Formazione - Ospedale Pediatrico Bambino Gesù

Guida alla formazione
continua del Bambino Gesù
Speciale
IN
Formazione
Speciale
Riunioni
Scientifiche
delle aree
di ricerca
Indice
1
Un ospedale all’avanguardia
per la ricerca, con risultati
superiori a quelli di
molte università
2
Implementazione di
una metodologia di
predizione
della risposta alle
vaccinazioni
in bambini con immunodeficienza acquisita
3
Mutazioni ipomorfiche
di TBCE causano
una malattia
neurodegenerativa
complessa
4
Il ruolo
degli esosomi tumorali
nei tumori pediatrici
5
Nuovi approcci
terapeutici per
la cura della
cistinosi
nefropatica
6
Mutazioni inattivanti
di TBCD perturbano la
dinamica dei microtubuli
e sono causa di una
nuova sindrome
neurodegenerativa
a esordio precoce
7
Caratterizzazione tissutale
e funzionalità sistolica nei
pazienti pediatrici affetti da
cardiomiopatia dilatativa
idiopatica e ruolo del 3D
printing nelle cardiopatie
congenite
8
Dallo studio dell’APDS un
modello di medicina
traslazionale
9
Combattere i gliomi
di alto grado con
l’immunoterapia
10
Bambini con diparesi,
la terapia con il Lokomat
migliora le performance
motorie
11
Il microambiente dei
tumori pediatrici:
caratterizzazione
e targeting terapeutico
12
I biomarcatori nelle
malattie metaboliche:
dal laboratorio di ricerca
alla diagnostica clinica
13
Pertosse, il ruolo del latte
materno nella prevenzione
14
Crioablazione
assistita
con guida 3D
15
Profili di microbiota
intestinale in fibrosi
cistica: integrazione
di carte omiche come
supporto di medicina di
laboratorio nella gestione
clinica del paziente
16
La connessione fra ritardo
di crescita intrauterino
e stress del reticolo
endoplasmatico
17
Identificazione di
biomarcatori specifici
di malattia in corso di
malattie autoimmuni
sistemiche
18
Innovazioni tecnologiche,
un metodo per aiutare
i decisori scegliere
la soluzione migliore
19
Modificazioni
epigenetiche degli istoni
nell’epatocarcinoma
A cura di Rita Mingarelli e
Alessandra Bellocchi, Catia Giancaterini,
Pasquale Giannini, Licia Gigliozzi,
Paola Grosso, Chiara Ilari
EFE - Servizio Eventi Formativi ECM
1
Un ospedale all’avanguardia
per la ricerca, con risultati
superiori a quelli di
molte università
Il videoeditoriale del professor Bruno Dallapiccola,
direttore scientifico del Bambino Gesù
Clicca qui
per visualizzare il video
2
Implementazione di una metodologia
di predizione della risposta
alle vaccinazioni in bambini con
immuno-deficienza acquisita
I
l continuo miglioramento delle
cure di patologie croniche, fino a
qualche anno fa mortali (HIV, MICI,
trapiantati, etc.), ha determinato
un incremento significativo dell’aspettativa di vita di bambini che presentano
disturbi immunologici di diversa natura, correlati sia all’uso di terapie immunomodulanti che alla loro patologia di
base.
Le vaccinazioni rappresentano uno dei
più grandi successi della medicina nella
prevenzione di malattie infettive. Tuttavia la maggior parte delle vaccinazioni a
oggi in uso vengono validate e rilasciate
sul mercato in seguito a trial eseguiti nella popolazione sana.
Questa popolazione pediatrica in continuo aumento, presenta l’esigenza di strategie vaccinali personalizzate che garantiscano la sicurezza ed un adeguata
protezione. Tutt’oggi vi sono molte incertezze su quali siano i marcatori ottimali
per identificare i soggetti non immunizzati nonostante abbiano seguito la schedula vaccinale nazionale.
«Nella realtà europea abbiamo assistito
a un cambiamento epocale per quanto
riguarda la composizione della popolazione che ha fatto segnare un forte incremento gli anziani – spiega il dottor Paolo
Palma, immunoinfettivologo del Dipartimento Pediatrico Universitario Ospedaliero del Bambino Gesù - Anche in
ambito pediatrico però, si è registrato un
grande aumento di bambini che crescono con malattie croniche di varia natura.
Malattie che impattano sulla loro capacità di mantenere una risposta protettiva
alle vaccinazioni. Al Bambino Gesù la
maggior parte dei pazienti sono cronici o
sottoposti a terapie con forti effetti collaterali (come la chemioterapia) o a farmaci immunosoppressori che impattano
sull’efficacia del sistema immunitario.
Di conseguenza le capacità del bambino
di rispondere alla vaccinazione sarà in
parte ridotta e in parte non mantenuta. È
necessario rivedere i calendari vaccinali, definendo per esempio la popolazione
effettivamente a rischio. Stiamo inoltre
allargando la nostra piattaforma predittiva alle varie popolazioni immunocompromesse presenti in Ospedale».
Il gruppo del Dr. Palma si è occupato in questi anni d’implementare una
piattaforma predittiva di risposta alle
vaccinazioni disegnata sull’esigenza
del bambino immunocompromesso
partendo da due concetti fondamentali in pediatria. Il primo risponde al bisogno di eseguire analisi che risultino
ampiamente informative utilizzando
campioni esigui di sangue. Il secondo
è incentrato sul riconoscimento dell’unicità dell’individuo.
«Abbiamo necessità di ricercare tante informazioni da campioni di sangue – aggiunge Palma – Spesso però i protocolli sono stati disegnati per gli adulti che
partono da volumi di sangue molto elevati. Il bambino non permette invece
prelievi così ingenti. È quindi necessario
disegnare approcci sperimentali che tengano conto del fattore volume (protocolli
citofluorimetria e analisi genica). Stiamo
mettendo a punto un metodo che ci consentirà con soli 2 ml di sangue - quantità
irrisoria e applicabile anche al neonato di ottenere sempre più informazioni».
3
Mutazioni
ipomorfiche
di TBCE causano
una malattia
neurodegenerativa
complessa
I
microtubuli sono strutture dinamiche coinvolte nel
controllo di numerose funzioni cellulari. Mutazioni
nei geni che codificano per
le diverse isoforme delle tubuline
sono associate a malattie neurodegenerative definite tubulinopatie.
TBCE (Tubulin folding cofactor E) è
uno chaperone coinvolto nel folding
dell’ α-tubulina e nella polimerizzazione dei microtubuli. Mutazioni in
TBCE sono associate a disordini dello sviluppo nell’uomo e a una forma
di neuronopatia motoria nel topo
(pmn/pmn).
