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LE REGOLE DEL METODO SOCIOLOGICO
Capitolo I
Che cos’è un fatto sociale?
In ogni società c’è un gruppo di fenomeni che si distinguono per caratteristiche particolari, questi sono i fatti sociali.
Per esempio, quando un individuo assolve il compito di fratello o di marito o di cittadino, adempie doveri che sono
definiti al di fuori di lui, non li ha fatti lui ma li ha ricevuti mediante l’educazione. Analogamente, per ciò che riguarda
le credenze e le pratiche religiose il fedele le ha trovate già fatte alla sua nascita: se esse esistevano prima di lui, è
perché esistono al di fuori di lui.
Quindi ci sono dei modi di agire, di pensare e di sentire che presentano la proprietà di esistere al di fuori delle
coscienze individuali; questi tipi di condotta o di pensiero sono anche dotati di un potere imperativo in virtù del quale
si impongono all’individuo, con o senza il suo consenso. Quando l’individuo si conforma ad essi di sua spontanea
volontà questa costrizione non si fa sentire, ma essa rimane un carattere intrinseco di tali fatti: lo dimostra il suo
affermarsi nel momento stesso in cui l’individuo tenta di resisterle.
Quindi questi fatti consistono in modi di agire, di pensare e di sentire esterni all’individuo e dotati di un potere di
costrizione in virtù del quale si impongono ad esso; di conseguenza esse costituiscono una nuova specie e soltanto ad
essi deve essere data la qualifica di “sociali”. Il termine costrizione potrebbe impaurire, ma dal momento che
sappiamo che la maggior parte delle nostre idee e delle nostre tendenze non vengono elaborate da noi, ma ci vengono
dal di fuori, esse non possono penetrare in noi se non imponendosi; inoltre, la costrizione sociale non esclude
necessariamente la personalità individuale.
Ci sono altri fatti che hanno la stessa oggettività e la stessa influenza sull’individuo: le correnti sociali. Per esempio, in
un’assemblea, i sentimenti di entusiasmo, indignazione e pietà che si producono non hanno come luogo di origine
nessuna coscienza particolare: essi provengono agli individui dal di fuori. Perciò alla fine dell’assemblea, quando le
influenze sociali hanno cessato di agire e gli individui si ritrovano soli con loro stessi, i sentimenti che hanno provato
gli fanno l’effetto di qualcosa d’estraneo e quindi gli individui si accorgono di averli subiti piuttosto che averli
prodotti. È così che individui perfettamente inoffensivi, riuniti in folla, possono lasciarsi trascinare a commettere atti
di atrocità.
Possiamo confermare questa definizione di fatto sociale osservando la maniera in cui vengono allevati i bambini. Ogni
educazione consiste in uno sforzo continuo per imporre al bambino modi di vedere, di sentire e di agire a cui non
sarebbe arrivato spontaneamente. Se, col tempo, questa costrizione non viene più sentita è solo perché a poco a poco
ha dato origine ad abitudini e tendenze interne che la rendono inutile. La pressione che il bambino subisce non è altro
che la pressione dell’ambiente sociale che tende a plasmarlo a sua immagine e somiglianza. Non è la generalità (un
pensiero che si trova in tutte le coscienze o un movimento che tutti gli individui ripetono) che caratterizza i fatti
sociali, ma le credenze, le tendenze, le pratiche del gruppo considerato collettivamente.
Spesso i fatti sociali vengono confusi con le loro incarnazioni individuali e certamente queste hanno qualcosa di
sociale, ma ognuna di esse dipende dalla costituzione organico-psichica dell’individuo e dalle circostanze particolari
in cui è situato.
Quindi, un fatto sociale è ogni modo di fare, più o meno fissato, capace di esercitare sull’individuo una costrizione
esterna che è generale nell’estensione di una società data, pur avendo esistenza propria, indipendente dalle sue
manifestazioni individuali.
Capitolo II
Regole relative all’osservazione dei fatti sociali
La prima regola è considerare i fatti sociali come cose.
Prima di scoprire i principi elementari della fisica e della chimica, gli uomini già possedevano delle nozioni che
oltrepassavano la percezione; questo dipende dal fatto che la riflessione è anteriore alla scienza in quanto l’uomo non
può vivere in mezzo alle cose senza farsene un’idea. Dal momento che le nozioni proprie dell’individuo sono più alla
sua portata rispetto alle realtà a cui corrispondono, l’uomo tende a sostituirle a queste ultime e a fare di esse l’oggetto
delle sue speculazioni: invece di una scienza di cose reali, l’uomo fa solo un’analisi ideologica. Queste nozioni sono
una sorta di velo che si interpone tra le cose e noi e che le maschera ai nostri occhi quanto più lo crediamo trasparente.
