Tannhäuser a Vienna, nella regia di Guth del 26 Settembre 2010
Di tutti i protagonisti wagneriani Tannhauser è uno dei più inattuali.
Difficile, per lo spettatore di oggi, accettarne il profilo senza contestualizzarlo nella mente del Wagner
trentenne che, come al solito, finiva con il far coincidere i conflitti dei suoi personaggi con i suoi conflitti del
momento.
E' addirttura impossibile, per uno spettatore digiuno d'opera (si fa teatro anche per loro, no?) accettarne
senza sorridere le pose oratoriali, gli atteggiamenti comizianti, i pietismi religiosi e gli infantilismi
ecologico-salutisti a base di prati fioriti e atmosfere salubri.
Difficile ancora di più capire lo status di eterno "fuori posto" che il bardo porta con sè.
Non solo Tannhauser fa sempre la cosa sbagliata nel momento sbagliato ma giustifica il proprio disagio con
pretesti quasi sempre autocelebrativi e in odore di giustificazione.
E' ovvio; Wagner era giovane, non ancora esperto di drammaturgia e l'alternarsi di carnale-spirituale (asse
portante di molti dilemmi poetici dell'epoca) è gestito con lo schematismo di chi sta ancora affinando gli
strumenti; in altre parole, se preso alla lettera e senza una benchè minima conoscenza dei filoni culturali del
primo Romanticismo, Tannhauser può sembrare il racconto di una battaglia tra eserciti contrapposti che, a
conti fatti, non si sa bene perchè sia stata scatenata nè perchè la si combatta.
Cosa ci fa Venere in una storia altomedioevale? Dov'è il Venusberg? Perchè il Papa non perdona
Tannhauser? Perchè nella Wartburg i cantori si scandalizzano alle chiose di Tannhauser? Che colpa deve
redimere Elisabeth con la sua morte?
Anche armonicamente siamo dalle parti dei colori pantone affiancati; cromatismo per il Venusberg,
diatonistmo per tutto il resto.
Lo stesso Wagner non si aggiustò mai con questo lavoro. Per tutta la vita lo revisionò (ne esistono tre
versioni canoniche) e, a Palazzo Vendramin -finite le recite di Parsifal- voleva a tutti costi riscriverlo.
Detto questo, sono del parere che, con quest'opera le strade siano sostanzialmente due.
O lo si tratta come una sinfonia con voci (Tannhauser ha pagine musicali di travolgente fascino), oppure si
cerca la strada per valorizzarlo e farlo parlare al presente. Il che non vuol dire ambientarlo a Manhattan, ma
studiarne gli snodi teatrali e musicali (per me la stessa cosa, ancora di più in Wagner visto che anche per lui
erano la stessa cosa) tramite un linguaggio narrativo che possa appassionare lo spettatore contemporaneo.
Guth è attualmente il più grande regista operistico di area tedesca. Ha firmato cose sensazionali: Nozze e
Don Giovanni da Salisburgo, Ariadne e Tristano a Zurigo e, soprattutto, quel fantastico e entusiasmante e
magnifico Messiah dell'An-der-Wien adesso su dvd e blu-ray.
Questo Tannhauser viennese si colloca, per ora, ai vertici della sua produzione.
Innazitutto Guth vuole farci capire subito chi è il protagonista e quali sono le sue sofferenze.
Ovviamente Tannhauser è un artista ed è un artista tormentato, pieno di dubbi, di esaltazioni, di urgenze, di
sconfitte. E' l'artista romantico per eccellenza la cui potenza creativa nasce dalla sofferenza derivante dal
titanico sforzo di conciliare opposti. Qui, un regista tedesco, di quelli belli tedesconi, intendo, sarebbe partito
per la tangente del metalinguaggio o roba simile; Guth, che invece prima di essere un regista tedesco è un
uomo di teatro, sceglie di raccontarci una storia lavorando sulla la drammaturgia dell'opera.
A Guth non interessano i poli del dissidio che arrovella l'artista Tannhauser; non importa che la sofferenza
dell'uomo e dell'artista nasca dall'impossibilità di conciliare carne e spirito, oppure tradizione e rinnovamento,
o libertà d'espressione e censura, no, a lui preme fotografare come questa battaglia -qualuque essa siavenga combattuta e quali siano le conseguenze di questa battaglia sia sul protagonista ma anche su tutti
quelli che vengono in contatto con lui.