Nella nostra area di ricerca è stato
identificato un nuovo fenotipo clinico caratterizzato da atrofia muscolare spinale, atassia e spasticità, in
gran parte sovrapponibile al fenotipo
descritto nel topo pmn/pmn. Il sequenziamento esomico condotto su
DNA dei pazienti ha consentito l’identificazione di due mutazioni bialleliche in TBCE con effetto fondatore (Napoli-Ischia).
Analisi funzionali condotte sui fibroblasti dei pazienti hanno mostrato che
le due mutazioni causano una riduzione dei livelli proteici di TBCE. Questa
riduzione porta a sua volta a un’alterata polimerizzazione dei microtubuli. L’analisi morfologica del Golgi
ha inoltre evidenziato anomalie strutturali che comprendono alterazioni e
delocalizzazione delle membrane.
«Questo nuovo fenotipo clinico è causato da mutazioni ipomorfiche nel chaperone TBCE – spiega la dottoressa Antonella Sferra, dell’area di ricerca di
malattie neuromuscolari – Abbiamo
correlato questa mutazione alla riduzione dei livelli della proteina che a sua
volta portano a un’alterazione significativa della polimerizzazione dei microtuboli. I dati funzionali mostrano un
coinvolgimento del TBCE nelle funzioni e nella sopravvivenza neuronale. La
condizione sembra essere rara e limitata a un mutazione con effetto fondatore
nell’area geografica di Napoli-Ischia».
4
Il ruolo degli esosomi tumorali
nei tumori pediatrici
Lo studio, condotto presso il laboratorio del Dipartimento
di Oncoematologia e Medicina trasfusionale, punta
a migliorare la comprensione del meccanismo alla base
della diffusione delle metastasi, per individuare
nuove possibilità di cura
G
iungere a una diagnosi
precoce per i casi di neuroblastoma e di sarcomi pediatrici studiando gli esosomi tumorali. È questo lo scopo dello
studio condotto presso il laboratorio
del Dipartimento di Oncoematologia e
Medicina Trasfusionale del Bambino
Gesù.
Gli esosomi sono delle vescicole extracellulari, delle dimensioni di un virus,
rilasciati dalle cellule, che svolgono un
ruolo fondamentale nel meccanismo
di comunicazione fra le stesse. Anche i tumori rilasciano esosomi e un
recente studio, condotto dalla Cornell
University di New York, ha dimostrato
che queste microvescicole interagiscono con gli organi che, con il progredire
della malattia, diventeranno futuri siti
di metastasi. Nel dettaglio, gli esosomi
tumorali creano una condizione favorevole all’attecchimento delle metastasi,
andando a formare la cosiddetta “nicchia premetastatica” (un concetto elaborato dal professor David Lyden della
Cornell University).
“Le metastasi rappresentano una
delle fasi più avanzate nei tumori pediatrici – spiega la dottoressa Angela
Di Giannatale, Oncologa Pediatra a
capo del team che sta conducendo lo
studio –. Una migliore comprensione del meccanismo alla base della
diffusione metastatica permetterebbe di curare alcune forme tumorali
aggressive. L’obiettivo di questo lavoro è fare luce sui meccanismi che
sono alla base della progressione
tumorale mediata dagli esosomi in
modo da agire prima che il processo
metastatico sia già avviato”.
Gli esosomi (in questo caso, non quelli rilasciati dai tumori) sono anche al
centro di un altro studio, che vede la
collaborazione con la Neuropsichiatria
dell’Ospedale Bambino Gesù e con la
Cornell University, sull’autismo.
“Quello che stiamo studiando – racconta
Di Giannatale – è come gli esosomi siano
implicati nell’interazione fisiologica e quindi fisiopatologica fra le diverse cellule, in
relazione a diverse patologie. Per quanto riguarda l’autismo, al momento non ci
sono dei test diagnostici precoci che possano identificare questa patologia, quindi
quello che vorremmo fare, studiando la
comunicazione fra le cellule, è identificare
dei markers che possano far arrivare ad
una diagnosi precoce e capire meglio la
patogenesi di questa malattia”.
In generale, lo studio degli esosomi si
può considerare ancora in fase preclinica, anche se negli Stati Uniti si stanno
avviando dei trials clinici per utilizzarli
come biomarkers. Gli esosomi, inoltre,
possono essere delle fonti per la scoperta
di particolari markers che possono anche
essere utilizzati come target terapeutici
nei tumori stessi.
5
Cistinosi nefropatica,
un nuovo approccio terapeutico
Uno studio dell’Area di ricerca Malattie genetiche
e Malattie rare dimostra che stimolando l’attività
di un fattore di trascrizione è possibile correggere
alcuni difetti delle cellule cistinotiche
L
a stimolazione chimica e
genetica dell’attività del fattore di trascrizione TFEB è
in grado di correggere alcuni difetti delle cellule dei reni colpite
dalla cistinosi nefropatica. È quanto
ha potuto verificare un team dell’Area
di ricerca Malattie genetiche e Malattie rare dell’Ospedale pediatrico
Bambino Gesù.
La cistinosi nefropatica è una malattia autosomica recessiva caratterizzata dall’accumulo di cistina nei lisosomi a causa di mutazioni nel gene
CTNS, che codifica per il trasportatore
di cistina, la cistinosina. Questo difetto causa, inizialmente, una disfunzione del tubulo prossimale, cioè la
sindrome di Fanconi, che nel tempo
progredisce verso una malattia renale
cronica.
L’unica terapia ad oggi disponibile
per i pazienti cistinotici è la somministrazione di cisteamina. Tuttavia
l’aspettativa di vita dei pazienti, anche se trattati, non supera i 30 anni. I
sintomi caratteristici di questa malattia sono: poliuria (aumento dell’urina
emessa), disidratazione, sete, rachitismo dovuto a difficoltà di crescita.
“In questo progetto abbiamo dimostrato che la stimolazione chimica e genetica dell’attività di TFEB, un fattore di
trascrizione in grado di regolare processi di clearance cellulare, è in grado
di correggere alcuni difetti delle cellu-
le cistinotiche – spiega la dottoressa
Laura Rita Rega, del team del Bambino Gesù che ha condotto la ricerca. –
Questi difetti non sono corretti dal trattamento con cisteamina. I nostri studi
promuovono l’attivazione di TFEB come
approccio terapeutico alternativo nella
cura della cistinosi”.
In particolare, come è stato dimostrato dallo studio condotto al Bambino
Gesù l’attivazione del fattore di trascrizione TFEB è in grado di ridurre i
livelli di cistina intracellulari e correggere anomalie a carico del compartimento lisosomiale.
TFEB è un fattore di trascrizione, cioè
una proteina che attiva la trascrizione (il processo mediante il quale le
informazioni contenute nel DNA vengono trascritte enzimaticamente in
una molecola complementare di RNA).