Inoltre una scienza del genere è priva anche della materia della quale alimentarsi perché si crede che queste nozioni
contengano tutto ciò che c’è di essenziale nel reale, tutto il necessario per mettere l’individuo in grado di comprendere
ciò che è; nascendo soltanto per soddisfare necessità vitali, questa scienza si trova orientata verso la pratica. Infine,
queste nozioni non sono altro che le praenotiones che Bacone segnala alla base di ogni scienza, sono quegli idola che
alterano il vero aspetto delle cose e che l’uomo scambia per le cose stesse.
Se questo è stato per le scienze naturali, la stessa cosa dev’essere successa per la sociologia. Gli uomini, infatti, non
hanno atteso la nascita della scienza sociale per formarsi delle idee sul diritto, sulla morale e sulla famiglia perché non
potevano farne a meno per vivere; ed è soprattutto in sociologia che le prenozioni sono in grado di dominare gli spiriti
e di sostituirsi alle cose. Si può affermare che questo modo di vedere scaturisce dal fatto che la coscienza non possiede
una percezione abbastanza forte della realtà e quindi, non avendo punti di riferimento abbastanza solidi, tutto ciò
suscita l’impressione di non aderire a nulla e di fluttuare nel vuoto. Queste prenozioni non sono soltanto in noi, ma
dalla ripetizione traggono una specie di influenza e di autorità.
Comte ha proclamato che i fenomeni sociali sono fatti naturali, sottoposti a leggi naturali, e ha riconosciuto loro il
carattere di cose. Ma nel tentativo di applicare il suo principio e di farne scaturire la scienza contenuta in esso, quelle
che assume come oggetti sono le idee; infatti ciò che costituisce la materia principale della sua sociologia è il
progresso dell’umanità attraverso i tempi. Egli parte dall’idea che c’è un’evoluzione continua del genere umano, che
consiste nella realizzazione sempre più completa della natura umana; un popolo che ne sostituisce un altro non è un
prolungamento di quest’ultimo con qualche carattere nuovo, ma è differente perché ha delle proprietà in più ed altre in
meno, costituisce una nuova individualità e tutte le individualità non possono fondersi nella stessa serie continua, né in
una serie unica; la sequenza della società non può essere raffigurata da una linea geometrica ma somiglia, piuttosto, ad
un albero i cui rami si dirigono in direzioni diverse. Quindi, Comte ha inteso lo sviluppo storico in base ad una
nozione non molto diversa da quella del volgo; la storia, vista da lontano, assume facilmente un aspetto seriale e
semplice: vi si scorgono soltanto gli individui che si succedono e che procedono nella medesima direzione perché
hanno la stessa natura.
Spencer scarta questo concetto, ma fa delle società l’oggetto della scienza. Egli afferma che una società esiste soltanto
quando alla giustapposizione si aggiunge la cooperazione; in seguito Spencer distingue le società in due classi secondo
la natura della cooperazione. C’è una cooperazione spontanea che si effettua senza premeditazioni e c’è una
cooperazione istituita coscientemente che suppone scopi di interesse pubblico, alla prima classe da il nome di società
industriale ed alla seconda quello di società militare. È comunque impossibile sapere se la cooperazione costituisca la
totalità della vita sociale, un’affermazione del genere è legittima se si passano in rassegna tutte le manifestazioni
dell’esistenza collettiva, perciò quella che viene definita da Spencer non è la società ma è un certo modo di concepire
la realtà sociale, cioè l’idea che Spencer si fa della società; questo accade perché per Spencer stesso la società non è
altro che la realizzazione di un’idea, quella stessa idea di cooperazione mediante la quale la definisce.
Non esiste un sistema nel quale la morale non sia considerata come lo sviluppo di un’idea iniziale. Alcuni credono che
l’uomo trovi quest’idea in sé fin dalla nascita, altri credono che si formi più o meno lentamente nel corso della storia;
ma per entrambi essa è tutto ciò che esiste di veramente reale e morale. Per quanto riguarda le regole giuridiche e
morali, esse non sarebbero altro che questa nozione applicata alle circostanze particolari della vita: perciò l’oggetto
della morale non sarebbe un sistema di precetti privi di realtà, ma l’idea da cui derivano. Perciò tutte le questioni che
l’etica si pone si riferiscono non a cosa, ma ad idee.
