mezzo del diritto nazionale. Questo vale, ad esempio, per le prescrizioni relative all'esame di ecocompatibilità. Ma anche il diritto europeo stesso conosce regole procedimentali di minor peso, la cui violazione non giustifica l'annullamento di una decisione amministrativa (19). In ogni caso non è convincente motivare che in tutti i casi nei quali si tratti di attuazione del diritto europeo, il § 46 VwVfG non debba essere applicato. Viceversa, oggi ci si deve chiedere, se non vi siano anche casi nei quali il diritto europeo pretenda che determinati vizi (soprattutto nei cosiddetti procedimenti composti) siano irrilevanti, per assicurare un'effettiva attuazione di determinati programmi europei. Un fondamento per una tale argomentazione lo si può trovare nella giurisprudenza della Corte di giustizia relativa alla restrizione della tutela cautelare nazionale (tedesca) (20). Ciò considerato, anche il precetto di effettività può apparire ambivalente in determinate circostanze. 3. Come primo risultato si può affermare: il § 46 VwVfG è stato ed è ancora oggi una previsione normativa controversa. Critiche vengono manifestate innanzitutto nella letteratura giuridica. Nella prassi giurisprudenziale il § 46 viene applicato; occasionalmente si è accennato anche ai suoi problemi costituzionali e di politica del diritto. Non sussiste una radicale opposizione che sostenga l'incostituzionalità della previsione nel suo complesso o che ne pretenda la eliminazione, senza sostituzione. Non di meno viene richiesta, quando ve ne sia l'occasione, una interpretazione conforme alla Costituzione e al diritto europeo. Su questa linea si muove anche la legislazione in singoli ambiti del diritto amministrativo speciale: — Nel diritto sociale, l'audizione personale dei soggetti interessati è rilevante dal punto di vista dei diritti fondamentali. Il legislatore ha perciò espressamente escluso che in questo ambito alle violazioni del diritto all'audizione possa trovare applicazione il § 46 (21). Questo è un esempio di trattamento costituzionalmente conforme. — Nel diritto dell'ambiente, l'Unione europea (a seguito della convenzione di Aarhus) impone agli Stati membri un esame accurato della ecocompatibilità. Se un tale esame non viene condotto e non viene svolto successivamente, allora la rispettiva decisione amministrativa deve essere annullata dal tribunale, senza che trovi applicazione il § 46 (22). Questo è un esempio di trattamento conforme al diritto europeo. Considerando complessivamente il § 46 si possono tracciare alcune linee fondamentali, che io vorrei indicare come « pragmatismo illuminato ». Si riconosce la necessità di specifiche previsioni sanzionatorie per violazioni del diritto procedimentale. Rimane, però, ancora una sensazione di ambivalenza. Tutto conduce a una interpretazione delicata della previsione normativa! II. Nel prosieguo saranno trattati quattro problemi che spesso si pongono nell'applicazione del § 46 VwVfG. Partiamo dal testo della norma: « l'annullamento di un atto amministrativo, che non sia nullo ai sensi del § 44, non può essere richiesto per il solo fatto che esso sia venuto in essere in violazione di disposizioni sul procedimento, sulla forma o sulla competenza territoriale, ove risulti in maniera evidente che la violazione non abbia influito sull'oggetto della decisione ». 1. a) Il § 46 non comprende tutte le violazioni procedimentali e formali. Esso non è applicabile (come detto sopra: I 1 a) alle violazioni più gravi che, ai sensi del § 44, portano alla nullità dell'atto amministrativo. Non sono comprese le violazioni della competenza per materia. Il legislatore le considera così essenziali, che la sanzione della nullità gli appare irrinunciabile. Ricorre un vizio assoluto. Se, ad esempio, in una questione di sovvenzioni la decisione di recupero della somma è 184 adottata dall'ufficio finanziario invece che dal competente ispettorato agricolo, in caso di controversia l'atto è allora da annullare, anche se il recupero della sovvenzione nel caso concreto risulta appropriato. La legge sul procedimento amministrativo non esclude anche di identificare ulteriori prescrizioni le cui violazioni provocano vizi procedimentali assoluti. Un'interpretazione conforme alla costituzione e al diritto europeo può portare anche a questa conclusione. Sussiste anche oggi un vizio assoluto, come detto (sopra al I 3), quando un necessario esame di ecocompatibilità non è stato eseguito. Anche la mancata partecipazione di un'associazione ambientalistica riconosciuta è inquadrabile in questo ambito. Decisiva è la speciale rilevanza che ha una determinata regola procedimentale in uno specifico tipo di procedimento. La regola procedimentale deve essere un « punto cardine » dell'intero procedimento. Nei procedimenti che riguardano in modo particolare lo status di una persona, tale risulta essere il diritto alla audizione personale (23). Il solo fatto che un procedimento sia rilevante dal punto di vista dei diritti fondamentali, non basta, però, per riconoscere una tale posizione speciale (24). b) Nel complesso i vizi assoluti costituiscono un piccolo gruppo. Per contro, la maggior parte delle numerose regole procedimentali del diritto amministrativo tedesco rientrano nel § 46 e di conseguenza la loro rilevanza risulta relativizzata (25). — Questo vale per le violazioni del diritto obiettivo, come le disposizioni relative all'esclusione del funzionario sospettabile di parzialità, alla partecipazione di altre persone e di altre autorità, alla formazione di un parere di una commissione e alla partecipazione del pubblico. Questa ultima disposizione è regolamentata in modo molto analitico e perciò particolarmente esposta a vizi procedimentali (26). — Sono comprese anche violazioni delle previsioni normative sul procedimento che attribuiscono un diritto soggettivo al cittadino, come quelle relative all'audizione e all'accesso agli atti. Il fatto che la violazione in questione possa essere sanata, secondo il § 45 VwVfG, in un momento successivo, non esclude l'applicazione del § 46 VwVfG. Nel complesso l'ambito dei vizi procedimentali compresi nel § 46 è delineato in modo ampio. Non sono comunque inclusi i vizi di accertamento della situazione di fatto, i vizi di sussunzione e di motivazioni non appropriate (ma non mancanti) (27). Difficoltà di delimitazione si incontrano di rado; le più frequenti riguardano le valutazioni discrezionali relative alla pianificazione, i cui precetti normativi riguardano in parte il diritto procedimentale e in parte il diritto sostanziale. c) Una breve considerazione sull'art. 21 octies, secondo capoverso della legge italiana sul procedimento amministrativo: nel § 46 non c'è un'analoga prescrizione. Il diritto tedesco non conosce per il normale procedimento una comunicazione di avvio del procedimento (28). Un'analoga funzione è assolta dall'istituto della « chiamata nel procedimento » (§ 13, comma 2, VwVfG). Questo istituto riguarda i terzi che potrebbero essere « interessati » dall'esito del procedimento. L'autorità li può coinvolgere. In determinati casi lo deve fare. Se viene violata la norma, ricorre un vizio del procedimento, che può essere sanato o che può essere irrilevante secondo la previsione del § 46 VwVfG (29). 2. Il § 46 VwVfG riguarda oggi, sia le decisioni vincolate che quelle discrezionali. La norma, perciò, va oltre l'art. 21 octies della legge italiana (30). a) Cominciamo dalla precedente formulazione! Essa prevedeva che « nessuna altra decisione nel caso concreto avrebbe potuto essere assunta ». Con il criterio della « mancanza di alternative giuridiche » finivano per essere comprese solo decisioni vincolate. Secondo la concezione tedesca sono decisioni vincolate tutte quelle decisioni per le quali la legge non ha attribuito all'amministrazione o formalmente un potere discrezionale per la determinazione degli effetti giuridici o in via eccezionale un potere di valutazione nell'applicazione di un concetto giuridico indeterminato. Quando non ricorrono queste ipotesi, le decisioni amministrative sono sottoposte al pieno controllo giurisdizionale. Questo controllo deve essere visto come un precetto della effettività della tutela giuridica, sancita nella importante previsione dell'art. 19, comma 4 della Legge Fondamentale. 185 I tribunali controllano l'intera attività di applicazione del diritto da parte dell'amministrazione, ivi compreso il rispetto del principio di proporzionalità. Il vincolo per l'amministrazione non è, quindi, determinato dalla precisione linguistica dei concetti legislativi, ma dalla sancita ampiezza del controllo giurisdizionale. Il tutto è trattato come un problema di delimitazione di competenza tra l'esecutivo e il giudiziario. La maggior parte dei concetti legislativi indeterminati sono del tutto controllabili successivamente in sede giurisdizionale e perciò sono concetti rigorosamente vincolanti. Si pensi a concetti come « bene pubblico », « pericolo », « effetti ambientali dannosi », « incertezza ». In effetti, la stessa complicata autorizzazione di un impianto chimico finisce per essere successivamente una decisione vincolata. In sintesi, l'indeterminatezza di un concetto legislativo non indica in linea di massima una diminuzione del controllo giurisdizionale. In tutti questi casi — secondo l'orientamento della dottrina dominante — i giudici non fanno alcunché di diverso dall'amministrazione: essi applicano la legge. Di conseguenza può esservi solo una decisione giusta e, in caso di controversia, questa viene assunta dai tribunali. Questa « teoria dell'unica decisione giusta » era dal punto di vista metodologico pur sempre una mera finzione. Era, però, di particolare importanza per il precedente § 46 VwVfG. Secondo tale teoria risultava impossibile che un vizio del procedimento amministrativo potesse influire su una decisione nei fatti corretta. Definire in modo definitivo e vincolante la correttezza di una decisione è compito dei tribunali, che non si devono occupare anche degli errori procedimentali dell'amministrazione, ma devono esaminare subito l'aspetto sostanziale. Se l'atto amministrativo risulta corretto, allora la violazione del diritto procedimentale non gioca alcun ruolo. b) Oggi il § 46 VwVfG attribuisce rilevanza al fatto che il vizio del procedimento « non abbia influito sull'oggetto della decisione ». Viene in rilievo, quindi, una « verifica della causalità ». Nel testo della previsione normativa non viene fatta alcuna distinzione tra decisioni vincolate e decisioni discrezionali. Entrambe le tipologie sono comprese. Per le decisioni discrezionali si tratta in primo luogo dei casi nei quali l'amministrazione può decidere discrezionalmente degli effetti giuridici (« può » — secondo le espressioni legislative). Sono, però, comprese anche le decisioni assunte in base ad un « potere valutativo » dell'amministrazione. Per quanto riguarda il loro numero, questi casi rappresentano l'eccezione. Esempi si trovano in importanti settori del diritto, ad esempio nel diritto della pianificazione e nel diritto della regolazione. È controverso l'ambito cui si estende la necessaria « verifica della causalità » (31): — a volte si ritiene che per le decisioni vincolate sopravviva semplicemente la vecchia impostazione giuridica. Secondo la « teoria dell'unica decisione giusta » si dovrebbe già in astratto escludere che un vizio del procedimento possa aver influito su una decisione giudicata corretta nel caso concreto (dopo l'esame del giudice). A favore di questa « tesi della continuità » depongono anche i dibattiti parlamentari, nei quali si discuteva solo di ciò: includere le decisioni discrezionali e di lasciare il resto come prima (32). — Nella letteratura giuridica alcuni vedono nel cambiamento del criterio « della mancanza di alternativa » con quello della « causalità » un mutamento di prospettiva (33). La erronea teoria della « decisione giusta » è così divenuta obsoleta. Anche per le decisioni vincolate non sembra che si possa escludere del tutto che un vizio del procedimento possa produrre conseguenze giuridiche. Quando si tratta di una decisione semplice, univoca e determinata, si può allora parlare fondatamente di mancanza di alternativa. Quando, invece, si tratta della applicazione di concetti giuridici più complessi, come nel diritto dell'ambiente, allora è ipotizzabile che, ad esempio, l'omessa audizione di una parte abbia portato ad un diverso apprezzamento della situazione di fatto (34). I tribunali in questo caso non possono trovare soluzioni compensative. Ne consegue che in questi casi essi devono annullare anche che l'atto vincolato (35). 3. La inclusione delle decisioni discrezionali nel § 46 VwVfG è stata fortemente contestata, perché in presenza di questo tipo di decisioni risulta facile per la pubblica amministrazione sostenere che essa 186 avrebbe adottato lo stesso atto anche senza i vizi procedimentali. Contro questa considerazione è stato obiettato che il Legislatore richiede che il vizio del procedimento non abbia condizionato in modo evidente l'esito del procedimento (36). La letteratura giuridica ripone nella prova della « evidenza » grandi aspettative. Si deve innanzitutto escludere qualsiasi possibilità che il vizio del procedimento sia stato determinante (sull'esito del procedimento). L'onere della prova spetta all'amministrazione. Non è sufficiente che i funzionari dell'autorità rilascino dichiarazioni in tal senso. Piuttosto è necessario che siano esibiti oggettivi mezzi di prova, per esempio, annotazioni in atti, verbali o altre circostanze, che documentano una solida prassi dell'amministrazione nel senso della decisione adottata. Il richiamo alla « evidenza » è il più incisivo dei rimedi per contrastare un ulteriore « affievolimento » della rilevanza del diritto del procedimento. Bisogna ricordare che i tribunali spesso sono accusati di decidere su questo tema in modo eccessivamente favorevole all'amministrazione (37). 4. Il § 46 VwVfG esclude la pretesa del privato all'annullamento dell'atto affetto da vizi del procedimento: l'attore non può pretenderne l'annullamento. I tribunali non possono procedere. L'azione di annullamento deve essere rigettata come infondata. Si discute invece se il § 46 possa avere effetti giuridici ulteriori. Sono escluse altre sanzioni? Alcuni di questi problemi saranno brevemente richiamati: — il § 46 ha ad oggetto solo l'azione di impugnazione? Se l'attore non può agire invocando l'azione di impugnazione potrebbe, invece, invocare l'azione di accertamento per fare accertare che l'atto amministrativo adottato è affetto da vizi del procedimento? In letteratura questa opinione è stata in parte sostenuta. Ma una tale azione contraddice il principio dell'economia del procedimento, perseguito proprio mediante il paragrafo 46. Un'azione di accertamento è di conseguenza ammessa solo in via eccezionale e certamente solo nel caso in cui ricorra uno speciale bisogno di tutela, quando, per esempio, la violazione del diritto del procedimento riguarda una prassi amministrativa, anche se sfavorevole all'attore. Di regola, però, manca l'interesse alla tutela giuridica (38). — Il § 46 esclude la pretesa del cittadino all'impugnazione. Ma è escluso anche il potere dell'amministrazione di annullare l'atto amministrativo per un vizio del procedimento? Bisogna rispondere negativamente a questo dubbio. La legge prevede solo che l'annullamento non può essere richiesto. La formulazione della norma è, come la storia della legge documenta, intenzionalmente concepita in modo restrittivo. Deve essere esclusa solo la pretesa all'annullamento del cittadino. Le autorità amministrative possono, invece, ritirare un atto amministrativo anche quando è affetto solo da un vizio del procedimento. In quale misura esse subiscano, nel caso di atti amministrativi favorevoli, il condizionamento del principio dell'affidamento, questo lo si ricava da altre previsioni normative. Comunque fino ad oggi non vi è alcuna speciale regolamentazione al riguardo. — Il § 46 VwVfG gioca un ruolo importante anche per la questione del risarcimento dei danni per un atto amministrativo affetto da vizi del procedimento? La risposta al riguardo è positiva. Il criterio della « causalità », che è a fondamento del § 46, risulta essere un importante criterio anche per la questione della pretesa al risarcimento dei danni. Anche se la violazione delle prescrizioni procedimentali rappresenta in ogni caso una violazione dei doveri di ufficio, questa violazione deve, invece, essere stata « determinante » (causale) per il danno. Questo è oggetto di esame da parte dei tribunali civili, che debbono autonomamente decidere sulla pretesa al risarcimento. Il § 46 VwVfG risulta comunque sempre decisivo per determinare l'onere della prova: le autorità devono dare la prova che le violazioni del diritto procedimentale non hanno in modo evidente provocato il danno. 5. L'importanza che il diritto tedesco riconosce ai vizi del procedimento non sarebbe compresa completamente, se limitassimo il nostro approfondimento alla legge sul procedimento amministrativo (o alle prescrizioni sostanzialmente analoghe del Codice tributario e di quello sociale). La legge sul procedimento amministrativo vale solo per l'attività di diritto pubblico, non per l'attività di diritto privato dell'amministrazione. Ed ancora, essa vale solo per gli atti amministrativi e per i contratti di 187 diritto pubblico, ma non per altre attività amministrative e perciò non vale per i regolamenti delle autorità statali, per gli statuti dei Comuni e per i piani regionali o urbani. a) Si possono applicare le prescrizioni della legge sul procedimento amministrativo all'attività di diritto privato dell'amministrazione? L'amministrazione agisce secondo il diritto privato soprattutto nell'importante ambito degli appalti di commesse pubbliche. Qui esistono regole speciali che attuano soprattutto direttive dell'Unione Europea e che assumono particolare importanza in considerazione del significato che il diritto dell'Unione attribuisce alla fase procedimentale (39). Nella misura in cui non sussistono regole speciali, ritengo che una corrispondente applicazione del § 46VwVfG alle decisioni di diritto privato dell'amministrazione non sia da escludere. Spesso viene detto che la prescrizione del 46 è di carattere eccezionale e, quindi, non suscettibile di applicazione analogica. Ma dietro questa affermazione sta la generale considerazione di non poter collegare schematicamente i vizi procedimentali al risultato. Perciò mi sembra che una applicazione analogica non sia da escludere. L'agire di diritto privato ad ogni modo è molto spesso caratterizzato dalla discrezionalità. Di conseguenza, grazie al criterio della « evidenza » il diritto del procedimento conserva la sua importanza. b) (aa) Ai regolamenti delle autorità statali, ai piani regionali, ai piani urbanistici e agli statuti dei Comuni non sono applicabili le prescrizioni della legge sul procedimento (40). Questi atti rappresentano forme di azione normativa dell'Esecutivo. I corrispondenti procedimenti di formazione delle norme hanno una struttura diversa dal cosiddetto procedimento standard della legge sul procedimento amministrativo. Per questi procedimenti hanno particolare importanza soprattutto la partecipazione pubblica, la formazione delle decisioni degli organi comunali o l'audizione di comitati di esperti. Si tratta comunque di aspetti procedimentali esposti in modo particolare ai vizi. La dommatica relativa alle norme illegittime non è sviluppata puntualmente come quella relativa all'atto amministrativo. Il concetto fondamentale della dommatica concernente le norme illegittime è la teoria della nullità. La categoria della annullabilità non esiste. Le norme dell'amministrazione che contrastano con il diritto sono in via di principio ex lege nulle. In caso di violazione del diritto del procedimento è bene che questa regola trovi un'applicazione solo limitata. In parte viene fatto riferimento alla evidenza del vizio (41). Nella già ricordata sentenza della Corte Costituzionale si menziona la essenzialità del vizio (42) e si afferma che un vizio è essenziale « quando una prescrizione del procedimento che il legislatore ha previsto nell'interesse della corretta formazione della fattispecie viene lesa in modo rilevante nella sua funzione ». (bb) Inoltre, è interessante sottolineare che specialmente nel diritto della pianificazione da molti decenni vengono inserite sempre più di frequente speciali norme che relativizzano la rilevanza dei vizi del procedimento. Le tecniche legislative sono al riguardo differenti e complicano in modo eccezionale le relative prescrizioni. Se si ricorre ad una forte astrazione, è possibile stabilire alcune somiglianze con il sistema delle regole della legge del procedimento amministrativo (43). Alcuni vizi possono essere denunciati entro un termine determinato (per esempio, entro due anni). Altri vizi possono essere sanati. Altri vizi ancora rendono il piano illegittimo, se essi sono stati influenti sull'esito del procedimento. Ad un esame più particolare vengono in evidenza importanti differenze, che in questa sede non possono essere menzionate. È solo importante sottolineare che una trattazione specifica dei vizi del procedimento va oltre il diritto dell'atto amministrativo e la legge sul procedimento amministrativo. Tutte queste prescrizioni erano e sono discutibili sotto il profilo costituzionale e della politica del diritto. La situazione è analoga a quella riferita nella Introduzione. La letteratura giuridica è, almeno in parte, molto critica. I tribunali per contro considerano che queste prescrizioni siano diritto vivente e le interpretano in modo restrittivo. Ancora più evidente di quanto non lo sia per gli atti amministrativi risulta chiara l'ambivalenza delle regole speciali per i vizi del procedimento nel caso dei piani urbanistici. Le problematiche limitazioni dal punto politico-giuridico dei diritti procedimentali del cittadino rappresentano solo un aspetto. Per 188 un altro verso richiedono attenzione, sia la certezza del diritto che la tutela dell'affidamento. Situazioni di diritti fondamentali multipolari emergono proprio qui molto chiaramente. Per esempio, un piano di costruzione per una zona destinata ad abitazioni o industria dà luogo ad una composizione tra interessi molto differenti. Di conseguenza, differenti sono le reazioni, se in seguito viene in evidenza la sua illegittimità. Colui che crede di essere stato danneggiato dal piano accoglierà benevolmente il suo annullamento da parte del tribunale. Colui che, invece, facendo affidamento sul piano, ha già fatto investimenti è interessato a che il piano, nonostante i vizi, venga considerato giuridicamente valido. Bisogna tener presente che nel diritto urbanistico il principio della conservazione del piano è un concetto forte. Di conseguenza, la rilevanza dei vizi del procedimento viene limitata notevolmente da questo principio. III. Ora vengo alla terza parte del mio contributo, che intendo introdurre con una considerazione di ordine generale. La scienza del diritto amministrativo non si può limitare a commentare leggi e a riferire sulle sentenze dei tribunali. Essa ha anche il compito di sottolineare lo storico condizionamento delle leggi tramandate, di identificare le nuove sfide dell'azione amministrativa, di prospettare al legislatore e alle corti le possibili linee di sviluppo e le possibili opzioni di soluzioni (44). Questo approfondimento è lo speciale obiettivo della discussione avviata da molti anni in Germania sulla riforma del diritto amministrativo. Al collegato tema dell'ampliamento della prospettiva del diritto amministrativo Andreas Voßkuhle ha portato un notevole contributo. Egli parla di un « prolungamento della scienza della interpretazione, impegnata finora nella sola applicazione del diritto, verso una scienza giuridica orientata alla attività e alla decisione » (45). E proprio il significato del diritto del procedimento amministrativo (ovvero la questione relativa ad un ruolo solo servente o ad un ruolo autonomo del procedimento quale « foro della comunicazione ») ha avuto un peso importante nella discussione sulla riforma (46). Nel procedimento amministrativo si incontrano gli interessi di conoscenza della dommatica giuridica e della scienza dell'amministrazione, della comparazione giuridica e della politica del diritto. Prescrizioni normative come il § 46 della legge tedesca e l'articolo 21 octies della legge italiana sul procedimento rappresentano su questo tema un punto di riferimento per fondamentali riflessioni che vanno oltre le concrete singole questioni. Questo già si coglieva anche nel menzionato colloquio di Berlino dell'Associazione dei professori di diritto pubblico. In seguito desidero trattare due temi. (1) Il condizionamento del § 46 ad opera del tradizionale concetto tedesco di Stato di diritto. (2) Le nuove sfide che riguardano tutti i diritti amministrativi d'Europa. Mi gioverò per entrambi i temi di una recente Dissertazione dell'Università di Heidelberg (47). 1. Il § 46 VwVfG è innanzitutto una tipica espressione del diritto amministrativo tedesco, che è caratterizzato dalle tre seguenti specificità (48). — In primo luogo, una forte regolamentazione di diritto sostanziale dei diritti soggettivi dell'individuo. Questa regolamentazione è determinata dal sovrastante ruolo dei diritti fondamentali e soprattutto dai diritti di libertà. Questo ruolo viene sottolineato da una dottrina sulla legittimazione democratica, che è fortemente collegata alla direzione parlamentare dell'amministrazione mediante disposizioni legislative di diritto sostanziale e non di diritto procedimentale. — In secondo luogo, una forte regolamentazione della divisione dei poteri rispetto ai tribunali. Si parla di una divisione dei poteri incentrata sui tribunali (« gerichtszentrierte Gewaltenteilung »). Questa caratterizzava già il diritto pubblico nel Medioevo. Oggi questa specificità viene in evidenza attraverso lo straordinario ruolo della Corte costituzionale federale e mediante l'ampio sviluppo della giustizia amministrativa. — In terzo luogo, entrambe queste caratteristiche si combinano nel disegno di tutela giuridica individuale (« Systementscheidung für den Individualrechtsschutz »). Un largo spettro di tipi di azione al quale appartiene l'azione di condanna, un forte controllo della discrezionalità ed una tutela cautelare favorevole all'attore caratterizzano questo disegno. L'articolo 19 comma 4 della Legge Fondamentale 189 (che ricorda gli articoli 24 e 113 della Costituzione italiana), in quanto precetto che garantisce l'effettività della tutela giuridica, è fonte di molteplici regole processuali che rafforzano questo disegno. Ricorre, però, una limitazione: l'attore deve essere leso in un proprio diritto. La tutela dei meri « interessati » e le azioni delle associazioni sono « corpi estranei ». Per quanto riguarda in particolare il ruolo del procedimento amministrativo si può dire che in questo disegno il procedimento e il diritto procedimentale sono stati fortemente potenziati. Ma ad essi spetta comunque un ruolo secondario. Rispetto al diritto sostanziale e al diritto processuale, essi sono pur sempre in una posizione secondaria. Il §46 VwVfG è l'esempio di questa « cultura dell'amministrazione ». 2. Sebbene sia sbagliato vedere nella funzione servente del diritto del procedimento una speciale evoluzione tedesca o tedesco-italiana che al cospetto delle nuove sfide nel contesto europeo non avrebbe futuro, bisogna tuttavia vedere questa funzione in una maniera nuova e più ampia. È stato precedentemente illustrato che la nuova versione del § 46 è adatta, grazie ad un'adeguata interpretazione, a recepire anche le nuove idee di garanzia e di giustizia e il compito particolare della elaborazione della informazione amministrativa (sotto: II 2 b). Nella letteratura giuridica viene constatata una « successiva convergenza » delle concezioni di procedimento e di tutela giuridica (49). Viene sottolineato, da una parte, (a) l'importanza del diritto sostanziale e, dall'altra, (b) anche la necessità di una più intensa procedimentalizzazione. a) La comparazione giuridica mostra che anche in altri Paesi non una qualsiasi violazione del diritto del procedimento porta alle conseguenze previste per la violazione del diritto sostanziale (50). Anche il diritto amministrativo dell'Unione europea non conosce in modo rigoroso una stretta parificazione tra diritto sostanziale e diritto procedimentale e non la richiede da parte degli Stati-membri (51). In confronto il diritto tedesco ha certamente sottovalutato l'importanza del diritto del procedimento e sopravvalutato l'importanza del diritto sostanziale e quello dei tribunali. Tendenze verso il rafforzamento del diritto sostanziale e della protezione giurisdizionale si riscontrano del resto anche a livello europeo. Al riguardo basta pensare non solo al rafforzamento dei diritti fondamentali attraverso la Carta dei Diritti Fondamentali e al risalto accordato alla tutela giuridica attraverso l'articolo 47 di questa Carta, ma anche alla adesione dell'Unione Europea alla Convenzione Europea dei Diritti Umani! b) Bisogna, d'altra parte, rilevare che le disposizioni sostanziali della legge in settori particolarmente importanti dell'amministrazione non sono tanto puntuali (si pensi al diritto dell'ambiente, al diritto sociale, al diritto della pianificazione, al diritto della regolazione) da « guidare » effettivamente l'amministrazione nell'esame del caso concreto. Spesso manca al Legislatore, per esempio, nel campo delle norme tecniche persino il necessario « sapere di guida ». Questo deve essere costruito a poco a poco soprattutto nella attuazione in via amministrativa della legge (52). A questo fine i procedimenti amministrativi risultano più indicati di quanto non lo siano i procedimenti davanti ai tribunali. I vizi che emergono in siffatti procedimenti amministrativi non possono essere considerati irrilevanti, dal momento che il tribunale ritiene di poter valutare la questione secondo il proprio punto di vista. Una più intensa procedimentalizzazione dell'azione amministrativa risulta inevitabile (53). Essa è giustificata da tre ampie trasformazioni (54): — la crescente importanza dell'informazione e della relazione tra le informazioni nel diritto amministrativo; — il trend della società verso una maggiore partecipazione e verso procedure di Mediazione (« Stoccarda 21 »); — il rafforzamento della cooperazione amministrativa europea, che porta a procedimenti amministrativi composti tra organismi europei e autorità degli Stati-membri. Nel complesso si può prevedere un aumento delle previsioni normative del procedimento che hanno, però, forme diverse e debbono assolvere giustamente a differenti funzioni: diritti soggettivi del procedimento, prescrizioni oggettive per una determinata struttura del procedimento, prescrizioni per 190 una collaborazione fra autorità, regole sulla trasparenza. 