Nello specifico TFEB, regola la biogenesi lisosomiale (ovvero il processo di
formazione dei lisosomi) e l’autofagia
(il meccanismo che permette la degradazione e il riciclo dei componenti
cellulari). Come detto, la stimolazione
della sua attività è stata ottenuta dal
team di ricerca del Bambino Gesù sia
chimicamente, attraverso l’utilizzo di
un farmaco, la Genisteina, sia geneticamente, attraverso la veicolazione
del gene TFEB nelle cellule cistinotiche allo scopo di produrre alti livelli
della proteina.
6
L
Mutazioni inattivanti di TBCD perturbano
la dinamica dei microtubuli e sono causa
di una nuova sindrome neurodegenerativa
a esordio precoce
e tubuline sono le unità fondamentali dei microtubuli e
dello scheletro cellulare. In
condizioni normali, le tubuline
tendono dinamicamente a polimerizzare e depolimerizzare per favorire l’adattamento strutturale e la flessibilità della
cellula durante i propri processi di divisione, migrazione e differenziamento. La
loro funzione è particolarmente importante nelle cellule neuronali, dove
sono necessarie durante lo sviluppo
del cervello. Alterazioni dei geni che
controllano le tubuline, nel loro insieme definite come “tubulinopatie”,
sono responsabili di malattie ad impatto prevalentemente neurologico,
come epilessia, disabilità mentale, ritardo dello sviluppo motorio.
Lo studio di collaborazione internazionale, condotto dai ricecatori dell’Area
di Ricerca in Genetica e Malattie Rare
e coordinato dal dr. Marco Tartaglia,
ha consentito di identificare nelle mutazioni del gene TBCD la causa di una
nuova forma di malattia neurodegenerativa e del neurosviluppo. L’omonima
proteina (TBCD, tubulin-specific chaperone D) opera nella cellula come uno
dei regolatori della polimerizzazione delle
tubuline e della stabilita’ dei microtubuli.
Le mutazioni del gene TBCD sono state
identificate 7 soggetti affetti mediante le moderne tecnologie di sequenziamento di seconda generazione del
DNA che permettono di studiare l’intero genoma di un individuo. Inoltre,
alcuni studi funzionali hanno consentito
di comprendere il meccanismo fisopatologico che sottende a questa malattia.
Le mutazioni in TBCD compromettono la sintesi della relativa proteina,
la stabilita’ dei microtubuli nelle cellule e conseguenti ripercussioni nella crescita e sviluppo soprattutto dei
neuroni. Questi effetti sono causa delle
principali caratteristiche cliniche della
sindrome come l’atrofia cerebrale e cerebellare, deficit cognitivo, insorgenza di
epilessia durante il primo anno di vita.
Inoltre, la malattia presenta un carattere
di distonia e spasticità, causando nella
sua forma più grave, alterazioni importanti del neurosviluppo e tetraparesi.
«Oggi, questa nuova sindrome TBCD
correlata ha una causa nota, un suo
inquadramento clinico e puo’ beneficiare di un test genetico rapido, favorendo
una diagnosi precoce – spiega il dottor
Marcello Niceta, dell’area di ricerca di
genetica e malattie rare - Infine, queste
nuove conoscenze rendono oggi possibile
studi diretti all’identificazione di approcci terapeutici per bloccare o rallentare la
progressione degenerativa di questa temibile malattia. Lo studo è stato recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista
American Journal of Human Genetics».
7
Caratterizzazione
tissutale e funzionalità
sistolica nei pazienti
pediatrici affetti da
cardiomiopatia
dilatativa idiopatica
e ruolo del 3D printing
nelle cardiopatie
congenite
CARDIOMIOPATIA
DILATATIVA IDIOPATICA
La cardiomiopatia dilatativa idiopatica (IDCM) è una patologia molto rara
in età pediatrica. Nello spettro della
IDCM dal 2006, in accordo con l’American Heart Association, rientra anche la fibroelastosi endocardica primitiva (FEP).
La risonanza magnetica cardiaca (RMC)
potrebbe essere fondamentale nell’iter
diagnostico dei pazienti con IDCM.
Il nostro studio, utilizzando RMC, in
un campione di 16 pazienti con IDCM
ha evidenziato come nei pazienti con
FEP, la funzionalità sistolica sia significativamente depressa (p value= 0,01)
se comparata ai pazienti con IDCM.
3D PRINTING NELLE
CARDIOPATIE CONGENITE
Il modeling computazionale e la stampa 3D hanno un ruolo emergente nella comprensione anatomica di alcune
cardiopatie neonatali complesse.
In particolare le immagini 3D del torace ottenute mediante angio-TC ed RM
possono essere successivamente rielaborate con un software di post- elaborazione avanzata.
L’esame angio-TC è stato eseguito
con tecnica spirale multidetettore ad
alto pitch in corso di cardiosincronizzazione ECG. In corso di esame RM
è stata eseguita la sequenza 3D TSE
black-blood (voxel0.9 mm), i dati 3D
degli esami RM e TC combinati e segmentati per identificare e isolare le
strutture di interesse (camere cardiache, grossi vasi e coronarie).
Un software di post-elaborazione
avanzata (Mimics, Materialise) ha
combinato e segmentato i dati 3D degli esami RM e TC per identificare e
isolare le strutture di interesse, tra cui
camere cardiache, miocardio, grossi
vasi e coronarie. Gli stessi dati possono produrre una stampa 3D e consentire la scomposizione lungo i piani di
taglio definiti.
«Il file di stereolitografia (STL) ottenuto dall’analisi 3D è stato utilizzato per
visualizzare il cuore e per identificare
piani di taglio compatibili con la visione
chirurgica – spiega Giuseppe Muscogiuri - È stata prodotta una stampa
con materiale TuskT (rigido e trasparente) divisa in 3 pezzi per consentire
la scomposizione lungo i piani di taglio
definiti. Il modeling computazionale
e la stampa 3D hanno un ruolo emergente nella comprensione anatomica di
alcune cardiopatie complesse estreme
del neonato. L’utilizzo clinico è possibile e l’approccio diagnostico 3D
multimodality è indispensabile».
8
Dallo studio dell’APDS un modello
di medicina traslazionale
L’identificazione di nuove immunodeficienze ha permesso
l’avvio di sperimentazioni di nuovi farmaci immunomodulatori
D
allo studio dei geni responsabili
di una nuova immunodeficienza, l’APDS (Activated PI3K-delta syndrome), una speranza di
cura per chi ne è affetto. L’APDS è una
malattia originata dalla mutazione di due
geni: PIK3CD, PIK3R1. Nel dettaglio, la
sindrome è caratterizzata da infezioni respiratorie, linfoadenopatia e un aumentato rischio di sviluppare malattie neoplastiche.