Lo stesso accade in economia politica. Il suo oggetto, dice Stuart Mill, sono i fatti sociali che si producono in vista
dell’acquisizione di ricchezze; quindi la materia dell’economia politica è costituita, non da realtà tangibili, ma da
semplici possibilità, cioè da fatti che l’economista concepisce come riferentisi allo scopo considerato. Questo accade
perché l’economista si accontenta di prendere coscienza dell’idea che si fa del valore, cioè di un oggetto che può
essere scambiato; egli trova che esso implica l’idea di utilità e quella di rarità, e con questi prodotti della propria
analisi formula la sua definizione. Ciò che occupa maggior posto nelle ricerche degli economisti è lo sforzo di sapere
se la società debba essere organizzata in base alle concezioni individualistiche o socialistiche, se sia meglio che lo
stato intervenga nei rapporti industriali o che li abbandoni all’iniziativa privata.
Tuttavia i fenomeni sociali sono cose e devono essere trattati come cose. Una cosa è tutto ciò che è dato, tutto ciò che
si offre o che si impone all’osservazione; considerare i fenomeni come cose significa considerarli in qualità di data
che costituiscono il punto di partenza della scienza. È necessario considerare i fenomeni sociali in sé stessi, è
necessario studiarli dal di fuori come cose esterne e se questa esteriorità è soltanto apparente, l’illusione si dissiperà
col progredire della scienza e vedremo l’esterno interiorizzarsi.
1) Il primo corollario afferma che occorre scartare sistematicamente tutte le prenozioni; questa regola è alla base di
ogni metodo scientifico. Occorre quindi che anche il sociologo si astenga dall’uso di concetti che si sono formati al di
fuori della scienza e per bisogni che non hanno nulla di scientifico, occorre che egli si svincoli dalle false evidenze che
dominano lo spirito del volgo e che lo faccia tenendo conto del loro scarso valore. Questa liberazione è
particolarmente difficile in sociologia perché il sentimento vi entra spesso in gioco: il modo in cui ci appassioniamo
alle nostre credenze politiche e religiose è ben diverso da quello in cui ci appassioniamo alle cose del mondo fisico. Le
idee che ci costruiamo ci stanno a cuore come i loro oggetti ed assumono una tale autorità da non sopportare
contraddizione fino a non tollerare neanche un esame scientifico.
2) La regola precedente è però del tutto negativa. Essa insegna al sociologo a volgere la sua attenzione ai fatti ma non
dice in che maniera egli debba impadronirsene per condurne uno studio oggettivo. Il primo passo del sociologo deve
essere la definizione delle cose che tratta, per sapere di cosa deve occuparsi: una teoria che può essere controllata
soltanto se si sanno riconoscere i fatti di cui deve rendere conto. Affinché sia oggettiva, occorre che esprima i
fenomeni in funzione di caratteri abbastanza esteriori da risultare immediatamente percepibili, tra i quali può essere
ricercata la materia della definizione fondamentale. Questa definizione dovrà comprendere tutti i fenomeni che
presentano questi stessi caratteri perché queste proprietà sono tutto ciò che sappiamo del reale e devono determinare la
maniera in cui raggruppare i fatti. Da ciò deriva che: bisogna assumere sempre come oggetto di ricerca soltanto un
gruppo di fenomeni precedentemente definiti mediante certi caratteri esterni ad essi comuni, e comprendere nella
stessa ricerca tutti quelli che rispondono a questa definizione. Però questa regola non viene osservata in sociologia,
perché per il sociologo è inutile formulare una definizione preliminare e rigorosa di cose di cui parla incessantemente
e quindi si riferisce semplicemente alla nozione comune; quest’ultima spesso è ambigua e questo fa sì che vengano
riunite sotto lo stesso nome cose che in realtà sono molto differenti.
3) La sensazione è facilmente soggettiva. Perciò nelle scienze naturali è necessario scartare i dati sensibili che
rischiano di essere troppo personali per l’osservatore e considerare solo quelli che presentano un sufficiente grado di
soggettività. Il sociologo deve prendere le stesse precauzioni: i caratteri esterni con i quali egli definisce l’oggetto
delle sue ricerche devono essere il più possibile oggettivi. Perciò quando un sociologo si accinge ad esplorare un
qualsiasi ordine di fatti sociali, deve sforzarsi di considerarli dal lato in cui si presentano isolati dalle loro
manifestazioni individuali.