3. La procedimentalizzazione dell'agire amministrativo rafforza il ruolo del diritto del procedimento ed aumenta di conseguenza il rischio di vizi del procedimento. Ogni realistica considerazione deve, perciò, riflettere anche in ordine ad un adeguato regime degli effetti dei vizi del procedimento. È senz'altro un pregio delle prescrizioni del § 46 della legge tedesca e dell'articolo 21 octies della legge italiana sul procedimento amministrativo richiamarsi obiettivamente a questa visione. Per le decisioni amministrative semplici vi è l'indicazione che proviene da entrambe le norme citate ovvero quella di richiedere la giusta applicazione della rilevanza del vizio rispetto all'esito del procedimento (55). Essa, però, non porta lontano, se l'esito non è prestabilito. Per le decisioni amministrative complesse un regime adeguato è identificabile solo per grandi linee. Questo si evince dalle considerazioni sulle forme di agire amministrativo di cui sopra al paragrafo II, 5, b. Appare un inizio appropriato la strada dell'Unione Europea ovvero quella di fare riferimento alla essenzialità della regola del procedimento violata. Per un ulteriore approfondimento del problema io sottolineo tre esigenze (56): In primo luogo, una differenziazione: le funzioni delle singole prescrizioni normative debbono essere precisamente analizzate nel contesto del rispettivo procedimento. In secondo luogo, una sistematizzazione. Le discussioni non debbono limitarsi all'atto amministrativo, ma debbono comprendere in una considerazione sistematica tutte le attività amministrative importanti, specialmente le norme e i piani. In terzo luogo, una europeizzazione. In questo campo di « ambivalenza » tra un diritto amministrativo più di tipo sostanziale e un diritto amministrativo più di tipo procedurale il ruolo del diritto del procedimento deve essere definito in comune dai giuristi delle diverse culture giuridiche europee. Italia e Germania, se continuano a riflettere sulle loro importanti tradizioni, non sono impreparate per questo compito. Note: (*) Traduzione dal tedesco di Alfonso Masucci e di Luca De Lucia. (1) In Germania si distingue, come in Italia, tra atti amministrativi ed altre azioni amministrative. Atti amministrativi sono previsioni vincolanti per casi singoli nell'ambito del diritto pubblico che riguardano direttamente i cittadini, i quali possono riceverne un vantaggio o uno svantaggio. Essi stanno al centro del mio contributo. Per ragioni sistematiche, però, è importante tenere presenti anche le altre forme dell'azione amministrativa (regolamenti amministrativi, contratti e piani dell'amministrazione). Sul punto, sotto II 5 e III. (2) Cfr. Baumeister, Der Beseitigungsanspruch als Fehlerfolge des rechtswidrigen Verwaltungsakts, 2006, p. 127 ss.; Bumke, Verwaltungsakte, in Grundlagen des Verwaltungsrechts (GVwR), a cura di Hoffmann-Riem/Schmidt-Aßmann/Voßkuhle, volume II, 2008, § 35 Randnummer (Rn.) 153 ss.; diversamente, però, Sachs, Verfahrensfehler im Verwaltungsverfahren, § 31 Rn. 40 ss., per il quale la violazione di norme procedimentali, quali norme di condotta, non porta automaticamente alla illegittimità dell'atto finale. (3) La legge sul procedimento amministrativo fu predisposta da una commissione di esperti. Già in essa si parlava di funzione servente, collegandosi in tal modo ad una precedente letteratura giuridica. La motivazione ufficiale della proposta del governo federale riprese questo topos; cfr. Drucksachen des Deutschen Bundestages Nr. 7/910 (1973), §§ 35, 36. (4) Relazioni di Gurlit e Fehling, in Veröffentlichungen der Vereinigung der deutschen Staatsrechtslehrer (VVdStRL), volume 70 (2011). (5) Sul prosieguo anche Schoch, Gerichtliche Verwaltungskontrollen, in Grundlagen des Verwaltungsrechts (GVwR), a cura di Hoffmann-Riem/Schmidt-Aßmann/Voßkuhle, volume III, 2009, § 50 Rn 297 ss.; in tempi più recenti Kahl, 35 Jahre Verwaltungsverfahrensgesetz - 35 Jahre Europäisierung des Verwaltungsverfahrensrechts, in Neue Zeitschrift für Verwaltungsrecht (NVwZ), 191 2011, p. 449 ss. (6) Tuttavia non sono espressamente regolati il caso in cui il funzionario sia stato parte del procedimento e soprattutto i casi nei quali egli abbia operato a proprio vantaggio. Qui è da presumere una regolare nullità sulla base della clausola generale dell'evidenza di cui al § 44, alinea 1 della VwVfG. (7) Dall'inserimento successivo della motivazione mancante deve essere distinta la « riforma della motivazione » che riguarda la modifica del contenuto di una motivazione esistente, una sostituzione dei motivi. (8) Per un'ampia possibilità di una riforma dell'atto amministrativo, che la legge sul procedimento non contempla, cfr. Durner, Die behördliche Befugnis zur Nachbesserung fehlerhafter Verwaltungsakte, in Verwaltungsarchiv, 2006, p. 345 (362 ss.). (9) In tal modo per l'attore viene meno il motivo dell'annullamento e in presenza di queste circostanze la sua domanda deve essere respinta. Egli può, d'altronde, dichiarare anticipatamente cessata la materia del contendere e così evitare di dover sopportare i relativi costi. (10) Kopp/Ramsauer, Verwaltungsverfahrensgesetz, Kommentar (VwVfG), 11 edizione, 2010, § 45 Rn. 42; in modo simile Stelkens/Bonk/Sachs, Verwaltungsverfahrensgesetz, Kommentar (VwVfG), 7 edizione, 2008, § 45 Rn. 20: « principio di una vera sanatoria dei vizi ». (11) Stelkens/Bonk/Sachs, VwVfG, § 45 Rn. 103. (12) Il § 44 a del VwGO recita: « i rimedi giuridici contro atti endoprocedimentali delle autorità possono essere fatti valere solo contestualmente ai rimedi giuridici ammissibili contro la decisione finale. Ciò non vale quando gli atti endoprocedimentali delle autorità possono essere portati ad esecuzione o sono adottati contro chi non partecipa al procedimento ». (13) Se la visione degli atti è di per sé l'oggetto del procedimento, come nella tutela dei diritti secondo le disposizioni sulla libertà di informazione, allora il § 44 a VwGO naturalmente non impedisce un'azione contro il diniego. (14) Una azione autonoma è ammessa solo quando l'attività procedimentale dell'amministrazione sia eseguibile, come, ad esempio, il sequestro di lettere o l'ispezione dell'appartamento. (15) Sul punto Schöbener, Der Ausschluss des Aufhebungsanspruchs wegen Verfahrensfehlern bei materiell-rechtlich und tatsächlich alernativlosen Verwaltungsakten, in Die Verwaltung (DV), 2000, p. 447 ss.; Baumeister, Der Beseitigungsanspruch als Fehlerfolge des rechtswidrigen Verwaltungsakts, 2006, p. 242-325; Fehling, VVdStRL, vol. 70 (2011). (16) Bundesverwaltungsgericht - Amtliche Entscheidungssammlung (BVerwGE) 56, 230 (233). (17) Baumeister, Der Beseitigungsanspruch, p. 266, 275 ss. (18) Bundesverfassungsgericht (BVerfG) del 12 ottobre 2010, in NVwZ 2011, p. 289, § 122. (19) Aggiungi Christian Quabeck, Dienende Funktion des Verwaltungsverfahrens und Prozeduralisierung, 2010, p. 129 ss. (20) EuGHE 1990 I, p. 2879. (21) Così il § 42, alinea 2 del codice sociale parte X: procedimento amministrativo. (22) Così il § 4, paragrafo 1 del Umweltrechtsbehelfsgesetzes del 2006. La regolamentazione è stata molto discussa nel corso del procedimento legislativo. Se essa risponda in pieno ai requisiti del diritto europeo, è incerto: cfr. la motivazione ufficiale Bundestags-Drucksache 16/2495 p. 13 con riferimento al giudizio della Corte di giustizia del 7 gennaio 2004, C-201/02 (Wells/UK); in senso contrario la posizione del Bundesrat, Bundestag-Drucksache 16/2931 p. 3 s. e le controdeduzioni del Governo federale, p. 8. Sul che Ziekow, Das Umwelt-Rechtsbehelfsgesetz im System des deutschen Rechtsschutzes, in NVwZ, 2007, p. 259 (265); Genth, Ist das neue Umwelt-Rechtsbehelfsgesetz europarechtskonform?, in Natur und Recht (NuR), 2008, p. 28 (31). (23) Cfr. BVerwGE 113, 112 (113): trasferimento di un soldato; BVerwGE 91, 217 (222): deliberazione collegiale per procedimenti che riguardano la libertà dell'arte. 192 (24) Stelkens/Bonk/Sachs, VwVfG, § 46 Rn. 31. (25) Cfr. Bundestags-Drucksache 13/3995, p. 8. (26) Sul punto si deve fare attenzione alle influenze del diritto comunitario, in particolare nel diritto dell'ambiente: cfr. sopra I 3. (27) Kopp/Ramsauer, VwVfG, § 46 Rn. 17. (28) Particolarità valgono, ad esempio, per il procedimento di pianificazione: qui è prevista la pubblicazione della documentazione relativa al progetto, della quale si deve dare comunicazione al pubblico (§ 73, comma 3 VwVfG). Sulla questione se una sua violazione rappresenti un vizio procedimentale ed esso possa essere irrilevante ai sensi del § 46, cfr. Stelkens/Bonk/Sachs, VwVfG, § 73 Rn. 143 ss. (29) Stelkens/Bonk/Sachs, VwVfG, § 13 Rn. 39, 46. (30) Sul prosieguo anche Quabeck, Dienende Funktion, cit., p. 67 ss. (31) Cfr. Schöbener, Der Ausschluss des Aufhebungsanspruchs, cit., p. 447 (471 ss.). (32) Così la motivazione ufficiale del progetto del governo federale, Bundestagsdrucksache 13/3995, S. 8: « solo un ampliamento ». (33) Cfr. Kopp/Ramsauer, VwVfG, § 46, Rn 25. (34) Ancora, Schöbener, Der Ausschluss des Aufhebungsanspruchs, cit., p. 447 (p. 473). (35) Così Pünder, in Allgemeines Verwaltungsrecht, a cura di Erichsen/Ehlers, 14 edizione, 2010, § 14 Rn. 64. (36) Peculiarità in Schöbener, Der Ausschluss des Aufhebungsanspruchs, cit., p. 447 (466 ss.). (37) Schoch, in GVwR, cit., volume III, § 50 Rn 303. (38) Cfr. Kopp/Ramsauer, VwVfG, § 46 Rn. 47. (39) Cfr. i §§ 101a e 101b della legge contro la limitazione della concorrenza (Gesetz gegen Wettbewerbsbeschränkung: GWB). (40) In ogni caso sono sottoposti alla legge sul procedimento amministrativo i procedimenti speciali per l'autorizzazione di progetti stradali e la realizzazione di infrastrutture simili. Queste autorizzazioni sono atti amministrativi nella forma di una decisione pianificatoria. Per essi valgono le regole particolari dei §§ 72 e ss. del VwVfG e, nella misura in cui esse non vi siano, le previsioni generali del § 46 VwVfG. (41) BVerfGE 91, 148 (175). (42) BVerfG, NVwZ, 2011, p. 289 §. 128. (43) Fondamentale sul punto Morlok, Die Folgen von Verfahrensfehlern am Beispiel von kommunalen Satzungen, 1988. (44) Cf. Schmidt-Aßmann, Das Allgemeine Verwaltungsrecht als Ordnungsidee, 2 edizione, 2004, p. 1 ss. (45) Voßkuhle, Neue Verwaltungsrechtswissenschaft, in GVwR, volume 1, 2006, § 1 Rn. 15. (46) Sul punto Hoffmann-Riem/Schmidt-Aßmann (a cura di), Verwaltungsverfahren und Verwaltungsverfahrensrecht, 2002; in tempi più recenti F. Wollenschläger, Verteilungsverfahren, 2010. (47) Quabeck, Dienende Funktion, cit.. (48) Schoch, in GVwR, volume III, Rn. 1 ss.; Schmidt-Aßmann, Das Allgemeine Verwaltungsrecht, cit., p. 212 ss.; Quabeck, cit., p. 35 ss. (49) Kahl, Grundrechtsschutz durch Verfahren in Deutschland und in der EU, in Verwaltungsarchiv, 2004, p. 1 (28). (50) Fehling, VVdStRL, volume 70. (51) Quabeck, Dienende Funktion, cit., p. 116 ss. (52) Cfr. B. Wollenschläger, Wissensgenerierung im Verfahren, 2009. (53) Sul punto Quabeck, Dienende Funktion, cit., p. 91 ss.; dal punto di vista della scienza dell'amministrazione anche Hill, Herausforderung e-Government, a cura di Hill/Schliesky, 2009, p. 349 ss. 193 (54) Cfr. Quabeck, Dienende Funktion, cit., p. 189 ss. (55) Art. 263 comma 2 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea: « violazioni delle forme sostanziali ». Sul punto Quabeck, Dienende Funktion, cit., p. 131 ss.; Kahl, Grundrechtsschutz durch Verfahren, cit., p. 1 (22 ss.). (56) Sul punto importanti contributi in Cerulli Irelli e De Lucia, Invalidità amministrativa, Giappichelli, 2009. Come oggi in generale sia necessario un orientamento sistematico ed europeo del diritto amministrativo e della scienza del diritto amministrativo e come questo possa essere ricco di successo lo dimostrano in modo efficace i contributi in: von Bogdandy/Cassese/Huber (a cura di), Handbuch Jus Europeum, volume III: Verwaltungsrecht in Europa: Grundlagen, 2010 e volume IV: Verwaltungsrecht in Europa:Wissenschaft, 2011. 194 ATTUALITÀ DELL'INTERESSE LEGITTIMO? (*) Diritto Processuale Amministrativo, fasc.2, 2011, pag. 379 FRANCO GAETANO SCOCA Classificazioni: GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA - In genere Sommario: 1. Considerazioni introduttive. — I - Profili critici: 2. L'impatto della risarcibilità sulla sopravvivenza della figura. — 3. L'interesse legittimo e la misura della tutela nei confronti dell'amministrazione. — 4. Sulla tesi che dissolve l'interesse legittimo in pretesa e soggezione. — 5. Valutazioni critiche. — II - Profili ricostruttivi: 6. La nuova disciplina dell'interesse legittimo: vizi formali e nullità dei provvedimenti (lesivi). — 7. Le novità positive di ordine processuale. — 8. Rafforzamento della tutela e conseguenze sull'interesse legittimo. — 9. Dalla legittimità alla spettanza. — 10. Conclusioni: rilievi sull'interesse legittimo come categoria concettuale. 1. Poco più di venti anni fa, Gabriele Pescatore, Presidente emerito del Consiglio di Stato e giudice costituzionale, rassegnava uno studio sulla « attualità dell'interesse legittimo » (2). L'attualità della figura era oggetto di una sua netta affermazione, nonostante quelli che egli definiva i « ripensamenti » della dottrina. Nei successivi due decenni i ripensamenti della dottrina si sono moltiplicati, ed è stata da molti e con molte e diverse argomentazioni posta in dubbio, anzi negata, la figura dell'interesse legittimo. Ecco perché il titolo del presente lavoro non è un'affermazione ma una interrogazione: è ancora attuale fare riferimento alla nozione di interesse legittimo? È essa sopravvissuta, se mai è esistita, ai « ripensamenti » della dottrina? È ancora essa predicabile, nonostante i mutamenti intervenuti nella disciplina, sostanziale e processuale, del rapporto, o, se si vuole, delle posizioni reciproche dell'amministrazione, che è titolare ed esercita il potere precettivo (di disegnare nuovi assetti di interessi), e coloro che sono soggetti a tale potere e cercano di indirizzarlo in senso ad essi favorevole? Nei decenni '60 e '70 la dottrina maggiore aveva raggiunto, pur nella differenza delle formulazioni dei singoli studiosi, posizioni sufficientemente condivise sulla esistenza della figura e sulle caratteristiche essenziali della relativa nozione. L'interesse legittimo era riconosciuto quale situazione giuridica soggettiva sostanziale, fronteggiante nel procedimento prima, e poi nel processo, il potere precettivo ad esercizio unilaterale dell'amministrazione. Il vento di crisi, che già soffiava da tempo, anche prima dell'affermazione della risarcibilità delle lesioni inferte a siffatta situazione soggettiva riconosciuta come sostanziale, è diventato tempesta dopo tale affermazione: il rafforzamento della tutela dell'interesse legittimo è stato inteso come ragione per la sua scomparsa o anche come conferma della sua inesistenza. Gli argomenti utilizzati nella critica alla nozione prendono le mosse vuoi dal diritto comparato, rilevandosi che essa non è conosciuta in quasi nessun ordinamento giuridico, neanche in quelli più vicini al nostro, nonostante che il rapporto tra il potere dell'amministrazione e l'interesse dei privati sia presente ovunque (3); vuoi da concezioni ideologiche, tendenti ad eliminare o, quanto meno, a deprimere il carattere autoritario del potere amministrativo, carattere sul quale solo può (o potrebbe) configurarsi la peculiare figura dell'interesse legittimo; o ancora da convinzioni di politica del diritto, ferme nel considerare superato il sistema c.d. binario della giustizia amministrativa. Nella doverosa (ed utile) analisi di alcuni dei più interessanti filoni critici, mi è sembrato opportuno distinguere le posizioni di coloro per i quali la negazione dell'interesse legittimo è il risultato della evoluzione delle loro convinzioni, inizialmente favorevoli a riconoscerne la cittadinanza come concetto e come figura presente nell'ordinamento positivo, dalle posizioni di coloro che, negando semplicemente la figura o modificandone sostanzialmente la struttura, o l'oggetto, ovvero ragionando sulla sua natura, esprimono la convinzione che l'interesse legittimo non ha (avuto) ragione di esistere come nozione propria ed autonoma rispetto al diritto soggettivo (4). 195 Una sola notazione di ordine generale: nei primi decenni della (reale o apparente) presenza dell'interesse legittimo nell'ordinamento positivo, i suoi critici lo respingevano tra gli interessi semplici, non assistiti da alcun riconoscimento giuridico, almeno sul piano del diritto sostanziale; negli ultimi decenni i critici della nozione fanno rifluire l'interesse legittimo nell'ampia e articolata categoria del diritto soggettivo. Se non altro per questo, sul piano storico, la utilità della nozione va comunque riconosciuta. Attraverso di essa, e delle modificazioni che essa ha subito, anche in conseguenza della evoluzione della sua disciplina positiva, l'interesse legittimo è nozione che va considerata con rispetto. Vale peraltro la pena di rammentare che la nozione matura di interesse legittimo si ha con il superamento dell'idea della sua tutela solo occasionale o solo riflessa e, quindi, con il rifiuto del suo collegamento ancillare con l'interesse pubblico; con il riconoscimento della sua appartenenza al patrimonio giuridico dell'amministrato, e con il suo collegamento (diretto o strumentale) con beni della vita, che il privato vuole conservare o vuole conseguire per il tramite dell'azione (necessaria) dell'amministrazione (5). Questa precisazione serve per avvertire che la negazione dell'interesse legittimo da parte dei suoi critici può essere presa in considerazione ove riguardi la nozione surriferita, mentre non ha senso alcuno esaminare e valutare criticamente le tesi che rifiutano la figura, intesa nei suoi connotati originari e superati da lungo tempo e pressoché unanimemente dalla dottrina (6). Ciò che deve ritenersi sussistente o insussistente è l'interesse legittimo come (vera) situazione soggettiva, di diritto sostanziale, e la cui lesione espone il responsabile al risarcimento del danno. 2. Tra gli studiosi che, inizialmente favorevoli al riconoscimento della sua esistenza, hanno modificato il loro convincimento sull'interesse legittimo, alcuni lo hanno fatto sulla base di soli ripensamenti teorici, ossia rivedendo e approfondendo, in prospettive diverse, le caratteristiche tradizionali della figura, senza che nel processo di revisione abbiano avuto alcun ruolo le modificazioni della disciplina positiva, che pure sono intervenute. Alcuni tra tali studiosi hanno preso spunto (ma non argomenti) dalla constatazione della inesistenza della figura negli ordinamenti stranieri. Altri studiosi hanno invece valorizzato le novità di diritto positivo intervenute a proposito della disciplina sostanziale e processuale dell'interesse legittimo, e, in particolare per il secondo aspetto, l'affermazione della risarcibilità del danno derivante dalla sua lesione. È necessario illustrare il percorso logico seguito dagli uni e dagli altri, prendendo in esame, per ciascuno dei due orientamenti, le opere dello studioso che possa reputarsi esemplarmente significativo. Per il filone che ritiene che l'interesse legittimo abbia mutato natura (o consistenza) trasformandosi in diritto soggettivo in conseguenza della sua affermata risarcibilità, lo studioso più rappresentativo è indubbiamente Alberto Romano, sia perché egli ha lungamente meditato sulla figura dell'interesse legittimo (7), sia perché il ruolo (vorrei dire: il peso) della risarcibilità nella modificazione in diritto soggettivo è espresso con assoluta chiarezza; tanto che, facendo perno sull'idea che sussistano interessi legittimi risarcibili e interessi legittimi non risarcibili, egli ritiene che soltanto i primi siano divenuti diritti soggettivi. Il presupposto essenziale della tesi sta nella negazione che gli interessi legittimi siano (possano essere) risarcibili; negazione che a sua volta si basa sulla subordinazione degli interessi individuali agli interessi pubblici. Il maggior rilievo che l'evoluzione della disciplina positiva assegna agli interessi individuali, riconoscendone la risarcibilità comporta, secondo l'illustre studioso, il loro spostamento « dal piano subordinato a quello nel quale sono soggettivati nell'amministrazione gli interessi pubblici che deve perseguire, sul quale la protezione degli interessi individuali non può essere concettualizzata che in termini di interessi legittimi; a quello pariordinato, o quasi: sul quale la medesima protezione deve essere concettualizzata, viceversa, in termini di diritti soggettivi » (8). In breve, l'interesse legittimo per sua natura non è risarcibile; se ne viene affermata la risarcibilità la situazione soggettiva si modifica in diritto soggettivo. 196 Tale tesi, enunciata prima della pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite che ha riconosciuto la risarcibilità degli (di alcuni) interessi legittimi (9), è stata ribadita anche successivamente al modificato orientamento giurisprudenziale ( (10). Viene spiegato il perché della incompatibilità, « addirittura ontologicamente », tra interesse legittimo e risarcimento del danno: la lesione di un interesse legittimo può essere provocata « solo da un provvedimento (illegittimo, e in quanto lo sia). Mentre un danno può essere provocato solo da un comportamento di fatto » ( (11). Pertanto l'interesse legittimo non è risarcibile perché la sua lesione non comporta danno ( (12). La tesi sta e cade con i suoi presupposti: se l'interesse legittimo è situazione di diritto sostanziale che può subire lesioni, non si vede per quale motivo tali lesioni non possano provocare danni, almeno in astratto risarcibili. Non può essere nemmeno condivisa l'idea secondo la quale la lesione dell'interesse legittimo può essere provocata solo dal provvedimento: anche l'inerzia o il comportamento illegittimo e colpevole dell'amministrazione può ledere l'interesse legittimo (13); e non è affatto necessario trasformare l'interesse legittimo in diritto soggettivo per spiegare la risarcibilità dei danni conseguenti alla sua lesione. L'interesse legittimo resta, nella sua essenza, identico sia che positivamente sia risarcibile sia che non lo sia: è sempre una situazione giuridica soggettiva che si confronta con il potere precettivo unilaterale dell'amministrazione ( (14). Va richiamato anche l'orientamento della Corte costituzionale, che ha sostenuto che la tutela risarcitoria è « uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione » (15). Il fatto che la Corte costituzionale escluda che la tutela risarcitoria possa dare luogo ad una (nuova) materia di giurisdizione esclusiva comporta che, almeno nel convincimento dei giudici costituzionali, non c'è alcuna incompatibilità tra tale forma di tutela e la situazione soggettiva di interesse legittimo. Il recente codice del processo amministrativo ha ulteriormente ampliato i mezzi di tutela degli interessi legittimi, sia sotto il profilo delle azioni proponibili dinanzi al giudice amministrativo, sia sotto il profilo del sistema probatorio. Anche tale ampliamento non ha influenza sulla essenza (concettuale) dell'interesse legittimo, il quale si arricchisce semplicemente di ulteriore tutela sul piano del diritto positivo. In linea generale esprimo il convincimento che la distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo non sta nel (o non si riduce soltanto al) tipo di tutela all'uno e all'altro attribuito (16), ma si radica nella struttura teorica delle due situazioni giuridiche soggettive. 3. Esemplare della evoluzione del pensiero da una posizione iniziale di accettazione della figura dell'interesse legittimo ad una posizione finale di netto rifiuto, evoluzione che non fa leva sulle (pur intervenute) modificazioni di diritto positivo, e viene motivata sulla base di una mutata (o maggiormente approfondita) considerazione del quadro teorico di riferimento, si trova nelle opere di Franco Ledda. In quelle più risalenti la nozione è pienamente accettata; e, ciò che maggiormente rileva (dato anche il dibattito allora fervente), viene identificata come situazione soggettiva del privato, preesistente rispetto alla emanazione del provvedimento, e che « si caratterizza solo per il fatto che alla sua determinazione concorre la norma di dovere, cioè la qualificazione di un agire nel senso della necessità giuridica » da parte dell'amministrazione (17). Nelle opere successive si scorgono le ragioni del ripensamento: l'impossibilità di accettare la degradazione dei diritti (18), la denunzia del deficit di tutela nei confronti dell'amministrazione (19), il rifiuto del carattere autoritario dell'azione amministrativa ( (20). Si tratta di ragioni molto serie e in larga parte condivisibili. Ormai nessuno più accetta il fenomeno della degradazione dei diritti soggettivi a interessi legittimi; e la dottrina è compatta nell'auspicare un migliore livello di tutela nei confronti dell'amministrazione, e d'altronde la giurisprudenza ha compiuto notevoli passi avanti e anche il legislatore si è fatto carico del problema (21). Sul carattere autoritativo dell'azione amministrativa, mentre c'è totale accordo in dottrina sull'esigenza 197 di limitarlo mediante opportune misure di contenimento della discrezionalità e della unilateralità delle decisioni, non c'è accordo sulla opportunità di sostituirlo con una disciplina di carattere paritario, che, richiamando il regime privatistico della produzione giuridica, rischia di essere un rimedio peggiore del male (22). Dei difetti del sistema Ledda fa carico all'interesse legittimo, il quale, secondo il suo convincimento, non è quella « figura ulteriore della difesa delle libertà del cittadino », che il costituente aveva nutrito l'illusione che fosse (23); e il processo amministrativo « che si pensava più appropriato per la tutela dell'interesse legittimo è del tutto insufficiente rispetto al bisogno di giustizia che cresce a dismisura nella società » ( (24). L'abbandono della nozione di interesse legittimo è necessario anche perché essa, « comunque formulata, non riesce tra l'altro ad assorbire l'urto della normativa comunitaria » (25). Nelle ultime opere l'attacco alla figura dell'interesse legittimo diventa polemico e impietoso. Ad esso vengono addebitati tutti i mali della nostra « esperienza disastrosa maturata in centodieci anni » (26); anzi gli addebiti possono essere compendiati in una notazione di portata generale: « la promozione del suddito di un tempo a cittadino non si è ancora avuta, poiché i diritti soggettivi sono stati attenuati o debilitados » (27). In definitiva, « il diritto soggettivo è una categoria essenziale della libertà » mentre l'interesse legittimo — comunque definito, posizione attiva od inattiva secondo le diverse presentazioni dottrinali — è una categoria che corrisponde necessariamente al potere di un'autorità e quindi può pensarsi solo come soggezione » (28). In termini precisi, « l'interesse legittimo è soltanto « il diritto soggettivo che si difende dal potere, e col potere si vuole confrontare » ( (29). Questa affermazione costituisce il risultato ultimo del lungo e sofferto lavorio di approfondimento, non tanto della figura dell'interesse legittimo, che sembra rappresentare piuttosto il « capro espiatorio », quanto del sistema delle tutele (particolarmente delle tutele giurisdizionali) dei privati nei confronti dell'amministrazione. Sembra peraltro che il chiarissimo Autore abbia preso in considerazione solo una species di interessi legittimi, gli interessi oppositivi, che, secondo la tradizione risalente a Ranelletti (30), possono essere ritenuti (sotto diverso profilo, niente più che) il risultato dell'affievolimento dei diritti soggettivi. A prescindere dalla già rilevata negazione della validità teorica della vicenda dell'affievolimento dei diritti, va sottolineato che la Corte di cassazione si risolse ad « inventare » tale vicenda per aumentare, e non per diminuire, l'efficienza della tutela nei confronti dell'amministrazione (31), con ciò riducendo (e di molto) l'ampiezza della sua giurisdizione. Per quanto attiene agli interessi pretensivi (che non « nascono » dalla « trasformazione » di diritti soggettivi), la critica di Ledda non trova basi: la legge del 1889 volle attribuire tutela ad interessi che, non essendo riconosciuti come diritti, per l'innanzi ne erano privi. Nulla impedisce di chiamare anche questi interessi con il nome di diritti soggettivi, né impedisce di considerare diritti soggettivi gli interessi oppositivi (eliminando la vicenda dell'affievolimento), ma questo non ne cambia la struttura teorica né aumenta l'ampiezza o la effettività della loro tutela, che dipende dal diritto positivo (e non dal nomen delle situazioni soggettive). Non è peraltro dimostrato, né, a mio parere, è facile dimostrare che, laddove il sistema delle tutele si fonda (come avviene in altri ordinamenti, che ignorano l'interesse legittimo) sulla figura del diritto soggettivo, esso sia più completo ed efficace. Comunque il livello delle tutele può benissimo elevarsi senza perciò rinunciare alla figura dell'interesse legittimo (32). Della quale, sia chiaro, si può benissimo fare a meno, ma solo (almeno in sede scientifica) se si dimostra che essa non si differenzia in alcun modo dal diritto soggettivo. Ora quando si sostiene che l'interesse legittimo è il diritto soggettivo che si difende dal potere, ovvero quando si afferma che le implicazioni sostanziali dell'interesse legittimo, come quelle che riguardano la partecipazione al procedimento, « possono spiegarsi assai semplicemente e forse ancor più chiaramente come forme o 198 espressioni ulteriori di tutela del diritto soggettivo » (33), si salva per intero la sostanza dell'interesse legittimo, proponendo di modificarne soltanto la denominazione ( (34). Si tratta di una « rivoluzione » semplicemente terminologica. 