E individua subito le due caratteristiche del personaggio, al di là di tutti i contenuti filososfici e poetici. E su
questo costruisce la sua regia.
Quali sono questi elementi?
Sogno e senso di colpa.
Sogno.
Ecco le prime parole di Tannhauser.
Troppo! Troppo! O potessi mai svegliarmi!
Senso di colpa.
Potrei praticamente fare un copia-e-incolla di tutto il libretto (e di quasi tutti i libretti di Wagner) ma bastino le
ultime parole di Tannhauser a Venere.
La morte, la tomba, io le porto in cuore, con penitenza ed espiazione bene io mi troverò la pace!
Ripeto, sogno e senso di colpa.
Ecco due elementi che invece ci sono del tutto familiari, che caratterizzano il nostro presente e stabiliscono i
confini di alcuni dei nostri comportamenti.
Dopo l'Ouverture (versione Vienna 1875-quindi senza Baccanale) il sipario si apre sul Venusberg.
Vediamo un piccolo palcoscenico con il sipario rosso costruito all'interno del più grande palcoscenico della
Staatsoper.
Di primo acchito ovviamente siamo convinti che l'azione si svolga in in un teatro.
Sul canto delle sirene si apre il sipario rosso e vediamo Venere. La Schuster (bravissima) e una signora
adulta, dalla chioma rossa, con una veste da camera stile primo novecento. E' abbastanza elegante ma
trasmette un che di trasandato, di usato. E truccata pesantemente e fuma una sigaretta con un chilometrico
bocchino.
Tannhauser (Van Aken) è accasciato fuori dal palcoscenico in pieno rovello interiore.
Comincia la scena a due. Com'è noto Tannahuser se ne vuole andare e Venere cerca di trattenerlo. Durante
gli arpeggianti comizi del bardo (Dir Tone Lob) Venere rimane sul palco e si mostra quasi spazientita. Cerca
di sedurlo senza mai muoversi dal piccolo palcoscenico. Palcoscenico su cui Tannahuser non salirà mai.
Si capisce subito che in quello spazio c'è qualcosa di bizzarro. La scenografia è, per certi aspetti, di un
realismo assoluto però ti sembra di essere sotto l'effetto di una bella bevuta di assenzio. Luci strane, fiori,
specchi che moltiplicano la figura del protagonista...insomma tutta roba che in un teatro vuoto di solito non ce
la trovi.
Bene o male Tannhauser abbiamo cominciato a inquadrarlo, ma chi è Venere? E' una cantante per cui il
bardo ha scritto opere e che adesso sta rifiutando? E' una diva in disarmo? Un relitto? Una ex-musa
ispiratrice?
Guth semina indizi.
Paradossalmente l'unica senzazione concreta di questo inizio d'opera è che siamo in una dimensione del
tutto irreale e che Venere, qualsiasi cosa essa sia, altro non è che una donna che Tannahuser riveste di
significati "altri" dalla realtà.
Realtà che ci appare di sfuggita quando, durante il canto di Tannahuser, vediamo apparire sul piccolo
palcoscenico Elisabeth (la Kampe) tutta intenta a scrivere una lettera che capiamo benissimo sarà inviata al
cantore di cui la povera ragazza non ha da tempo più notizie.
L'atmosfera si scalda e la Schuster (ripeto, strepitosa come accento e brillante in acuto, in questo aiutata
dalla versione viennese che, a differenza di quella parigina, è molto più agevole per il mezzo) nella
maledizione finale esce dal palcoscenico, raccoglie un paio di valige dalla quinta, le scaraventa addosso a
Tannahuser e lo manda a quel paese. Il teatrino scompare nell'oscurità fonda di un palcoscenico che resta
vuoto e il buio inghiotte anche Venere. La visione è finita. Tannhauser resta solo in uno spazio desolato e
scuro. Il vuoto, il nulla, il niente.