“Lo studio di questa sindrome e dei geni
che la causano rappresenta un modello di
medicina traslazionale – spiega la professoressa Caterina Cancrini, del team
dell’Area di ricerca di Immunoinfettivologia pediatrica – infatti l’identificazione
di questi geni e la comprensione della loro
funzione ha permesso l’utilizzo di nuove
molecole con proprietà immunomodulatorie che inibiscono in modo selettivo la
pathway alterata”.
Sulla base di questa scoperta, è stato
possibile iniziare delle sperimentazioni
cliniche che prevedono l’utilizzo di nuovi
farmaci con l’obiettivo di valutarne l’efficacia nei pazienti affetti. L’utilizzo di questi farmaci potrebbe garantire il raggiungimento di un controllo dei sintomi e di
una migliore qualità di vita. L’identificazione di questa nuova sindrome è uno
dei risultati ottenuti nel campo delle immunodeficienze primitive (PID) grazie ai
progressi della biologia molecolare.
“Le nuove piattaforme di genomica Next
Generation Sequencing (NGS) hanno
permesso di identificare velocemente una
grande varietà di alterazioni genetiche
– sottolinea la professoressa Cancrini
–. Queste scoperte stanno influenzando
strategie diagnostiche e suggerendo, come
nel caso dell’APDS, interventi terapeutici
alternativi sperimentali, che permetteranno l’utilizzo di nuovi farmaci più specifici e
meno tossici”.
Proprio per sfruttare al meglio i progressi
della biologia molecolare, il gruppo della
Prof.ssa Cancrini, conduce, in collaborazione con altri Centri Italiani, il progetto
di rete “Development of innovative diagnostic and therapeutic approaches
for primary Immunodeficiencies”.
Obiettivo del progetto è rendere la diagnosi genetica delle PID più rapida e definire, al meglio, i pazienti con fenotipi clinici ed immunologici atipici e complessi.
Nell’ambito di questo progetto sono stati
analizzati 92 pazienti affetti da Immunodeficienza Primitiva mediante l’utilizzo
complementare di diverse piattaforme di
genomica NGS (Ion Torrent, Haloplex e
WES).
L’utilizzo di questo approccio ha permesso di ottenere velocemente una diagnosi
definitiva per 19 pazienti, facilitando e
supportando in alcuni di questi la scelta
terapeutica di effettuare un trapianto di
cellule staminali emopoietiche. Un paziente affetto da deficit di ADA (una forma di immunodeficienza combinata grave), inoltre, ha potuto usufruire di una
terapia genica. Proprio nel corso della
partecipazione a questo progetto di rete,
infine, sono state definiti molecolarmente diversi quadri atipici di PID tra
cui APDS, X-MEN (X-linked immunodeficiency with magnesium defect EBV infection and neoplasia), nei quali è stato
possibile iniziare trattamenti individualizzati e alternativi.
9
Combattere i gliomi
di alto grado
con l’immunoterapia
Nel laboratorio di Terapia cellulare e genica dei Tumori pediatrici del
Bambino Gesù un team sta sperimentando un approccio innovativo
al trattamento di queste neoplasie
T
rovare un approccio terapeutico più efficace per i pazienti
affetti da glioma di alto grado (HGG). È questo l’obiettivo
dello studio condotto presso il laboratorio di Terapia cellulare e genica dei
Tumori Pediatrici del Bambino Gesù.
I gliomi di alto grado (HGG) sono fra le
neoplasie pediatriche cerebrali maligne più frequenti. La sopravvivenza
globale a 5 anni è inferiore al 20%, ed
è per questo motivo che è necessario
identificare nuove strategie terapeutiche efficaci. L’immunoterapia, che si
propone di riattivare il sistema immunitario contro le cellule tumorali, costituisce uno degli approcci più promettenti.
Il progetto che è in corso di sviluppo al
Bambino Gesù ha lo scopo di approfondire l’efficacia di una tecnica che
combina la terapia con gli adenovirus oncolitici a un approccio di terapia genica.
Gli adenovirus oncolitici sono una particolare tipologia di virus che non si
associa con nessun tipo di patologia
rilevante nell’uomo, e quindi sono sostanzialmente innocui. Questi vengono
geneticamente modificati per colpire le
cellule tumorali e replicarsi esclusivamente al loro interno fino a distruggerle. Si tratta di una tecnica già sperimentata per il trattamento di altri tumori.
L’efficacia nei trials clinici, però, è stata
al di sotto delle aspettative.
Proprio per trovare una strategia più
efficace, il gruppo di ricerca del Bambino Gesù si è concentrato sullo sviluppo di un approccio che, come già
accennato, oltre all’adenovirus oncoli-
tico, prevede anche l’uso della terapia
genica per stimolare la risposta del
sistema immunitario contro le cellule tumorali. Nello specifico è stato inserito un gene immunostimolante su
un vettore virale (un altro adenovirus
modificato geneticamente per essere
in grado di trasportare questo gene
all’interno delle cellule del glioma).
Lo studio in laboratorio ha dimostrato
che questa tecnica combinata risulta
essere più efficace: è in grado di attivare il sistema immunitario del paziente, implementando l’attività anti-tumorale.
“Abbiamo visto che quelle parti di tumore che resistono all’adenovirus oncolitico “– spiega la dottoressa Francesca
Del Bufalo, a capo del team che ha
condotto questo studio – vengono eliminate dalle cellule del T del sistema
immunitario grazie allo stimolo prodotto
dal gene trasportato nelle cellule tumorali dal vettore virale”.
Per valutare in modo più realistico l’efficacia di questo approccio, inoltre, è
stato sviluppato in laboratorio un modello tridimensionale del tumore
sul quale condurre le verifiche. Le cellule tumorali usate per realizzare questi modelli tridimensionali sono state ricavate dalle biopsie effettuate sui
pazienti in cura presso l’ospedale.
In questo modo è stato possibile creare un banco di prova che riproduce
il tumore con un grado di complessità
molto maggiore rispetto alle colture di
cellule tumorali bidimensionali.
10
Bambini con diparesi, la terapia
con il Lokomat migliora
le performance motorie
La dimostrazione arriva da uno studio condotto al Bambino Gesù
che ha coinvolto 30 pazienti di età compresa fra i 5 e i 12 anni
L
a terapia robotica del cammino con il Lokomat migliora le performance motorie nei
bambini con diparesi. È quanto è emerso da uno studio condotto al
Bambino Gesù condotto al fine di valutare l’efficacia di questo trattamento.
Il Lokomat è un robot di ultima generazione progettato per consentire il recupero della funzionalità delle gambe
nei pazienti con disabilità motorie
dovute a danni neurologici, congeniti o
acquisiti. L’apparecchiatura è costituita da quattro componenti principali:
l’esoscheletro che viene indossato dal
bambino e ne controlla il cammino, il
tapis-roulant che si muove in sincronia con i passi del paziente, un sistema per alleggerire il peso e ridurre
la fatica e l’interfaccia con la realtà
virtuale. L’utilizzo di sistemi di realtà
virtuale, un vero e proprio avatar del
corpo del bambino che simula il suo
cammino in ambienti diversi, consente un approccio ludico alla terapia e,
in questo modo, motiva il piccolo paziente a proseguire nel programma riabilitativo.