4. L'attacco più deciso ed argomentato avverso la figura dell'interesse legittimo si rinviene in una serie di contributi facenti coralmente capo ad una cospicua frazione della Scuola fiorentina di diritto amministrativo (35). Anche in questo caso si parte da concetti condivisibili: viene negato (e, a mio avviso, non può nemmeno ipotizzarsi) un rapporto di subordinazione dell'interesse legittimo (o, comunque, dell'interesse di soggetti privati, come che lo si voglia costruire giuridicamente) rispetto all'interesse pubblico. È pur vero che, secondo molti studiosi (in opere peraltro non recentissime), tale rapporto di subordinazione è ancora ritenuto caratterizzante l'interesse legittimo, ma è fondato aggiungere che si tratta di concezioni che non hanno perso il legame con l'idea che l'interesse legittimo non sia altro che un interesse occasionalmente protetto (36). Il punto più rilevante, secondo questo orientamento, sta nella distinzione di « due piani »: la rilevanza degli interessi e le forme di tutela. Da questo punto di vista l'« unico interesse sostanziale protetto » può godere di forme diverse di tutela: l'interesse legittimo è solo una forma di tutela dell'interesse sostanziale nei confronti dell'amministrazione; tutela costitutiva, che affianca la tutela risarcitoria, che, come tale, è estranea alla nozione di interesse legittimo (37). Il risultato è che l'interesse legittimo non è da considerarsi alla stregua di una situazione giuridica soggettiva. La tesi è ancora incompleta, dato che si afferma semplicemente che esso si risolve in una forma di tutela di un interesse sostanziale protetto. A completare il quadro interviene una intelligente ricerca, che prende in considerazione in modo critico la struttura dell'interesse legittimo, iniziando con il respingere l'idea della sua correlazione con l'esercizio del potere amministrativo (38). Si rileva che, essendo l'interesse legittimo una situazione giuridica attiva, « a esso non può essere contrapposta (o, il che è lo stesso, correlata) una posizione di potere, parimenti attiva, bensì una situazione appartenente al genere delle situazioni giuridiche passive » ( (39). Poiché l'amministrazione è gravata da obblighi di comportamento, l'interesse legittimo « non può non consistere che in una situazione di pretesa » ( (40). Diventa a questo punto necessario dare sistemazione al potere, il quale, pur non essendo correlabile con l'interesse legittimo, conserva tuttavia integro il suo ruolo. Il problema viene risolto distinguendo due coppie di situazioni soggettive: la coppia potere/soggezione e la coppia pretesa/obbligo (41). L'interesse legittimo, inteso come pretesa, viene definito come « diritto di credito (avente ad oggetto una prestazione consistente in un comportamento — in un atto — dalle caratteristiche predeterminate ». Esso ha un contenuto composito, includente poteri e facoltà, come qualsiasi altro diritto soggettivo (42). Poteri e facoltà stanno a fronte degli obblighi (o pretesi tali) che la legge pone a carico dell'amministrazione, allorché essa esercita il suo potere (43). L'interesse legittimo « finisce per confondersi con l'interesse alla legittimità degli atti amministrativi » ( (44). Sostanzialmente l'interesse legittimo viene inteso come diritto (di credito) ad un comportamento legittimo dell'amministrazione, che esercita il suo potere; potere che, peraltro, non si confronta con alcuna pretesa (che riguarda gli obblighi di comportamento) e trova di fronte a sé una mera soggezione (45). Di poco successiva è una ulteriore presa di posizione, espressa peraltro in termini più prudenti: si rappresenta « l'ipotesi » che l'interesse legittimo e il diritto soggettivo siano « fattispecie con identica struttura: un rapporto fra un interesse ed un altrui potere unilaterale », per affermare, con piena consequenzialità, che « a struttura identica converrebbe attribuire una identica denominazione » (46). Che l'interesse legittimo sia niente altro che il diritto alla legittimità viene invece decisamente affermato in una sostanzialmente coeva opera monografica di grande originalità e di indubbio rilievo 199 (47). In essa si riafferma che i doveri procedimentali di comportamento « assumono l'identità di veri e propri obblighi a cui fanno riscontro diritti soggettivi « autonomi », svincolati, cioè, dall'interesse all'utilità finale e da questo del tutto indipendenti » ( (48). Ciò che rileva maggiormente è che viene « espunto il merito in senso stretto dall'area della tutela » ( (49). Potrebbe pensarsi che, riducendo la tutela del privato alla sola facoltà (o diritto) di pretendere l'adempimento di obblighi (o doveri) gravanti per legge sull'amministrazione, si sia fortemente compressa (o ridotta) la « dimensione » della tutela. Di questa possibile obiezione si sono fatti carico i sostenitori della tesi che si sta esaminando, e l'hanno risolta richiamandosi ad una clausola generale di comportamento, alla clausola cioè di buona amministrazione, « che deve considerarsi un vero e proprio obbligo » (50). Il puncutm dolens poteva peraltro essere rappresentato dall'eccesso di potere, tradizionalmente rappresentato come mezzo tipico della tutela di interesse legittimo. Ebbene, in una recente opera, avente ad oggetto appunto l'eccesso di potere, anche questo aspetto viene affrontato e (almeno apparentemente) risolto (51). Le figure sintomatiche dell'eccesso di potere sono state ricondotte alla violazione di clausole generali, cosicché l'eccesso di potere « si traduce (si riduce) nell'inadempimento dell'obbligo dell'amministrazione di comportarsi secondo le clausole generali, che rende la sua condotta illegittima (contra ius) ed, eventualmente, illecita » ( (52). 5. La tesi coralmente elaborata e prospettata dalla Scuola fiorentina si articola nei seguenti passaggi logici: i vincoli che gravano sull'amministrazione nel momento in cui esercita il suo potere (ossia, di norma, nell'ambito del procedimento) sono da intendersi come veri e propri obblighi di comportamento, cui corrispondono in capo al privato (o, ai privati, se si tiene conto anche dei controinteressati) veri e propri diritti soggettivi; questi diritti non sono peraltro correlati con il potere, almeno per quanto riguarda quelle frazioni del suo esercizio che danno luogo a scelte di puro merito amministrativo; l'interesse legittimo è, secondo gli uni, mera soggezione (al potere) e, secondo altri, diritto alla legittimità, sia pure allargata a comprendere una serie di clausole generali che riguardano (nuovamente) il comportamento dell'amministrazione. Va, a mio avviso, respinta, in primo luogo, l'osservazione di fondo, secondo la quale l'interesse legittimo non è in rapporto con il potere; anzi non potrebbe (nemmeno teoricamente) esserlo, dato che entrambe sono situazioni giuridiche attive. Si tratta di una visione affetta da schematismo pregiudiziale, che non tiene conto del modo di essere della produzione giuridica di diritto amministrativo. Entrambe le situazioni (potere autoritativo e interesse legittimo) vivono nell'ambito di una vicenda dinamica, che mena alla definizione di un (nuovo) assetto di interessi, nel quale si colloca la soddisfazione dell'interesse pubblico e può trovare posto la soddisfazione dell'interesse privato (53). Senza arrivare all'idea (da respingere), secondo cui si verificherebbe un fenomeno di co-decisione, non si può negare che amministrazione e privati collaborino, ciascuno con il suo ruolo e le sue facoltà, nella determinazione della decisione definitiva (o finale). Diventa evidente pertanto che, avendo la medesima direzione, le due situazioni soggettive sono entrambe attive. Ricondurre la posizione dei privati a fronte del potere amministrativo alla nozione di soggezione significa riportare il calendario al tempo precedente il 1889, quando nessuna tutela effettiva era offerta fuori dal ristretto ambito dei « diritti civili e politici » (54). La elevazione a diritti soggettivi delle facoltà che il privato può esercitare nell'ambito del procedimento (operazione in sé non disdicevole) non ne elimina il carattere di meri strumenti di tutela; tutela che, secondo le due diverse concezioni dell'interesse legittimo accolte in giurisprudenza e dianzi richiamate (55), è diretta, se si ipotizza la esistenza di un interesse al provvedimento (favorevole), e che è indiretta, se si fa riferimento all'interesse finale o materiale avvertito dal privato ( (56). Nel primo caso ha carattere strumentale la situazione soggettiva di interesse legittimo; nel secondo caso sono strumentali le facoltà e i poteri rientranti nella nozione di interesse legittimo. 200 Il diritto alla legittimità, anche allargando (com'è giusto e com'è condivisibile) la nozione di legittimità a ricomprendere le clausole generali di comportamento, non rispecchia appieno il proprium dell'interesse legittimo: il privato, nel corso del procedimento, tende ed è legittimato ad influire proprio sulle scelte di merito, cercando di orientare l'amministrazione, cui rimane riservata la decisione, verso soluzioni che consentano la soddisfazione del suo interesse finale (o materiale) (57). Che la tutela del privato sia limitata alla (verifica della) legittimità dell'azione (o inazione) dell'amministrazione è senz'altro vero sul piano del processo, ma è opinione riduttiva sul piano sostanziale: con riferimento al procedimento, dove la facoltà del privato di influenzare le scelte di (puro) merito, è pienamente riconosciuta e garantita; con riguardo al sistema dei ricorsi amministrativi, ove tale facoltà è integralmente tutelabile (58). Allargando il discorso all'insieme delle teorie critiche sull'attualità (o, anche, sulla validità teorica) della figura dell'interesse legittimo, si può rilevare che le più moderne tra esse lo rapportano alla categoria del diritto soggettivo; ma, si faccia attenzione, come specie particolare o sui generis di diritto soggettivo (59), ovvero come profilo di ulteriore tutela del diritto soggettivo ( (60). Ebbene, se vogliamo inquadrare l'interesse legittimo nell'ambito dell'ampia ed articolata categoria dei diritti soggettivi, nessuna ragione logica lo può impedire, almeno sul piano teorico (61), ma bisogna aver ben presente che di un diritto soggettivo particolare (o speciale) si tratterebbe. E allora sembra opportuno lasciare a questo speciale diritto soggettivo il suo nome tradizionale. Anche per non gravare ulteriormente sulla già troppo articolata categoria del diritto soggettivo, in modo da evitare il rischio che questa da figura concettuale con propri caratteri distintivi si trasformi in una nozione generica, o, peggio, in una mera espressione verbale. È però del tutto ingiustificata l'idea che tutti i suoi critici propugnano a proposito dell'interesse legittimo, e che è spesso alla base dei loro argomenti, e cioè che esso sia una situazione soggettiva « minore o subalterna », o che sia tutelato in modo meno pieno del diritto soggettivo: l'interesse legittimo è situazione semplicemente diversa dal diritto soggettivo (62) ed è dotato di tutela articolata in strumenti in parte diversi, ma non minore né subordinata (meno che mai all'interesse pubblico). 6. Anche se i « ripensamenti » critici sulla figura dell'interesse legittimo non sono, a mio avviso, condivisibili, non si può non riconoscere che essi contribuiscono notevolmente alla migliore conoscenza e alla più accurata analisi di un concetto che, bisogna riconoscerlo, non è di facile e pronta accettabilità. Ferma la predicabilità della figura sul piano teorico e incontestabile la sua utilizzazione sul piano del diritto positivo italiano, mi corre l'obbligo di verificare se l'interesse legittimo si sia modificato nella sua consistenza per effetto delle sopravvenute riforme legislative. È facile rammentare le disposizioni costituzionali che hanno reso « palpabile » il carattere sostanziale dell'interesse legittimo; ed è indubitabile che la legge sul procedimento ha concretamente e profondamente influito, aumentandoli, i mezzi sostanziali (ma anche processuali) della sua tutela. Tutto ciò è peraltro noto e, vorrei aggiungere, definitivamente acquisito. Sono, peraltro, sopravvenuti altri elementi di diritto positivo, che possono influire (e hanno influito) sul modo di essere dell'interesse legittimo. Ne indico quattro, ma potrebbero essercene altri: 1. la dequotazione dei vizi formali; 2. l'introduzione della categoria della nullità del provvedimento amministrativo; 3. il risarcimento del danno, non in quanto mera risarcibilità, ma in quanto possibilità di reintegrazione in forma specifica; 4. la disposizione contenuta nella legge di delega sulla riforma del processo amministrativo (art. 44, co. 2, lett. b), n. 4, l. 18 giugno 2009, n. 69), che prevede la introduzione nel processo amministrativo di « pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa », e, da ultimo, il decreto legislativo, con il quale la delega è stata attuata. Con i primi due elementi di novità si è inciso in modo tutt'altro che marginale sulla disciplina della validità dei provvedimenti amministrativi: da un lato è stata delimitata l'area della illegittimità 201 sanzionata con la annullabilità; dall'altro è stata aggiunta la sanzione che comporta l'inefficacia del provvedimento illegittimo. Poiché la rilevanza dell'interesse legittimo è connessa con la legittimità dell'azione amministrativa, le innovazioni suindicate non possono ritenersi estranee al perimetro e alla intensità della sua tutela, almeno quando quest'ultima abbia come obiettivo provvedimenti amministrativi (e non, ad esempio, l'inerzia). La nullità, in teoria, dovrebbe rendere più intensa la tutela dell'interesse legittimo, dato che esclude la efficacia, e, con essa, la esecutività e l'esecutorietà, del provvedimento che ne sia affetto. Tuttavia, sul piano sostanziale, o, se si preferisce, nella concreta realtà dei comportamenti dell'amministrazione, è davvero difficile ipotizzare che vi possa essere diversità di atteggiamenti di fronte a provvedimenti nulli rispetto a provvedimenti annullabili. L'amministrazione tenderà in entrambi i casi a comportarsi in modo identico, sia per quanto riguarda l'autotutela sia per quanto attiene alla esecuzione dei provvedimenti (63). Sul piano processuale la tutela avrebbe potuto essere effettivamente diversa e più intensa, se si fosse assicurata alla nullità lo stesso trattamento previsto in via generale dal codice civile. Il codice del processo amministrativo tratta invece la nullità in modo assai simile all'annullabilità, sottoponendo l'azione volta al suo accertamento al termine di decadenza di 180 giorni (64). La limitazione dei motivi di annullamento del provvedimento, vista in un quadro sistematico, completa l'evoluzione della misura della tutela e del relativo processo verso un tipo di tutela perfettamente corrispondente all'interesse sostanziale del privato e verso un tipo di processo pienamente ed esclusivamente di carattere soggettivo. In altri termini quello che viene tutelato, secondo la nuova disciplina della annullabilità, è l'interesse effettivo del ricorrente, e soltanto quello: i vizi di legittimità, che non influiscono sull'interesse del ricorrente, devono essere trascurati, e non danno più luogo ad annullamento del provvedimento (65). Si rende evidente che la tutela (e il processo) non hanno lo scopo di garantire (sempre e comunque) la legittimità dell'azione dell'amministrazione: l'annullamento viene escluso quando l'illegittimità non ridonda in lesione dell'interesse che costituisce il sostrato materiale della situazione soggettiva di interesse legittimo (66). In ogni caso la nullità sembra rilevante nel sistema delle tutele dell'interesse legittimo, dato che comporta l'esperibilità dell'azione di accertamento: accertamento che, a mio avviso, non riguarda soltanto il (la nullità del) provvedimento impugnato, ma il modo di essere del rapporto che si pone tra l'amministrazione e il privato, ossia le posizioni reciproche dell'amministrazione, che ritiene di dover sacrificare l'interesse sostanziale del privato e quest'ultimo che intende difenderlo (attraverso le facoltà inerenti all'interesse legittimo) (67). 7. Risulta evidente il salto di qualità nella effettività della tutela dell'interesse legittimo che derivava, anche precedentemente all'entrata in vigore del codice, dalla possibilità di ottenere il risarcimento nella sottospecie della reintegrazione in forma specifica (68). Il titolare dell'interesse legittimo può chiedere al (ed ottenere dal) giudice amministrativo non soltanto il riequilibrio patrimoniale, bensì la piena soddisfazione della sua pretesa sostanziale. Sotto questo profilo il codice del processo amministrativo ha ampliato le possibilità di una tutela effettiva, conferendo al giudice il potere di adottare tutte le « misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio » (69), prescindendo dal risarcimento del danno. Cosicché il giudice può condannare l'amministrazione ad adottare i provvedimenti (o a tenere i comportamenti) che sono necessari per tutelare a pieno l'interesse legittimo e, per questo tramite, soddisfare eventualmente l'interesse finale (o sostanziale). La disciplina introdotta con il codice del processo amministrativo rileva in modo positivo anche a proposito della tutela avverso l'inerzia dell'amministrazione, sia perché consente al giudice di « pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio », « quando si tratta di attività vincolata 202 o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione » (70); sia perché prevede il risarcimento del danno derivante dalla « inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento » (71). È pur vero che bisogna fare i conti anche con ciò che non traspare dal testo scritto dal codice e, in questa chiave, con i convincimenti tralatizi dei giudici amministrativi. Ad esempio, mentre il codice non pone scale di priorità tra le azioni esperibili, e consente chiaramente che l'azione di risarcimento sia proponibile, come si usa dire, in via autonoma, ossia senza previa o contestuale proposizione dell'azione di annullamento, si conserva in modo diffuso la convinzione della centralità di quest'ultima azione; per cui l'azione autonoma di risarcimento rischia di essere confinata ad ipotesi marginali, ai casi in cui l'annullamento non può essere utilmente chiesto (72). In via generale può affermarsi che, come la legge sul procedimento ha fortemente rafforzato le facoltà (connesse con l'interesse legittimo) spendibili sul piano sostanziale, così il codice del processo amministrativo ha profondamente rafforzato i mezzi della sua tutela processuale: tra l'ampliamento del ventaglio delle azioni di cognizione e la rivisitazione del giudizio di ottemperanza, l'interesse legittimo ha acquisito una consistenza giuridica tale da superare le perplessità e i dubbi di inadeguatezza esposti dalle dottrine analizzate (73). Ove si tenga conto delle limitazioni che tutt'ora vigono nella tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi, con i divieti imposti al giudice ordinario dalla legge del 1865, mi sembra giustificato ritenere che, attualmente, l'interesse legittimo gode di una tutela migliore (più articolata, più pronta, più efficiente) rispetto a quella assegnata al diritto soggettivo, che si trovi coinvolto nell'esercizio del potere autoritativo (74). 8. Da quanto appena esposto si deduce che l'interesse legittimo si è profondamente evoluto nel tempo: una volta assunte le sembianze e la consistenza di situazione soggettiva di diritto sostanziale, la sua « protezione » giuridica si è andata viepiù arricchendo sia nel procedimento sia nel processo. Per quanto riguarda la tutela giurisdizionale si è finalmente data attuazione alla Costituzione, che escludeva in modo chiaro limitazioni di mezzi di tutela nei confronti dell'amministrazione pubblica (75). Sulla scorta di tale profondo cambiamento, e non pertanto sulla base del solo riconoscimento della sua risarcibilità, è di nuovo lecito porsi la domanda circa la sopravvivenza (rispetto al mutato sistema di tutela) nel nostro diritto positivo della figura concettuale dell'interesse legittimo (e la conseguente esclusione della sua trasformazione in diritto soggettivo). L'ampliamento e l'efficientamento dello strumentario di tutela ha fatto pensare allo scorrimento del giudizio di legittimità verso il giudizio di spettanza; e ciò potrebbe condurre a ritenere che l'oggetto della tutela non sia più l'interesse legittimo, ossia l'interesse strumentale all'ottenimento, per opera dell'amministrazione, della soddisfazione dell'interesse sostanziale (il bene della vita), ma sia direttamente l'interesse sostanziale, definibile, in quanto tale, come diritto soggettivo o come aspettativa tutelata (76). 9. L'evoluzione del processo amministrativo verso il giudizio di spettanza, a prescindere dal verificare ciò che effettivamente spetta al privato a fronte del potere precettivo unilaterale dell'amministrazione (con ovvia distinzione tra poteri vincolati, parzialmente vincolati o discrezionali), non comporta affatto la modificazione della situazione soggettiva che nel processo viene tutelata, ma incide semmai, a mio avviso, sull'oggetto del giudizio, sull'ampiezza della materia del contendere (77). In primo luogo, infatti, il sistema di protezione dell'interesse legittimo resta profondamente diverso dal sistema di protezione del diritto soggettivo, soprattutto quando sul diritto soggettivo piombano gli effetti di provvedimenti autoritativi. Semmai è la tutela propria del diritto soggettivo che è rimasta quale era stata disegnata dalla legge di abolizione del contenzioso amministrativo; ed è questo deficit di tutela giurisdizionale che presumibilmente convinse le Sezioni Unite della Cassazione a recepire, sulla scorta delle anticipazioni di Ranelletti, il meccanismo della degradazione; meccanismo tanto 203 teoricamente incongruo quanto praticamente utile per adeguare la tutela del diritto soggettivo a quella, già allora più intensa, dell'interesse legittimo (78). A seguito dell'affermazione, come istituto di diritto positivo, della degradazione dei diritti soggettivi, allorché siano interessati dall'esercizio del potere autoritativo dell'amministrazione, a fronteggiare tale potere resta (soltanto) l'interesse legittimo. Ed è comprensibile, pertanto, che il potenziamento della protezione dei privati nei confronti dell'amministrazione si sia risolto completamente nell'aumento e nella intensificazione dei mezzi di tutela dell'interesse legittimo (79). 10. Questo tipo di evoluzione del diritto positivo, nonostante la ricorrente apparizione della retorica del diritto soggettivo, è coerente con la ricostruzione teorica dei rapporti tra amministrazione pubblica, titolare di poteri autoritativi, e privati, interessati al modo in cui tali poteri vengono esercitati (o non esercitati). L'interesse sostanziale, il bene della vita, è ciò su cui il potere si può scaricare, togliendolo o attribuendolo al privato, attraverso la realizzazione di un nuovo assetto di interessi, nel quale sono coinvolti, oltre all'interesse del destinatario del provvedimento, anche interessi privati ulteriori e contrapposti (80). Il bene della vita è pertanto l'oggetto da difendere o da conquistare; l'azione (o l'inazione) dell'amministrazione è il mezzo necessario per difenderlo o conquistarlo. È ovvio allora che il privato sviluppi un interesse (in questo senso strumentale) a « collaborare » con l'amministrazione, allorché questa intenda (o sia chiamata ad) esercitare il suo potere; esercizio che abbia come obiettivo un (nuovo) disegno di interessi, che coinvolga (anche) l'interesse sostanziale (o finale) da difendere o realizzare da parte del privato (81). Tale interesse strumentale viene denominato interesse legittimo; potrebbe benissimo essere chiamato diritto soggettivo o, come è stato più volte proposto, profilo di ulteriore rilevanza del diritto soggettivo. L'unica avvertenza è di non confondere l'interesse strumentale, che vive nel procedimento, ossia nella fase di esercizio del potere autoritativo, con l'interesse finale o sostanziale, che sta fuori dal procedimento, e costituisce l'oggetto su cui il potere unilaterale potrà incidere (favorevolmente o sfavorevolmente) (82). Pur nelle diverse formulazioni, e senza sottovalutare le differenze, anche profonde, tra l'una e l'altra opinione, mi sembra di poter affermare che l'interesse legittimo è ancora largamente riconosciuto come categoria concettualmente valida e come figura presente nel diritto amministrativo italiano (83). Una precisazione sembra importante aggiungere: le facoltà nelle quali si articola l'interesse legittimo non sono soltanto facoltà formali di stimolo dell'azione amministrativa; esse riguardano anche (e direttamente) la decisione, ossia il nuovo disegno degli interessi. Ciò in relazione all'obiettivo che l'amministrazione deve perseguire mediante l'esercizio del suo potere precettivo unilaterale. Obiettivo che non è (semplicemente e riduttivamente) quello della massimizzazione del (solo) interesse pubblico, ma è quello di ricercare, nella definizione del nuovo assetto di interessi, il migliore equilibrio tra l'interesse pubblico e gli interessi dei privati. Secondo l'insuperabile insegnamento di Giandomenico Romagnosi (84). Note: (*) Il presente lavoro costituisce la rilettura e l'integrazione della relazione, avente lo stesso titolo, presentata al Convegno di Varenna del settembre 2009; ed è destinato agli studi in onore di Alberto Romano. (1) G. Pescatore,Attualità dell'« interesse legittimo » tra ripensamenti della dottrina e indicazioni della giurisprudenza, in Studi per il Centenario della Quarta Sezione, vol. II, Roma, 1989, 549 ss.Rileva P. che « l'interesse legittimo, figura centrale e dominante del diritto e del processo amministrativo, è stato comunemente inteso come situazione soggettiva di vantaggio, avente ad oggetto un bene della vita, nei confronti di un soggetto pubblico titolare di potestà » (350). (1) L'argomento tratto dal diritto comparato è utile a dimostrare che l'interesse legittimo può non essere 204 una categoria utilizzata in diritto positivo; ma è del tutto inadeguato a sostenere che l'interesse legittimo non abbia una sua configurazione concettuale. (1) L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia. I: Teoria del diritto, Roma-Bari, 2007, 652, sostiene che non ha « spazio la figura spuria degli « interessi legittimi », ai quali i diritti soggettivi sarebbero degradati ad opera di atti amministrativi ». La tesi, che peraltro si basa su una personale ampia nozione di diritto soggettivo, rappresenta una delle ultime negazioni, forse un po' troppo sbrigativa, della figura. (1) È utile riportare due definizioni dell'interesse legittimo, accolte nella giurisprudenza della Corte di cassazione. Secondo la notissima sentenza delle Sezioni Unite 22 luglio 1999, n. 500, l'interesse legittimo va « inteso (ed ormai in tal senso viene comunemente inteso) come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell'attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell'interesse al bene ».Tale definizione dell'interesse legittimo, che riecheggia da presso la nota tesi esposta da M. Nigro, nella sua Giustizia amministrativa, 6ª ed. (a cura di E. Cardi e A. Nigro), Bologna 1976, 103, è stata ripresa da ultimo dal Consiglio di Stato (Ad. Plen. 23 marzo 2011, n. 3).Più articolato è il ragionamento svolto da Cass., sez. I, 10 gennaio 2003, n. 157: « dall'inizio del procedimento l'interessato, non più semplice destinatario passivo dell'azione amministrativa, diviene destinatario di obblighi che la stessa sentenza 500/99/SU identifica nelle « regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione pubblica deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità ». Cosicché « tali interessi, di partecipare al procedimento, di vederlo concluso tempestivamente e senza aggravamenti, di poter accedere ai documenti in possesso dell'amministrazione, di vedere prese in esame le osservazioni presentate, di veder motivata la decisione che vanifica l'aspettativa, costituirebbero, secondo una lettura estrema, veri e propri diritti soggettivi, tutelati in quanto tali, e non situazioni strumentali alla soddisfazione di un interesse materiale che verrebbe quindi protetto sub specie di interesse legittimo ». Di sicuro, conclude la Suprema Corte « l'interesse al rispetto di queste regole, che costituisce la vera essenza dell'interesse legittimo, assume un carattere del tutto autonomo rispetto all'interesse al bene della vita: l'interesse legittimo si riferisce a fatti procedimentali. Questi a loro volta investono il bene della vita, che resta però ai margini, come punto di riferimento storico ».Questa seconda concezione è più vicina a quanto io stesso ho in più occasioni sostenuto: l'oggetto proprio dell'interesse legittimo è il comportamento dell'amministrazione, ma solo in quanto tale comportamento consente di conservare o di acquisire una utilità sostanziale (la conservazione di un bene di proprietà, l'acquisizione del diritto su un bene di proprietà pubblica, la possibilità effettiva di esercitare un'attività astrattamente consentita, l'ammissione allo svolgimento di attività riservate all'amministrazione). È in tale tensione verso una utilità sostanziale che occorre vedere il carattere strumentale dell'interesse legittimo, strumentale rispetto ad un interesse sostanziale del privato, non certo alla soddisfazione dell'interesse pubblico. Avendo ad oggetto il comportamento dell'amministrazione e, in particolare (o almeno il più delle volte), il provvedimento, l'interesse legittimo vive nel procedimento, ossia nella sede in cui il potere viene esercitato e il provvedimento prende forma e contenuto e si sostanzia in atto giuridico precettivo, determinando un (nuovo) assetto di interessi, coinvolgente sia l'interesse pubblico sia l'interesse sostanziale del privato. (1) Come quando si rifiuta, ad esempio, la figura dell'interesse legittimo, inteso come interesse occasionalmente protetto.Vale, a questo proposito, ricordare le impareggiabili parole di M.S. Giannini, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. dir. proc. 1964, 38 dell'estratto: definito come interesse occasionalmente protetto, l'interesse legittimo è « qualcosa di ancor meno di una aspettativa legittima, perché questa gode di tutela diretta, mentre quello solo di tutela riflessa; ossia è un'aspettativa a tutela riflessa, l'infima, diremmo oggi, delle situazioni soggettive che possa pensare un cervello 205 giuridico ». E prosegue: « difficile capire come una tesi così insoddisfacente abbia potuto riscontrare tanto successo, anche presso giuristi di indubbia acutezza ».