Da questo nulla entra il pastore. Che è un bimbetto vestito esattamente come Tannahuser. Ma non è un
visione consolatoria, tutt'altro. E' una presenza triste e malinconica e lo stonacchiante fanciullo (un disastro di
scrocchi!-sono messi cosi i Sangerknaben?) ci appare come un ricordo, una velleità di rientrare in contatto
con una purezza antica ormai perduta per sempre. Ci appare come il tentativo di riaprire un discorso con una
parte di sè da tempo dimenticata nel corto circuito in cui ormai annaspa la mente di Tannhauser. Entrano nel
fondo i pellegrini; signori vestiti elegantemente in redingote e cilindro che caracollano fustigandosi con una
corda di canapa. Anche il bambino esce di scena e li segue autoflagellandosi.
Una cosa è chiara. Tannhauser è divorato dai sensi di colpa e si anestetizza nel sogno per superare questo
dolore. Tannhauser deve espiare, deve redimersi, ma... cosa diavolo ha fatto per meritare tutto questo?
Qual'è il peccato originale che ha messo la mente di Tannhauser su un binario sbagliato?
Lo capiamo subito dopo appena sentiamo le fanfare dei corni che annunciano l'arrivo del Langravio e soci.
Qui Guth usa un altro su strumento espressivo in cui non teme confronti: la localizzazione geografica
dell'Opera nel luogo dove si sta svolgendo lo spettacolo.
Cambio di scena. Il nulla in cui erano immersi Tannahuser e il pastorello scompare e ci troviamo nella
minuscola hall di un alberghetto ai primi anni del Novecento. Non è un alberghetto qualsiasi, anzi, a Vienna è
un po' una celebrità.
Si tratta dell'Orient Hotel, ovvero un piccolissimo e lussuosissimo albergo a ore nel centro della città (in fondo
al Graben) frequentato da tutta l'intellighenzia viennese negli anni di Mahler e Freud. Tutti i creativi dell'epoca
lo visitavano trovandoci le prostitute più belle (e sane) di Vienna nonchè il miglior laudano. Le foto d'epoca
mostrano arredamenti sontuosi popolati da giunoniche bellezze svestite. C'è ancora. E promette anche oggi
"erotische weekend" ad alto prezzo.
La scena è ricostruita con minuziosa e certosina cura del dettaglio. Dal campenellino del portiere alle dorate
apliques alle pareti.
Dalle scale dell'albergo scende chiassosamente il gruppo del Langravio dopo, si presume, un notte di
baldorie. Vedono Tannhauser tutto stropicciato seduto in un angolo e non possono nascondere la loro
sorpresa. Ecco dov'era finito tutto questo tempo. Tannhauser è imbarazzato non tanto per il luogo dove
l'hanno trovato (ne escono pure loro) quanto piuttosto dal fatto che lui ha soggiornato nell'Orient Hotel a
lungo, ne ha fatto la sua casa per un lungo periodo di tempo.
Mi sono aggirato lontano, lontano...
dove mai non ho trovato tregua o riposo.
Capiamo subito chi era la nostra Venere e ci è anche chiaro, chiamiamomolo così, il peccato di Tannahuser.
No, Tannhauser non si sente in colpa per essere stato settimane? mesi? chiuso in un bordello così come non
è importante il significato pruriginoso dato al termine "grotta" dentro la quale Venere invita Tannhauser a
entrare. No, la colpa di Tannhauser non sta nel fatto di aver "soggiornato al Venusberg godendo di delizie
peccaminose" ma nel fatto di aver abdicato alla propria missione artistica chiudendosi in un mondo
immaginario rifiutando il conflitto e quindi dichiarando la propria sconfitta.
Capiamo inoltre chi sono questi amici di Tannhauser e, soprattutto, cosa il cantore rappresenti per loro.
Sono artisti, è ovvio, perchè di arte discettano, ma, a differenza di Tannhauser, sono perfettamente vestiti e
quindi felicemente omologati nella società dell'epoca. Dalle loro parole capiamo che Tannahuser faceva parte
del loro gruppo e, pur essendo un elemento eccentrico, fuori dal coro, non inserito, godeva e gode di un
rispetto assoluto:
Ma no! Tu sei nuovamente dei nostri.
Non ti lasceremo partire!
Non ti lasciamo andare!
Rimani con noi!
