RILEGGENDO LA LETTERA ALLE FAMIGLIE DI GIOVANNI PAOLO

RILEGGENDO LA LETTERA ALLE FAMIGLIE DI GIOVANNI PAOLO II / 4
La dignità della procreazione
Non è sicuramente casuale che Giovanni Paolo II, nella Lettera alle famiglie,
cominci a trattare della procreazione umana già nei capitoletti 7 e 8, intitolati
rispettivamente “L’alleanza coniugale” e “L’unità dei due” e dedicati principalmente
al rapporto di coppia e alla comunione coniugale. Egli vuole certamente evidenziare
il profondo legame che unisce la procreazione umana e la relazione d’amore
dell’uomo e della donna che dànno la vita ad una creatura.
Procreare non è un atto che può essere svincolato dal contesto relazionale:
esso ha il suo pieno significato all’interno di una relazione d’amore, radicato nella
comunione coniugale, di cui costituisce un meraviglioso frutto. È questa, la
comunione coniugale, l’habitat, per così dire, più idoneo per il concepimento e la
venuta al mondo di un figlio.
È la comunione coniugale all’origine di tutto: all’origine della comunità degli
sposi, della procreazione e della comunità familiare. È sulla comunione coniugale che
poggia, come sul suo solido fondamento, l’edificio familiare. «La famiglia trae la sua
solidità interiore – leggiamo al n. 8 – dal patto tra i coniugi, che Cristo ha elevato a
Sacramento. Essa attinge la propria natura comunitaria, anzi, le sue caratteristiche
di “comunione”, da quella fondamentale comunione dei coniugi che si prolunga nei
figli».
La generazione dei figli è dunque, per la coppia di sposi, un “prolungamento”
della comunione coniugale: è in essa che trova la sua radice e la sua linfa, è in essa
che trova anche la sua forza. La procreazione arricchisce la comunione coniugale e
questa dà il senso più vero alla procreazione.
Questo legame intimo con la comunione coniugale dice la “verità” della
procreazione umana: il figlio che viene al mondo è un dono per la donna e l’uomo
che lo generano, frutto del loro reciproco donarsi nell’amore.
È, questa, una visione unitaria fondamentale e molto significativa, sul piano
spirituale e antropologico, in un tempo in cui si tende invece a frammentare, a
dissociare le cose: a dissociare, per esempio, la sessualità dall’amore, il sesso dalla
relazione di coppia, la procreazione dalla relazione sessuale. In un tempo anche in cui
va prendendo piede una visione individualistica della procreazione, considerata quasi
come il soddisfacimento di un desiderio personale. In un tempo in cui, sulla base di
un medesimo processo logico, si vuole affermare contemporaneamente il diritto ad
abortire e il diritto ad avere un figlio ad ogni costo.
Il Papa continua ricordando l’impegno che i coniugi si assumono, riguardo alla
procreazione, durante la celebrazione del loro matrimonio: «“Siete disposti ad
accogliere responsabilmente e con amore i figli che Dio vorrà donarvi e a educarli…?
– domanda il Celebrante durante il rito del matrimonio. La risposta degli sposi
corrisponde all’intima verità dell’amore che li unisce. La loro unità, tuttavia, anziché
chiuderli in sé stessi, li apre ad una nuova vita, ad una nuova persona. Come
genitori, essi saranno capaci di donare la vita ad un essere simile a loro, non soltanto
“carne della loro carne e ossa delle loro ossa” (cfr. Gn 2, 23), ma immagine e
somiglianza di Dio, cioè persona. Domandando: “Siete disposti?”, la Chiesa ricorda
ai novelli sposi che essi si trovano di fronte alla potenza creatrice di Dio».
Si tratta, dunque, di accogliere i figli come un dono: un dono del Creatore. E
questo essi sono realmente, un dono.
Sì, un figlio è frutto dell’unione d’amore dell’uomo e della donna, ma tale
unione ha un potere di generare che non sono loro, né l’uomo né la donna, a porre in
essere: essi ne sono, piuttosto, i fruitori. E il processo della gestazione, che per nove
mesi si sviluppa nell’utero materno, avviene nella donna ma non è opera della donna.
Nella procreazione umana, il generare un figlio prende il via dall’atto d’amore
dei coniugi ma segue un processo che non sono loro a determinare, a regolare; un
processo che essi possono solo decidere di volere che continui o che si interrompa,
ma che non possono modificare o rallentare o accelerare.
Ma la chirurgia – si potrebbe obiettare – è oggi in grado di intervenire
sull’embrione per correggere possibili anomalie del suo sviluppo, per prevenire
l’insorgere di malattie congenite.
Meno male! Gioiamo di queste possibilità! Questo però non vuol dire che la
chirurgia “fa essere” il processo di sviluppo embrionale, il quale ha un suo codice già
inscritto, già memorizzato, che precede ogni possibile intervento medico e non può
essere sostituito.
C’è insomma, nella procreazione umana, qualcosa che precede e oltrepassa
ogni possibile intervento dell’uomo: qualcosa che fa avvenire l’incontro fra il gamete
femminile e lo spermatozoo, che fa avvenire la fusione fra le due cellule, che fa
sviluppare la minuscola nuova cellula embrionale secondo un meraviglioso
programma che, dopo nove mesi di vita intrauterina, la fa diventare una creatura
umana in grado di vivere al di fuori dell’utero materno.