È incredibile che ancora recentemente ci siano studiosi che, sia pure per criticarlo, intendano l'interesse legittimo come interesse occasionalmente protetto. (1) Prendendo in considerazione soltanto alcune delle opere in cui Alberto Romano si è occupato dell'interesse legittimo (le opere che mi sono apparse più rilevanti), va rilevato che, in un denso lavoro del 1981 (Interesse legittimo e ordinamento amministrativo, in Atti del Convegno celebrativo del 150º anniversario della istituzione del Consiglio di Stato, Milano, 1983), facendo leva sulla distinzione dell'ordinamento amministrativo rispetto all'ordinamento generale, intende l'interesse legittimo come « il diritto soggettivo dell'ordinamento amministrativo » (182).Diritto soggettivo e interesse legittimo hanno la medesima struttura; la differenza tra le due situazioni giuridiche soggettive, entrambe sostanziali, fa perno « totalmente sulla diversità di norme, e quindi di ordinamenti, dalle quali e nei quali esse trovano tutela » (183).La nozione « vera » di interesse legittimo viene individuata in un interesse individuale che « coincide con uno degli interessi dei quali l'amministrazione deve tener conto, e dunque è protetto in modo sostanziale: (...) il vero interesse legittimo (...) deve essere tenuto accuratamente distinto da quelle parvenze di interessi individuali protetti da norme di azione che è necessario inventare, se si vuole seguitare a vederli come oggetto della tutela giurisdizionale amministrativa » (191). Ciò significa in definitiva che è sempre « l'interesse pubblico ad essere la misura della tutela degli interessi individuali » (199).La distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo trova « una corposa radice sostanziale » nella « diversità degli interessi pubblici dei quali l'uno e l'altro, rispettivamente, sono funzione. Il diritto soggettivo è in funzione dell'interesse dell'ordinamento generale, e l'interesse legittimo è in funzione dell'interesse dell'amministrazione » (200). Riprendendo a distanza di alcuni anni, nel 1989, il tema, R. afferma che gli interessi legittimi sono ravvisabili « in quegli interessi individuali eventualmente protetti da una norma di azione, come strumento per il perseguimento dell'interesse pubblico intrinseco al potere dell'amministrazione il cui esercizio viene così regolato » (La situazione legittimante al processo amministrativo, in Studi per il Centenario della Quarta Sezione, vol. II, Roma, 1989, 545). Viene ribadita l'identità di struttura delle due situazioni soggettive e si richiama l'idea della relatività delle situazioni giuridiche soggettive per spiegare come i diritti soggettivi possano essere fatti valere dinanzi al giudice degli interessi legittimi. Risulta pertanto che l'interesse legittimo è una situazione giuridica di diritto sostanziale, dalla struttura identica al diritto soggettivo, connessa con l'interesse pubblico. E soprattutto quest'ultimo aspetto che condiziona l'evoluzione successiva del pensiero di Alberto Romano. (1) A. Romano,Sulla pretesa risarcibilità degli interessi legittimi: se sono risarcibili, sono diritti soggettivi, in Dir. amm., 1998, 23. Osserva acutamente l'A.: « diritto soggettivo, interesse legittimo non sono la « sostanza delle cose ». Sono meri concetti, mere nozioni classificatorie. Che sono state definite, al fine di inquadrare nell'una o nell'altra, l'effettivo assetto che l'ordinamento imprime ai concreti rapporti tra amministrazione e soggetti privati: che è il fattore essenziale ». Pertanto, tendendo l'ordinamento ad « accentuare la rilevanza degli interessi di questi, rispetto all'interesse pubblico soggettivato in quella (...) è più lineare la conclusione che l'ordinamento tende ora a proteggere sostanzialmente come diritti soggettivi, quegli interessi privati cui, prima, tendeva a dare la sola rilevanza di interessi legittimi » (24). (1) In relazione peraltro alle norme di derivazione comunitaria che consentivano (anzi, imponevano) la risarcibilità dei danni in materia di appalti pubblici. La sentenza cui si fa riferimento nel testo è Cass., S.U., 22 luglio 1999, n. 500. (1) A. Romano,Sono risarcibili; ma perché devono essere interessi legittimi?, in Foro it., 1999, 1, 3222 ss. (1) A. Romano,op. ult. cit., 3223. Secondo l'A., « uno dei pochi tratti sicuri di una figura così sfuggente come l'interesse legittimo, perfettamente compatibile anche con una sua definizione come situazione 206 soggettiva sostanziale, è che esso è protetto da regole poste all'esercizio da parte dell'amministrazione di un suo potere; quindi, può essere leso solo dall'esercizio (illegittimo) di questo potere; ma l'esercizio del potere amministrativo si identifica col provvedimento; perciò, può essere leso solo da un provvedimento » (3222). (1) Nello schema dell'interesse legittimo, R. intende l'interesse individuale normativamente posto come « subordinato rispetto a quelli [interessi] pubblici »; nello schema del diritto soggettivo « l'interesse individuale è posto in posizione paritaria rispetto agli interessi pubblici » (op.ult. cit., 3224). Tale ordine di idee non può essere condiviso: anche i diritti soggettivi possono cedere a fronte di interessi pubblici. Semmai sono gli interessi legittimi che non possono essere estinti o ridimensionati dagli interessi pubblici. (1) Anzi nella maggior parte dei casi non è il provvedimento in quanto tale a cagionare danno, bensì la situazione di fatto che deriva della sua esecuzione. (1) Per la valutazione critica della tesi di Alberto Romano si vedano anche le osservazioni svolte nel mio Risarcibilità e interesse legittimo, in Dir.pubbl., 2000, 28 ss. Secondo M. Nigro, È ancora attuale la giustizia amministrativa?, in Foro It. 1983, V, 256, riconoscere la responsabilità dell'amministrazione per lesione di interessi legittimi « significa continuare a costringere alcune pretese o aspettative nella categoria degli interessi legittimi, avallando quindi e rafforzando questa categoria, ma significa anche fare dell'interesse legittimo (o, almeno, di un gruppo di essi) una situazione giuridica del tutto analoga, o largamente simile al diritto soggettivo, dal quale così verrebbe a dividerlo il sottile e artificioso velo dell'attribuzione delle due situazioni a due giudici diversi ».Occorre precisare che, per R., la trasformazione degli interessi legittimi in diritti soggettivi avviene soltanto in conseguenza della loro risarcibilità; ove vi siano interessi legittimi non risarcibili, essi rimangono tali. E per essi R. accoglie sostanzialmente la definizione che ne ha dato a suo tempo Giovanni Miele: « nell'interesse legittimo (...) la posizione di vantaggio è la risultante delle norme che impongono al titolare di un potere l'osservanza di date modalità e condizioni nell'esercizio di esso; niente di più e di diverso » (A. Romano, I soggetti e le situazioni giuridiche soggettive del diritto amministrativo, in AA.VV., Diritto amministrativo, vol. I, 4ª ed., Bologna, 2005, 215).Negli ultimi tempi la tesi di Alberto Romano è stata accolta, tra gli altri, da L. Iannotta, L'interesse legittimo nell'ordinamento repubblicano, in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, vol. I, Padova, 2007, 192, il quale rileva che, nella prospettiva della ricostruzione dell'interesse legittimo alla luce del tipo di tutela a esso garantita, si dovrebbe « affermare su un piano generale che l'interesse legittimo è diventato diritto: un diritto che da diritto soggettivo dell'ordinamento amministrativo (Romano) si sarebbe trasformato in diritto soggettivo tout court (Romano) ».Anche M. Mazzamuto, Il riparto di giurisdizione, Napoli, 2008, ritiene che, nel campo dei rapporti di diritto pubblico, « i diritti soggettivi sono quelle posizioni sostanziali che godono della tutela procedimentale, della tutela costitutiva e della tutela risarcitoria »; mentre « gli interessi legittimi sono quelle posizioni sostanziali che godono « soltanto » della tutela procedimentale e della tutela costitutiva » (153). Ne deriva che gli interessi legittimi, « accedendo oggi anche alla tutela risarcitoria, sono divenuti diritti soggettivi » (154). Secondo B. Sordi, voce: Interesse legittimo, in Encicl. dir. Annali, vol. II, 2, 727, « la proclamata risarcibilità mina, (...) dall'interno, la stessa consistenza concettuale della nozione » Tale « novità rivoluzionaria (...) determina una sensibile attenuazione della generale rilevanza della distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi ». L.R. Perfetti, Manuale di diritto amministrativo, Padova 2007, 60-61, ritiene « innegabile che l'evoluzione dell'ordinamento vada verso il superamento della distinzione tra diritto e interesse legittimo da svariati punti di vista, il principale dei quali è dato dall'affermazione della risarcibilità dell'interesse legittimo ». (1) C. Cost. 6 luglio 2004, n. 204, punto 3.4.1. della motivazione in diritto. (1) È come se si ritenesse che i diritti soggettivi che i privati vantano nei confronti dell'amministrazione non fossero tali perché, in base all'art. 4 della legge del 1865, essi non godono della tutela demolitoria. (1) F. Ledda, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Torino, 1964, 256. Già in tale lavoro appare 207 forte la preoccupazione di garantire una tutela piena al privato.Riferendosi all'effetto giuridico dell'atto di rifiuto, L. afferma che esso si ripercuote su un « interesse diverso da quello sostanziale o materiale, e avente valore strumentale rispetto al medesimo » (25). In nota precisa: « in altri termini, deve pensarsi che accanto all'interesse materiale — attinente al bene che avrebbe dovuto conseguirsi nel caso di emanazione del provvedimento — sia individuabile un interesse connesso ma distinto, perché attinente in modo immediato alle situazioni giuridiche (del privato, dell'autorità o di entrambi) dal cui esercizio dipende il conseguimento di quel bene; mentre infatti il primo interesse viene leso tanto dal rifiuto quanto dalla mera inerzia, può supporsi che la lesione del secondo venga determinata solo dall'atto di rifiuto, considerato, in ipotesi, come causa di un mutamento delle anzidette situazioni » (25, nt. 22).Anche di fronte al provvedimento negativo « vi è sempre un interesse legittimo del cittadino: la « particolare ampiezza » della discrezionalità non esclude evidentemente la tutela di questa posizione, poiché il sindacato sull'atto negativo serve innanzitutto a stabilire, appunto, se la discrezionalità sia esplicata, o se invece la non emanazione del provvedimento atteso sia dovuta ad un errore nell'accertamento di condizioni tassativamente stabilite dalla legge » (259). (1) F. Ledda,La concezione dell'atto amministrativo e dei suoi caratteri, in Diritto amministrativo e giustizia nel bilancio di un decennio di giurisprudenza, Rimini, 1987, vol. II, 777 ss., ora in Scritti giuridici, Padova, 2002, 237 ss., in part. 251. In termini più netti si esprime F. Ledda,Alla ricerca della lingua perduta del diritto, in Scritti giuridici,, cit., 496: « mi sembra abbastanza chiara l'assurdità della rappresentazione, purtroppo ancora ai nostri giorni accolta da giudici ordinari ed amministrativi, secondo la quale il diritto soggettivo, al semplice apparire del potere, svanisce o si dilegua, si dissolve quasi per il terrore ». In tale lavoro, risalente al 1998, parla della teoria dell'interesse legittimo come « frutto di una concezione illiberale » (loc. cit.). (1) Si tratta di un motivo che risulta costante in tutta l'opera di Ledda. (1) Si veda, per le prime prese di posizione, F. Ledda,La concezione dell'atto amministrativo, cit., 251 ss.; Id., Dell'autorità e del consenso nel diritto dell'amministrazione pubblica, in Foro amm. 1997, 1273 ss., ora in Scritti giuridici, cit., 403 ss. (1) Basta riferirsi alla legge sul procedimento e alle modifiche che periodicamente subisce. Di grande rilievo è anche la riforma del processo amministrativo, con l'allargamento del ventaglio delle azioni proponibili e il rafforzamento dei poteri decisori del giudice amministrativo (artt. 29-31 e 34 c.p.a.). (1) Lo stesso Ledda era favorevole alla riduzione dell'autorità e non riteneva opportuno applicare all'azione amministrativa la disciplina propria degli atti, anzi dei negozi, privati. (1) F. Ledda,La giurisdizione amministrativa raccontata ai nipoti, in Jus,1997, 315 ss. ora in Scritti giuridici, cit., 381 ss.: « i problemi della giustizia nell'amministrazione erano stati risolti solo in parte sullo scorcio dell'Ottocento attraverso un compromesso, di ispirazione non proprio liberale, tra le ragioni dell'autorità e le ragioni della libertà, quel compromesso che direttamente si rispecchia nella figura dell'interesse legittimo: qualunque tentativo di disegnare il giudizio e quindi il suo processo mette in discussione il compromesso, e quindi l'interesse legittimo, e quindi decenni di dottrina giuridica che la giurisprudenza — giudici e dottori — non sembra disposta a rinnegare » (389). (1) F. Ledda,La giurisdizione, cit., 389. È questo il saggio ove si delinea con maggior chiarezza che l'interesse legittimo è il responsabile dell'inadeguato sistema di tutela: « l'interesse legittimo era servito a nascondere o far affievolire i diritti soggettivi; ed a sua volta si affievolirà, finirà per dissolversi del tutto senza lasciare molte tracce né espressioni veramente sincere di rimpianto ».Aggiunge: l'interesse legittimo « era nato per risolvere nel senso meno liberale il problema del giudizio su un'amministrazione che veniva pensata essenzialmente come autorità, e in modo quasi naturale scomparirà quando si sarà avuta la conquista del giudizio, e quindi di un processo che assicuri il “farsi” del giudizio nel modo più adeguato ai dati dei problemi ». E prosegue: « quel giorno il tribunale amministrativo non sarà più il tribunale dei “reperti archeologici” come siamo costretti a pensare ancor oggi seguendo il suggerimento in fondo tutt'altro che malevolo di Feliciano Benvenuti ». Per poi 208 concludere: « sarà un giorno bellissimo, io penso: diradate le nebbie, vedremo ricomparire quei diritti che l'interesse legittimo ci nascondeva » (401).Riprende e sembra condividere questo argomento, B. Sordi, voce: Interesse legittimo, cit., 726. (1) F. Ledda,Dell'autorità, cit., 437. (1) F. Ledda,Polemichetta breve intorno all'interesse legittimo, in Giur. it., 1999, 2212 ss., ora in Scritti giuridici, cit., 511 ss. La frase riportata nel testo è a p. 523. Aderisce alle osservazioni di Ledda, B. Cavallo, Grandezza e miserie degli interessi legittimi: un'altra « storia italiana », in Nuove forme di tutela delle situazioni giuridiche soggettive - Atti della Tavola Rotonda in memoria di Lorenzo Migliorini, Torino, 2003, 11, spec. 19; vi aderisce anche A. Bartolini, L'interesse legittimo in Europa, ivi, 77 ss., spec. 96, ove osserva: « di fronte al diritto comunitario, l'interesse legittimo ci sembra una « crisalide » che da bozzolo si è trasformata, levandosi in volo, in diritto soggettivo. Dell'interesse legittimo è rimasto solo l'involucro vuoto ». (1) F. Ledda,Polemichetta, cit., 528. Si veda anche 520, ove L. afferma: « la responsabilità di tutto questo ricade, ancora, sul nostro solito interesse legittimo, rifrazione di un fantasma e non certo « figura » cui possa farsi corrispondere un chiaramente definito bisogno di tutela, sul quale modellare quelle « forme » che col processo in definitiva dovrebbero identificarsi » (524). (1) F. Ledda,Polemichetta, cit., 530. L'interesse legittimo, piaccia o non piaccia, non può essere rappresentato, secondo L., che « come una posizione minore o subalterna, condizionata per definizione a un interesse pubblico opprimente pensato a propria volta come il risultato di una astrazione logicamente necessaria per l'assegnazione dall'alto, in via autoritativa, di una utilità diversa da quella che il soggetto quasi naturalmente agogna » (530). (1) F. Ledda,Polemichetta, cit., 533. Prosegue l'A.: « sotto il falso significante vi è un problema reale che si trascina ormai da troppo tempo, vi è un principio che rappresenta una conquista in termini di civiltà giuridica, principio che quel significante falso ha mortificato e reso inoperante proprio nella sua espressione più elevata » (533). (1) Mi permetto di rinviare al mio La « gestazione » dell'interesse legittimo, in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, vol. I, cit., 283 ss. (1) Per quanto riguarda l'ordinamento italiano, generalmente non si tiene conto della ridotta tutela di cui godono i diritti soggettivi vantati dai cittadini nei confronti dell'amministrazione, allorché questa operi secondo le norme pubblicistiche. Non si rammentano i forti limiti imposti al giudice ordinario dall'art. 4 della legge del 1865 sull'abolizione del contenzioso amministrativo. (1) È ciò che è avvenuto, da ultimo, con l'approvazione del codice del processo amministrativo, approvato con d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104. (1) F. Ledda,Polemichetta, cit., 520. (1) Sulla tesi di Ledda mi permetto di rinviare, per ulteriori osservazioni critiche, al mio Risarcibilità, cit., 40 ss. (1) A. Orsi Battaglini - C. Marzuoli,La Cassazione sul risarcimento del danno arrecato dalla pubblica amministrazione: trasfigurazione e morte dell'interesse legittimo, in Dir. pubbl. 1999, 496 ss.; L. Ferrara,Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003, 168 ss.Una chiara sintesi della progressiva evoluzione « della scuola amministrativistica fiorentina nello studio dei poteri amministrativi e delle modalità di esercizio », si trova in A. Proto Pisani, Appunti sul giudice delle controversie fra privati e pubblica amministrazione, in Foro It., 2009, V, 379 ss. Osserva P.P.: « se si condivide — come io personalmente condivido — questa impostazione è la stessa figura dell'interesse legittimo a scomparire, e nelle controversie tra cittadino e pubblica amministrazione residua solo la tradizionale coppia pretesa-obbligo » (380). (1) Per la critica a tale concezione rinvio ancora una volta al mio La « gestazione », cit., 283 ss. Si veda anche A. Romano Tassone, Giudice amministrativo e interesse legittimo, in Dir. proc. amm. 2006, 273 209 ss. Va rilevato che spesso le teorie critiche della figura la rappresentano in termini di interesse occasionalmente protetto. A mero titolo di esempio si può citare R. Guastini« Un soggetto, un diritto, un giudice ». I fondamenti teorici di una giustizia non amministrativa, in Dir. pubbl., 2008, 42 ss., il quale si lancia in una critica feroce contro la nozione di interesse legittimo, considerandola « mal costruita », « ideologicamente compromessa » e « del tutto sconosciuta alla teoria generale del diritto ». Ma G. assume che gli interessi pretensivi siano « interessi occasionalmente protetti » e gli interessi oppositivi siano « diritti affievoliti »: riecheggia cioè le arcinote tesi di Meucci e di Ranelletti, esposte a cavallo tra il XIXº e il XXº secolo. (1) A. Orsi Battaglini - C. Marzuoli, La Cassazione, cit., 497- 499. Gli AA. hanno presente il problema della riferibilità della tutela risarcitoria alla lesione dell'interesse legittimo e lo risolvono negativamente, « avendo eliminato l'ostacolo della diversità dell'interesse legittimo come situazione soggettiva » (497). Questa tesi, per questo aspetto, non è diversa da quella propugnata da Alberto Romano. Sulla tesi di Orsi Battaglini cfr. A. Travi,Rileggendo Orsi Battaglini, in Dir. pubbl., 2006, 91 ss. (1) L. Ferrara,Dal giudizio, cit., 168. Anche A. Orsi Battaglini - C. Marzuoli,La Cassazione, cit., 496497, avevano criticato la correlazione dell'interesse legittimo con l'esercizio del potere amministrativo, ma si erano limitati a rilevare, in modo peraltro non convincente, che, con tale correlazione « si finisce fatalmente per tornare, nel migliore dei casi nei termini di funzionalità dell'interesse privato alla più opportuna definizione, in concreto, dell'interesse pubblico ». Il rilievo di Leonardo Ferrara è molto più incisivo: se esso fosse condivisibile, l'interesse legittimo dovrebbe cambiare profondamente la sua fisionomia. (1) L. Ferrara,Dal giudizio, cit., 169. (1) L. Ferrara,Dal giudizio, cit., loc. ult. cit. Prosegue l'A.: « stupisce che si sia potuto tanto frequentemente contrapporre al potere dell'amministrazione sia l'interesse legittimo del cittadino sia una sua posizione di soggezione, senza avvedersi che in tal modo il primo rischiava di risolversi nella seconda ». Occorre tuttavia rammentare che, almeno nella prospettiva da me accolta, l'interesse legittimo è proprio l'entità giuridica che ha consentito di superare la mera posizione di soggezione di fronte al potere autoritativo. (1) L. Ferrara,Dal giudizio, cit., 170. Il rapporto potere/soggezione « si affianca » al rapporto pretesa/obbligo. (1) L. Ferrara,Dal giudizio, cit., 172. (1) L. Ferrara,Dal giudizio, cit., 171: « alle facoltà (o ai poteri) partecipativi del cittadino non possono non corrispondere ancora che situazioni passive della p.a. (aventi ad oggetto la presa in considerazione delle rappresentazioni dei suoi interessi materiali) ». (1) L. Ferrara,Dal giudizio, cit., 178. Si veda anche 180, ove F. assume che non vi sia « alcunché di paradossale » nel fatto che l'interesse legittimo debba ritenersi soddisfatto dall'emissione di un atto legittimo (anche se sfavorevole); nonché 181, ove F. afferma che « legittimità e vantaggio corrispondono di necessità ». (1) L. Ferrara,Dal giudizio, cit., 172: « non è il potere a fronteggiare l'interesse legittimo ». Ci si potrebbe chiedere come può il titolare dell'interesse legittimo influire sull'esercizio del potere amministrativo se, rispetto ad esso, è in posizione di semplice soggezione, dato anche che la pretesa, in cui l'interesse legittimo si identifica, riguarda non l'esercizio del potere ma il comportamento dell'amministrazione, e, per giunta, sotto il solo profilo della legittimità. Questa osservazione rende manifesto, a mio avviso, il limite della pur elegante ricostruzione, basata sul raddoppio (o sullo sdoppiamento) del rapporto tra amministrazione e privato. (1) C. Marzuoli,Un diritto « non amministrativo », in Dir. pubbl., 2006, 138. Ancora con formula prudente viene affermato che « in un modo o nell'altro, l'interesse legittimo parrebbe destinato a svanire » (p. 139). 210 (1) A. Orsi Battaglini,Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia « non amministrativa », Milano, 2005, 169: il discorso deve chiudersi « assumendo come riferimento complessivo il concetto di diritto soggettivo alla legittimità dell'atto ». O.B. respinge l'obiezione fondata sul carattere indifferenziato della pretesa alla legittimità, deducendo che, con il diritto alla legittimità, non si fa riferimento « ad un interesse uti civis (come quello che sta alla base dell'azione popolare), né di un interesse al rispetto della legalità obiettiva (come quello che qualifica i controlli amministrativi), ma dell'interesse di uno specifico soggetto, relativamente ad un bene determinato, a che la particolare regola del rapporto venga osservata ». Si può osservare che il « bene determinato », non essendo l'oggetto del (preteso) diritto, può svolgere soltanto un ruolo esterno al diritto stesso: non è l'oggetto della tutela. (1) A. Orsi Battaglini,Alla ricerca, cit., 161. Siffatti diritti « saranno dotati di una altrettanto autonoma (per quanto difficile da specificare) tutela risarcitoria. Tutela che, piaccia o non piaccia, è l'unica, a rigore, concepibile di fronte alla inaccessibilità, da parte del giudice, del merito « politico » della scelta amministrativa da cui dipende insindacabilmente l'attribuzione dell'utilità finale » (161-162). (1) A. Orsi Battaglini,Alla ricerca, cit., 166. Si veda anche 177, ove si afferma che « il merito amministrativo è insindacabile ». Si veda ancora il passo riportato nella nota precedente. Intendiamoci: è esatto dire che il merito è insindacabile, ma solo da parte del giudice, e salva l'indagine di eccesso di potere. Prima e fuori dal giudizio le scelte di merito, che spettano all'amministrazione, possono essere influenzate dall'esercizio del (delle facoltà inerenti all') interesse legittimo; ed è sindacabile in sede di autotutela e di ricorsi amministrativi. (1) A. Orsi Battaglini,Alla ricerca, cit., 170. (1) C. Cudia,Funzione amministrativa e soggettività della tutela. Dall'eccesso di potere alle regole del rapporto, Milano, 2008. (1) C. Cudia,Funzione, cit., 351. Resta comunque fuori quadro il merito amministrativo, rispetto al quale l'amministrazione ha un potere libero, cui si contrappone la soggezione del privato. (1) Se la posizione giuridica (complessiva) del privato viene frazionata in due distinti rapporti, nel primo dei quali viene collocato il potere e nel secondo l'interesse legittimo (o diritto alla legittimità, che dir si voglia), si ha che, pur elevando le facoltà procedimentali a diritti soggettivi e i doveri dell'amministrazione ad obblighi, il privato non possa influire sull'esercizio del potere, dato che si trova nei confronti del potere in una condizione di mera soggezione. Può pertanto avvenire che l'amministrazione adempia compiutamente ai suoi obblighi senza che il privato abbia avuto alcun ruolo nella formazione della decisione finale, che è il risultato dell'esercizio del potere. Nemmeno far leva sul diritto alla legittimità può considerarsi soluzione sufficiente, dato che il privato deve poter incidere anche sulle scelte di merito dell'amministrazione: anche e soprattutto a questo serve la partecipazione al procedimento. (1) L'interesse legittimo è l'esatto contrario della soggezione: consente di influire sulle scelte del soggetto, nel nostro caso dell'amministrazione, che è titolare del potere di disegnare unilateralmente l'assetto di interessi che coinvolge l'interesse finale del titolare dell'interesse legittimo. (1) Cfr. nota 4. (1) La costruzione delle facoltà procedimentali come diritti soggettivi, a mio avviso, non si armonizza facilmente (e pienamente) con la dequotazione dei vizi formali, in particolare delle violazioni dei c.d. obblighi procedimentali, disposta dall'art. 21-octies della legge sul procedimento. (1) In ordine alla violenta contestazione della figura dell'interesse legittimo, condotta anche da R. Guastini,« Un soggetto, cit., 41 ss., secondo il quale (come si è già detto alla precedente nota 35) la nozione « si segnala per tre caratteristiche notevoli: è una nozione (i) mal costruita, (ii) ideologicamente compromessa, e anche per questo (iii) del tutto sconosciuta alla teoria generale del diritto », va osservato che tutte e tre le « caratteristiche » sono contestabili: la nozione sarebbe mal costruita perché si riferisce a due situazioni giuridiche soggettive diverse ed eterogenee, da un lato l'interesse 211 pretensivo, che G. si ostina a denominare « interesse occasionalmente protetto », e dall'altro, l'interesse oppositivo, che G. identifica con il diritto affievolito (o degradato). Nonostante le due sottospecie, la figura resta affatto unitaria: è in ogni caso interesse al provvedimento (favorevole) tutelato nel procedimento e in sede giurisdizionale, con gli stessi mezzi e i medesimi possibili risultati. Che sia una nozione « scopertamente ideologica » e « frutto di una dottrina illiberale » è idea legittimamente sostenibile da G., ma contrasta con il ruolo che l'interesse legittimo ha svolto e continua a svolgere, introducendo prima, e ampliando continuamente dopo, la tutela dei privati nei confronti dell'amministrazione. Ritenere che l'interesse legittimo sia nozione sconosciuta alla teoria generale del diritto contemporanea è opinione rilevante data l'autorevolezza di colui che la esprime; ma resta una opinione, a fronte della quale possono citarsi numerosi studiosi che, ancora oggi, ritengono invece che l'interesse legittimo possa collocarsi nell'ambito delle figure di teoria generale. Tuttavia, anche ove così non fosse, non si vede perché essa non possa restare legittimamente nell'ambito del diritto amministrativo. Non è senza rilievo che la figura dell'interesse legittimo sia contemplata in quasi tutti i manuali di diritto privato. Si veda anche la successiva nota 61. (1) Ciò che il privato si propone, allorché partecipa al procedimento amministrativo, è che il suo interesse finale (o sostanziale), il c.d. bene della vita (che egli vuole conseguire o conservare), venga pienamente tenuto presente dall'amministrazione e, per quanto possibile, soddisfatto dal provvedimento. Con questo obiettivo partecipa al procedimento nel quale il provvedimento viene formato; e vi partecipa cercando di influire (soprattutto) sulle scelte di merito che l'amministrazione è tenuta ad effettuare, tenendo a sua volta presenti, per soddisfarle, le esigenze dell'interesse pubblico. La collaborazione nel procedimento tra amministrazione e privato (o, meglio, privati, considerando anche i controinteressati) trova la sua ragion d'essere e la sua finalità in quella che G.D. Romagnosi, Principi fondamentali di diritto amministrativo, 2ª ediz., Firenze 1832, 17, chiamava la « regola pratica dell'amministrazione pubblica », consistente nel « « far prevalere la cosa pubblica alla privata entro i limiti della vera necessità ». Lo che è sinonimo di « far prevalere la cosa pubblica alla privata con minimo possibile sacrificio della privata proprietà e libertà » ». (1) Si veda, tra gli altri, A. Orsi Battaglini,Alla ricerca, cit., 179; C. Cudia,Funzione, cit., 355. Parla di « peculiare diritto soggettivo » R. Guastini,Un soggetto, cit., 46. (1) Si veda F. Ledda,Polemichetta, cit., 520, ove parla di forme ulteriori di tutela del diritto soggettivo, e 533, ove l'interesse legittimo viene identificato con « il diritto soggettivo che si difende dal potere e col potere si vuole confrontare ». Il pensiero dell'Autore, e le locuzioni che egli utilizza, richiamano i lavori e