Decisivo è l'intervento di Wolfram (Matthias Goerne, strepitoso) che, lo capiamo, nutre per Tannahuser un
sincero affetto.
Cosa dice Wolfram? In pratica: "In tutte le nostre discussioni su arte e musica a volte sei uscito incompreso e
sconfitto però tu solo, pur con tutte le tue bizzarrie, hai conquistato il cuore di Elisabeth. Nessuno di noi, con
tutta la nostra arte canonica c'era mai riuscito. Torna nel gruppo, se non per noi, per lei".
E vi metto, testuale:
Poiché, ahimè, quando superbo ci lasciasti,
ella il suo cuore chiuse alla nostra canzone;
noi vedemmo la sua guancia impallidire;
e la nostra brigata per sempre ella evitò.
Oh! torna, ardito cantore,
al nostro canto s'accompagni il tuo!
E ch'ella non manchi oltre alle feste,
e nuovamente a noi la sua stella risplenda!
Non c'è male come benvenuto.
Al nome di Elisabeth Tannhauser si sente rinfrancato sia dal calore degli amici che dal cocktail che un
anziano cameriere serve alla brigata per festeggiare il ritorno del figliol prodigo. Mentre il gruppo esce di
scena Venere-Schuster attraversa velocemente la scena tutta presa nei suoi pensieri da maitresse come
un'affacendata domestica che ha robe da sbrigare. Tannhauser le fa ciao-ciao con la mano con aria
imbarazzata. Venere-maitresse non lo considera nemmeno, sembra addirttura non riconoscerlo tra i tanti
clienti che passano nella sua camera. E si stringe nelle spalle. Chi sei? Cosa vuoi?
Sipario.
Arriviamo quindi alla Teure Halle e facciamo conoscenza con Elisabeth di cui avevamo solo sentito parlare
nel primo atto.
Qui Guth è spettacolare, nel senso letterale del termine.
La Teure Halle altro non è che il foyer della Staatsoper (nell'ambientazione di Guth era ancora Hofoper).
L'effetto, di un realismo incredibile, è sorprendente come lo era la serra di Villa Wesendonk nel Tristano di
Zurigo o il Kronenhalle nell'Ariadne.
Come spettatore si prova una strana vertigine che deriva dal trovarsi ad apertura di sipario in uno spazio in
cui eri esattamente cinque minuti prima.
La sala in questione, ricostruita minuziosamente, è identica a quella dove adesso si trova il bar del teatro,
quello al primo piano con le finistre sul balcone prospiciente il Ring.
L'unica differenza con l'attuale sta nei busti dei musicisti che adesso sono di Mozart, Beethoven e, credo,
Haydn, mentre nella scenografia di Guth sono dedicati a Weber, Marschner, Rossini e Spontini, guardacaso i
modelli e i padri-padroni di Wagner a cui periodicamente il musicista ritornava e contro cui periodicamente
combatteva.
Con questo colpo d'occhio arrivano nuovi elementi.
Il gruppo artistico di cui Tannhauser fa parte non è un gruppo qualsiasi, ma è di casa alla Hofoper.
La scena si apre nel fayer popolato di pubblico nell'attesa di un inizio di spettacolo.
Elisabeth è vestita di bianco e canta l'inno alla sala con un entusiasmo e una felicità contagiosa. Tra l'altro si
muove con disinvoltura tra gli spettatori che popolano il foyer e quindi capiamo che è anche lei perfettamente
inserita nell'ambiente. Tutti le fanno domande, lei passa da un gruppo all'altro... è chiaro che si tratta di una
serata importante, il ritorno di Tannhauser è diventato il "talk-of-the-town" al punto di organizzare una
manifestazione in suo onore.
Entra Tannhauser; il dialogo fra i due è timoroso, si capisce che stanno camminando sulle uova, anche
perchè Tannahuser sente su di sè la responsabilità di questo evento organizzato appositamente per lui.
Non dovete voi qui stare in ginocchio, poiché questa sala
è il vostro regno.
