Estremismo filosofico: l’esperienza al carcere minorile Beccaria La vera funzione sociale della filosofia consiste nella critica dell’esistente: suo fine è impedire che gli uomini si consegnino senza resistenza alle idee e ai modi di comportamento suggeriti loro dalla società nella sua organizzazione attuale. Horkheimer Istituto penale per minori Cesare Beccaria, Via dei Calchi Taeggi, 20 Milano C’è chi sostiene che la filosofia si possa avvicinare esclusivamente in contesti definiti. L’università, il liceo. Luoghi raccomandabili, rassicuranti. C’è chi sfida questa convinzione e ritiene che la filosofia, o meglio, un’esperienza filosofica possa essere vissuta anche in una pluralità di contesti e persino in luoghi estremi, come le carceri. Luoghi poco raccomandabili, inquietanti. Con questa intonazione parliamo di estremismo filosofico. Si tratta di lanciare una provocazione, di promuovere un percorso. Una sfida coraggiosa, iniziata qualche anno fa a Milano presso il carcere minorile Cesare Beccaria. All’inizio pochi alleati, molta freddezza. Per fortuna qualche amico. Dalle pagine del portale di Filosofia Fuori Le Mura un incoraggiamento: “semmai la filosofia sia stata un privilegio è il momento che diventi un diritto, quello per ognuno di potersi chiedere del senso del proprio esistere e vivere, delle proprie scelte e azioni. Sarà come il diritto di un privilegio necessario. Se poi la filosofia si occupa di questioni ultime ed estreme è sui luoghi estremi e ultimi che deve essere portata per sentire se ha qualcosa da dire o se non debba essere invece abbandonata come un giocattolo rotto. E’ il momento in cui l’autodisciplina degli studi si apra alle vicissitudini.”1 Negli scritti di Giuseppe Ferraro ulteriori stimoli: “lo spazio della filosofia in carcere è educativo, etico. Il fine è dar luogo ad una comunità dialogica, non per rifare la storia della filosofia, ma per passarsi la parola lungo un cammino di ricerca di ciò che è buono e giusto.”2 Le attività presso l’Istituto penale per minori Cesare Beccaria di Milano, in realtà, non erano iniziate con l’idea di sviluppare un percorso di natura filosofica. Il progetto pensato e realizzato dal circolo GattoneroGattobianco dell’associazione Arciragazzi3, nella sua fase iniziale, attorno al 2001, intendeva coinvolgere i giovani detenuti all’esterno della struttura, evidentemente nei momenti di permesso concessi dal magistrato, con l’obiettivo di condividere esperienze significative di socializzazione. Venivano organizzate escursioni, attività ludiche, attività laboratoriali di natura artistica e creativa4. In buona sostanza si pensava di far incontrare i giovani detenuti, spesso provenienti da culture diverse, con gli abituali frequentatori dei circoli arciragazzi 1 Il Portale Filosofia Fuori Le Mura mira ad una pratica di dislocazione della filosofia nelle scuole, per le strade, tra i giovani, nei centri di accoglienza, nelle carceri, negli ospedali. (www.filosofiafuorilemuta.it). 2 Giuseppe Ferraro, L’nnocenza della verità, pag. 26, Filema Editore, Napoli 2008. 3 Arciragazzi è un’associazione educativa nazionale fondata da Carlo Paglierini nel 1981 con l’obiettivo di valorizzare e consolidare il protagonismo sociale dei ragazzi e delle ragazze. Ha sedi in molte regioni italiane con diversi circoli e diecimila soci. Dall’agosto 1996 è diventata interlocutore ufficiale di diversi Ministeri con particolare riferimento alle tematiche di infanzia e adolescenza. In particolare il disegno di legge 285/97, in favore dell’infanzia e adolescenza, nomina in modo esplicito Arciragazzi tra i referenti del Terzo Settore e del volontariato come protagonista progettuale in tale materia e in questa veste ha collaborato alla redazione del Manuale sulla legge 285/97. Arciragazzi comitato milanese opera sul territorio dal 1983 e da allora ha attivato una significativa rete di relazioni con il sistema dei servizi socio-educativi e del tempo libero. L’associazione Arciragazzi, in virtù dell’impegno e delle attività dei suoi circoli è da sempre attiva come agenzia del terzo settore alla costruzione di un nuovo sistema di protezione sociale, con particolare attenzione alle forme di prevenzione e di contrasto del disagio giovanile e dell’emarginazione sociale, e più in generale alla promozione dei diritti dei ragazzi. A partire dalla primavera 2001 Arciragazzi promuove e sviluppa in modo continuativo, utilizzando finanziamenti pubblici e privati, progetti rivolti ai giovani detenuti presso l’IPM Cesare Beccaria. 