la tesi di F. La Valle, L'interesse legittimo come profilo di ulteriore rilevanza delle libertà e dei diritti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1969, 764 ss.; Id., La tutela dinamica del diritto soggettivo secondo la sua potenzialità di trasformazione, in Giur. it. 1969, I, 1, 1973 ss. (1) Sul piano del diritto positivo occorre fare i conti con gli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, che non solo « citano » l'interesse legittimo, ma gli riconoscono natura di situazione soggettiva di diritto sostanziale e ne delineano il sistema di tutela giurisdizionale. (1) Secondo F. Gazzoni,Manuale di diritto privato, XII ed., Napoli, 2006, 73, l'interesse legittimo è situazione giuridica soggettiva « assolutamente diversa ed estranea al modello del diritto soggettivo ». L'interesse legittimo trova largo seguito anche tra gli studiosi del diritto privato. R. Nicolò, Istituzioni di diritto privato, I, Milano 1962, 19, considera l'interesse legittimo come l'interesse a conservare o a conseguire un bene, che può essere realizzato da provvedimenti amministrativi. Vanno ricordati gli eccellenti lavori di L. Bigliazzi Geri, Contributo ad una teoria dell'interesse legittimo nel diritto privato, Milano 1967; e Interesse legittimo: diritto privato, in Digesto- Disc. Priv., IX, Torino 1993, 527 ss.; e di P. Rescigno, Gli interessi legittimi nel diritto privato, in Raccolta di scritti in memoria di Angelo Lener (a cura di B. Carpino), Napoli s.d. (ma 1989), 885 ss. Si veda anche, oltre ovviamente G. Zanobini, Interessi occasionalmente protetti nel diritto privato, in Studi in memoria di Francesco Ferrara, II, Milano 1943, 705 ss., M. Bessone, Istituzioni di diritto privato, 11ª ed., Torino, 2004, 70, 212 che intende l'interesse legittimo come « particolare forma di tutela di un interesse privato » nei confronti dell'amministrazione pubblica; V. Roppo, Istituzioni di diritto privato, Bologna, 1994, 81 ss., che lo qualifica come « la situazione attiva che spetta ai privati i quali siano stati toccati direttamente, in un loro interesse, dall'esercizio di un potere pubblico »; F. Galgano, Diritto privato, 9ª ed., Padova, 1996, 70 ss., che mostra di avere ancora presente l'idea dell'interesse occasionalmente protetto, e definisce gli interessi legittimi come « interessi dei singoli che la legge protegge solo indirettamente, in quanto coincidono con l'interesse pubblico ».La trattazione più approfondita si ha, tra i privatisti, in L. Bigliazzi Geri, U. Brescia, F.D. Busnelli, U. Natoli, Diritto civile, vol. 1º , Norme, soggetti e rapporto giuridico, Torino, 1986, 330 ss., ove l'interesse legittimo viene assunto come « situazione di vantaggio volta al conseguimento di un risultato favorevole consistente, a seconda dei casi, nella conservazione o nella modificazione di una certa realtà » (332). Ritengono gli AA. che si tratti di « una nozione che sembra appartenere alla teoria generale del diritto, come tale suscettibile di essere utilizzata, con gli opportuni adattamenti, in ogni campo e ramo del diritto stesso, non importa se pubblico o privato » (331). (1) La prosecuzione dell'azione amministrativa, sia sul piano decisorio (con la adozione di atti collegati con il provvedimento nullo) sia sul piano esecutivo (con il portare ad effetto, ossia ad attuazione in fatto il provvedimento nullo) sono totalmente nelle mani dell'amministrazione, la quale può provvedervi direttamente, senza bisogno del consenso dei privati e senza necessità di previo accertamento giudiziale della validità dei suoi atti. (1) Probabilmente l'art. 31, co. 4, c.p.a., che fissa il termine di decadenza per far valere in giudizio la nullità del provvedimento amministrativo, trova la sua ragion d'essere nella difficoltà, non solo pratica, di configurare la sanzione della nullità per i provvedimenti amministrativi. Secondo la mia opinione, l'introduzione nel diritto positivo di tale sanzione della illegittimità è stata una forzatura, ove si consideri, da un lato, il regime dei rapporti tra validità ed efficacia del provvedimento, quale discende dal modo di essere della produzione giuridica di diritto pubblico, e, dall'altro, l'esigenza di certezza dei rapporti giuridici che si instaurano tra amministrazione e privati. Assai più discutibile è la ulteriore disciplina stabilita dal quarto comma dell'art. 31 citato: esso dispone che « la nullità dell'atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d'ufficio dal giudice ». Con il che si ha una profonda disparità di trattamento di colui che subisce le conseguenze della nullità rispetto all'amministrazione che ne è responsabile (e, probabilmente, anche rispetto ai controinteressati). Si rammenti infatti che l'esecuzione dei provvedimenti (anche nulli) può essere portata a termine dall'amministrazione senza che sia necessario il previo accertamento da parte del giudice della loro validità. (1) Problema diverso, e che non è il caso di affrontare in questa sede, è se i vizi formali e procedimentali rientrano nella sfera della illegittimità ovvero rifluiscono nella sfera della semplice irregolarità. Con conseguenze diverse, sul piano sostanziale, sull'esercizio dell'autotutela e, sul piano processuale, sull'azione di risarcimento, che, secondo il codice del processo amministrativo, è (può essere) autonoma dall'azione di annullamento. (1) La dequotazione dei vizi formali rileva anche in altra direzione. Si rifletta, a questo proposito, sulla costruzione (presente in dottrina, come si è poc'anzi rammentato) delle facoltà procedimentali del privato alla stregua di diritti soggettivi, e la armonicamente contrapposta costruzione dei doveri procedimentali dell'amministrazione come veri e propri obblighi: probabilmente tali costruzioni non sono più consentite dal diritto positivo, se è vero che la violazione di questi doveri procedimentali non comporta l'annullabilità del provvedimento amministrativo. (1) Se l'oggetto del giudizio di accertamento della nullità è il rapporto, si può ben capire che viene immediatamente in evidenza l'interesse sostanziale del privato: non soltanto l'interesse (strumentale) al provvedimento ma anche l'interesse (sostanziale o finale, estraneo all'interesse legittimo) del privato ricorrente, che il provvedimento può soddisfare. 213 (1) Il risarcimento, « anche attraverso la reintegrazione in forma specifica », è stato introdotto con l'art. 35 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come modificato dall'art. 7 l. 21 luglio 2000, n. 205. (1) Art. 34, co. 1, lett. c), c.p.a. Altra disposizione di grande impatto sulla intensità e la tempestività della tutela è contenuta nella successiva lett. e) dell'articolo citato: la nomina del commissario ad acta per l'attuazione della sentenza « può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza ». (1) Art. 31, co. 3. Rimangono fuori dalla portata della disposizione soltanto i casi in cui l'amministrazione sia titolare di poteri discrezionali, e non li abbia già esercitati nell'ambito del procedimento non concluso tempestivamente. Se al potere del giudice di conoscere della fondatezza della domanda rivolta dal privato all'amministrazione (e rimasta senza risposta) si aggiunge l'ampiezza dei poteri decisori (in particolare dei poteri di condanna, cui si è già fatto cenno) si può ritenere che, anche nel nostro ordinamento, sia stata introdotta l'azione di adempimento, da tempo ammessa nell'ordinamento tedesco. Va rilevato a tal proposito che il limite delle scelte discrezionali dell'amministrazione vige anche in Germania. (1) Art. 30, co. 4. Con ciò è stato superato l'orientamento restrittivo della giurisprudenza, che riteneva risarcibile il danno da ritardo soltanto se si poteva accertare, con giudizio prognostico, che il provvedimento (inutilmente) richiesto doveva essere rilasciato. (1) L'opera di « normalizzazione » è già cominciata. Con una recentissima sentenza dell'Adunanza plenaria, il Consiglio di Stato ha affermato che, ove l'azione risarcitoria venga proposta senza la previa o contestuale domanda di annullamento del provvedimento lesivo, l'azione stessa (che non può essere considerata inammissibile, dato il chiaro disposto legislativo) è di norma da ritenersi infondata, dato che la mancata impugnazione tempestiva del provvedimento spezza il rapporto di causalità tra quest'ultimo e il danno (Ap. 23 marzo 2011, n. 3). (1) Si fa riferimento in particolare alle vivaci prese di posizione di Ledda, studioso di grande sensibilità. Viene da chiedersi se, di fronte alle novità successive ai suoi scritti, così critici sulla tutela degli interessi legittimi, Egli non avrebbe per caso cambiato le sue opinioni. Purtroppo Egli non può più soddisfare questa curiosità. (1) Anche la disciplina prettamente processuale, quale risultante dal c.p.a., è ormai da considerarsi matura, sia per quanto riguarda il processo cautelare, sia per ciò che attiene alla istruzione probatoria, sia ancora in ordine ai riti speciali.Non tutta la disciplina processuale è condivisibile: non lo è l'assenza del giudice dal processo fino alla nomina del relatore (salvo l'« incidente » cautelare); non lo è la integrazione fisiologicamente tardiva del contraddittorio, derivante dalla possibilità per le parti intimate di costituirsi in giudizio finanche alla udienza di discussione.Questi aspetti negativi, propri della tradizione precedente, sono stati conservati in omaggio alla semplicità strutturale del processo amministrativo; ma essi rischiano di minare il corretto svolgimento del processo, con il concreto pericolo di incidere negativamente, quanto meno, sulla sua durata.In definitiva, peraltro, si può affermare che la disposizione della legge di delega, che prefigurava una tutela piena ed efficace dell'interesse legittimo, sia stata adeguatamente attuata. (1) Art. 113, co. 2, Cost. Anche la giurisprudenza amministrativa, al suo massimo livello di espressione, è convinta che siano stati finalmente attuati i « principi costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale richiamati dall'art. 1 del codice » del processo amministrativo (Ad. Plen. 23 marzo 2011, n. 3).Sono davvero interessanti (e vale la pena di riportarli) gli ulteriori passaggi della sentenza, la quale è occasionata dal tema dell'azione risarcitoria autonoma: il riconoscimento dell'autonomia dell'azione risarcitoria si inserisce « in un ordito normativo che, portando a compimento un lungo e costante processo evolutivo tracciato dal legislatore e dalla giurisprudenza, amplia le tecniche di tutela dell'interesse legittimo mediante l'introduzione del principio della pluralità delle azioni. Si sono, infatti, aggiunte alla tutela di annullamento la tutela di condanna (risarcitoria e reintegratoria, ex art. 30), la tutela dichiarativa (cfr. l'azione di nullità del provvedimento 214 amministrativo, ex art. 31, comma 4) e, nel rito in materia di silenzio-inadempimento, l'azione di condanna pubblicistica (cd. azione di esatto adempimento) all'adozione del provvedimento, anche previo accertamento, nei casi consentiti, della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (art. 31, commi da 1 a 3) ».Prosegue la sentenza: « deve, inoltre, rilevarsi che il legislatore, sia pure in maniera non esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l'azione di condanna volta ad ottenere l'adozione dell'atto amministrativo richiesto. Ciò è desumibile dal combinato disposto dell'art. 30, comma 1, che fa riferimento all'azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti (sull'atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell'art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l'adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio (cfr., già con riguardo al quadro normativo anteriore, Cons. Stato, sez. VI, 15 aprile 2010, n. 2139; 9 febbraio 2009, n. 717) ».E conclude: « in definitiva, il disegno codicistico, in coerenza con il criterio di delega fissato dall'art. 44, comma 2, lettera b), n. 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha superato la tradizionale limitazione della tutela dell'interesse legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo l'esperibilità di azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa ».Da tali argomenti l'Adunanza plenaria trae la convinzione che il giudizio amministrativo si sia trasformato da giudizio sull'atto a giudizio sul rapporto « regolato dal medesimo atto »; giudizio cioè « volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata ».Mi è sembrato utile riportare i passaggi essenziali della sentenza, perché essi chiariscono in modo adeguato e condivisibile l'evoluzione del processo amministrativo, finalmente accogliendo le aspirazioni della dottrina. È d'obbligo riferirsi alle ricerche di G. Greco, L'accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano 1980, passim, spec. 201 ss.; Id.Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo, in questa Rivista, 1992, 481 ss. Sembra esser stato acquisito ciò che G. allora auspicava: il ruolo del giudice amministrativo non è più soltanto « quello del giudice del potere esercitato e non quello del giudice del potere da esercitare », del « giudice del rescindente (rispetto all'atto amministrativo) più che del rescissorio (ricostruzione dell'esatto modo di esercizio del potere ancora da esercitare) » (488). Nella stessa direzione si collocano E. Ferrari, La decisione giurisdizionale amministrativa: sentenza di accertamento o sentenza costitutiva?, in questa Rivista, 1988, 563 ss., spec. 597 ss.; M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, ivi, 2005, 557 ss., che ritiene che l'atipicità dell'azione fosse garantita per gli interessi legittimi anche prima del c.p.a. dall'art. 24 della Costituzione (585-586).Rispetto al quadro così bene esposto dalla sentenza dell'Adunanza plenaria, e così aderente agli auspici di Guido Greco, rimane peraltro nel c.p.a. una disposizione di indirizzo opposto: l'art. 34, co. 2, secondo il quale « in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati ». Sul problema si veda, da ultimo, E. Sticchi Damiani, Il giudice del silenzio come giudice del provvedimento virtuale, in questa Rivista, 2010, 1 ss. (1) Ha richiamato l'attenzione sul giudizio di spettanza, in particolare, G.D. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in questa Rivista, 2001, 287 ss. Al termine del suo contributo F. si chiede se l'idea di « portare l'interesse legittimo sotto il capitolo della spettanza (del bene o della chance di riceverlo), lasciando ad altre nozioni di spiegare le mere facoltà di partecipazione e di impugnazione, non possa indurre a rinunciare alla stessa denominazione di interesse legittimo, per rubricare ogni situazione soggettiva di vantaggio verso l'amministrazione, come fa tra gli altri l'ordinamento tedesco, sotto la voce « diritti in senso ampio » » (327).La risposta che F. si dà è negativa, non solo per ragioni testuali (la Costituzione conosce gli interessi legittimi), ma anche per ragioni diverse: « attraverso l'interesse legittimo la dottrina e la giurisprudenza italiana hanno fondato una tecnica raffinata di sindacato della legittimità del provvedimento amministrativo, che non va né disprezzata né abbandonata, e che al contrario può bene essere recuperata all'interno del sindacato 215 di spettanza: soprattutto, ovviamente, dove ciò che spetta non è in realtà altro — quanto allo specifico potere in questione — che un nuovo, corretto esercizio della discrezionalità amministrativa ». E aggiunge: « sembra del tutto giustificato usare una terminologia specifica per i « diritti » relativi all'esercizio del potere amministrativo, perché essi hanno una loro specificità, sia in termini di consistenza e modalità di realizzazione, sia in termini di modalità di tecniche di sindacato » (328).In un successivo lavoro, G.D. Falcon, La responsabilità dell'amministrazione e il potere amministrativo, in questa Rivista, 2009, 241 ss., l'interesse legittimo viene inteso come « interesse a conseguire un provvedimento favorevole (attributivo di un « bene della vita ») o ad evitare un provvedimento sfavorevole (soppressivo o diminutivo del bene della vita) » (245).Siffatta definizione è totalmente condivisibile; meno lo sono altre affermazioni che, nel medesimo testo, sono ad essa collegate. (1) Tenendo conto delle notevoli aperture del c.p.a. sia a proposito delle azioni proponibili, sia a proposito degli aumentati poteri decisori del giudice, sia (strumentalmente) della rivoluzionata disciplina dell'istruzione probatoria, la domanda corretta sembra riguardare piuttosto se possa dirsi raggiunto l'obiettivo che buona parte della dottrina auspica da tempo, e cioè che oggetto della cognizione giudiziale sia ormai l'intero rapporto corrente tra l'amministrazione e il privato, con la sola esclusione dei tratti effettivamente discrezionali che spettano all'amministrazione (e le sono riservati) nella definizione dell'assetto degli interessi.A me sembra che, sommando tra loro le disposizioni di cui agli artt. 30, co. 4; 31, co. 3; e 34, co. 1, lett. c), il giudice amministrativo possa effettuare il giudizio di spettanza, conoscere di tutto ciò che ha già ottenuto una definizione giuridica sul piano del diritto sostanziale, conoscere della eventuale lesione dell'interesse finale (ossia di diritti e di aspettative tutelate): in definitiva conoscere in modo massiccio (se non totale) del rapporto amministrativo.Mi sembra peraltro opportuno rilevare che non può porsi alternativa tra giudizio di legittimità e giudizio di spettanza: la tutela del privato si attesta comunque sotto l'usbergo (e nei limiti) della violazione delle regole di legittimità (sostanziale, ed intesa in modo ampio) dell'azione (o dell'inazione) dell'amministrazione. Il giudice deve comunque conoscere della legittimità del provvedimento sfavorevole o dell'inerzia sulla richiesta di provvedimento favorevole al privato. In caso di interessi pretensivi il giudice, ove l'amministrazione non debba compiere o abbia già compiuto le sue scelte discrezionali, può già in sede di cognizione, sia pure con l'ausilio del commissario ad acta, soddisfare a pieno la pretesa fatta valere in giudizio.Insomma, la completa attuazione del criterio di delega, secondo il quale il processo deve essere idoneo a soddisfare « la pretesa della parte vittoriosa », raggiunge, a mio avviso, l'obiettivo della tutela integrale del privato nei confronti dell'amministrazione: l'oggetto del giudizio, che non è stato mai limitato al solo provvedimento impugnato, riguarda ormai l'intero rapporto. Il quale, si badi, è un rapporto dinamico, nel quale si delinea e si formalizza un nuovo assetto di interessi, e rispetto al quale c'è dapprima il farsi del provvedimento (l'elaborazione del disegno di interessi) e poi l'assetto disposto con il provvedimento: ci sono ossia due fasi, o due aspetti, del rapporto sostanziale, ma entrambi sono (possono essere) oggetto del processo amministrativo. (1) Il meccanismo della degradazione, nella sua assurdità, rappresenta una spiegazione inaccettabile di un fenomeno differentemente spiegabile e giustificabile. L'oggetto proprio del giudizio, che venga instaurato avverso un provvedimento amministrativo, che incida sfavorevolmente su un diritto soggettivo), non riguarda l'esistenza del diritto, bensì la legittimità (o la illegittimità) del provvedimento. Si comprende come un giudizio avente tale oggetto, ed avente per petitum l'annullamento del provvedimento (lesivo del diritto), sia stato ritenuto rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo. (1) Non si è sentito il bisogno di tutelare meglio il diritto soggettivo, dato che la tutela dell'interesse legittimo oppositivo, fortemente potenziata (come esposto nel testo), assolve al compito della tutela del diritto soggettivo, quando questo è « colpito » da un provvedimento autoritativo.Il problema poteva riguardare i c.d. diritti indegradabili, finché essi sono esistiti (cioè dal 1979 e fino al 2006) e ove risusciteranno, come auspicato da alcuni autorevoli magistrati della Cassazione (si veda il Resoconto 216 dell'incontro di studio su Diritti fondamentali e tecniche di tutela tra giudice ordinario e giudice amministrativo, tenutosi presso la Corte di cassazione il 29 settembre 2010).La giurisprudenza civile, contro il parere di una parte della dottrina (F. Bassi, Diritti fondamentali e art. 4 secondo comma l. 20 marzo 1865, n. 2248 all. E), ha costantemente ritenuto inapplicabili alle controversie relative ai diritti fondamentali (e indegradabili) le limitazioni di cui all'art. 4 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo. In alcuni scritti, che peraltro sono precedenti all'approvazione del c.p.a., è stata affacciata l'idea che gli strumenti processuali a disposizione del giudice amministrativo non siano idonei ad assicurare l'effettiva tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali: in questo senso A. Carratta, Diritti fondamentali e riparto di giurisdizione, in Riv. dir. proc., 2010, 27 ss. Si veda anche, in senso diverso, L. Coraggio, La teoria dei diritti indegradabili: origini e attuali tendenze, in questa Rivista, 2010, 483 ss.; F. Martini, Potere e diritti fondamentali nelle nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva, ivi, 2009, 377 ss. (1) È questa la ragione per la quale ritengo che l'interesse finale non si collochi nei confini concettuali della situazione giuridica soggettiva che chiamiamo interesse legittimo. La protezione di tale interesse, la conservazione o l'acquisizione di un bene della vita, sono l'obiettivo cui l'esercizio dell'interesse legittimo tende, attraverso l'influenza sul modo in cui l'amministrazione esercita il potere di togliere al privato o di attribuirgli il bene della vita. (1) Non mi nascondo che la tesi autorevolmente esposta da Mario Nigro, e che include l'interesse finale o sostanziale nel perimetro dell'interesse legittimo, è molto seguita, oltre che in giurisprudenza (come già si è ricordato), anche in dottrina. Si veda, ad esempio, R. Marrama,Rinuncia all'impugnazione ed acquiescenza al provvedimento amministrativo. Vicende dell'interesse legittimo, Napoli 1979, 93, L. Iannotta, Motivi di ricorso e tipologia degli interessi nel processo amministrativo, Napoli 1989 (nella sua opera più recente, L'interesse legittimo, cit., loc. cit., I. riconduce peraltro l'interesse legittimo al diritto soggettivo); M. Occhiena, Situazioni giuridiche soggettive e procedimento amministrativo, Milano 2002, 290 ss., spec. 317 ss. G. Sorrentino, Interesse legittimo e pregiudizialità amministrativa, Napoli 2010, 53 ss., spec. 66, G. Rossi, Principi di diritto amministrativo, Torino, 2010, 420 ss. (1) L'interesse legittimo non si distingue dalle facoltà (da taluni elevate a diritti, da altri considerate interessi procedimentali) che al privato è consentito esercitare nel procedimento amministrativo: è anzi la situazione soggettiva che in sé le racchiude. Si vedano peraltro le precisazioni che seguono nel testo.L'interesse legittimo è la situazione che si confronta con il potere, nel momento in cui il potere viene esercitato e si esaurisce, sul piano sostanziale, quando l'esercizio termina (in un modo o nell'altro). È una vera situazione soggettiva di diritto sostanziale, diversa strutturalmente (o, se si vuole, ontologicamente) dal diritto soggettivo, il quale non può trovarsi di fronte e scontrarsi con un potere autoritativo, che sia (ed è) potere di estinguerlo o modificarlo legittimamente (o fisiologicamente).Né è accettabile l'idea, nel passato largamente sostenuta ma ripresa anche di recente (F. Satta, Giustizia amministrativa, Padova, 1997, 155; N. Paolantonio, Contributo sul tema della rinuncia in diritto amministrativo, Napoli, 2003, 231 ss.), che intendono l'interesse legittimo, sul piano del diritto sostanziale, come situazione di mero fatto. (1) Richiamo alcune tesi che non si allontanano troppo da quella esposta in queste pagine: E. Casetta, L'interesse legittimo: una situazione a « progressivo rafforzamento », in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, cit., I, 135; G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2008, 491, spec. 497; D. Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna, 2007, p. 66-67; V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo; Torino, 2010, 263 ss.; L. Mazzarolli, La tutela giurisdizionale del cittadino tra giudice ordinario e giudice amministrativo, in Diritto amministrativo (a cura di Mazzarolli, Pericu, A. Romano, Roversi Monaco e Scoca), vol. II, 467 ss.; R. Villata, Corte di cassazione, Consiglio di Stato e c.d. pregiudiziale amministrativa, in questa Rivista, 2009, 905; A Palazzo, Interessi legittimi e tutela dei diritti del privato, in Nuove forme di tutela, cit. 23 ss., spec. 27.Di grande interesse è la ricostruzione della figura dell'interesse legittimo, sotto il profilo della evoluzione del concetto dovuto a 217 A. Massera, Il contributo originale della dottrina italiana al diritto amministrativo, in Dir. amm., 2010, 814 ss.; altrettanto interessanti sono le trattazioni sul tema dell'interesse legittimo di A. Romano Tassone, voce: Situazioni giuridiche soggettive (diritto amministrativo), in Enc. Dir., Aggiornamento, II, Milano, 1998, 966 ss.; L. Benvenuti, Interpretazione e dogmatica nel diritto amministrativo, Milano, 2002, 211 ss., spec. 270 ss.; A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2010, 53 ss. Molto stimolanti sono anche le considerazioni svolte da F. Volpe nel volume su Norme di relazione, norme di azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Padova, 2004. Sempre attuali sono le acute osservazioni di G. Greco, L'accertamento autonomo, cit., 109 ss., spec. 137 ss.: « poiché il mantenimento della posizione di vantaggio per gli interessi legittimi statici e l'acquisizione di detta posizione per gli interessi legittimi dinamici dipendono da una particolare manifestazione dell'attività provvedimentale della Pubblica Amministrazione (...), mi pare ovvio che il punto di riferimento della disciplina normativa — così come dell'interesse legittimo, quale eventuale posizione sostanziale — non possa che essere l'attività provvedi mentale dell'Amministrazione » (140) (1) L'interesse privato non è tutelato nell'ambito del procedimento soltanto dalle modalità di esercizio del potere dell'amministrazione, ma la sua considerazione, la sua valutazione e, in ipotesi, la sua soddisfazione rientrano nelle finalità che l'amministrazione si deve porre, non sono affatto estranei allo scopo che l'amministrazione deve perseguire attraverso la sua azione.Se consideriamo la distinzione tra provvedimenti ad iniziativa privata e provvedimenti d'ufficio, si può, a mio avviso, sostenere che, nei primi, l'interesse privato è l'interesse fondamentale, che può rimanere insoddisfatto soltanto se c'è un interesse pubblico che lo contrasta nettamente. A differenza dei procedimenti ad iniziativa d'ufficio, dove l'interesse pubblico mantiene una rilevanza centrale, ma l'amministrazione deve tener conto comunque di cagionare il minimo possibile danno per l'interesse privato. 218 RIFLESSIONI SULL'AZIONE DI NULLITÀ Diritto Processuale Amministrativo, fasc.1, 2011, pag. 269 BRUNO SASSANI Classificazioni: DIRITTO AMMINISTRATIVO E SCIENZA DELL'AMMINISTRAZIONE Sommario: 1. L'azione di nullità nel codice del processo amministrativo. — 2. Le nullità dichiarabili e il problema del rapporto con la giurisdizione civile. — 3. Termine per agire e imprescrittibilità sostanziale. — 4. Regime degli atti in violazione ed elusione del giudicato: la nullità da inottemperanza. — 5. I rapporti con l'istituto dei motivi aggiunti e con il rito del silenzio. — 6. Senso e portata dell'accoglimento: l'ottemperanza. 1. Il quarto comma dell'art. 31 c.p.a. prevede l'azione per far valere la nullità del provvedimento amministrativo. In precedenza la nullità, quale vizio dell'atto (1), era evocata dalla dottrina e cautamente abbordata dalla giurisprudenza, ma di un rimedio giudiziale specifico la legge non faceva parola, a differenza della VwGO tedesca il cui paragrafo 43 c.1, aggiunge alla previsione dell'azione di accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza di un rapporto giuridico, che anche l'accertamento “della nullità di un atto amministrativo può essere fatto valere in via di azione quando l'attore ha un legittimo interesse all'accertamento immediato”. La scelta del legislatore di porre il meccanismo della tutela giurisdizionale sotto il denominatore delle azioni ha indotto a prevedere una apposita forma di tutela (2). Come il paragrafo 43 c. 1 VwGO, anche l'art. 31 parla di una domanda “volta all'accertamento delle nullità previste dalla legge”, e sembra dare comunque corpo ad una sentenza a valore dichiarativo, apparentemente non inquadrabile nella categoria delle sentenze con cui il giudice, accogliendo la domanda per motivi diversi dall'incompetenza “annulla in tutto o in parte l'atto impugnato” (per usare la formula dell'art. 26 c. 2 legge TAR). Ma di ciò infra § 6. 