Capitolo III
Regole relative alla distinzione tra normale e patologico
L’osservazione condotta con le regole precedenti confonde due ordini di fatti per certi aspetti molto diversi tra loro: i
fenomeni normali e i fenomeni patologici. La questione è importantissima perché dalla soluzione che se ne dà dipende
l’idea che ci si fa della funzione che spetta alla scienza e soprattutto alla scienza dell’uomo; la scienza conosce
soltanto fatti che hanno tutti il medesimo valore e il medesimo interesse, li osserva, li spiega, ma non li giudica. Ai
suoi occhi il bene ed il male non esistono, essa ci può dire in che modo le cause producano gli effetti ma non quali
scopi debbano venire perseguiti e per saperlo bisogna ricorrere ai suggerimenti dell’inconscio. La scienza si trova in
tal modo privata totalmente di ogni efficacia pratica e di conseguenza non ha più una grande ragione di essere.
La sofferenza è volgarmente considerata l’indice della malattia; certe gravi diatesi sono indolori, mentre disturbi senza
importanza causano un vero supplizio. In certo casi proprio l’assenza del dolore, oppure anche del piacere, sono i
sintomi della malattia; in circostanze in cui un uomo sano soffrirebbe, il nevrastenico può provare una sensazione di
godimento; inversamente, il dolore accompagna molti stati, come la fame, la fatica, il parto, che sono fenomeni
puramente fisiologici.
Possiamo forse dire che la salute è riconosciuta in base al perfetto adattamento dell’organismo al suo ambiente, e
chiamare invece malattia tutto ciò che perturba tale adattamento? In primo luogo non è affatto dimostrato che ogni
stato dell’organismo sia in corrispondenza con qualche stato esterno. La salute sarebbe allora lo stato di un organismo
nel quale queste possibilità sono maggiori, mentre la malattia sarebbe tutto ciò che provoca la loro diminuzione; la
malattia non è l’unica ad avere come conseguenza l’indebolimento dell’organismo. La malattia non ci lascia sempre
disorientati, essa ci costringe ad adattarci in un modo diverso da quello della maggior parte dei nostri simili.
Tutti questi problemi restano, per il sociologo, ancora circondati di mistero. Gli avvenimenti che si verificano nella
vita sociale e che si ripetono in modo quasi identico in tutte le società del medesimo tipo sono troppo vari perché sia
possibile determinare in quale misura uno di essi possa aver contribuito ad affrettare l’esito finale. Quindi in
sociologia, come in storia, avviene che gli avvenimenti siano qualificati come salutari o disastrosi.
Il difetto comune a queste definizioni consiste nell’attingere prematuramente all’essenza dei fenomeni, ma sarebbe il
caso di conformarci alla regola precedentemente stabilita: invece di pretendere di determinare di primo acchito i
rapporti dello stato normale e del suo contrario, cerchiamo qualche segno esteriore, immediatamente percepibile ma
oggettivo, che ci consenta di riconoscere l’uno rispetto all’altro questi due ordini di fatti.
Ogni fenomeno sociologico è suscettibile di assumere forme differenti a seconda dei casi, queste forme sono di due
tipi: le une sono generali per tutta l’estensione della specie, si ritrovano almeno nella maggior parte degli individui e
variano da un soggetto all’altro; le altre risultano eccezionali, non soltanto appaiono come una minoranza, ma anche
dove si verificano accade spesso che non durino per tutta la vita dell’individuo. Chiameremo normali i fatti che
presentano le forme più generali e patologici o morbosi gli altri. Un fatto sociale può essere definito normale per una
specie sociale soltanto in relazione ad una fase determinata del suo sviluppo, di conseguenza per sapere se esso abbia
diritto a questa denominazione occorre considerarle nella fase corrispondente della loro evoluzione.
Dal momento che la generalità è un fenomeno spiegabile, è opportuno cercare di spiegarla. Il carattere normale del
fenomeno sarà incontestabile se si dimostrerà che il segno esterno che l’aveva rivelato non è puramente apparente, ma
è fondato nella natura delle cose. Ci sono casi in cui questa verificazione è rigorosamente necessaria: i periodi di
transizione. Quando l’intera specie sta evolvendo, il tipo normale è quello del passato e non è più in rapporto con le
nuove condizioni di esistenza e quindi la generalità che esso presenta è ormai soltanto un’etichetta perché non è più
l’indizio della connessione del fenomeno osservato con le condizioni generali dell’esistenza collettiva. Questa
difficoltà è specifica della sociologia perché il sociologo potrebbe così trovarsi in imbarazzo quando deve decidere se
un fenomeno sia normale o no, ma se risulterà invece che la situazione sia vincolata alla vecchia struttura sociale
potremo concludere che rappresenta uno stato morboso.