Lo studio sull’efficacia della terapia robotica del cammino ha visto la partecipazione di 30 bambini, di età
compresa fra 5 e 12 anni, affetti da diparesi in esito di sofferenza perinatale. Il protocollo di trattamento ha pre-
visto 20 sedute di Lokomat associate
ad un trattamento riabilitativo convenzionale. Prima e dopo il training sono
stati eseguiti il 6 Minute Walking test
(6MWT, test che permette una misura della capacità funzionale residua
del paziente), la Gross Motor Function
Measure (GMFM, un sistema della valutazione delle capacità dei pazienti di
controllare i muscoli grandi del corpo)
e la Gait Analysis (GA, l’analisi computerizzata della deambulazione).
“I risultati hanno mostrato un miglioramento statisticamente significativo della GMFM e del 6MWT nel confronto pre
e post trattamento – ha spiegato Emanuela Tavernese, del team che ha condotto lo studio –. Per quanto riguarda
l’analisi dei parametri spazio-temporali e della cinematica non ci sono state
variazioni statisticamente significative
ma è emersa una tendenza all’aumento della velocità e della lunghezza del
passo, così come al miglioramento delle escursioni articolari a livello di anca,
ginocchio e caviglia. Il cammino dopo il
training con il Lokomat pertanto risulta
più fisiologico ed efficiente e, stando a
quello che abbiamo potuto osservare,
dà ai piccoli pazienti un feedback positivo anche in termini di partecipazione
e coinvolgimento”.
11
Il microambiente
dei tumori
pediatrici:
caratterizzazione
e targeting
terapeutico
I
l microambiente tumorale (MT)
è una “nicchia” dove il tumore
cresce grazie al supporto di diversi tipi cellulari. Tramite studi precedenti è stato possibile caratterizzare
in dettaglio alcune componenti del MT
del neuroblastoma, un tumore pediatrico a esordio metastatico in circa la
metà dei casi.
Vengono passati in rassegna studi riguardanti la scoperta delle cellule
endoteliali tumore-derivate e l’identificazione della cellula neoplastica di
origine, la caratterizzazione delle cellule mieloidi immature immunosoppressive (MDSC) capaci di legare ATP
attraverso il recettore P2X7, la scoperta - in collaborazione con Valter
Longo - dell’attività anti-neoplastica
del digiuno a breve termine, con potenziamento degli effetti della chemioterapia e protezione delle cellule normali
dalla tossicità di quest’ultima.
Viene infine presentato un progetto in
corso che ha come obiettivo la valutazione della ri-programmazione metabolica delle cellule tumorali o degli
effettori anti-tumore mediante digiuno
a breve termine come strumento per
potenziare l’efficacia dell’immunoterapia adottiva in modelli pre-clinici.
«È stato dimostrato che il digiuno a
breve termine ha un duplice effetto:
sensibilizza le cellule tumorali alla
chemioterapia, rendendole più facilmente eliminabili, e protegge le cellule normali dagli effetti tossici della
chemioterapia - spiega il dottor Vito
Pistoia dell’Area di Immunologia.
Il digiuno a breve termine attiva un
meccanismo metabolico che abbassa il livello del glucosio e di un’altra
sostanza collegata (IGF1). Quest’abbassamento determina un complesso di reazioni biochimiche in virtù
delle quali le cellule normali entrano
in uno stato di riposo che le protegge
dagli effetti tossici dei chemioterapici. Le cellule tumorali, invece, non riescono ad adattarsi alla nuova situazione metabolica indotta dal digiuno e
diventano più sensibili ai trattamenti
anti-tumorali. Stiamo studiando se anche l’efficacia dell’immunoterapia
dei tumori possa essere aumentata
dalla combinazione con digiuno a breve termine».
12
Malattie perossisomiali,
un metodo per l’analisi
contemporanea
di 10 biomarcatori
Sviluppato dal laboratorio di Biochimica Metabolica
del Bambino Gesù, permette di semplificare
il percorso verso la diagnosi
U
n nuovo metodo multiplex
per velocizzare e facilitare la
diagnosi delle malattie perossisomiali. Lo hanno messo a punto nel laboratorio di Biochimica metabolica del Bambino Gesù nel
corso di una ricerca volta all’identificazione di biomarcatori di diverse patologie.
Questo metodo permette in un’unica
analisi in LC-MS/MS (cromatografia
liquida accoppiata a spettrometria
di massa tandem), la quantificazione
contemporanea di 10 metaboliti (prodotti del metabolismo), che potrebbero rivelare la presenza di una malattia
perossisomiale. Nello specifico, grazie
a questa tecnica, è possibile effettuare il dosaggio degli acidi grassi a catena molto lunga, dell’acido fitanico,
dell’acido pristanico, degli acidi biliari
e dell’acido docosaesaenoico.
“Il metodo multiplex che abbiamo elaborato – spiega la dottoressa Michela
Semeraro, del team che ha sviluppato
questa innovativa procedura – rappresenta un modello di ricerca traslazionale, in quanto coniuga la ricerca scientifica alla diagnostica di malattie rare,
il cui complesso fenotipo biochimico va
letto in stretta correlazione al quadro clinico”.
Le patologie perossisomiali sono molto
complesse e difficilmente diagnostica-
bili. Appartengono alla famiglia delle
malattie metaboliche, queste ultime
sono patologie monogeniche causate
da alterato funzionamento di specifiche vie metaboliche.
Il laboratorio di Biochimica metabolica
del Bambino Gesù svolge un’attività di
ricerca orientata alla identificazione
dei biomarcatori di malattia e allo
sviluppo di metodiche per la diagnosi precoce e il monitoraggio terapeutico. Negli ultimi anni il laboratorio ha
sviluppato nuovi metodi in LC-MS/
MS per la quantificazione di biomarcatori di numerose malattie tra cui
l’Encefalopatia Etilmalonica, i difetti
di Succinil-CoA sintetasi, la malattia
di Niemann-Pick tipo C, i disordini da
singola delezione del DNA mitocondriale, la Tirosinemia tipo I.
“Grazie all’utilizzo di piattaforme tecnologiche di ultima generazione siamo
in grado attualmente di sviluppare diversi metodi per facilitare la diagnosi
di malattie e anche per il monitoraggio
farmaceutico – dice Semeraro –. Ritornando al metodo multiplex che abbiamo utilizzato per i biomarcatori delle malattie perossisomiali, questo sarà
presto inserito nell’offerta standard del
Bambino Gesù in maniera da poter essere a disposizione non solo internamente ma anche per tutti i laboratori e
gli ospedali italiani ed esteri”.