2. Quali sono oggi le nullità “dichiarabili”? Il codice non ne introduce di specifiche (e d'altronde non era suo compito): a proposito di quelle correlate al giudizio di ottemperanza esso si limita a replicare l'art. 21-septies della legge sul procedimento amministrativo (come modificata dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15); sul piano generale, si limita a rinviare a quelle “previste dalla legge”, cioè, ancora una volta, allo stesso art. 21-septies il cui primo comma stabilisce che: “È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge” (3). Ed è nota l'interpretazione data dalla giurisprudenza dell'espressione “difetto assoluto di attribuzione” quale “carenza in astratto del potere”, vale a dire quale mancanza della norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo ( (4). Quanto alla “mancanza degli elementi essenziali”, la giurisprudenza aiuta solo in negativo, essendo la stragrande maggioranza delle sentenze orientata a rintuzzare l'attacco all'atto esperito in chiave di nullità ed a ribadire la ristrettezza dell'ipotesi, circoscritta alla “totale mancanza degli elementi essenziali destinati ex lege a costituirlo (soggetto, oggetto, volontà e forma)”, con la conseguenza che finisce per non essere considerato nullo, ma solo annullabile, il provvedimento adottato sulla base di un presupposto inesistente ( (5), e, più in generale, di vizi del procedimento di formazione e di illegittimità del comportamento complessivo tenuto dall'amministrazione, che malgrado la loro gravità, si ritiene non si riflettano “sull'integrità degli elementi essenziali e costitutivi dell'atto” ( (6). Queste considerazioni impongono di chiedersi quanto sia vitale il rimedio della nullità nell'ambito della giurisdizione di legittimità. Non è un caso se di nullità il giudice amministrativo ha parlato senza imbarazzo operando in giurisdizione esclusiva, cioè in un ambito in cui, accentuando i difetti dell'atto o negando l'esercizio di un potere amministrativo legittimo, non ha rischiato di vedere svanire la propria giurisdizione (7). In sede di legittimità il rischio è invece concreto: la previsione dell'art. 31 u.c. c.p.a. 219 lascia impregiudicata la possibilità del ricorso alla giurisdizione ordinaria di chi, ritenendo l'atto radicalmente inidoneo a degradare propri diritti, ne persegua la difesa di fronte al giudice civile servendosi dello strumento della disapplicazione. La questione si è posta, ed ha dato luogo alla soluzione per cui, conservando valore il consueto criterio di riparto della distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo, continuano ad appartenere al giudice ordinario “le controversie nelle quali l'atto nullo abbia preteso di incidere su un diritto soggettivo preesistente, mentre rimangono radicate innanzi al giudice amministrativo i casi in cui a fronte dell'atto nullo sussista un interesse legittimo pretensivo” (8). Di fronte alla praticabilità della via giurisdizionale ordinaria, occorre peraltro chiedersi se residui la facoltà di domandare in via principale al giudice amministrativo il riconoscimento della nullità dell'atto, quale forma di tutela aggiuntiva. In altri termini: se il privato possa scegliere di ottenere dal giudice amministrativo una sentenza dichiarativa della nullità malgrado la possibilità di far valere il proprio diritto soggettivo davanti ai tribunali ordinari. La risposta positiva discende dall'osservazione (su cui v. infra § 6) secondo cui alla declaratoria della nullità consegue una vera eliminazione dell'atto non meno intensa e significativa del suo annullamento: l'interesse alla cancellazione dalla scena giuridica dell'atto, con tutto quel che ciò comporta in termini di impatto sul rapporto corrente con l'amministrazione, e la sicura possibilità di impiegare la tutela dell'ottemperanza per fronteggiare manovre elusive del titolare del potere (infra § 6), ben configurano l'interesse ad agire davanti al giudice amministrativo. Questa conclusione è rafforzata dalla considerazione che anche i terzi possono dolersi della nullità di un provvedimento, e che, per essi, ha poco o punto valore la distinzione più su vista tra interesse pretensivo (giurisdizione ordinaria) e interesse oppositivo (giurisdizione amministrativa): si pensi soprattutto al caso del terzo che lamenta pregiudizio da provvedimento (concessorio, ammissivo, autorizzatorio ecc.) a favore di altro soggetto (confinante, concorrente ecc.). Malgrado che qui gli interesse fatti valere assumano tutti la forma dell'interesse oppositivo, non si vede come possa negarsi al terzo la legittimazione all'azione dell'art. 31 u. c. c.p.a. Ad esso poco gioverebbe, evidentemente, l'esercizio dei suoi eventuali diritti davanti al giudice ordinario in assenza di iniziative volte a rimuovere ufficialmente e definitivamente il provvedimento lesivo. Un provvedimento che non è tenuto per valido ed efficace solo dall'amministrazione, ma che come tale viene assunto da un altro privato, rispetto al quale la tecnica della disapplicazione mal funzionerebbe. Peraltro nessun motivo particolare conforta l'idea che l'art. 31 comma 4 c.p.a. aprirà la strada (almeno a breve) ad un maggior impiego del rimedio specifico della nullità. La diffidenza della giurisprudenza è radicata ed è di tale diffidenza che si nutre la norma sul termine di decadenza (infra § 3). Naturalmente questo vale per la nullità “classica”, riconducibile agli “elementi essenziali” (per lo più ridotti a casistica di scuola) e al “difetto assoluto di attribuzione” (che non conduca alla fuoruscita dalla giurisdizione amministrativa), mentre non vale per gli specialissimi vizi degli atti in elusione e in violazione del giudicato, se si considera che qui la legge è pervenuta a ratificare e consolidare ex post una soluzione autonomamente ideata ed adottata dalla giurisprudenza, che in tal modo aveva individuato la chiusura del circolo del controllo dell'attuazione del proprio dictum (infra § 4). 3. L'art. 31 u. c. c.p.a. specifica che la domanda con cui si esercita l'azione di nullità va proposta “entro il termine di decadenza di centottanta giorni”. Dell'apposizione di un termine all'azione è stata immediatamente denunciata la contraddittorietà rispetto al concetto stesso di nullità che conterrebbe in sé l'idea di un'azione imprescrittibile. A questa osservazione non basterebbe obiettare che, pur essendo vero che al vizio etichettato come nullità corrisponde, tradizionalmente, la imprescrittibilità della relativa azione, nulla impedirebbe che la norma adoperi la qualificazione di nullità per un'azione in giudizio soggetta a termine di esercizio: si tratterebbe, in ultima analisi, di qualificazioni normative di cui il legislatore disporrebbe discrezionalmente. Si può infatti ragionevolmente presumere che “le nullità previste dalla legge” siano 220 state finora stabilite sull'implicito presupposto della imprescrittibilità della relativa azione dichiarativa, e che quindi l'apposizione di un termine di decadenza per agire finisca per alterare la ratio della previsione di diritto sostanziale. A tale conclusione — basata sul sistema del diritto civile (9) — era giunta la giurisprudenza che, pur in assenza di norme intese a regolare la domanda di nullità — aveva adottato la tesi della imprescrittibilità ( (10). Parimenti per la dottrina (11). Oggi, con la decadenza dall'azione si è modificata la valenza sostanziale, sicché si finisce per perdere in buona parte il senso di una scelta che voleva caratterizzare la nullità come vizio insanabile, distinguendola nettamente dal vizio a termine che caratterizza normalmente l'atto amministrativo. Peraltro il termine stabilito è decisamente breve, il che mostra la volontà di evitare a tutti i costi l'incertezza prolungata sulla situazione incisa dall'atto. Allo sconcertato interprete si presenta un tipo di annullabilità rafforzata (12), quasi una sua sottospecie qualificata, con la conseguenza di conferire alla logica decadenziale dell'annullabilità il valore di principio sommerso del sistema. Ciò rende disagevole il tentativo di inquadrare le massime ripetute secondo cui la nullità, operando ipso jure ed escludendo alla radice la produzione di effetti ( (13), è insanabile ( (14) e non richiede una pronuncia giudiziale per operare ( (15). Lanciata la pietra, la legge nasconde comunque subito la mano: in spirito di compromesso, essa cerca di conservare il particolare peso della qualificazione di nullità prevedendo che la nullità dell'atto “può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d'ufficio dal giudice”. Quanto alla opponibilità di parte, sembra prendere corpo l'idea che, se il privato interessato alla nullità incorre nel termine decadenziale, l'amministrazione convenuta (“parte resistente”) potrebbe sempre opporre in giudizio la nullità dell'atto. Ma, francamente, questa interpretazione lascia perplessi. Sarà infatti prevalentemente l'amministrazione a trovarsi nella situazione della parte che ha dato causa alla nullità, sicché non solo non si vede quale interesse essa possa avere a sollevare in giudizio la nullità, ma addirittura come si possa concedere alla parte da cui proviene il vizio il potere, di farsene eventualmente scudo. Un rilievo di parte non sottoposto a termine potrà certo concepirsi per il controinteressato (16), ma è difficile immaginarlo per l'amministrazione (salvo che beninteso nell'ipotesi in cui l'amministrazione resistente, in veste di ricorrente incidentale, si valga della possibilità di formulare motivi aggiunti per impugnare atti di altre amministrazioni). Per uscire da questa situazione occorre ragionare (come sempre nei processi in cui la tutela è accordata per contrastare l'esercizio di poteri sostanziali) distinguendo la figura del resistente in senso processuale da quella del resistente in senso sostanziale. Ha un senso che sia riconosciuta la perpetuità dell'eccezione per il resistente se lo si identifica con il privato interessato a far valere la nullità dell'atto con cui l'amministrazione gli si impone. Questa situazione potrebbe ben presentarsi nell'impugnazione di un atto dipendente, per es. di un atto esecutivo rispetto a precedente atto a carattere normativo. In tal caso se l'amministrazione convenuta si difendesse denunciando la mancata impugnazione nei termini dell'atto presupposto, il ricorrente si troverebbe legittimato a denunciare la nullità di tale atto. Parimenti nell'ipotesi di azione autonoma di danni ex art. 7 c. 4. Anche qui l'eventuale nullità di atti non impugnabili autonomamente per decadenza dai termini resterebbe rilevabile nel corso del giudizio. Bandita dalla porta, l'imprescrittibilità rientra così dalla finestra. Rispetto all'atto nullo, il decorso del termine non cancella la possibilità di tutela del privato ma ne trasforma la modalità: egli perde l'azione diretta, esperibile come tale solo nel semestre, ma conserva le azioni connesse, quelle per la cui decisione rileva la qualificazione dell'atto la cui nullità può sempre essere dichiarata, anche su rilievo d'ufficio. Non vi sono peraltro dubbi che all'azione di nullità siano legittimati anche i terzi danneggiati da provvedimenti aventi per destinatari altri soggetti (v. supra § 2): la cosa è quasi un corollario delle caratteristiche dell'istituto giuridico della nullità. Orbene, vale per il terzo il termine di decadenza per agire? No, a mio avviso, e per più ragioni: il terzo può legittimamente ignorare le vicende procedimentali che hanno condotto al provvedimento; può ignorare a lungo l'esistenza del 221 provvedimento stesso; può subire concretamente il danno in un momento successivo, ovvero ritenere di non poter sopportare ulteriormente un danno tollerato in un primo momento e così via. Per il terzo l'azione è imprescrittibile e questo aggrava la compli cazione pratica e il disordine sistematico che si accompagnano allo zoppicante congegno disegnato dal codice. 4. Il termine di decadenza non riguarda peraltro la denuncia della nullità dell'atto in violazione o elusione del giudicato. La norma del comma 4 prevede infatti che “Le disposizioni del presente comma non si applicano alle nullità di cui all'articolo 114, comma 4, lettera b), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV”. È però sicuramente da escludere che la non applicabilità riguardi indiscriminatamente tutte le prescrizioni del comma, come invece sembra suggerire l'infelice formulazione della norma. Non avrebbe senso infatti negare alla nullità dell'atto in violazione o elusione del giudicato la possibilità di essere rilevata d'ufficio dal giudice, ovvero di essere opposta dal controinteressato, ovvero ancora dal privato in ottemperanza (17). È giocoforza concludere che la non applicabilità si riferisce esclusivamente al termine per agire, e la norma si rivela palesemente inutile di fronte al termine prescrizionale dei “dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza” che l'art. 114 c. 1 detta espressamente per il ricorso in ottemperanza e che l'art. 114 c. 2 lett. b) applica alla declaratoria di nullità. Si è obiettato (18) che, se così fosse, “si introdurrebbe una peculiare duplicazione di regimi delle nullità dei provvedimenti”, salvo che non si voglia concludere nel senso che le nullità degli atti in violazione o elusione del giudicato vadano fatte valere solo attraverso il giudizio di ottemperanza, osservandosi però che è difficile obbligare ad agire in ottemperanza chi si voglia accontentare della declaratoria ( (19). Ora, la qualificazione di nullità che colpisce l'atto di ribellione al giudicato trova la sua ragione e la sua radice nella particolarità dei poteri del giudice dell'ottemperanza che esercitando ad un tempo giurisdizione esclusiva e giurisdizione di merito, appare l'unico soggetto abilitato a valutare la sussistenza del vizio di elusione e del vizio di violazione del giudicato. Vizi, questi, che, eminentemente distinti dai difetti stabiliti a pena di nullità sul piano generale, assumono rilievo solo nel peculiare contesto segnato dall'interpretazione della portata di una sentenza (20) e dalla valutazione del successivo comportamento dell'amministrazione. Si tratta di vizi che non sono necessariamente fattori di nullità per il giudice che opera in giurisdizione generale di legittimità. Commisurato ai poteri propri di questo giudice infatti, l'atto considerato può risultare legittimo, o al più affetto da eccesso di potere (e come tale annullabile), laddove è solo dal riscontro del vizio funzionale dell'attività che il giudice dell'ottemperanza compie con i propri particolari poteri di indagine e valutazione che nasce la nullità. Si tratta pertanto di una nullità che potremmo dire ex post, in una situazione in cui estensione della giurisdizione e condizionamento del potere appaiono due facce della stessa medaglia. Inutile dire che questa prospettazione dà per scontato il definitivo superamento dei dubbi inizialmente sollevati sulla cancellazione del giudizio di ottemperanza e sul venir meno della giurisdizione di merito ad essa connessa, per accedere quindi alla ricostruzione (21) che vede nel giudizio di ottemperanza la sede naturale del controllo e della rimozione degli atti connotati dalla peculiare nullità. E che in tale sede si esercitino cumulativamente giurisdizione di merito e giurisdizione esclusiva è confermato oggi dagli art. 134, comma 1 lett. a) e art. 133, comma 1 lett. a) n. 5) c.p.a. in coordinazione con gli art. 21septies, comma 2 l. n. 241/1990. Si badi infine che la nullità in questione non può venir ristretta al provvedimento in senso proprio, ma si estende anche agli eventuali atti non provvedimentali compiuti in spregio al “giudicato”. Di provvedimento nullo parla indifferentemente l'art. 21-septies per tutti i casi in esso previsti, ma mentre per la nullità che potremmo definire classica l'espressione va probabilmente presa alla lettera, la necessità di valutare la sussistenza di una inottemperanza (e quindi di accertare un vizio funzionale) impone di considerare il termine in maniera più ampia sì da ricomprendervi anche tutti gli eventuali atti 222 non provvedimentali riconducibili all'amministrazione in quanto rilevanti rispetto al risultato legato all'ottemperanza (atti, per es., a funzione propulsiva rispetto a futuri provvedimenti; atti a funzione certificativa ecc.). Si può in conclusione ragionevolmente ritenere che la nullità da inottemperanza è una qualificazione riservata a quella giurisdizione ibrida che chiamerei “giurisdizione di ottemperanza”, cioè all'esercizio di poteri non surrogabili né dalle ordinarie forme di giurisdizione amministrativa né, tantomeno, dalla giurisdizione ordinaria. 5. L'art. 43 c. 1. c.p.a. prevede che tanto il ricorrente principale quanto quello incidentale possano “introdurre con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte”. Ai motivi aggiunti si applica “la disciplina prevista per il ricorso, ivi compresa quella relativa ai termini”. Esercitata nel termine di sessanta giorni la domanda di annullamento, i ricorrenti possono quindi proporre domanda di nullità in via aggiuntiva, nel rispetto del termine di centottanta giorni prescritto dall'art. 31 c. 4 c.p.a. Ciò vale per le domande nuove, ma si può dubitare che invece valga per le “nuove ragioni a sostegno”, la cui deducibilità non si preclude e debbono considerarsi imprescrittibili. Naturalmente l'even tualità più plausibile resta quella della domanda di nullità a cui viene cumulata — in via subordinata o alternativa — una domanda di annullamento: il dubbio successo dell'azione di nullità consiglia di ripiegare, a mo' di paracadute, sul più consueto rimedio dell'annullamento. Tramite proposizione di motivi aggiunti, anche il rito del silenzio può convertirsi in rito ordinario. Questa possibilità aveva trovato resistenza nella giurisprudenza (22), ma essa oggi è sancita dall'art. 117 c. 5 c.p.a. ed è regolata dal comma 1 dell'art. 32 c.p.a. che prevede la prevalenza del rito ordinario in caso di diversità di riti ( (23). Quest'ultima norma elimina la difficoltà opposta all'introduzione della domanda di annullamento e basata sulla incompatibilità del rito e vale, a fortiori per la domanda di nullità del provvedimento intervenuto in corso di giudizio sul silenzio. 6. In questo panorama, il problema del se la sentenza che accoglie la domanda sia dichiarativa ovvero sia costitutiva (e se quindi la relativa azione sia di accertamento o costitutiva) diventa di poco momento ai fini pratici. Al più la soluzione assumerà un valore tassonomico e potrà soddisfare la categoria dei giuristi di gusto e talento classificatorio (24). È difficile comunque dubitare che, accolta la domanda di nullità, l'atto venga espulso dalla scena giuridica con valenza erga omnes, o almeno con non minor peso ed ampiezza di effetti di quanto accade nell'ipotesi normale di annullamento. In altri termini l'esercizio vittorioso di azione di nullità non si limita alla mera declaratoria del vizio né ad un semplice accertamento di insussistenza dei pretesi effetti dell'atto (quasi si trattasse di una disapplicazione) con formale conservazione della fonte: essa restituisce alle parti una scena giuridica anche formalmente privata dell'atto e dei suoi effetti. Se questo è vero, non si vede allora come distinguere, sul piano degli effetti, tale risultato dalla rimozione ottenuta con l'accoglimento della domanda di annullamento; finalisticamente intesa, l'azione di nullità non si distingue dall'azione di annullamento, sicché la sua diversità si limita al piano dei presupposti ed a quello della differente latitudine dei poteri dei soggetti del processo. Sul piano generale ciò è confermato dall'impossibilità di distinguere, sotto il profilo tipologico, la giurisdizione esercitata in ipotesi di nullità rispetto alla giurisdizione esercitata in ipotesi di annullabilità. Solo infatti le cause nascenti dalla denuncia della particolare nullità provocata dalla violazione o elusione del giudicato sono attribuite ad una giurisdizione ad un tempo esclusiva e di merito, laddove la mancanza degli elementi essenziali, il difetto assoluto di attribuzione e i vizi produttivi di nullità negli altri eventuali casi espressamente previsti dalla legge non producono alcuna deroga rispetto alla regola della giurisdizione generale di legittimità. Ciò si ricava agevolmente dall'art. 7 comma 4 che, nel fissare le regole fondamentali della giurisdizione amministrativa, attribuisce alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo “le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni” senza dare 223 alcun rilievo al tipo di vizio che affetta gli atti, i provvedimenti o le omissioni. Lo stesso è a dirsi per le cause relative al risarcimento del danno “per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”, con conferma della giurisdizione di legittimità anche in caso di loro introduzione “in via autonoma” e di questioni di nullità di atti amministrativi incidentalmente sorgenti nel loro corso. Tutto ciò impedisce di dubitare della piena applicabilità del giudizio di ottemperanza all'eventuale rifiuto di conformarsi ovvero all'inerzia dell'amministrazione, ovvero ancora al suo tentativo di sottrarsi alle responsabilità comportate dall'accertamento attraverso atti o comportamenti elusivi (25). Anche sotto questo profilo si può osservare quanto poco contino le differenze (se ve ne sono) tra “accertamento” della nullità e sentenza “costitutiva” di annullamento. In ogni caso il provvedimento di accoglimento corona azioni volte a risultati di tutela equivalenti e simmetricamente garantiti, rispetto al mancato adeguamento da parte dell'amministrazione, dal medesimo fascio di poteri. La cosa non deve stupire: è sempre il contenuto dichiarativo (scoperto o latente che sia) che viene garantito e attuato dal meccanismo dell'ottemperanza. Note: (1) Vizio di recente individuato — a coronamento di annose incertezze — dall'art. 21-septies della L. 7 agosto 1990, n. 241, come modificata dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15. La norma ha riacceso l'interesse sul tema: v. Carbone A., La nullità e l'azione di accertamento nel processo amministrativo, Dir. amm., 2009, 795 ss.;Luciani F., Inefficacia e rilevanza giuridica dell'atto amministrativo. Considerazioni sull'azione di nullità davanti al giudice amministrativo, in www.giustamm.it.; Ponte,La nullità del provvedimento amministrativo, Milano, 2007; M. D'Orsogna, La nullità del provvedimento amministrativo, in (Cerulli Irelli, a cura di) La disciplina generale dell'azione amministrativa, Napoli, 2006, 368 ss.; Chirulli,Azione di nullità e riparto di giurisdizione, in www.giustamm.it; Romano Tassone,L'azione di nullità e il giudice amministrativo, in www.giustamm.it. Scettico sulla enucleazione di un'azione di nullità è Paolantonio, Nullità dell'atto amministrativo, Enc. dir., Annali, I, Milano, 2008, 871 ss. In precedenza v. la monografia di Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002. (2) Il modello è evidentemente quello tedesco, e non è dato sapere con quanta consapevolezza i redattori del codice abbiano preferito adottare la tecnica dell'arbor actionum propria di quel sistema. Non intendo qui svolgere una critica al sistema in sé (l'analisi porta lontano, troppo lontano), bensì solo segnalare come in ciò si manifesti l'ambiguità crescente del processo davanti al giudice amministrativo: il sistema (ad un tempo bonario e formalistico) della “giustizia amministrativa” non aveva certo bisogno della teorica delle azioni (se non per quel tanto di innocuo adeguamento alle pomposità della processualcivilistica), ma quanto evocato dall'espressione giustizia amministrativa oggi sembra (almeno a parole) irrimediabilmente fuori gioco perché sostituito dalla declinazione solenne dei principi comuni dei sistemi giurisdizionali. Ma un moderno sistema di tutela giurisdizionale ha bisogno dell'apparato teorico dell'azione? Apparentemente no, se si considera il declino della teorica nella processualistica contemporanea (declino che ha la sua espressione finale più pura e radicale nell'art. 2 delle US Federal Rules of Civil Procedure che sotto la rubrica “One Form of Action” sancisce che: “There shall be one form of action to be known as civil action”). La risposta non è però così scontata se si considera che l'accesso al giudice amministrativo resta comunque intrinsecamente limitato ed appare incompatibile con il meccanismo delle clausole generali del tipo dell'art. 24 della Costituzione italiana (norma che ha legittimato in pieno la logica dell'azione c.d. innominata nel processo civile). Il processo emergente dal codice (ancor più che il processo amministrativo tradizionale) è infatti ossessionato dalla preoccupazione di determinare precisamente il chi, il cosa, il quando e il come della domanda e, in tal senso, non tollera l'agire libero. Da questo punto di vista, impostare la tutela in termini di azione — cioè di rimedio precostituito — può apparire una tecnica organizzativa adeguata: il concetto di azione riassume il rimedio e la via da seguire, indica i caratteri salienti delle modalità per attingerlo, proiettandosi sulla procedura e conformandola. Si tratta di un'illusione (ben percepita e segnalata come 224 tale da Abbamonte e Laschena, Giustiziaamministrativa, in TrattatoSantaniello, Padova, 1997, 139 ss.) ma questa è un'altra storia! (3) La nullità di un atto amministrativo può derivare dalla mancanza di un elemento essenziale quale la volontà nel caso in cui questa si sia formata in modo non libero e spontaneo ma in ambiente collusivo penalmente rilevante, facendo così venir meno la stessa imputabilità dell'atto alla pubblica amministrazione per interruzione del relativo rapporto organico.Cons. Stato, Sez. V, 04/03/2008, n. 890 (4) T.A.R. Lombardia, Milano, III, 12.11.2009, n. 5059; Cons. St. VI, 09/09/2008, n. 4304. Questa interpretazione fa implicitamente rientrare nell'area dell'annullabilità per violazione di legge le ipotesi di carenza di potere in concreto e trova sostegno anche nella giurisprudenza anteriore all'introduzione dell'art. 21-septies (Cons. St., Sez. VI, 26.11.1991, n. 885; Sez. V, n. 552 del 16.07.1984; Sez. V n. 296 del 08.06.1979). (5) Cons. Stato, Sez. IV, 11/05/2007, n. 2273. (6) Cons. Stato, Sez. V, 16/07/1984, n. 552. (7) Esemplare in tal senso è la vicenda della declaratoria di nullità del provvedimento di assunzione da parte dell'amministrazione laddove l'assunzione sia vietata dalla legge, con conseguente nullità del rapporto e l'autoattribuzione del potere di dichiarare la nullità di entrambi da parte da parte del giudice amministrativo (Cons. Stato, Ad. Plen., 29/02/1992, n. 1 e n. 2, in Corriere Giur., 1992, 797, con Nota di Corpaci e in Giur. It., 1992, III, 1, 545, con Nota di Cannada Bartoli). Alla decisa presa di posizione dell'Adunanza Plenaria corrispondeva la sicurezza della massima per cui: “Rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la domanda delle prestazioni retributive e previdenziali avanzata dal dipendente dell'amministrazione per un rapporto di mero fatto.” (8) T.A.R. Lombardia Milano, Sez. III, 19/11/2008, n. 5456 (obiter). (9) E scontata nei sistemi che prevedono l'azione di nullità, come in quello tedesco, a proposito di cui si nota che “quale azione dichiarativa, l'azione per l'accertamento della nullità non è sottoposta a termine in senso proprio, e tuttavia può venir meno l'interesse ad agire (il Rechtsschutzbedürfnis) quando venga a mancare all'attore la possibilità di rechtliche Klärung. Ma in nessun caso un atto nullo può raggiungere alcun tipo di “Bestandskraft'” (Hufen, Verwaltungsprozessrecht, München, 2008, 326). (10) Cons. Stato, Sez. V, 09/06/2008, n. 2872: “Il nuovo art. 21-septies della L. 7 agosto 1990, n. 241, come modificata dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, ha codificato la categoria concettuale del provvedimento amministrativo nullo, definendone i caratteri sostanziali. Tale disposizione non ha, tuttavia, espressamente indicato la disciplina dell'azione di nullità, con particolare riguardo ai termini di decadenza o di prescrizione; ciò non impedisce di applicare, analogicamente, il nucleo essenziale delle norme contenute nel codice civile, riguardanti la nullità del contratto, nella parte in cui esse riflettono principi sistematici di portata più generale, ivi compresa la regola della imprescrittibilità”; T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 29/04/2008 n. 1043. (11) Gallo C. E., La nullità del provvedimento amministrativo, Urb. e app., 2009, 193 ss. (12) La vicenda che ha portato a questa curiosa norma è presto detta. Il testo originario del d. lgs. contemplava una azione di accertamento nella quale rientrava bene la domanda di dichiarare la nullità dell'atto. L'azione generale di accertamento — considerata una pericolosa arma di scasso della cassaforte dello Stato e, in genere, dell'amministrazione pubblica — è poi sparita dal testo definitivamente approvato. Si è cercato però di mantenere una qualche forma di tutela specifica rispetto all'atto nullo distinto dalla generale azione di annullamento, e si è pervenuti quindi al compromesso di un'azione dichiarativa della nullità ma soggetta pur sempre (nella migliore tradizione del processo amministrativo) a termini di preclusione. La Relazione di accompagnamento così si esprime: “Accogliendo un'osservazione formulata dalla Commissione Affari costituzionali della Camera, alla disciplina dell'azione avverso il silenzio è stata aggiunta quella volta all'accertamento della nullità, che si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni. Resta ferma, tuttavia, la perpetuità della corrispondente eccezione, nonché la rilevalità d'ufficio”. 225 (13) Massime che non di rado inducono a parlare di inesistenza dell'atto. (14) Salvo il fenomeno della conversione dell'atto nullo, che è evidentemente cosa diversa. (15) Tanto più che l'atto nullo può ben essere delibato dal giudice ordinario quando leda diritti soggettivi. (16) Si pensi alla denuncia di nullità dell'atto di revoca di un atto (favorevole al controinteressato) impugnato da altro soggetto. (17) T.A.R. Veneto Venezia, Sez. II, 17/02/2009, n. 388: “I vizi che comportano la nullità del provvedimento ex art. 21-nonies L. n. 241/1990 sono deducibili in sede di ottemperanza, non occorrendo, pertanto, proporre autonoma impugnativa dell'atto in questione” (conf. T.A.R. Campania Napoli, Sez. IV, 26.10.2007 n. 10124; Cons. St., Sez. IV, 6.10.2003 n. 5820; Cons. St., Sez. VI, 20.04.2006 n. 2121). (18) Lopilato in Protto e Caringella, Codice del nuovo processo amministrativo, Dike, 2010, sub art. 31, 385. (19) Lopilato,ibidem. (20) Anche civile, ovvero di un lodo arbitrale. (21) Subito indicata da Villata e Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino 2006, 377, ed adottata dalla giurisprudenza: Cons. St., Sez. VI, 20 aprile 2006, n. 2192; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 10 febbraio 2006, n. 1966. (22) Cons. St., Sez. VI, 27 ottobre 2006, n. 6439. (23) Bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, in Villata e Sassani, Il processo davanti al giudice amministrativo. Commento sistematico al codice del processo amministrativo, Torino, 2011 (in corso di stampa), § 6. (24) Nel sistema tedesco, tendenzialmente molto rispettoso delle diverse tipologie di azioni, pur chi parte dal presupposto che, a rigore, essendo l'atto nullo privo dell'efficacia tipica dell'atto, esso non può propriamente assurgere ad oggetto di un'azione costitutiva, finisce poi per riconoscere la maggior vicinanza dell'azione di nullità alla Anfecthungsklage. Passo successivo è ammettere l'esperibilità di quest'ultima anche in ipotesi di nullità dell'atto (Hufer, op. cit., 323, Würtenberger, Verwaltungsprozessrecht, ... Rn 272). (25) Al problema della effettività della declaratoria di nullità dell'atto nel sistema tedesco è dedicata l'osservazione che, di fronte a tale declaratoria, è ben poco credibile che un altro giudice ovvero un'altra autorità amministrativa applichi lo stesso atto o uno equivalente, ovvero vi dia esecuzione (Huber, op. cit., 589; Schnapp, in Dv. Bl., 2000, 247). 