Una volta constatata la generalità del fenomeno, si possono confermare i risultati del primo metodo. Possono quindi
essere formulate tre regole:
1) un fatto sociale è normale per un tipo sociale determinato, considerato in una fase determinata del suo sviluppo,
quando esso si presenta nella media delle società di quella specie, considerate nella fase corrispondente della loro
evoluzione;
2) possiamo verificare i risultati del metodo precedente mostrando che la generalità del fenomeno dipende dalle
condizioni generali della vita collettiva nel tipo sociale considerato;
3) questa verificazione è necessaria quando il fatto si riferisce ad una specie sociale che non abbia ancora compiuto la
sua evoluzione integrale.
In sociologia la maggiore complessità e la maggiore mobilità dei fatti obbligano a prendere maggiori precauzioni.
Se c’è un fatto il cui carattere patologico sembra incontestabile, questo è il reato: tutti i criminologi sono d’accordo su
questo punto. Applichiamo dunque le regole precedenti. Il reato si riscontra in tutte le società di tutti i tipi: non c’è
società in cui non esista qualche tipo di criminalità; essa muta di forma e gli atti non sono dappertutto i medesimi, ma
dappertutto e in ogni tempo vi sono stati uomini la cui condotta è stata tale da attirare su di essi la repressione penale.
Se il tasso di criminalità tendesse a diminuire, si potrebbe ritenere che, pur rimanendo un fenomeno normale, il reato
tende a perdere questo carattere. Fare del reato una malattia sociale significherebbe ammettere che la malattia non è
qualcosa di accidentale, ma deriva dalla costituzione fondamentale dell’essere vivente: significherebbe cancellare ogni
distinzione tra il fisiologico ed il patologico. Normale è semplicemente il fatto che esista una criminalità purché essa
attinga e non sorpassi un certo livello. Il reato è normale perché la società che ne fosse esente sarebbe assolutamente
impossibile; il reato consiste in un atto che offende certi sentimenti collettivi. Affinché in una società gli atti ritenuti
criminali non venissero più commessi, sarebbe necessario che i sentimenti che essi offendono si trovassero in tutte le
coscienze individuali senza eccezione, e con il grado di forza sufficiente a frenare i sentimenti contrari. Però, anche
supponendo che questa condizione possa realizzarsi, non perciò il reato scomparirebbe: esso muterebbe soltanto di
forma. Affinché gli omicidi scompaiano, occorre che l’orrore per il sangue versato divenga maggiore negli strati
sociali in cui si reclutano gli assassini, ma a tale scopo è necessario anche che esso divenga maggiore in tutta
l’estensione della società. Perciò il furto e la semplice indelicatezza urtano un solo ed unico sentimento altruistico, il
rispetto della proprietà altrui; ecco perché chi commette un’indelicatezza viene semplicemente biasimato, mentre il
ladro viene punito.
Capitolo IV
Regole relative alla costituzione dei tipi sociali
Un fatto sociale può essere definito normale o anormale in relazione ad una specie sociale, questo implica che un ramo
della sociologia è completamente dedicato alla classificazione di tali specie.
La specie sociale ha il vantaggio di fornirci un termine medio tra le due concezioni contrarie della vita collettiva: il
nominalismo degli storici e il realismo estremo dei filosofi. Per lo storico le società costituiscono altrettante
individualità eterogenee, tra loro incomparabili: ogni popolo ha la propria fisionomia, il proprio diritto, la propria
morale; per il filosofo tutti gli aggruppamenti particolari come le tribù, le città e le nazioni non sono altro che
combinazioni provvisorie e contingenti, prive di realtà propria. Per i primi la storia è soltanto un susseguirsi di
avvenimenti che si concatenano senza riprodursi; per i secondi questi stessi avvenimenti hanno valore e interesse
soltanto in quanto illustrazioni delle leggi generali che sono impresse nella costituzione dell’uomo e che regolano
l’intero svolgimento storico. Per quelli ciò che è bene per una società non può essere applicato alle altre; per questi
esse possono essere determinate una volta per tutte per l’intero genere umano. Sembrerebbe che la realtà sociale possa
essere soltanto l’oggetto di una filosofia astratta e vaga, ma a quest’alternativa si può sfuggire riconoscendo che tra la
confusa molteplicità delle società storiche e il concetto unico dell’umanità ci sono degli intermediari. Nell’idea di
specie si trovano riunite sia l’unità che esige ogni ricerca veramente scientifica, sia la diversità data nei fatti, poiché da
un lato la specie si ritrova identica in tutti gli individui che ne fanno parte e dall’altro le specie sono l’una differente
dall’altra.