13
Pertosse,
il ruolo del latte materno
nella prevenzione
Uno studio dell’Area di Ricerca Malattie multifattoriali e Malattie
complesse ha analizzato il rapporto fra allattamento al seno e protezione
dei neonati dall’infezione, alla ricerca di nuove strategie per
ridurre i rischi legati a questa patologia
M
igliorare le strategie di prevenzione della pertosse.
Per raggiungere questo risultato, l’Area di Ricerca Malattie Multifattoriali e Malattie Complesse
ha condotto uno studio per approfondire il ruolo dell’allattamento al seno
nella prevenzione di questa patologia.
Da oltre due anni l’ospedale è impegnato in un sistema di sorveglianza
sentinella sulla pertosse, e lo studio
condotto ha permesso ha permesso di
misurare il reale impatto della malattia, e di valutare nuovi metodi per la
protezione dei più piccoli (oltre a valutare il ruolo dell’allattamento al seno
nel proteggere i neonati dall’infezione).
La pertosse è una malattia infettiva
altamente contagiosa che negli ultimi
dieci anni è riemersa in molti Paesi,
nonostante l’elevata copertura vaccinale. La ri-emergenza di questa patologia
in diverse aeree dell’Europa, degli Stati
Uniti e dell’Australia potrebbe essere
attribuita a diversi fattori, tra cui metodi di diagnosi migliori e, come ormai
noto, la perdita dopo qualche anno
della protezione indotta dal vaccino.
Questo aumento di incidenza è stato
osservato in particolare tra i bambini
troppo piccoli per essere vaccinati o
per aver completato il ciclo primario. I
vaccini possono essere somministrati
già dopo 6 settimane di vita, ma con-
feriscono una protezione ottimale solo
dopo il completamento delle tre dosi.
Inoltre i neonati presentano sintomi atipici, come l’apnea e cianosi,
che richiedono il ricovero in ospedale,
e spesso sviluppano complicazioni anche gravi.
Per quanto riguarda il ruolo dell’allattamento, come osservato nel corso
dello studio, nel latte materno gli anticorpi contro la pertosse sono presenti
in basse concentrazioni.
“Per questo motivo, per proteggere i neonati, che sono troppo piccoli per ricevere
il vaccino, sarebbe consigliato vaccinare le donne in gravidanza tra la 27esima e la 36esima settimana – spiega
Elisabetta Pandolfi, del team che ha
condotto lo studio –. Si tratta di una
misura in grado di ridurre il rischio di
ospedalizzazione e di ammissione in
terapia Intensiva del neonato con pertosse. Nei casi in cui il ricovero si renda
ugualmente necessario abbiamo notato
che il periodo di degenza del bambino è
inferiore alla media”.
Stando allo studio, dunque, la vaccinazione antipertosse in gravidanza
può essere una strategia fondamentale
per ridurre la morbosità e la mortalità
per pertosse.
14
I
Crioablazione
assistita con guida 3D
l gruppo di cardiologia e aritmologia pediatrica ha messo a punto
una innovativa tecnica per il trattamento della tachicardia da rientro del nodo AV (TRNAV). Si tratta
di una delle più frequenti tachiaritmie
dell’età pediatrica. Il nuovo metodo
messo a punto dall’equipe dell’Ospedale si basa sul voltage mapping del
triangolo di Koch per evidenziare
aree di basso voltaggio corrispondenti alla posizione anatomica dello slow
pathway (substrato aritmico della TRNAV).
Il dottor Fabrizio Drago e i suoi collaboratori hanno indagato l’efficacia
di questa tecnica di mapping associata alla ricerca di uno specifico segnale elettrofisiologico all’interno delle
aree di basso voltaggio, nel guidare la
crioablazione delle TRNAV. Da Giugno
2015 ad Agosto 2016 trentacinque pazienti consecutivi (età media 12 anni)
sono stati sottoposti a crioablazione
di TRNAV con l’utilizzo di un sistema di mappaggio 3D.
In tutti i pazienti aree di basso voltaggio venivano identificate in seguito al
mapping ad alta densità del triangolo di Koch ed in queste aeree veniva
ricercato il segnale elettrico desiderato. In questo sito si procedeva, pertanto, alla crioablazione. Il successo
in acuto è stato del 100% e al follow
up (8±3 mesi) il tasso di recidiva è dello 0%, con risultati superiori a quelli
mai ottenuti in precedenza.
«Il sistema di mappaggio permette di effettuare la procedura in assenza completa di raggi X - spiega la dottoressa
Irma Battipaglia - È lo stesso sistema
poi che ricostruisce il cuore e ne disegna una mappa in base al voltaggio
delle diverse zone, nello specifico nella sede del substrato aritmico dell’aritmia da trattare. Abbiamo associato
a questa tecnica già nota la ricerca –
nell’area target - di un segnale elettrico
che impedisca di sbagliare bersaglio e
che permetta di effettuare l’ablazione
nel sito più efficace. In ambito aritmico
questo rappresenta solo l’inizio di una
serie di progressi, che porterà a una
nuova definizione di quella che è la
strategia procedurale più adatta
per ottimizzare il successo di questi interventi e ridurre al massimo il rischio
di recidiva».
15
Profili di microbiota
intestinale in fibrosi
cistica: integrazione
di carte omiche come
supporto di medicina di
laboratorio nella gestione
clinica del paziente
L
a fibrosi cistica è una malattia ereditaria letale caratterizzata da infiammazioni croniche e infezioni respiratorie
che, quindi, necessita di trattamenti
antibiotici ripetuti. È inoltre potenzialmente associata alla modulazione del
microbiota intestinale. Nello studio
condotto dall’Unità di Microbioma
Umano dell’Ospedale, il microbiota
intestinale di pazienti pediatrici è stato
analizzato tramite un approccio di systems biology, mediante l’utilizzo di
tecnologie “omiche”.
Sono stati reclutati 31 pazienti pediatrici e 31 individui sani, stratificati per
età, di cui sono state raccolte le feci.
È stata analizzata la composizione
dell’ecosistema microbico fecale tramite analisi metagenomica ed è stata
valutata sua funzionalità tramite analisi metabolomiche.
È stato individuato l’accumulo di molecole come l’acido 4-amminobutirrico
e la colina, che riflettono le alterazioni
intestinali dovuti al difetto della funzione del gene CFTR; alcoli ed esteri
che invece evidenziano la disbiosi intestinale a carico di specifiche specie
batteriche come Clostridium difficile
e Proprionibacterium. Il profilo malattia dedotto può permettere di valutare
gli effetti di nuove terapie, interventi
nutrizionali o di trapianto fecale per
migliorare la qualità della vita di questi pazienti cronici.