226 PER IL VENTENNALE DELLA LEGGE SUL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, fasc.4, 2010, pag. 939 Fabio Merusi Classificazioni: PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO - In genere Sommario: 1. Il ventennale della legge sul procedimento amministrativo italiano. Suoi caratteri differenziali rispetto al modello viennese. — 2. Il contraddittorio del cittadino nelle varie fasi di elaborazione della legge sul procedimento. Le reazioni della dottrina italiana al fenomeno. — 3. Dal contratto di diritto pubblico all'uso del diritto privato. Un tentativo fallito di eutanasia amministrativa. — 4. Procedimento amministrativo e codificazione. Dalla codificazione alla riforma della pubblica amministrazione. — 5. Procedimento e trasparenza. — 6. Le competenze possono diventare interessi, ma le autonomie normative sono rispettate. Alcuni esempi di integrazioni regionali finalizzate alla «democrazia deliberativa». — 7. Le norme processuali della legge sul procedimento amministrativo e il codice del processo amministrativo. Lo strano caso di una prescrizione trasformata in decadenza. 1. Fra ottanta anni e venti anni c'è una bella differenza. Chi pensasse di utilizzare quel che ha sentito o letto a proposito del recente ottantesimo anno della legge austriaca sul procedimento amministrativo, la madre di tutte le leggi sul procedimento amministrativo, nelle «celebrazioni» per il ventennale della legge italiana sul procedimento amministrativo si troverebbe in difficoltà (1). Un po' come passare dal valzer viennese alla varietà di motivi dei cantautori italiani. Nel valzer viennese il passo è sempre lo stesso: se la sovranità appartiene al popolo, il cittadino deve essere messo in grado di partecipare a ciascuno dei tre poteri che esercitano la sovranità; poiché l'essenza dell'esercizio della sovranità da parte del cittadino consiste nel contraddittorio, per permettere al cittadino di partecipare all'esercizio del potere esecutivo è necessario «processualizzare» l'attività della pubblica amministrazione. Far partecipare il cittadino al procedimento amministrativo per esercitare il contraddittorio con la pubblica amministrazione. Logico, in questa prospettiva, ricavare dal codice di procedura civile i principi generali che regolano il contraddittorio, nel processo come in qualunque procedimento nel quale si debba porre in essere un contraddittorio. La differenza fra il processo e il procedimento amministrativo partecipato consiste nel fatto che nel procedimento amministrativo partecipato il decidente non è un terzo rispetto ai contendenti, come accade nell'esercizio del potere giudiziario, ma la stessa autorità che esercita il contraddittorio con il cittadino. Ancora oggi la legge sul procedimento amministrativo austriaco è costituita da norme desunte dal codice di procedura civile depurate dai loro aspetti giudiziali. Nei cantautori italiani invece i ritmi sono diversi. Occorre distinguerli per non fare passi falsi durante il ballo interpretativo della legge sul procedimento. Premesso che la legge italiana del 1990 è stata manipolata a più riprese e che pertanto lo spartito finale non sempre corrisponde a quello via via suonato dal 1990, possiamo così sintetizzare i «ritmi» presenti nella legge n. 241: — c'è il tema della partecipazione del cittadino all'esercizio del potere esecutivo, come nella originaria legge austriaca sul procedimento amministrativo; — c'è il tema della codificazione del diritto amministrativo; — c'è il tema della «riforma della pubblica amministrazione» per renderla efficiente nei confronti delle richieste di prestazioni da parte del cittadino e funzionale all'esercizio dei suoi diritti costituzionalmente affermati, ma delimitati o dipendenti da atti della pubblica amministrazione; — c'è il tema dell'unità e della pluralità del potere esecutivo in un ordinamento ad organizzazione complessa; — c'è il tema della «trasparenza» dell'azione della pubblica amministrazione in uno Stato democratico in cui il cittadino non solo partecipa all'esercizio dei poteri sovrani, ma per partecipare deve conoscere 227 quanto avviene nell'ambito del potere esecutivo. Ci sono dunque tante cose, non sempre tra di loro connesse, in appena una trentina di articoli, anche tenuto conto della numerazione romana (bis, ter e quater ...) via via aggiunta. Vediamo i passi essenziali del gran ballo del procedimento amministrativo italiano. 2. Inizialmente la legge n. 241 sembrava prevedere la partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo limitatamente alla fase istruttoria del procedimento. Ma era una impressione almeno parzialmente errata. Facendo salvi i procedimenti previsti da leggi speciali, e perciò l'estensione a principio generale che delle singole norme legislative ha fatto la giurisprudenza amministrativa, la legge sul procedimento amministrativo aveva recepito e fatti salvi i procedimenti in contraddittorio sull'atto da adottare in tutte le ipotesi di provvedimenti ablatori. Fin dalle origini il diritto amministrativo italiano conosceva il contraddittorio sull'atto da adottare nel caso di provvedimenti che, come l'espropriazione per pubblica utilità, incidessero sul diritto di proprietà, o che, come i provvedimenti sanzionatori, incidessero sul diritto di libertà (2). L'estensione a qualunque incidenza negativa di un provvedimento, il provvedimento definito ablatorio, era stata poi progressivamente operata dalla giurisprudenza, e perciò assurta a principio generale dell'azione amministrativa. La partecipazione istruttoria risultava limitata agli atti ad istanza di parte e agli interventi in procedimenti in cui l'interesse dell'interveniente non veniva poi direttamente inciso dal provvedimento finale. Ne risultava così un procedimento zoppo in cui il contraddittorio in contestazione esisteva solo per i provvedimenti ablatori. La situazione è stata poi equilibrata con l'art. 10-bis, introdotto surrettiziamente da una maggioranza «liberale» con l'art. 6 della legge 11 febbraio 2005, n. 15, il quale prevede il contraddittorio necessario sul provvedimento che l'amministrazione intende adottare anche nell'ipotesi in cui l'amministrazione sia giunta alla conclusione di respingere la domanda del privato. Ora pertanto tutti i procedimenti amministrativi prevedono il contraddittorio in contestazione ogni qualvolta l'interesse del cittadino confligga con quello generale la cui realizzazione sia affidata da una norma ad una autorità amministrativa. Come ha reagito la dottrina italiana alla comparsa della partecipazione generalizzata del cittadino al procedimento amministrativo? La letteratura in materia, oltre a quella puramente esegetica delle singole norme, è stata copiosissima, alluvionale. Scontato il fatto che ogni intervento ha, o può avere, una sua originalità, più o meno marcata, i filoni interpretativi possono essere ridotti a tre: — che la partecipazione del cittadino si traduca in uno strumento di democrazia diretta, in cui il potere viene sottratto agli apparati organizzativi del potere esecutivo per essere esercitato direttamente dal cittadino partecipante. È il filone che fa capo a Benvenuti, a Berti, ad Allegretti e ai loro epigoni (3); — che la partecipazione sia una forma di contributo del cittadino singolo alla realizzazione dell'interesse pubblico; — e, per una teoria, enunciata di recente, che la partecipazione sia una forma di esercizio della sovranità «orizzontale» determinata da una rete di procedimenti fra di loro interconnessi (4). Il primo filone urta contro il diritto positivo: il soggetto decidente non è il partecipante, ma il titolare del potere con il quale il partecipante contraddice. È il contraddittorio lo strumento di partecipazione del cittadino, non la decisione che rimane al titolare di un potere inserito organizzativamente nel potere esecutivo. Parafrasando un autore del «secolo d'oro» spagnolo potremmo dire che l'ultimo giudice rimane il re. Il secondo enuncia un giudizio di valore di tipo ottimistico giuridicamente irrilevante: nel contraddittorio il cittadino introduce nel procedimento un proprio interesse, la valutazione del quale entra indubbiamente a far parte della decisione finale. Solo in questo senso si può dire che il cittadino 228 collabora alla determinazione in concreto di quale sia il pubblico interesse. Ma è una collaborazione che potrebbe fermarsi, come nella prima versione della legge, alla fase istruttoria del procedimento. Mentre l'elemento qualificante della partecipazione non è la collaborazione, cioè l'introduzione di un interesse nel procedimento, bensì il contraddittorio in contestazione fra l'interesse fatto valere dal cittadino e quello tipicizzato dalla norma che attribuisce un potere amministrativo. L'ultima teoria alla quale si è fatto cenno rappresenta una sorta di ritorno alle origini dell'istituto del procedimento partecipato dal cittadino: il contraddittorio come strumento di esercizio della sovranità, che però tiene conto del carattere orizzontale e interconnesso (la c.d. rete) che hanno assunto i procedimenti amministrativi, non solo nell'organizzazione statale, ma in un ordinamento aperto a procedimenti comunitari e internazionali. Che però è questione che non riguarda tanto la partecipazione, quanto la complessa fenomenologia dei procedimenti amministrativi attuali. Se volessimo sintetizzare la logica della partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo potremmo dire che è il contraddittorio in contestazione fra l'interesse del singolo cittadino e l'interesse pubblico canonizzato da una norma che costituisce lo strumento di esercizio della sovranità popolare nel potere esecutivo. Un contraddittorio che deve essere paritario e completo, il che non sempre accade come testimonia una recente sentenza della Corte di cassazione (sez. un., 30 settembre 2009. n. 20935) che addirittura teorizza che il contraddittorio nel procedimento amministrativo non necessariamente deve essere completo e paritario (5). Se poi non è ammesso il contraddittorio sul fatto, il contraddittorio rischia di ridursi ad un rito «teatrale», come accade nei procedimenti sanzionatori bancari e finanziari nei quali la dissociazione, recentemente imposta, fra autorità inquirente e autorità decidente si riduce ad un esercizio retorico nel dire le stesse cose, con qualche minima variante sul quantum della sanzione proposta. Quando non è ammesso il contraddittorio sul fatto, il contraddittorio scade a procedimento rituale. Il che sta a dimostrare che non basta il rinvio formale al contraddittorio processuale per determinare un contraddittorio «ad armi pari» (6). Il contraddittorio o è integrale o può scadere a pura apparenza. Nihil novi ... già San Pio V rimproverava a San Carlo Borromeo il mancato rispetto del contraddittorio sull'accertamento del fatto a proposito di processi per stregoneria ... Anche fra santi il contraddittorio è stato talvolta un problema (7). 3. Ma nel contraddittorio si può anche scoprire che, in concreto, i due interessi coincidono. Il che la legge sul procedimento ha previsto ponendo fine, all'art. 11, ad una lunga querelle sulla ammissibilità di contratti di diritto pubblico in sostituzione di provvedimenti unilaterali della pubblica amministrazione, cui facevano necessariamente seguito, in taluni, casi, inevitabili contratti esecutivi di diritto privato. Sennonché dal riconoscimento, prima parziale, poi generalizzato, che l'azione della pubblica amministrazione può avere veste contrattuale, ha tratto ispirazione un movimento che potremo definire «per l'eutanasia del diritto amministrativo», il movimento per l'applicazione del diritto privato alla pubblica amministrazione. L'assunto è assai semplice: se dall'incontro paritario fra pubblica amministrazione e cittadino si può concretizzare l'interesse pubblico e perciò l'esercizio congiunto della sovranità nel potere esecutivo, perché non estendere il contrattualismo a tutta l'azione della pubblica amministrazione e, più in generale, l'uso del diritto privato comune del quale il contrattualismo è la principale manifestazione? Non esistono forse ordinamenti, quelli anglosassoni, nei quali la pubblica amministrazione usa il diritto privato comune? Di qui poi a sostenere che il contratto, e non il contraddittorio, è l'essenza della democrazia il passo è breve (8). Una Commissione per la riforma della Costituzione propose di costituzionalizzare una tesi del genere; il legislatore dei ritocchi alla legge sul procedimento amministrativo si è accontentato di meno, prevedendo, all'art. 1-bis, che «la pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non 229 autoritativa, agisce secondo le norme del diritto privato salvo che la legge disponga diversamente». Ma poiché, in base al generale principio di legalità che informa l'esercizio del potere esecutivo, la legge dispone sempre diversamente, la norma risulta inutiliter data. Come una dottrina ormai pacifica ha da tempo chiarito, quando una norma tipicizza il potere amministrativo, l'atto posto in essere nell'esercizio del potere non è un negozio giuridico, bensì un atto esecutivo, id est un atto amministrativo (9). Ma da cosa è stato determinato questo improvviso amore per l'uso del diritto privato da parte della pubblica amministrazione che ha lasciato tracce, ancorché innocue, nella legge sul procedimento amministrativo? Da una ingenua passione per il fumo di Londra? Sarebbe una spiegazione che non resisterebbe all'apertura di un qualunque libro di lingua inglese che si occupa della pubblica ammi nistrazione, dal quale risulterebbe l'inevitabile emersione del diritto amministrativo nell'ambito della common law col progredire del principio di legalità, cioè con l'eteronoma tipicizzazione dell'esercizio del potere. Il richiamo alla common law era soltanto un espediente retorico per il grande pubblico della politica. La vera ispirazione era un'altra: l'intento di amministrazioni dotate di autonomia, in particolare delle amministrazioni rappresentative e perciò più sensibili ad un uso parziale del potere, di eludere, con l'uso formale del diritto privato, la normativa comunitaria, i controlli della Corte dei Conti e le norme che nel pubblico impiego impongono per dettato costituzionale l'assunzione mediante pubblico concorso e, non da ultimo, anche la seccatura del contraddittorio procedimentale con il cittadino. Ma che l'eutanasia sia per il momento rimandata anche «per gli atti non autoritativi» si incarica di precisarlo la stessa legge sul procedimento amministrativo, la quale, al successivo art. 12, detta norme procedimentali a proposito di ogni tipo di atto che arrechi un vantaggio a favore del privato... 4. Si diceva che la legge sul procedimento amministrativo ha a che fare con la questione della codificazione del diritto amministrativo. Se il diritto amministrativo sia codificabile è stata questione lungamente discussa e periodicamente riproposta. Se fosse possibile codificare l'intero diritto amministrativo il legislatore potrebbe limitarsi nelle sue leggi alla sola attribuzione del potere o, al più, a prevedere qualche norma formale per il suo esercizio. In qualche ordinamento si è tentato di farlo proprio con una legge sul procedimento amministrativo (10). Nell'ordinamento italiano, essendo il legislativo esercitato da un sistema parlamentare puro, ciò non è ovviamente neppure immaginabile. Il legislatore ha progressivamente distrutto, con singole disposizioni legislative, anche il codice civile, non gli si può certo chiedere di emanare un codice di diritto amministrativo che limiterebbe la sua attività legislativa alla sola attribuzione di poteri a pubbliche amministrazioni. La legge n. 241 ha invece optato, sul modello della legge sul procedimento tedesca, per codificare i principi generali che debbono disciplinare l'azione amministrativa (11). Il che ha significato, in pratica, una ricognizione dei principi generali elaborati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, con alcune correzioni là dove l'elaborazione logica della giurisprudenza non aveva potuto arrivare, come ad esempio l'indennizzo in caso di revoca di provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato, o la previsione di nuovi principi alternativi o modificativi di quelli fino a quel momento elaborati dalla giurisprudenza amministrativa, come nel caso della tormentata disciplina del silenzio della pubblica amministrazione o delle ipotesi di nullità dell'atto amministrativo che una giurisprudenza derivante da un ricorso di impugnazione fondata su un termine di decadenza aveva costantemente negato o ridotto ad ipotesi di annullabilità. Ma la maggior parte delle norme previste nella legge sul procedimento amministrativo non riguarda la codificazione, sia pur per principi, del diritto amministrativo, bensì «la riforma della pubblica amministrazione». Sono norme per rendere efficiente la pubblica amministrazione, il che spiega anche perché spesso abbiano natura «sperimentale» e vengano via via modificate a seconda dei loro risultati «operativi». 230 I tempi di conclusione del procedimento; il silenzio assenso; la disciplina degli atti endoprocedimentali come i pareri; la sostituzione di atti autorizzativi con interventi impeditivi eventuali si muovono in questa logica (12). Così come la trasformazione delle competenze in interessi da introdurre nel contraddittorio procedimentale tenta di risolvere il problema della reductio ad unum di un esecutivo frammentato in una pluralità di centri di potere (13). Nella disciplina sempre più analitica dei diversi tipi di conferenze di servizi la codificazione per principi generali si perde nella disciplina analitica dei modi di risoluzione di conflitti reali. Una disciplina sempre più analitica ricompresa sotto un titolo della legge sul procedimento che ha conservato la dizione di «semplificazione amministrativa» ... Una conferma che spesso gli opposti si incontrano (14). 5. La legge sul procedimento amministrativo ha poi in sé un corpo estraneo, di solito non presente nelle leggi sul procedimento amministrativo derivate dalla legge austriaca e dalla successiva legge tedesca, una serie di norme sull'accesso agli atti della pubblica amministrazione e, più in generale, sulla trasparenza della pubblica amministrazione. L'accesso agli atti è un presupposto necessario per la tutela del cittadino in un sistema costituzionale che prevede che l'azione amministrativa sia regolata dal principio di legalità in ogni sua manifestazione. Ma una cosa è la teoria, un'altra la pratica. Per rendere effettivo tale diritto del cittadino la legge sul procedimento amministrativo è stata costretta a «manipolare» il processo amministrativo, prevedendo una specifica azione per l'accesso agli atti, perché solo il giudice può rendere «reale» ciò che è razionale, cioè costringere le amministrazioni recalcitranti a produrre effettivamente gli «atti nascosti». Manipolazioni apparentemente fuori tema alle quali la legge sul procedimento amministrativo è stata costretta a ricorrere anche in altri casi «innovativi e problematici», come ad esempio a proposito del silenzio, manipolazioni che hanno dovuto fare i conti con la codificazione del processo amministrativo, come tosto vedremo. La trasparenza dell'azione della pubblica amministrazione è certamente un presupposto per l'esercizio della sovranità popolare, sia in generale con riferimento al «controllo» che ogni cittadino deve poter fare sull'esercizio del potere esecutivo, sia in particolare come presupposto necessario per poter esercitare il contraddittorio nel procedimento amministrativo a tutela dei suoi interessi. Ma i diritti non sono mai assoluti, contrastano con altri diritti o con altri valori costituzionali espressamente o implicitamente. Donde l'esigenza di trovare un contemperamento fra «collisioni». Fin da subito il diritto all'accesso è entrato in conflitto con il segreto di Stato, cioè con quelle attività in cui l'interesse del singolo non può compromettere funzioni amministrative di interesse collettivo (difesa, polizia et similia). Stabilire quali siano è ovviamente lasciato al giudice del conflitto. E naturalmente il conflitto può essere mobile, nel senso che può essere risolto diversamente dallo stesso legislatore a seconda del mutare dei tempi e delle sensibilità politico-costituzionali. Ma non c'è solo l'interesse collettivo al buon funzionamento della cosa pubblica. C'è anche l'interesse dei terzi confliggente con una possibile pretesa all'accesso alla documentazione in possesso della pubblica amministrazione. Si pensi, per fare un esempio subito evidente, alla documentazione presente in una pratica per il rilascio di un brevetto. Questi erano i temi affrontati all'inizio dalla legge sul procedimento amministrativo, ma è subito emerso evidente che esisteva in parallelo un altro diritto fondamentale del cittadino parimenti tutelato dal legislatore, addirittura con un apparato amministrativo ad hoc: il diritto alla privacy. Il terzo rispetto al richiedente l'accesso non solo può avere un interesse contrastante con quello dell'accedente, ma può essere leso nel suo diritto alla riservatezza così come definita dall'apposita normativa sulla tutela della privacy. Le successive modifiche alla legge sul procedimento hanno tentato di normativizzare un equilibrio 231 anche con la tutela della privacy, un equilibrio ancora imperfetto a giudicare dal contenzioso determinato dall'uso distorto che alcune amministrazioni ne hanno fatto per difendere non quella altrui, ma la propria «riservatezza». Un settore dunque in movimento nel quale si prospettano — e sono già emerse — nuove problematiche connesse alla progressiva informatizzazione della pubblica amministrazione e alla conseguente modificazione delle modalità di accesso agli atti da parte del cittadino (15). 6. Continuando la figura retorica dell'analogia musicale possiamo infine osservare che la legge sul procedimento finisce con un ritmo sincopato. Lì per lì verrebbe da pensare che una legge generale sul procedimento amministrativo, caratterizzata dal contraddittorio in contestazione fra cittadino e pubblica amministrazione; sulla codificazione dei principi generali sull'azione della pubblica amministrazione; sulla «semplificazione amministrativa» e sulla «trasparenza», debba valere per tutte le amministrazioni. Il procedimento di unificazione del potere esecutivo attraverso la trasformazione delle competenze in interessi da introdurre in un procedimento sembrerebbe costituirne la prova provata. E invece alla fine si scopre che la legge sul procedimento amministrativo è valida solo per le amministrazioni statali e per gli enti pubblici nazionali. Solo alcune disposizioni fondamentali valgono per tutte le amministrazioni. Per le Regioni e per gli enti locali viene rispettata l'autonomia normativa: debbono autonomamente disciplinare i loro procedimenti amministrativi rispettando i principi fissati dalla legge nazionale. Non possono stabilire per il cittadino garanzie inferiori a quelle previste dalla legge nazionale, possono ovviamente “prevedere livelli ulteriori di tutela”. Una precisazione resasi di recente necessaria dopo che molte amministrazioni locali avevano approfittato della loro autonomia normativa per porre ostacoli alla trasparenza amministrativa (ad esempio prevedendo ostacoli all'accesso agli atti attraverso aggravi formali in tema di delegazione e di certificazione della legale rappresentanza). Alcune Regioni hanno effettivamente esercitato la loro autonomia normativa in funzione integrativa della legge nazionale. Una funzione integrativa riferita ai partecipanti al procedimento non più limitata ai cittadini, ma alle più diverse forme di aggregazione sociale, in alcuni casi espressamente identificate, in altri identificabili sulla base di clausole generali, e ad un allargamento delle modalità istruttorie, ma soprattutto cambia, in tali leggi regionali, anticipate in alcuni casi dagli Statuti, il termine di riferimento, non più il provvedimento amministrativo, ma altresì atti normativi come quelli di competenza regionale (16). Il che, al di là delle forme retoriche attraverso le quali tali «interpretazioni» vengono esaltate, pone il problema del rapporto da stabilire fra partecipazione a procedimenti normativi e rappresentanza politica del cittadino. Un problema di diritto costituzionale che attiene al potere legislativo (ancorché regionale) e non al procedimento amministrativo. 7. C'è infine da osservare che la legge sul procedimento amministrativo italiana, a differenza di quanto solitamente accade per le altre leggi sul procedimento amministrativo, prevedeva, soprattutto a seguito delle «novelle», alcune norme di carattere processuale. Una situazione dipendente dall'insoddisfacente disciplina del processo amministrativo nel nostro ordinamento, di carattere transitorio in attesa di una legge generale che disciplinasse il processo amministrativo e che ha trovato soluzione nella adozione del codice sul processo amministrativo, il quale nell'Allegato 4, destinato alle norme di coordina mento, ha espressamente modificato la legge n. 241 stabilendo che le controversie relative al silenzio della pubblica amministrazione e alle controversie relative all'accesso di documenti amministrativi sono ora disciplinate dal codice del processo amministrativo. Le stesse norme di coordinamento, peraltro, pudicamente tacciono sul fatto che è stato abrogato il termine di prescrizione quinquennale previsto dall'art. 2-bis della legge n. 241 nel caso di danno conseguente a ritardo nella conclusione del procedimento e sostituito con un termine di decadenza di centoventi giorni. Una soluzione anomala (17) che non è escluso incontri le censure della Corte 232 costituzionale o della Corte Europea dei Diritti dell'uomo a seconda della Corte che avrà per prima occasione di occuparsene. Non si vede infatti perché una responsabilità da ritardo abbia un trattamento diverso a seconda del soggetto «ritardatario». Mentre la decadenza, in sostituzione della prescrizione, potrebbe essere intesa come un ostacolo all'esercizio di un diritto fondamentale a tutela «sovranazionale». Potremmo concludere, continuando nella metafora dei cantautori, che il mare non ha consumato tutti i sassi allo stesso modo ... e il codice sul processo amministrativo «non ci ha saputo dare tutto quello che volevamo da lui ...», almeno per quanto riguarda la legge sul procedimento amministrativo.... Note: (1) Cfr., ad esempio, H. Schafer, 80 Jahre Kodification des Verwaltungsverfahrens in Ōsterreich, in Zeitschrift für öffentliches Recht, 2004, 285 ss. (2) La storia non si può fare coi se, ma secondo alcuni il diritto positivo avrebbe permesso un contraddittorio generalizzato fin dall'inizio dell'unità amministrativa italiana. Cfr., in proposito, la nota monografia di G. Ghetti, Il contraddittorio amministrativo, Padova, Cedam, 1971. Sul contraddittorio in contestazione cfr. in particolare A. Scognamiglio, Il diritto di difesa nel procedimento amministrativo, Milano, Giuffrè, 2004, e per i vari profili del contraddittorio nel procedimento amministrativo F. Figorilli, Il contraddittorio nel procedimento amministrativo, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1996 e M. Clarich, Garanzia del contraddittorio nel procedimento, in Dir. amm., 2004, 1035 ss. (3) Cfr., anche per ulteriori indicazioni di tale filone interpretativo, L. Franzese, Feliciano Benvenuti. Il diritto come scienza umana, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1999; G. Berti, Procedimento, procedura, partecipazione, in Studi in memoria di E. Guicciardi, Padova, Cedam, 1975, 800 ss.; U. Allegretti, Procedura, procedimento, processo. Un'ottica di democrazia partecipativa, in Dir. amm., 2007, 779 ss. (4) Cfr. E. Frediani, La produzione normativa nella sovranità “orizzontale”, Pisa, ETS, 2010. Versioni “realistiche” della partecipazione sono da considerarsi quelle di S. Cognetti, Quantità e qualità della partecipazione, Milano, Giuffrè, 2000 e di M. D'Alberti, La visione e la voce: le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi, in questa Rivista, 2000, 1 ss. (5) Cfr. in proposito le osservazioni di F. Satta, Contraddittorio e partecipazione nel procedimento amministrativo, in Dir. amm., 2010, 306 ss., non limitate al caso stigmatizzato. (6) Com'è dimostrato dal fatto che in procedimenti di quel tipo si è sempre dimostrata vana qualsiasi contestazione, persino quando si è eccepita la non vigenza all'epoca dei fatti della norma della quale si affermava la violazione, o la non presenza fisica al momento dei fatti constati, o il carattere del tutto fantastico delle illazioni dedotte dai fatti ... Quando non è possibile stabilire un contraddittorio sull'esistenza dei fatti, il processo diventa soggettivo e perciò arbitrario secondo un procedimento logico già esaurientemente illustrato a proposito dei c.d. “processi della coscienza”, per cui si rinvia al ben noto lavoro di A. Prosperi, Tribunali della coscienza, Torino, Einaudi, 1996. Se poi la decisione amministrativa è sottoposta ad un giudice speciale (la Corte d'Appello di Roma sopravvissuta dall'abolizione dei giudici speciali da parte della Costituzione), il quale candidamente afferma di non essere in grado di conoscere il fatto perché l'«inquirente» è l'unico soggetto in grado di farlo, il finale della rappresentazione teatrale non può conoscere sorpresa... Infatti non risulta che sia stato mai accolto un ricorso se non per motivi formali (cfr. in argomento M. Clarich, Autorità indipendenti. Bilancio e prospettiva di un modello, Bologna, il Mulino, 2005, 187 ss.). Per la cronaca va detto che il recente codice del processo amministrativo ha abrogato il tribunale speciale, riassorbendo la materia nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, il quale si presume possa fare giustizia anche dei difetti di contraddittorio dei procedimenti de quo ... magari facendo uso del «rinvigorito» istituto