Queste parole di Elisabeth provocano in Tannahuser un moto di sgomento. Si precipita verso l'uscita,
vorrebbe scappare. Il suo disagio, che l'aveva portato a isolarsi, il timore di doversi misurare con il mondo
reale gli mozza il respiro. E' chiamato ad affrontare una prova assolutamente importante; si deve esibire in
quel teatro, misurarsi con il pubblico, si presume, presenzialista e ufficiale. Insomma, deve mettersi in gioco.
Le ultime parole del Langravio poi lo sconvolgono.
Già si avvicinano i nobili delle mie terre,
che qui, alla straordinaria festa, ho invitato:
più numerosi che mai vengono, poiché
hanno udito, che tu sarai il re della festa.
Si sentono i primi squilli di tromba, Tannahuser cerca di nuovo di scappare, vorrebbe essere di nuovo
all'Orient Hotel nel sogno e nella protezione di un ambiente apparentemente privo di conflitti e...altro non può
fare che cadere schiantato a terra. Si fa buio, le pareti del foyer si aprono, la sala si deforma (lode ai tecnici
della Staatsoper), le luci assumono toni crepuscolari e di nuovo non siamo più nel mondo reale, ma dentro
alla mente di Tannahuser.
Non ci sono più foyer, Hofhoper, pacche di benvenuto sulla spalle... qui siamo soli con Tannhauser e i suoi
fantasmi.
Entra il pubblico annunciato dal Langravio. Gli spettatori non sono più elegantemente vestiti come prima ma
ci appaiono avvolti in domini neri col viso mascherato. Sono figure agghiaccianti e la festosa marcia -diretta
da Welser-Most con ritmi aguzzi e tinte acidule- diventa un'agghiacciante sfilata di inquisitori. Elisabeth cerca
di raggiungere Tannhauser, ma le file compatte del coro nerovestito glielo impediscono. Si viene come a
formare un labirinto umano all'interno del quale Elisabeth (vestita di bianco) cerca Tannhauser e viceversa,
ma i muri umani creano percorsi contorti, insormontabili. Anche Elisabeth finisce inghiottita dal mare nero e
scompare. O per meglio dire, resta in scena, ma, vestita di nero, non riusciamo più a riconoscerla.
Entrano i cantori e comincia la sfida. Nella mente di Tannhauser si ripete un film già visto. Cerca di parlare,
critica brutalmente gli interventi altrui, non riesce a controllarsi, passa il limite della decenza, tutti coloro che
gli erano amici gli si rivoltano contro. Elisabeth interviene in suo favore ma altro non fa che rintuzzare il
divorante senso di colpa del nostro artista. Non c'è più scampo se non nella penitenza dura, aspra, dolorosa
che possa bilanciare l'inquietudine che deriva dall'essere un diverso in un mondo di uguali. E qui entra il
gioco l'alta maestria di Guth nel costruire dolenti ritratti di anti-eroi cui conferisce uno spessore umano, vi
assicuro, commovente e appassionante. La sconfitta di Tristano e del suo sogno di un amore assoluto, la
desolazione della Primadonna nella sua Arianna e, ultimo, lo struggente Messia-travet del lavoro hendeliano
dell'An-der-Wien.
Sipario
Nel terzo atto la riscrittura drammaturgica di Guth è definitiva.
Siamo, di notte, in una stanza d'ospedale anche questa ricostruita da Guth sulle foto di un sanatorio per
malati di mente d'inzio secolo alla periferia della città.
Tre brandine squallide. Due sono vuote. Su quella centrale giace Tannhauser sotto l'effetto di potenti
psicofarmaci. Vicino a lui troviamo Elisabeth che lo veglia. E' chiaro che non c'è stato nessun pellegrinaggio a
Roma e nemmeno c'è stata alcuna tenzone canora. Tannhauser è caduto in terra nel foyer al secondo atto
ed è stato ricoverato in questa clinica in quanto sofferente di quello che, un tempo, veniva chiamato
esaurimento nervoso.
Nella stanza accanto c'è Wolfram che aspetta.
Questa scena ci fa capire il disastro. Il gruppo di artisti si è nuovamente sciolto, Elisabeth è ritornata nella sua
malinconia e Wolfram ormai ha abbandonato il suo sogno di sostituire Tannhauser nel cuore di Elisabeth.