Può sembrare che l’unico modo di procedere consista nello studiare ogni società in particolare, nel farne una
monografia, nel comparare tutte le monografie, nel vedere in quali punti esse concordino e in quali divergano, per poi
classificare i popoli in gruppi simili o differenti. Infatti la specie non è che il riassunto degli individui: come si può
costituirla se non si comincia col descrivere ciascuno di essi nella sua totalità?
Non è esatto affermare che la scienza non possa istituire leggi se non dopo aver passato in rassegna tutti i fatti che esse
esprimono, né formare generi se non dopo aver descritto nella loro integralità gli individui che essi comprendono. Il
vero metodo sperimentale tende piuttosto a sostituire ai fatti volgari, fatti decisivi o cruciali che per sé stessi hanno un
valore ed un interesse scientifico. È necessario procedere in questo modo soprattutto quando si tratta di costituire
generi e specie, poiché fare l’inventario di tutti i caratteri appartenenti ad un individuo è un problema insolubile;
quindi occorre un criterio che oltrepassi l’individuo.
Ma anche quando fosse possibile una classificazione in base a questo metodo, essa avrebbe il grandissimo difetto di
non rendere i servizi che costituiscono la sua ragione d’essere; infatti essa deve avere, innanzitutto, lo scopo di
accorciare il lavoro scientifico sostituendo alla molteplicità indefinita degli individui un numero ristretto di tipi. Ma
perde il suo vantaggio se i tipi in questione vengono costituiti soltanto dopo che tutti gli individui sono stati passati in
rassegna ed interamente analizzati, quindi questa classificazione non può assolutamente agevolare la ricerca, ma sarà
davvero utile soltanto se ci permetterà di classificare caratteri differenti da quelli che le servono da base. A tale scopo
occorre che essa venga stabilita in base a un inventario di un piccolo numero di caratteri individuali accuratamente
scelti: in questo modo essa servirà non solo a riordinare le conoscenze ma anche ad acquistarne nuove e servirà anche
all’osservatore in quanto gli risparmierà molto cammino, perché lo guiderà.
Spencer ha compreso che la classificazione metodica dei tipi sociali non poteva avere un fondamento diverso, egli
sostiene che l’evoluzione sociale comincia con piccoli aggregati semplici, che essa progredisce mediante l’unione di
alcuni di questi aggregati in aggregati più grandi e che, dopo essersi consolidati, questi gruppi si uniscono ad altri
gruppi simili per formare aggregati ancora più grandi. La nostra classificazione deve cominciare quindi dalle società
del primo ordine, cioè le più semplici. La definizione di società semplice, per Spencer, è impossibile perché la
semplicità consiste in una certa grossolanità di organizzazione e non è possibile definire in quale momento
l’organizzazione sia abbastanza rudimentale da poter essere definita semplice. Il termine semplicità ha un senso
definito soltanto se significa un’assenza completa di parti, bisogna quindi ritenere semplici tutte le società che non ne
racchiudono altre più semplici di essa e che non sono ridotte soltanto ad un unico segmento, ma che non recano traccia
di una segmentazione anteriore; l’orda corrisponde esattamente a questa definizione: essa è un aggregato sociale che
non comprende e non ha mai compreso nel suo seno nessun aggregato più elementare, gli individui che ne fanno parte
non formano, all’interno del gruppo totale, gruppi specifici e diversi da esso, quindi l’orda è il protoplasma del regno
sociale e quindi la base naturale di ogni classificazione.
È vero che forse non esistono società storiche che corrispondano a questi connotati, ma conosciamo molteplici società
che sono formate da una ripetizione di orde: i clan. I clan, infatti, sono società formate da una riunione di orde e questo
ci autorizza a supporre l’esistenza originaria di società più semplici che si riducevano all’orda. Distingueremo tanti tipi
fondamentali quante sono le maniere in cui l’orda può combinarsi con sé stessa e dare origine a nuove società;
incontreremo aggregati formati mediante una semplice ripetizione di orde o di clan, senza che questi clan siano
associati in modo da costituire gruppi intermedi tra il gruppo totale e ciascuno di essi: queste possono essere chiamate
società poli-segmentarie semplici. In seguito verrebbero quelle società formate mediante la riunione di società della
specie precedente, vale a dire le società poli-segmentarie composte; poi le società poli-segmentarie doppiamente
composte, che risultano dalla giustapposizione o dalla fusione di più società poli-segmentarie semplicemente
composte. Abbiamo supposto che ogni tipo superiore sia formato dalla ripetizione di società del medesimo tipo, cioè
del tipo immediatamente inferiore, mentre non è possibile che società di specie differenti si riuniscano in modo da
formare una nuova specie.