«Con questo studio abbiamo dimostrato che è possibile identificare per
la fibrosi cistica dei “candidati”
biomarcatori, sia di tipo endogeno
(co-metabolismo) che di tipo microbico – spiega la dottoressa Pamela
Vernocchi –. Nei campioni, abbiamo
rilevato elevate quantità di colina e di
acido 4-aminobutirrico e questo è do-
vuto alla mutazione del gene CFTR che
altera la permeabilità intestinale. L’accumulo di queste molecole a livello intestinale, determina un ambiente adatto
allo sviluppo di alcuni microrganismi
quali ad esempio C. difficile il cui metabolismo determina la produzione di molecole “tossiche” come l’etanolo. Il modello fisiopatologico dedotto assisterà il
clinico nella scelta di probiotici personalizzati per ristabilire lo stato di
salute del microbiota intestinale. Il nostro studio nel campo della fibrosi cistica è il primo a livello funzionale. Inoltre,
stiamo studiando anche la correlazione
tra polmone e intestino per valutare la
comunicazione tra batteri intestinali e
del polmone attraverso meccanismi di
“cross talk” tra ecosistemi diversi».
Un’altra caratteristica dello studio
targato Bambino Gesù è l’applicazione
combinata di metabolomica e metagenomica. «Fin ad oggi i lavori prodotti in letteratura utilizzano le tecnologie
omiche di tipo metagenomico, cioè fanno solo una descrizione della popolazione microbica, cioè ci dicono “chi
c’è”. Solo alcuni lavori invece utilizzano
la metabolomica per rilevare le molecole prodotte dai microorganismi, cioè
per studiare “chi fa cosa”. Noi abbiamo
integrato e fuso i dati di queste tecnologie omiche per la prima volta al fine
di ottenere:
• modelli di correlazione tra batteri
e metaboliti;
• modelli matematici di predizione
della malattia;
• un modello funzionale integrato
tra ospite-batteri-molecole al fine di
individuare i “canditati” biomarcatori per questa malattia, sia per il
trattamento clinico del paziente che
per il miglioramento della sua qualità di vita».
16
La connessione fra ritardo di
crescita intrauterino e stress
del reticolo endoplasmatico
I risultati preliminari di uno studio condotto al Bambino
Gesù suggeriscono che ci sia un collegamento fra questi due
fenomeni e che svolga un ruolo chiave nell’insorgenza
di complicanze metaboliche
L
o stress del reticolo endoplasmatico può giocare un
ruolo chiave nel rischio metabolico associato al ritardo di
accrescimento intrauterino. Lo suggeriscono i risultati preliminari di uno
studio condotto da un team dell’Unità di Endocrinologia molecolare del
Bambino Gesù, in collaborazione con
l’Università di Tor Vergata e il Centro
di Ricerca dell’Università di Navarra.
Già in precedenti studi erano state
rilevate evidenze del fatto che stress
metabolici, come ad esempio la malnutrizione e l’iperglicemia, possano
indurre alterazioni dell’omeostasi del
reticolo endoplasmatico – la parte della cellula in cui avviene la sintesi e il
ripiegamento tridimensionale (il folding) delle proteine – e l’insorgenza di
patologie metaboliche (insulino-resistenza, DM2 e malattie cardiovascolari) in età adulta.
Lo stress del reticolo endoplasmatico
è un meccanismo biologico che, attraverso l’attivazione di un processo
biochimico chiamato Unfolded Protein
Response (UPR), rappresenta una risposta acuta per il ripristino dell’omeostasi del reticolo stesso. Se ciò
non avviene può attivarsi un signaling
di morte cellulare.
Lo studio del Bambino Gesù aveva
l’obiettivo di valutare l’attivazione
dell’UPR e le conseguenze funzionali
di questa attivazione nel fegato in un
modello animale longitudinale (in questo caso topi) di ritardo di crescita intrauterino, mediante la legatura delle
arterie uterine.
L’analisi dell’espressione dei geni implicati nell’UPR nel fegato del modello
animale ha fornito delle evidenze del
fatto che il ritardo di crescita intrauterino attiva l’UPR. Questo dato è
stato confermato anche dall’espressione proteica. Inoltre, l’esame istologico
del fegato dei ratti, in età adulta (105
giorni), ha permesso di documentare
la presenza di steatosi focale con inziale fibrosi periportale nei ratti con
ritardo di crescita intrauterino.
“I risultati che abbiamo ottenuto suggeriscono che lo stress del reticolo endoplasmatico possa avere un ruolo chiave
nelle complicanze metaboliche associate
al ritardo di accrescimento intrauterino
– spiega Annalisa Deodati, del team di
ricerca che ha condotto lo studio –. In
futuro vogliamo riconfermare i nostri dati
preliminari sia nel modello animale che
nell’uomo e valutare eventuale marcatori predittivi, come ad esempio il miRNA (il
microRna, cioè piccole molecole di RNA
non codificante a singolo filamento), del
danno metabolico per interventi preventivi e nuove strategie terapeutiche ”.
17
Malattie autoimmuni,
un nuovo metodo
per la diagnosi
Nel laboratorio di Immunologia del Bambino Gesù
è stato condotto uno studio per individuare
i biomarcatori di queste patologie
I
dentificare dei biomarcatori specifici in grado di rivelare la presenza di malattie autoimmuni
sistemiche. Su questo hanno lavorato i ricercatori dell’Area di Immunologia del Bambino Gesù nel corso
di uno studio condotto nei laboratori
dell’ospedale.
Per raggiungere questo obiettivo, nel
corso dello studio, sono stati utilizzati due innovativi approcci di biologia
molecolare. Il primo è l’utilizzo di una
libreria peptidica combinatoriale che
permette di identificare autoanticorpi
(anticorpi che hanno come bersaglio
non un agente patogeno ma l’organismo stesso) tipicamente associati alla
malattia studiata e, di conseguenza,
anche target antigenici specifici per la
malattia in questione (cioè quali cellule dell’organismo vengono aggredite
dagli autoanticorpi nei pazienti con
malattie autoimmuni).
Il secondo approccio, invece, prevede
l’utilizzo di tecniche di gene expression profiling (l’analisi di espressione genica, che permette di misurare
l’attività di migliaia di geni, per creare
una immagine globale della funzione
cellulare) al fine di identificare specifiche gene signatures di malattia (cioè
gruppi di geni che con la loro attività caratterizzano uno stato patologico preciso). Con questo approccio è
possibile anche individuare marcatori
molecolari tipici della malattia studiata e non presenti in altre condizioni
morbose simili.
Per verificare le potenzialità di questo
metodo, il team di lavoro del bambino Gesù si è concentrato sullo studio
dell’artrite psoriasica, una malattia
autoimmune per cui non sono stati
individuati biomarcatori né anticorpi
specifici.