La Kampe canta una preghiera di struggente e sovrumana bellezza. Forse la linea era leggermente sporca in
alcuni passaggi ma vi garantismo che la comunicativa, il senso di disperazione, il bisogno angosciante di
rivolgersi alla fede proprio di chi ha ormai perso ogni speranza erano perfetto.
Si sente il coro dei pellegrini. E' un canto agghiacciante e minaccioso che proviene da profondità misteriose.
Il coro viennese assieme a Welser-Most scandisce il tempo ternario con un'evidenza rabbiosa per nulla
consolatoria. I pellegrini passano sotto le finestre della stanza e li vediamo, un esercito cencioso e sofferente
di malati mentali in libera uscita sotto la soveglianza di medici occhialuti in camice bianco. Il coro ha un
crescendo di potenza devastante, Elisabeth urla, si tappa le orecchie, è la voce della pazzia che reclama la
propria identità. Sulle ultime note la sofferenza prende il sopravvento; Elisabeth ingolla una bottiglia di
medicinali e si stende sopra al letto in attesa della morte.
La scena gira e arriviamo alla stanza d'aspetto dove troviamo Wolfram seduto su una squallida sedia. Tutto,
anche per lui, è ormai perduto. Tira fuori di tasca un rivoltella argentea, sta anche lui per uccidersi quando ci
ripensa. E canta l'abendstern a questa rivoltella che luccica nella penombra come se fosse una fata portatrice
di speranza. Goerne qui ha superato se stesso; l'accento, il legato, i colori, il meraviglioso senso di
abbandono alla melodia, la fusione perfetta con la sezione violoncelli dell'orchestra...da solo, questo
momento valeva lo spettacolo.
Entra Tannhauser, devastato dai farmaci, si siede vicino a Wolfram e comincia il Roma narrative. Sembrano
due amici in vena di confidenze. Il pellegrinaggio che Tannhauser racconta è seguito con interessa da
Wolfram, non perchè si tratti di un "vero" pellegrinaggio, ma perchè in questa dichiarazione c'è una sorta di
percorso terapeutico, una sorta di presa di coscienza da parte di Tannhauser del proprio dolore. Wolfram lo
segue con i gesti come se fosse un medico e lo aiuta ed esprimersi pur conscio di quanto tutto questo sia
una visione. Tutto crolla quando Tannhauser parla del Papa e della mancanza di perdono. Il senso di colpa
non ha soluzione, la maledizione sarà eterna e il peccatore non sarà redento. Wolfram capisce che il dolore
di Tannahuser è talmente profondo da diventare irrecuperabile, Il nostro cantore sente infatti i richiami dellle
sirene dell'Orient Hotel ed appare anche Venere che ora è abbigliata come Elisabeth. Il caos, nella mente di
Tannahuser, è totale. Wolfram entra nella camera del nosocomio e vede il cadavere di Elisabeth. Si stende
anche su una brandina e, con la sua abendstern, si uccide.
Mentre partono i cori del finale. Tannhauser arriva al proscenio, alle sue spalle si ricostruisce il piccolo
palcoscenico del primo atto dove adesso ci stanno tutti i personaggi. Su quel palcoscenico cala il sipario,
Tannhauser è illuminato da un occhio di bue che ne evidenza i tratti allucinati. Raccoglie una cartella con
qualche scritto e si incammina verso una quinta.
Buio.
Diretto con grande mestiere da Welser Most questo Tannahuser aveva un "buco" musicale nel ruolo del
protagonista. Tannhauser è una parte massacrante sia per lunghezza che per scrittura. Lo schema classico
del "canti due atti e uno ti riposi" tipico di Wagner in quest'opera non funziona. Il bardo c'è sempre e non si
ferma mai. Ruolo costruito per Tichatschek (infaticabile creatore di Rienzi e Lohengrin nonchè alfiere di quasi
tutte le première tedesche di Meyerbeer) e tale da metterlo in ginocchio (Wagner fu costretto a operare tagli
nel Finale II dopo la prima), a Vienna era incarnato dall'onesto Van Aken, declamatore ruvido e vocalista -in
quest'opera ce n'è bisogno- impacciato. Doveva esserci Botha che, a quanto mi risulta, ha cancellato tutte le
recite eccetto le prime due.
Maugham