A questo punto il principio di classificazione può essere enunciato così: si comincerà con il classificare le società in
base al grado di composizione che esse presentano, prendendo come punto di partenza la società perfettamente
semplice, o a segmento unico; all’interno di queste classi verranno distinte varietà differenti, a seconda che si verifichi
o meno la coalescenza completa dei segmenti iniziali.
È bene specificare che le società sono soltanto combinazioni differenti di una medesima società originaria; ma un
elemento non può comporsi con sé stesso e i componenti non possono comporsi tra loro, se non in base ad un limitato
numero di modi. La gamma di combinazioni possibili è quindi finita e perciò la maggior parte di esse devono ripetersi:
ecco perché ci sono le specie sociali; resta possibile che alcune di queste combinazioni si verifichino una volta sola,
ma ciò non toglie che esistano le specie sociali. A differenza delle specie biologiche, che hanno una forza interna che
fissa i caratteri specifici nonostante le sollecitazioni al mutamento che provengono dall’esterno; nel dominio sociale
manca questa causa interna, perciò le società generate sono spesso diverse dalle società generatrici perché queste
ultime, combinandosi, danno origine ad assetti del tutto nuovi.
Capitolo V
Regole relative alla spiegazione dei fatti sociali
Mostrare a che cosa un fatto sia utile non vuol dire spiegare né come esso sia nato, né come esso sia ciò che è, poiché
gli impieghi ai quali serve suppongono sì le proprietà specifiche che lo caratterizzano, ma non le creano; esse devono
la loro esistenza a cause di altro genere.
Ciò che mostra la dualità di questi due ordini di ricerche è la constatazione che un fatto può esistere senza servire a
nulla sia perché non ha mai uno scopo vitale, sia perché ha perso completamente la sua utilità continuando ad esistere
soltanto per la forza dell’abitudine. Nella società le sopravvivenze sono ancora più numerose che nell’organismo e in
quel caso è accaduto che una pratica o un’istituzione sociale abbiano mutato funzione senza però cambiare di natura. I
dogmi religiosi del Cristianesimo non mutano da secoli, ma la loro funzione non è più quella che era nel Medioevo; in
questo modo anche le parole servono ad esprimere idee nuove senza che la loro trama muti. È vera, in sociologia, la
proposizione che l’organo è indipendente dalla funzione e che perciò può servire a scopi differenti; le cause che lo
fanno essere sono quindi indipendenti dagli scopi al quale esso serve, però non vogliamo affermare che le tendenze, i
bisogni, i desideri degli uomini non intervengano mai attivamente nell’evoluzione sociale.
Quando ci si accinge a spiegare un fenomeno sociale, bisogna dunque ricercare separatamente la causa efficiente che
lo produce e la funzione che esso assolve; ci serviamo del termine “funzione” perché i fenomeni sociali generalmente
non esistono in vista dei risultati che producono. Ciò che dobbiamo determinare è se sussiste una corrispondenza tra il
fatto considerato e i bisogni generali dell’organismo sociale e in che cosa consista questa corrispondenza.
Il metodo di spiegazione generalmente seguito dai sociologi è essenzialmente psicologico: se la società non è che un
sistema di mezzi istituiti dagli uomini in vista di certi scopi, questi ultimi devono essere individuali, dal momento che
prima della società potevano esistere soltanto gli individui. Dall’individuo derivano quindi le idee e i bisogni che
hanno determinato la formazione della società; se tutto proviene da lui egli deve essere il principio di ogni
spiegazione.
Secondo Comte poiché il fenomeno sociale, concepito nella sua totalità, non è altro che un semplice sviluppo
dell’umanità, senza che nessuna nuova facoltà venga creata; secondo lui il fatto dominante della vita sociale è il
progresso che dipende da un fattore esclusivamente psichico: la tendenza che spinge l’uomo a sviluppare sempre più
la propria natura. I fatti sociali deriverebbero dalla natura umana che, nelle prime fasi della storia, potrebbero venire
direttamente dedotti da essa, senza dover ricorrere all’osservazione. Le forme più complesse della civiltà non sono
altro vita psichica sviluppata, quindi la psicologia avrà sempre l’ultima parola.