È questo “qualcosa” non attribuibile all’uomo (e che perciò rimanda al progetto
della creazione) a far sì che un bimbo che nasce sia un dono per coloro che lo
generano. Ma questo “qualcosa” la cultura di oggi, abbagliata dai progressi registrati
nel campo della genetica e della procreatica che esaltano il potere di intervento
dell’uomo e inducono quasi a credere che tutto sia opera sua nella procreazione
umana, tende a non vederlo, tende ad ignorarlo.
Le possibilità tecniche relative al concepimento e alla gestazione e quelle di
intervento medico-chirurgico sull’embrione non ci possono, però, spingere a porre in
secondo piano il fatto che nella generazione della vita umana ci troviamo sempre di
fronte al “mistero”, a una forza superiore di cui riusciamo anche ad esplorare il
“come” (ossia le modalità e il percorso biologico dello sviluppo embrionale), ma che
non possiamo non riconoscere che ci supera.
Sì, anche nel XXI secolo, di fronte a un bambino che viene al mondo siamo
sempre di fronte a un “mistero”, siamo sempre, come abbiamo letto nel brano
precedentemente riportato, “di fronte alla potenza creatrice di Dio”.
E di fronte a questo miracolo della creazione che si rinnova, non si può che
provare un religioso stupore, non si può che restare ammirati e colmi di gratitudine
per il dono della vita – il dono di un figlio – con cui il Signore ci viene incontro.
I coniugi, così, «sono chiamati a diventare genitori – è la parte conclusiva del
capitoletto n. 8 –, ossia a cooperare con il Creatore nel dare la vita. Cooperare con
Dio nel chiamare alla vita nuovi esseri umani significa contribuire alla trasmissione
di quell’immagine e somiglianza divina di cui ogni “nato di donna” è portatore».
Generare un figlio significa, dunque, “cooperare con il Creatore nel dare la vita”,
significa partecipare del grande progetto divino della creazione, che non si è concluso
al principio, ma continua nell’oggi della storia grazie a coloro che dànno la vita ad altre
creature e a quanti collaborano allo sviluppo del creato.
Che immensa dignità, allora, quella dei genitori: cooperare con il Creatore,
diventare cooperatori di Dio, partecipare del progetto della creazione!
Che immensa dignità: diventare, per così dire, vicari di Dio! Sì, perché
“procreare” significa “creare al posto di”, cioè al posto di Dio, per conto di Dio. È Dio
che ha chiesto e continua a chiedere all’uomo e alla donna di generare, nell’amore e
attraverso un atto di amore (come fa Lui, che è Amore e che opera e crea per amore),
le creature umane al posto suo, per conto suo.
Dio, nella sua onnipotenza, potrebbe creare ogni essere umano nei modi per
noi più impensati; e invece si è voluto affidare all’uomo e alla donna, dandogliene la
capacità (ossia la caratterizzazione sessuale, la mascolinità e la femminilità), per far
venire al mondo le creature umane.
È come se Dio dicesse a ogni coppia di coniugi: “Ho bisogno di voi due, Anna e
Franco (Caterina e Luigi, Antonella e Salvatore, Giacoma e Antonio…), per far venire
al mondo Giuseppe, Cristina e Tommaso, i miei (e vostri) figli. Volete collaborare con
me a questo compito?”.
Dio, che potrebbe far tutto Lui, vuole avere bisogno degli uomini, delle coppie
di coniugi, per far venire alla luce i suoi figli. E così ogni bambino/a che nasce è al
tempo stesso figlio/a di Dio e dei genitori che lo/a mettono al mondo. I genitori umani
sono, per così dire, co-genitori con Dio dei loro figli, che sono anche,
contemporaneamente, figli di Dio. I genitori umani partecipano della
paternità/maternità di Dio; sono resi fruitori di essa, beneficiari, eredi.
Per ogni bambino/a che viene al mondo si attiva – possiamo dire – una duplice
genitorialità: quella di Dio, che trasmette alla creatura l’immagine e somiglianza
divina, e quella del papà e della mamma, che le trasmettono il patrimonio genetico.
Patrimonio spirituale e patrimonio genetico si sommano e si fondono in ogni
evento procreativo, sicché la procreazione umana non può essere considerata un
semplice fatto riproduttivo. C’è in essa un “valore aggiunto” che manca nella
riproduzione delle altre specie viventi. Questo “valore aggiunto” risiede sia nella
genesi dell’atto procreativo, che nasce dalla volontà dei coniugi di donarsi
reciprocamente e di accogliere insieme il dono del figlio, sia nella duplice dotazione
del nascituro, che si porta dentro e il patrimonio genetico-biologico ereditato dai
genitori umani e il patrimonio spirituale trasmesso da Dio, cioè l’immagine e
somiglianza divina.
«La paternità e la maternità umane – ha scritto il Papa nel n. 6 della Lettera –,
pur essendo biologicamente simili a quelle di altri esseri in natura, hanno in sé in
modo essenziale ed esclusivo una “somiglianza” con Dio, sulla quale si fonda la
famiglia, intesa come comunità di vita umana».
La paternità e la maternità umane, insomma, sono molto di più del semplice
istinto riproduttivo. Esse sono sostanziate da una logica di donazione che solo nella
paternità/maternità di Dio trova il suo riferimento, il suo modello.
Quando si parla di procreazione umana, non si può ricorrere a criteri solo
biologici né a calcoli o a valutazioni di natura quantitativa, come se si avesse a che
fare con individui appartenenti a qualsiasi altra specie vivente.
Quando si parla di procreazione umana, entra in gioco quel “valore aggiunto”
di cui si diceva prima e che è proprio di essa: quel “di più” di cui non si può non tener
conto, e che determina una differenza incolmabile rispetto alla riproduzione degli
altri viventi.
Nino Sammartano