“Grazie a questo approccio siamo riusciti a fare luce su questa malattia e confermarne l’origine autoimmune – spiega
Antonio Puccetti, del team di ricerca
che ha condotto lo studio –. Siamo anche riusciti a identificare un biomarker
di questa malattia, l’osteoactivina. In
assenza di altri sintomi, l’alta concentrazione nel sangue di questa proteina può
indicare che un paziente è affetto da artrite psoriasica”.
L’individuazione di biomarcatori di
una malattia autoimmune sistemica è
un importante obiettivo della ricerca
biomedica sistemica. Potrebbe facilitare il processo di diagnosi, il follow
up del paziente e la valutazione della risposta a trattamenti con farmaci
tradizionali o biotecnologici.
Per la stragrande maggioranza delle
malattie autoimmuni, infatti, non si
dispone di test specifici e la diagnosi
è basata sull’esame clinico e gli esami
strumentali. Allo stesso modo, la risposta alla terapia è spesso valutata
dall’esame clinico e da parametri soggettivi (come ad esempio la risposta
al dolore).
18
Innovazioni tecnologiche,
un metodo per aiutare
i decisori a scegliere
la soluzione migliore
L’Unità di Ricerca HTA & Safety del Bambino Gesù ha condotto
uno studio per verificare l’efficacia del doHTa (DecisionOriented Health Technology Assessment),
un approccio sviluppato e adottato dall’ospedale
U
n metodo per aiutare chi, all’interno dell’ospedale, si occupa
di selezionare le innovazioni tecnologiche da introdurre. Un nuovo approccio, che si chiama
doHTa (Decision-Oriented Health Technology Assessment), e che è stato
sviluppato dall’Unità di Ricerca HTA &
Safety del Bambino Gesù.
Nello specifico, questo metodo è stato
pensato per consentire ai decisori finali di effettuare delle scelte più consapevoli tra le varie alternative tecnologiche considerate. Il team di lavoro che ha
sviluppato il doHTA, ha recentemente
condotto uno studio per testare la validità di questo nuovo metodo, sia in
generale sia nel contesto dell’ospedale.
Nel corso del processo di validazione, i
ricercatori hanno identificato i target di
performance del metodo e, successivamente, hanno verificato i requisiti pratici
relativi all’utilizzazione dello stesso (cioè
la validità, l’applicabilità, e la praticabilità del doHTA in diversi contesti).
“La validazione è stata effettuata a partire da un’iniziale revisione della letteratura sui metodi e i criteri per la validazione
dei processi industriali/aziendali – spiega
Francesca Sabusco, del team di ricerca
che ha condotto lo studio –. Successiva-
mente abbiamo fatto affidamento anche
sull’expertise interna. Abbiamo cioè condotto una revisione dei progetti aziendali
eseguiti al Bambino Gesù mediante l’applicazione del metodo doHTA. Sulla base
di tali nozioni teoriche e pratiche, abbiamo individuato complessivamente ventinove indicatori, distinti in descrittivi e di
validazione, sulla base dei quali abbiamo
condotto la nostra valutazione”.
In conclusione, lo studio svolto dall’Unità di Ricerca HTA & Safety del Bambino Gesù ha testimoniato l’efficacia del
metodo, che si è dimostrato uno strumento utile per supportare le decisioni aziendali e facilitare l’introduzione di
innovazioni che impattano in maniera
positiva sui processi ospedalieri.
“Abbiamo osservato che il metodo DoHTA
consente di ottenere dati più pertinenti,
più facili da interpretare e dunque più
utili per i decisori finali che, in definitiva,
possono scegliere in maniera più consapevole quali tecnologie sanitarie introdurre in ospedale – dice Sabusco –. Allo
stesso tempo sono emerse anche alcune
considerazioni che vanno adeguatamente e ulteriormente approfondite, al fine di
migliorare e affinare ulteriormente il metodo stesso”.
19
Modificazioni
epigenetiche
degli istoni
nell’epatocarcinoma
I
l tumore al fegato, noto anche come epatocarcinoma (CE),
è il quinto tumore più comune al
mondo e il secondo per prevalenza
fra i tumori infantili del fegato. La sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è molto bassa, anche perché il CE è
spesso asintomatico e la diagnosi avviene in fase avanzata. Dall’analisi di 218
casi di CE pediatrico emerge comunque un “overall survival” del 24% a 5
anni e dell’8% a 20 anni.
I meccanismi molecolari che portano
allo sviluppo di CE sono ancora poco
noti, pertanto anche la terapia farmacologica è ancora agli albori. Negli ultimi anni si è visto che le modificazioni epigenetiche di proteine associate al
DNA dette istoni sono frequenti nel CE.
Lo studio condotto dai ricercatori dell’Ospedale si è concentrato sul ruolo della
proteina FAK nel CE e sul suo effetto
sulle modificazioni epigenetiche degli istoni che occorrono nel CE. Gli
istoni sono proteine associate al DNA
che assolvono il ruolo di regolatori della
cromatina.
«Gli istoni sono proteine associate al
DNA che assolvono il ruolo di regolatori
della cromatina – spiega la dottoressa
Anna Alisi - Sono soggetti a diverse modificazioni epigenetiche quali l’acetilazione, la fosforilazione, e la metilazione.
Tali modificazioni possono determinare
un cambiamento nell’espressione dei
geni e nei processi di riparo del DNA».
Risultati recenti ottenuti nel Laboratorio di Patologia Epatica dell’OPBG
hanno evidenziato che alcune di queste
modifiche sono correlate ad una aumentata espressione ed attività della
proteina FAK. Inoltre, abbiamo dimostrato che l’inibizione della proteina di
FAK è in grado non solo di ridurre alcune modificazioni epigenetiche degli
istoni ma anche la crescita del CE sia in
modelli sperimentali cellulari che animali. Questi dati suggeriscono che l’uso
di inibitori diretti o indiretti che agiscono sulle modificazioni istoniche
potrebbero essere traslati sull’uomo
rappresentando una efficace strategia terapeutica contro il CE.
«Questo studio mira alla comprensione
dei meccanismi che regolano le modificazioni epigenetiche degli istoni nel CE
e del ruolo della proteina FAK in queste
modifiche. I nostri studi hanno evidenziato che il silenziamento del gene FAK
riduce la crescita dell’epatocarcinoma sia in vitro che in vivo mediante la regolazione dell’espressione ed
attività di EZH2 che è un regolatore
delle modificazioni epigenetiche degli istoni. Inoltre, abbiamo dimostrato
che l’inibizione farmacologica di FAK riduce la crescita dell’epatocarcinoma ed
in parallelo l’espressione e l’azione di
EZH2 sull’istone H3. Questo ultimo punto sarà di fondamentale importanza per
promuovere il passaggio del trattamento
farmacologico alla pratica clinica».
IN
Formazione