Capitolo VI
Regole relative all’amministrazione della prova
Abbiamo soltanto un mezzo per dimostrare che un fenomeno è la causa di un altro fenomeno: comparare i casi in cui
essi sono simultaneamente presenti o assenti, e cercare se le variazioni che presentano in queste diverse combinazioni
di circostanze attestano che l’uno dipende dall’altro. Quando essi possono venir prodotti artificialmente
dall’osservatore, il metodo è quello della sperimentazione propriamente detta. Quando invece non disponiamo dei
mezzi per produrre i fatti e possiamo soltanto accostarli così come essi si sono prodotti spontaneamente, il metodo di
cui ci serviamo è quello della sperimentazione indiretta o metodo comparativo.
SOCIOLOGIA E FILOSOFIA
Capitolo I
Rappresentazioni individuali e rappresentazioni collettive
L’analogia è una forma legittima di comparazione, e la comparazione è il solo mezzo pratico di cui disponiamo per
rendere le cose intelligibili. L’errore dei sociologi di indirizzo biologico è stato quello di aver voluto indurre le leggi
sociologiche da quelle biologiche. Ma inferenze di questo genere sono prive di valore, poiché, se è vero che le leggi
della vita si ritrovano nella società, assumono però in essa forme nuove e presentano caratteri specifici che l’analogia
non permette di congetturare, e che possiamo attingere soltanto mediante l’osservazione diretta. Ma è ancora più
naturale ricercare le analogie che possono esistere tra le leggi sociologiche e le leggi psicologiche, perché questi due
domini sono più vicini l’uno all’altro. La vita collettiva è costituita da rappresentazioni: è dunque presumibile che le
rappresentazioni individuali e quelle sociali siano in qualche modo comparabili. Cercheremo di dimostrare che le une
e le altre si trovano nella stessa relazione con i loro rispettivi substrati: ma questo accostamento, lunghi dal giustificare
la concezione che riduce la sociologia a un semplice corollario della psicologia, metterà invece in risalto
l’indipendenza relativa di questi due mondi e di queste due scienze.
Capitolo II
La determinazione del fatto morale
La realtà morale può essere studiata da due punti di vista differenti: si può cercare di conoscerla e di comprenderla
oppure di giudicarla. Il primo di questi problemi deve necessariamente precedere il secondo. D’altra parte, per poter
studiare teoricamente la realtà morale è indispensabile aver determinato in precedenza in che cosa consista il fatto
morale.
Ogni morale ci si presenta come un sistema di regole di condotta. Che cosa differenzia le regole morali dalle altre?
1) Le regole morali possiedono un’autorità specifica, in virtù della quale vengono obbedite perché comandano. Si
ritroverà così la nozione del dovere, l’obbligazione.
2) Contrariamente a quanto dice Kant, la nozione di dovere non esaurisce però l’ambito di ciò che è morale: è
impossibile che noi compiamo un atto unicamente perché ci è comandato, facendo astrazione dal suo contenuto; per
diventare agenti di un atto è necessario che ci appaia come desiderabile.
Nella desiderabilità si ritrova però qualcosa della natura del dovere. Se è vero che il contenuto dell’atto ci attira, è
anche vero che fa parte della sua natura di non poter essere compiuto senza sforzo. Lo slancio, anche entusiastico, con
il quale possiamo agire moralmente, ci spinge fuori da noi stessi e ci eleva al di sopra della nostra natura. Questo
oggetto desiderabile viene chiamato il bene.
Determinate queste caratteristiche, bisogna spiegarle. Una risposta metodica a questo problema comporta uno studio il
più possibile esaustivo delle regole particolari il cui insieme costituisce la nostra morale. Ma in mancanza di questo
metodo è possibile giungere mediante procedimenti più sommari che non sono privi di valore: 1) la qualificazione di
morale non è mai stata applicata ad un atto che abbia per scopo soltanto l’interesse dell’individuo; 2) se c’è una
morale, il suo obiettivo può essere soltanto la società, a condizione tuttavia che la società possa essere considerata una
personalità qualitativamente differente dalle personalità individuali che la compongono: la morale comincia laddove
comincia l’attaccamento ad un gruppo.
Le caratteristiche del fatto morale possono essere spiegate: 1) mostrando come la società sia una cosa buona,
desiderabile per l’individuo che non può esistere al di fuori di essa e che non può negarla senza negarsi e come questo
non possa volerla e desiderarla senza in qualche modo far violenza alla propria natura di individuo; 2) ponendo in luce
come la società sia contemporaneamente una cosa buona e un’autorità morale che conferisce loro un carattere
vincolante.