della verificazione iussu iudicis. (7) Cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit., 376 ss. San Carlo, anticipando l'irritazione delle moderne amministrazioni, scrisse, in una lettera non ufficiale, che in questo modo non si poteva 233 amministrare efficacemente. E infatti, anche grazie alle contestazioni dei loro avvocati, San Carlo non riuscì a punire le streghe come desiderava ... («... a quelle pene che di ragione meriteranno per delitti tanto enormi e tanto qualificati ...»). Il che non sempre è successo in epoca moderna .... (8) Amplius sulla vicenda F. Merusi, Sentieri interrotti della legalità, Bologna, il Mulino, 2007. Si potrebbe obiettare che il fenomeno non è esclusivamente italiano (cfr., ad esempio, W. Leisner, “Privatisierung” des Ōffentlichen Rechts. Von der “Hoheitsgewalt” zum gleichordnenden Privatrecht, Berlin, Mohr Siebeck, 2007, il quale ragiona, peraltro, intermini ipotetici e problematici), ma anche per gli altri ordinamenti vale l'osservazione della tipicizzazione dell'esercizio del potere che caratterizza il diritto amministrativo e del contraddittorio procedimentale che non significa «contrattualizzazione». Nessun altro ordinamento ha peraltro introdotto la pretesa «privatizzazione» in una legge sul procedimento amministrativo. (9) Per cui si rinvia a F. Merusi, Il diritto privato della pubblica amministrazione alla luce degli studi di Salvatore Romano, in Salvatore Romano giurista degli ordinamenti e delle azioni, Milano, Giuffrè, 2007, 47 ss. (10) Si tratta della legge sul procedimento amministrativo portoghese. (11) Con l'avvertenza peraltro che, a seguito delle successive «novelle», la legge sul procedimento italiano si è poi notevolmente allontanata dal modello originario che aveva ispirato la Commissione Nigro. È sufficiente infatti anche un esame superficiale di un commentario della legge sul procedimento amministrativo tedesca (cfr., ad esempio, Verwaltungsverfahrensgesetz7, a cura di P. Stelkens, H.J. Bonk, M. Sachs, München, C.H. Beck, 2004) per rendersi conto che i due ordinamenti si sono polarizzati su problematiche diverse.Per la descrizione delle «novelle» del 2005 e del 2009 si rinvia a F. Merusi, A. Fioritto, G. Ciaglia, V. Giomi, A. Bertani e F. Frediani, Lezioni sul procedimento amministrativo, Pisa, Plus, 2005 e 2009; La disciplina generale della azione amministrativa, a cura di V. Cerulli Irelli, Napoli, Jovene, 2006, cui adde, fra i tanti commenti occasionali, Studi sul procedimento e sul provvedimento amministrativo nelle riforme del 2005, a cura di F. Liguori, Bologna, Monduzzi, 2007; La nuova disciplina dell'attività amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento, a cura di G. Clemente di San Luca, Torino, Giappichelli, 2005, 157 ss., e La pubblica amministrazione e la sua azione. Saggi critici sulla legge n. 241/1990 riformata dalle leggi n. 15/2005 e 80/2005, a cura di N. Paolantonio, A. Police e A. Zito, Torino, Giappichelli, 2009, 49 ss. Né manca, all'opposto, chi si avventura in problematiche poste dal modello originario senza conoscerne il contesto. Cfr., ad esempio, S. Tarullo, Il principio di collaborazione procedimentale. Solidarietà e correttezza nella dinamica del potere amministrativo, Torino, Giappichelli, 2008. (12) Cfr. sul tema il bel libro di P. Lazzara, Procedimento e semplificazione. Il riparto dei compiti istruttori tra principio inquisitorio ed auto responsabilità privata, Roma, Aracne, 2005. (13) Sulla trasformazione delle competenze in interessi si rinvia a F. Merusi, Il coordinamento e la collaborazione degli interessi pubblici e privati dopo le recenti riforme, in Dir. amm., 1993, 21 ss. (14) Per i problemi teorici determinati da queste procedure di reductio ad unum del potere esecutivo si rinvia a G. Comporti, Il coordinamento infrastrutturale. Tecniche e garanzie, Milano, Giuffrè, 1996. (15) Sui problemi della trasparenza si rinvia alle dettagliate analisi contenute in La trasparenza amministrativa, a cura di F. Merloni, Milano, Giuffrè, 2008. (16) Per cui si rinvia alla descrizione di E. Frediani, Il “dialogo procedimentale” e la parabola del contraddittorio fra cittadini e amministrazioni pubbliche, in Welfare, diritti, cittadinanze, a cura di P. Carrozza, M. Campedelli e L. Pepino, Bologna, il Mulino, 2010. Solo se la c.d. democrazia deliberativa attiene alla decisione, e non soltanto alla istruttoria, si può parlare di democrazia diretta, nel caso spostata a favore di centri di interesse, e per di più spesso minoritari, anziché dei titolari dei diritti politici del cittadino. Sul tema riassuntivamente v. L. Baccaro e K. Papadakis, I problemi della governance partecipativo-deliberativa, in Stato e mercato, 2008, 475 ss.. Va da sé che il tema confina con quello della manipolazione del consenso finalizzata alla appropriazione privata di beni collettivi e 234 alla eliminazione dell'alternanza di governo praticate in passato attraverso il partito politico, come sembrerebbero suggerire le Regioni che hanno introdotto queste leggi integrative. Cfr. in particolare la illustrazione che della legge toscana dà A. Floridia, Democrazia deliberativa e processi decisionali: la legge della Regione Toscana sulla partecipazione, in Stato e mercato, 2008, 83 ss. Sugli strumenti e sulle difficoltà per passare dal «contraddittorio» alla deliberazione si rinvia, anche per un caso sintomatico, a A.C. Freschi e L. Raffini, Processi deliberativi istituzionali e contesto politico. Il caso della Toscana, in Stato e mercato, 2008, 279 ss.Un discorso a parte va fatto per le autorità indipendenti, compresa la Banca d'Italia, per le quali la legge, pur considerandole, evidentemente, amministrazioni statali, prevede espressamente deroghe e trattamenti particolari. Per indicazioni più dettagliate, in particolare per la diversità di problemi che ciascuna di esse pone, si rinvia a M. Clarich, Autorità indipendenti. Bilancio e prospettive di un modello, cit. (17) Non è la sola nell'ambito del codice. Si tratta di anomalie dipendenti dal c.d. «processo del bardotto», cioè da correzioni introdotte in sede governativa da un «apprendista non finito» al testo del codice originariamente redatto da una apposita commissione individuata dalla legge di delegazione. Sulla vicenda si rinvia a F. Merusi, Giurisdizione e amministrazione: ancora separazione?, relazione al 56º Convegno di Studi Amministrativi, Varenna, 23 sett. 2010. Per la tipologia del bardotto si rinvia al romanzo di V. Bertini, Il bardotto, Milano, Feltrinelli, 1957, recentemente riedito. 235 AZIONE DI ANNULLAMENTO, RICORSO INCIDENTALE E PERPLESSITÀ APPLICATIVE DELLA MODULAZIONE DEGLI EFFETTI CADUCATORI Diritto Processuale Amministrativo, fasc.2, 2013, pag. 428 ANDREA CARBONE Classificazioni: GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA - Ricorso incidentale e domanda riconvenzionale Sommario: 1. Il ruolo dell'azione di annullamento nel nuovo quadro processuale e la modulazione degli effetti caducatori della pronuncia di annullamento: la sentenza Cons. St. n. 2755/2011. — 2. Le ragioni addotte dal Consiglio di Stato: critica. — 3. Modulazione degli effetti di annullamento o condanna autonoma ad un facere? — 4. Successivi sviluppi giurisprudenziali: l'applicabilità del principio al ricorso incidentale c.d. escludente. — 5. Conclusioni. 1. La scelta compiuta dal Codice del processo amministrativo, di improntare la tutela giurisdizionale ad una pluralità di azioni esperibili, impone una riflessione sul ruolo che nel nuovo assetto processuale è destinato ad essere ricoperto dall'azione di annullamento. Sul punto, pur non negandosi che il tradizionale rimedio impugnatorio continui a rappresentare il principale strumento a disposizione del privato anche nell'attuale quadro della giustizia amministrativa (sia in termini quantitativi che qualitativi) (1), non può parimenti revocarsi in dubbio che esso assume caratteri peculiari nel momento in cui si viene ad inserire in un contesto caratterizzato da differenti forme di tutela. Si pone quindi la necessità di esaminare le modalità con cui tale rimedio si coniuga con le altre azioni, per verificare se il Codice, nel suo ‘salto in avanti' verso il superamento del precedente sistema processuale, non abbia lasciato delle zone d'ombra con cui l'interprete sia costretto a confrontarsi. La nostra riflessione non riguarderà, è bene precisare fin da subito, la vexata quaestio relativa alla pregiudiziale amministrativa, già ampiamente analizzata in sede dottrinale. Avrà ad oggetto, invece, il rapporto tra l'azione di annullamento e l'accertamento dell'invalidità dell'atto che prescinde dalla sua caducazione: in particolar modo, si vuole valutare in che limiti sia possibile per il giudice conoscere dell'illegittimità di un provvedimento laddove ciò sia strumentale all'accoglimento di una pretesa sostanziale che non trova nell'annullamento un rimedio satisfattivo. In alcune ipotesi, invero, è lo stesso Codice a rispondere a tale quesito, prevedendo espressamente che l'effetto caducatorio possa venir meno allorché il ricorrente non tragga da esso più alcuna utilità. Così, a norma dell'art. 34, co. 3, c.p.a., il sopravvenuto difetto di interesse all'annullamento non rende improcedibile il ricorso laddove permanga l'interesse all'accertamento dell'illegittimità del provvedimento a fini risarcitori (2): in questo caso, l'azione di annullamento si converte in azione di accertamento, secondo il modello della Fortsetzungsfeststellungsklage (c.d. azione di accertamento in continuazione), proprio dell'ordinamento tedesco (3). Si tratta, tuttavia, di un'ipotesi in cui il venir meno dell'ef fetto caducatorio è collegato alla conversione dell'azione da costitutiva a dichiarativa, conversione esplicitamente disciplinata dalla legge e connessa alla sopravvenuta carenza di interesse. La giurisprudenza, invero, ha ritenuto di poter disporre dell'effetto caducatorio di una pronuncia di annullamento anche in mancanza di una formale conversione dell'azione e a prescindere da un'espressa previsione in tal senso; ha ritenuto, più nello specifico, che il giudice amministrativo possa, in particolari ipotesi, modulare gli effetti caducatori di una decisione che accerti l'illegittimità dell'atto impugnato o attraverso una limitazione parziale della retroattività degli effetti stessi, ovvero con la loro decorrenza ex nunc, ovvero ancora escludendo del tutto gli effetti dell'annullamento e disponendo esclusivamente gli effetti conformativi. Questo indirizzo è stato inaugurato dalla ormai nota decisione del Consiglio di Stato n. 2755/2011 (4), e ha poi trovato successiva applicazione — anche al di fuori dei presupposti fatti propri da tale 236 pronuncia, come si vedrà — in alcune sentenze dei Tribunali Amministrativi Regionali (5). In particolare, nel caso deciso dai giudici di Palazzo Spada, si discuteva della validità di un piano faunistico venatorio regionale per gli anni 2009-2014, impugnato da parte di un'associazione ambientalista in ragione del mancato espletamento della procedura di valutazione ambientale strategica. Il Consiglio di Stato, riformando sul punto la sentenza di primo grado, ha rilevato l'illegittimità della procedura; tuttavia, a ciò non ha fatto conseguire l'annullamento dell'atto viziato. Secondo il Supremo Consesso amministrativo, infatti, se all'accoglimento delle censure prospettate dal ricorrente avesse fatto seguito il venir meno del piano si sarebbe avuta la conseguenza paradossale di eliminare qualsiasi prescrizione relativa allo svolgimento della caccia (6), in palese contrasto non solo con le esigenze di tutela sottese alla normativa di settore, ma (quel che più conta ai nostri fini) anche con lo stesso interesse posto alla base dell'impugnazione. Obiettivo dell'associazione ambientalista non era difatti la rimozione degli atti impugnati, bensì l'accertamento della loro illegittimità per l'inadeguatezza della tutela da essi garantita, in ragione del mancato esperimento della valutazione ambientale strategica. In considerazione di ciò, la Sesta Sezione si è limi tata a statuire il solo effetto conformativo della pronuncia di annullamento, disponendo che gli atti viziati avrebbero conservato i loro effetti sino alla modifica o alla sostituzione del piano da parte dell'Amministrazione (da espletarsi comunque nel termine di dieci mesi, pena, in mancanza, l'esercizio da parte del Collegio dei poteri sostitutivi propri del giudice dell'ottemperanza). Tale decisione ha dato luogo a commenti contrastanti: da un lato si è infatti evidenziato come « l'ingegneria processuale » (7) del giudice amministrativo si fosse, in questa occasione, spinta oltre le « colonne d'Ercole » (8) poste idealmente ai limiti delle sue funzioni (9); dall'altro, al contrario, si è giustificata questa innovativa presa di posizione sulla base del principio dell'effettività della tutela che, con una sentenza « di buon senso » (10), il Consiglio di Stato si sarebbe premurato di garantire. Senza anticipare ciò che sarà oggetto di compiuta analisi nei successivi paragrafi, preme tuttavia sottolineare come, a nostro avviso, si debba aderire a quella posizione secondo cui il principio stabilito nella pronuncia in esame potrebbe (il condizionale è d'obbligo, come si vedrà) trovare accoglimento a patto che venga inquadrato in un'ottica diversa da quella propria del giudizio impugnatorio. Tale impostazione, che può sembrare una mera precisazione di carattere teorico in ragione di una particolare visione del nuovo assetto del processo amministrativo, assume invero rilievo fondamentale alla luce della successiva giurisprudenza che ha fatto riferimento alla modulazione degli effetti dell'annullamento, la quale, secondo quanto si avrà modo di spiegare, si è discostata da quei presupposti che, a nostro avviso, costituiscono il reale fondamento della pronuncia n. 2755/2011. Procedendo con ordine, si analizzeranno, in primo luogo, i motivi per cui le ragioni addotte dal Consiglio di Stato non possono costituire un fondamento valido per affermare la disponibilità degli effetti caducatori della sentenza; in ragione di ciò, si cercherà di dare un inquadramento più consono alla vicenda. Tali rilievi saranno poi necessari per analizzare le decisioni che dall'indirizzo in esame hanno preso le mosse, così da valutarne la compatibilità con l'opzione interpretativa da noi prospettata. 2. Per giustificare la scelta di « non annullare » il provvedimento amministrativo di cui è stata accertata l'illegittimità, il Consiglio di Stato si è basato, in sostanza, su tre ordini di ragioni che, tuttavia, non sembrano andare esenti da critiche. In primo luogo, la Sesta Sezione ha ritenuto che il giudice amministrativo possa senza dubbio derogare alla regola generale della irretroattività degli effetti laddove la sua applicazione risulti in contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale. In questo caso, come si è già avvertito, il giudice potrebbe disporre la decorrenza ex nunc degli effetti di annullamento ovvero disporre esclusivamente effetti conformativi: nessuna norma, sostanziale o processuale, statuisce in senso contrario, ed anzi vi sono disposizioni che espressamente prendono in considerazione la possibilità che un atto, pur illegittimo, non venga annullato, come l'art. 21-nonies l. n. 241/1990. Sennonché, così opinando, il Consiglio di Stato sembra aver posto sullo stesso piano l'effetto 237 ripristinatorio della sentenza — che, come ben si è notato, è sempre disponibile, pur entro determinati limiti (11) — e l'effetto caducatorio, che invece è conseguenza tipica e necessaria della statuizione di annullamento (12). In altre parole, ciò che può essere disposto dal giudice sono gli effetti che dalla caducazione dell'atto derivano, sia in relazione all'interesse della parte, sia alla situazione di fatto che si è determinata in concreto (vale sempre la regola factum infectum fieri nequit), non già l'effetto demolitorio in sé e per sé. Da questo punto di vista, non giova neppure il richiamo all'art. 21-nonies, perché tale norma disciplina un potere discrezionale della P.A., di carattere amministrativo, avente presupposti del tutto differenti da quello esercitato dal g.a. nello svolgimento della sua funzione giurisdizionale. Al contrario, potrebbe rilevarsi che il legislatore, ogniqualvolta ha voluto escludere l'annullamento di un atto illegittimo, l'ha fatto espressamente, come nel caso dell'art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990, il quale, peraltro, non si è sottratto a dubbi di legittimità costituzionale (13). Non vi è, invece, alcuna norma esplicita che attribuisca al giudice un potere di carattere generale avente ad oggetto la determinazione dell'effetto caducatorio dell'atto; norma da ritenersi necessaria in ragione del disposto dell'art. 113, co. 3, Cost., secondo cui gli effetti dell'annullamento devono essere determinati dalla legge (14). In secondo luogo, vengono richiamati gli artt. 121 e 122 c.p.a., in forza dei quali è attribuito al giudice amministrativo, nel caso in cui sia annullata l'aggiudicazione e sia richiesta l'attribuzione del contratto di appalto, il potere di scelta — sulla base dei criteri stabiliti dalla legge — tra la dichiarazione di inefficacia del contratto (in via retroattiva ovvero ex nunc) e il mantenimento dello stesso con contestuale disposizione del risarcimento dei danni (15). Tali poteri, tuttavia, sono da considerarsi del tutto speciali, al pari del rito corrispondente, e quindi insuscettibili di applicazione analogica (16); tanto più che, avendo ad oggetto il rapporto tra annullamento dell'aggiudicazione e inefficacia del contratto, essi sembrano fare riferimento ad una situazione del tutto diversa da quella che si delinea in relazione agli effetti caducatori, i quali, invece, fanno capo direttamente al provvedimento amministrativo (17). In altri termini, secondo quanto si è correttamente rilevato, nell'ipotesi descritta dagli artt. 121 ss. c.p.a. l'effetto caducatorio, relativo all'aggiudicazione, rimarrebbe fermo, mentre ciò che verrebbe ‘modulato' sono le conseguenze sul contratto, che rientrano nell'ambito dell'effetto conformativo della sentenza (18). Rimane da ultimo il riferimento alla giurisprudenza comunitaria, che, sulla base dell'art. 264, par. 2, TFUE (ex art. 231, par. 2, TCE) (19), ha da tempo ammesso la derogabilità del principio dell'efficacia ex tunc dell'annullamento (20). Riferimento che parrebbe tanto più necessitato in ragione del fatto che la materia ambientale è oggetto di competenza concorrente tra Unione Europea e Stati membri, per cui gli standard della tutela giurisdizionale non potrebbero essere diversi a seconda che gli atti regolatori siano emessi in sede comunitaria o nazionale. Tuttavia, al riguardo è stato da più parti correttamente notato che in quell'ordinamento vi è appunto una norma espressa che disciplina un potere siffatto, di talché potrebbero semmai ricavarsi, a contrario, elementi per supportare la tesi dell'insussistenza, in capo al giudice amministrativo, di un analogo potere. Il richiamo ai principi comunitari al fine di garantire l'effettività della tutela non può allora trovare giustificazione (21), perché, come ben si è detto, « qui non si tratta di recepire principi del diritto comunitario, ma di voler applicare una disposizione dettata per un giudizio ad altro giudizio » (22). Del resto, pure non è sfuggito come in molti casi i giudici europei abbiano utilizzato il potere di modulare gli effetti dell'annullamento non al fine di assicurare la tutela effettiva della situazione dedotta in giudizio dalla parte, ma per garantire un interesse generale di particolare rilevanza, limitando, quindi, le aspettative di tutela giurisdizionale; circostanza che ha imposto alla Corte di Giustizia particolare cautela nel ricorrere all'art. 264 TFUE (23). 3. Se dunque si aderisce ai rilievi sollevati dalla dottrina, appare chiaro come l'impostazione assunta 238 dal Consiglio di Stato non possa trovare condivisione. I problemi maggiori derivano, a nostro avviso, dal presupposto, fatto proprio dalla sentenza n. 2755/2011, che la vicenda possa essere risolta nell'ottica dell'azione di annullamento e che quindi qualsiasi risultato debba essere necessariamente raggiunto attraverso la modulazione degli effetti conformativi, ripristinatori e finanche dello stesso effetto caducatorio, propri della relativa pronuncia. L'impostazione tradizionale del processo amministrativo, del resto, favorisce una lettura in tal senso anche dopo l'importante intervento di codificazione, giacché, come ben si è avvertito, è propria dell'interprete la tendenza a leggere fenomeni nuovi attraverso i vecchi strumenti concettuali a sua disposizione (24). Il rischio è allora quello di una forzatura delle regole processuali al fine di assicurare risultati sostanziali che altrimenti non potrebbero essere perseguiti. Questa impostazione, che poteva trovare giustificazione quando alla giurisprudenza era demandato il compito di garantire la pretesa effettiva del privato sulla base di uno strumentario processuale del tutto risalente e, in definitiva, limitato per lo più al rimedio impugnatorio, non sembra più ammissibile nel momento in cui il giudizio amministrativo viene (ri)fondato sul principio della pluralità delle azioni e dei rimedi accordabili dal giudice. Ciò, si badi, non solo e non tanto per un formale rispetto della coerenza teorica del sistema, ma anche e soprattutto perché — come si vedrà nel paragrafo successivo — l'elaborazione di un principio su basi diverse da quelle sue proprie può presentare complicazioni non indifferenti laddove si voglia poi estendere il principio stesso a fattispecie diverse. In questo senso, il richiamo — come ben si è detto, fin troppo disinvolto (25) — all'effettività della tutela rischia di risultare fuorviante, in quanto lo sforzo del giudice non dovrebbe avere quale fine primario quello di piegare le regole processuali, ma dovrebbe essere invece diretto a garantire la pretesa del privato all'interno dell'operatività delle stesse (26). Cercare di risolvere la questione in esame nell'ottica dell'annullamento, sembra essere, insomma, il limite fondamentale di quest'orientamento. Limite che a nostro avviso non viene completamente superato neppure valorizzando l'ampio spettro di pronunce adottabili dal giudice ai sensi dell'art. 34 c.p.a. (tra cui, in particolare, la lettera c), nella parte in cui prevede la possibilità per il giudice amministrativo di accordare « le misure idonee a tutelare la situazione giuridica dedotta in giudizio »), se questa valorizzazione rimane strettamente ancorata alle logiche dell'impugnazione (27). In questa prospettiva, infatti, si lega il contenuto ordinatorio della sentenza alla statuizione di annullamento, che tuttavia non viene pronunciata, così in definitiva rimettendosi completamente al giudice la scelta delle misure da adottare, giacché, come si è ricordato, l'effetto conformativo della sentenza può essere costruito e indotto dal ricorrente, ma rimane nella disponibilità del giudice (28). In altri termini, configurare un'eventuale statuizione di condanna come completamento della tutela costitutiva — quale, cioè, esplicitazione dell'effetto conformativo, che per questa via si renderebbe autonomo (29) — pur cogliendo pienamente gli effettivi termini della questione decisa dalla Sesta Sezione, rischia di lasciare insoddisfatti perché costringe a sostenere che le richieste delle parti possano essere ricavate anche implicitamente dalle conclusioni da esse formulate (30), così tuttavia prestando il fianco all'obiezione che la domanda giudiziale viene, in concreto, articolata dal giudice (in violazione, sembrerebbe, dell'art. 99 c.p.c., nonché dell'art. 34, co. 1, c.p.a., a detta del quale il giudice amministrativo dispone sì il contenuto della sentenza, ma « nei limiti della domanda » (31)). E se, nell'ipotesi in esame, l'apporto costruttivo del g.a. può aver portato a conclusioni soddisfacenti per l'interesse della parte, ciò, come si vedrà, non è sempre garantito (32). Il vero è che l'obiettivo perseguito dal ricorrente nel caso di specie non era l'annullamento dell'atto impugnato, bensì la dichiarazione di invalidità dello stesso ai soli fini della condan na della P.A. alla emanazione di un provvedimento che effettivamente tutelasse — in ragione dello svolgimento della VAS che era invece mancato — l'interesse di cui l'associazione ambientalista era portatrice. Si è quindi nell'ambito proprio delle azioni di condanna ad un facere specifico (33), all'interno del quale 239 l'annullamento può svolgere un ruolo soltanto indiretto, di rimozione dell'atto illegittimo (34); e, a ben vedere, nel caso di specie, non ne svolge alcuno, atteso che, come più volte si è ripetuto, il venir meno dell'atto contrastava con l'interesse sotteso alla pretesa sostanziale del ricorrente (35). Tali rilievi, se idonei a superare le perplessità sollevate dalla possibilità di modulazione dell'effetto caducatorio da parte del giudice, non risolvono tuttavia l'ulteriore problematica relativa all'ammissibilità di un'azione di condanna così configurata. Il Codice del processo amministrativo non sembra infatti offrire uno strumentario adeguato per far fronte ad una domanda di parte che si articoli come condanna e prescinda dall'annullamento di un atto: l'art. 30, co. 1, c.p.a., nel disciplinare l'azione di condanna, sancisce la sua autonomia solo per le ipotesi di giurisdizione esclusiva ovvero per l'azione risarcitoria, così lasciando intendere che l'azione di condanna ad un facere, tra cui in particolare l'azione di adempimento, debba essere esperita contestualmente ad altra azione; e il d. lgs. n. 160 del 14 settembre 2012 (c.d. Secondo Correttivo al Codice del processo amministrativo), modificando l'art. 34, lett. c), c.p.a., ha espressamente previsto che l'azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto vada proposta « contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio ». L'azione di condanna « pubblicistica » si configura, dunque, come azione a struttura ‘complessa', nel senso che è richiesto, per la sua proposizione, il contestuale esperimento di altra azione, la quale costituisce il presupposto (logico, nonché normativo, giacché previsto dagli artt. 30, co. 1, e 34, lett. c), c.p.a.) per la domanda di condanna in senso stretto. Di talché, anche seguendo l'impostazione in questa sede prospettata, potrebbe risultare problematico accogliere i risultati a cui è pervenuta la Sesta Sezione. Da questo punto di vista, non sembrano convincere del tutto le proposte che per ovviare a tali limitazioni sono state avanzate da parte di quella dottrina che pure ha inquadrato la fattispecie in esame nell'ambito di un'azione di condanna. Così, postulare la dichiarazione di carenza di interesse per la domanda di annullamento, al fine di ottenere una pronuncia solo sulla condanna (che deve essere esplicitamente richiesta) (36), si espone all'obiezione, sollevata da altra parte della dottrina, di un'alterazione tra questioni di rito e questioni di merito, in violazione dell'art. 276, co. 2, c.p.c., richiamato dall'art. 76, co. 4, c.p.a. (37). Neppure affermare l'improcedibilità dell'azione di annullamento per sopravvenuta carenza di interesse a conseguire la relativa sentenza costitutiva (con conseguente limitazione del sindacato cognitorio del giudice all'accertamento dell'illegittimità ai fini della condanna, in analogia a quanto disposto dall'art. 34, co. 3, c.p.a. per l'azione risarcitoria) (38) sembra condivisibile, atteso che, nelle ipotesi che si prendono in considerazione, la mancanza di interesse non sopravviene nel corso del giudizio, ma è invece originaria (39). Invero, il tentativo di configurare un'azione autonoma di condanna dovrebbe forse tenere conto della differenza, difficilmente contestabile, tra un'azione volta ad ottenere il provvedimento richiesto e dalla P.A. implicitamente o esplicitamente negato e la diversa azione avente ad oggetto la condanna dell'Amministrazione all'adozione di un atto che essa avrebbe dovuto emanare a prescindere da qualsiasi richiesta di parte (e che invece non ha adottato, ovvero che ha adottato, ma in difformità da quanto prescritto dalla legge). In disparte la terminologia utilizzata (se, cioè con il nome di azione di adempimento si voglia indicare solo la prima tipologia delle due azioni descritte, ovvero se in tale denominazione si preferisca ricomprendere tutti i tipi di condanna provvedimentale, da contrapporre alle azioni di condanna pubblicistica di natura non provvedimentale, quale ad es., l'accesso agli atti), appare chiaro, infatti, che solo per la prima, e non per la seconda, la struttura complessa dell'azione risponde ad esigenze di carattere logico, in quanto funzionale al superamento di un diniego o di un silenzio-inadempimento (40). Nel caso in cui non vi sia invece alcun legame procedimentale tra la parte ricorrente e il provvedimento lesivo (caso tipico: atti a contenuto generale), allora neppure vi sarà un'istanza rimasta 240 disattesa, in relazione alla quale l'azione di annullamento o il ricorso avverso il silenzio rinvengono la loro ragion d'essere. Tale impostazione sembra confermata, seppur soltanto implicitamente, dalla recente pronuncia Cons. St., Sez. V, n. 6002 del 27 novembre 2012, la quale ha ammesso un'azione di condanna (nella specie, all'indizione delle elezioni del Consiglio regionale entro i termini stabiliti dalla legge) proposta contestualmente ad un'azione atipica di accertamento dell'illegittimità dell'inerzia. Quest'ultima, che trova cittadinanza nel nostro ordinamento alla luce del principio dell'atipicità delle forme di tutela (41), consentirebbe di prescindere dal perfezionamento di un rifiuto in senso tecnico, che, in un caso in cui l'istanza del privato non è presupposto per l'adozione dell'atto, costringerebbe il ricorrente ad avviare, in maniera del tutto artificiosa, un apposito procedimento solo per vedersi decorrere infruttuosamente il termine per provvedere (quasi a riproporre surrettiziamente l'istituto della diffida ad adempiere) (42). Se si aderisce a tali considerazioni, risulta evidente che il problema di un'azione autonoma di condanna può porsi (e a ben vedere, si è posto) solo in relazione ad un provvedimento la cui emanazione prescinda da un'istanza del privato. D'altro canto, un'indi