4 Presso il circolo Arciragazzi Il Cerchio di Via Rovetta, è stato possibile realizzare un murales grazie alla preziosa collaborazione della maestra di arte Margarita Clement. Presso il Teatro della Cooperativa è stato promosso un avvicinamento al teatro con la supervisione del regista Renato Sarti. Attività legate allo sviluppo delle competenze informatiche sono state suggerite e sviluppate con grande abilità da Antonella Eberlin. al fine di creare momenti di confronto e di scambio. L’idea di fondo era quella di permettere, facilitare relazioni fra coetanei. Non solo, si cercava uno sguardo diverso sulla città e sul modo con il quale era stata fin a quel punto abitata, con l’intenzione di scoprire nuove possibilità, valorizzare i talenti non del tutto espressi, mettere in gioco i desideri, in qualche modo evadere (termine rischioso dato il contesto di cui parliamo) da certi stereotipi. Tutto questo lavoro avveniva all’esterno della struttura e solo raramente il gruppo di educatori, anzi sèdicenti educatori, del progetto in questione (chi vi scrive, Emilia Covello, Stefano Fascioli, Antonio Monzeglio, Umberto Grigolini) entrava dentro le mura della struttura per trascorrere del tempo con i ragazzi e le ragazze. Scriviamo sèdicenti educatori perché in realtà nessuno dei soggetti sopra nominati possedeva o possiede il titolo di educatore. Tutti laureati in filosofia con l’eccezione di Antonio Monzeglio, laureato in Scienze politiche e giornalista. Aspetto curioso, meriterebbe una riflessione ulteriore che qui, per evidenti limiti di spazio, non possiamo svolgere. Rimane il dato che alcuni interventi di rilievo educativo venissero svolti da soggetti non precisamente definibili educatori, ma da uomini e donne che, evidentemente, desideravano sviluppare un percorso, avere una prossimità con certe realtà. Ciò è stato permesso anche dalle realtà istituzionali che hanno avvallato il progetto e la competenza di chi si è fatto avanti per lavorare. Evidentemente la forte motivazione ad occuparsi di questi utenti, giusto per usare un termine tecnico, è diventata garanzia per chi ha accolto la proposta e al tempo stesso legittimazione per chi si proponeva. Potremmo anche dire che in carcere prima della filosofia sono entrati i filosofi. Un paradosso, probabilmente il primo di una serie, la struttura carceraria che per definizione dovrebbe o potrebbe essere il luogo della restrizione che rende possibile un’attività, malgrado tutte le carte non siano perfettamente in regola. A partire dal 2005, in conseguenza di alcuni episodi5 avvenuti sia all’interno sia all’esterno della struttura carceraria il magistrato ha negato la possibilità a molti giovani detenuti di partecipare a progetti che trovavano sviluppo all’esterno delle mura. Ci siamo trovati costretti a ripensare le linee del nostro intervento. Che fare? Soprattutto, che pensare? La risposta fu proprio nella direzione del pensare. Provare a pensare insieme ai ragazzi. Del resto non potevamo più uscire dalla struttura, non si poteva più andare in montagna, realizzare attività laboratoriali nei centri sociali della città, frequentare lo splendido Teatro della Cooperativa di Via Hermada. Non rimaneva che condividere, con i giovani ospiti del Carcere minorile milanese, due antiche categorie filosofiche ossia il tempo (parecchio) e lo spazio (ristretto). Abbiamo così iniziato ad incontrare, con cadenze settimanali, i cinque gruppi ospitati dalla struttura. Quattro gruppi di ragazzi e un gruppo di ragazze. La sezione maschile risultava composta di tre gruppi definiti di “orientamento” nei quali la gran parte dei detenuti presenti in Istituto scontava la pena e da un gruppo, definito con involontaria ironia d’“accoglienza”, dove venivano collocati i giovani appena arrestati. Un gruppo di passaggio, in continua trasformazione dove i soggetti non rimanevano per più di quaranta giorni. Per molti si trattava del primo impatto con una struttura di reclusione, un momento davvero delicato. La sezione femminile era unica e raccoglieva tutte le giovani presenti in Istituto. Quasi tutte le fanciulle erano Rom e questo conferiva una particolare unità al nucleo. Le sezioni maschili, al contrario, presentavano una varietà di provenienze particolarmente ampia6. Elemento affascinante e complesso al tempo stesso. Come proporre la nostra idea di dedicare tempo al pensiero? In che modo presentare l’attività ai ragazzi, alle ragazze, ma anche agli educatori di riferimento presenti in Istituto e agli assistenti ovvero al personale di sicurezza che svolge il compito di sorveglianza? Dicevamo prima che il nostro gruppo di lavoro aveva questa propensione filosofica, ulteriormente rinforzata dalla partecipazione di tutto il nucleo a diversi corsi di formazione in philosophy for children (mi sto riferendo al corso residenziale di Acuto promosso dal Crif, frequentato da tutti noi, e al corso di perfezionamento in p4c promosso dall’ateneo padovano seguito oltre che da chi vi scrive anche da Emilia Covello). Abbiamo immaginato un intervento di riflessione condivisa in qualche modo ispirato alla philosophy for children. Consapevoli dell’impossibilità di sviluppare 5 Tensioni all’interno della struttura e un’evasione di un detenuto nel corso di un’attività esterna. I detenuti presenti In Istituto provengono da una grande quantità di paesi: Italia, Marocco, Algeria, Tunisia, Perù, Equador, Cina, Romania, Albania, Serbia, Croazia, Brasile. 6 l’attività in modo ortodosso. L’esordio è stato sicuramente complesso, per usare un’espressione sfumata. In primis la difficoltà a comunicare. Le sopra ricordata differenza di provenienza dei ragazzi presenti in Istituto non rendeva certo agevole l’individuazione di un registro comunicativo condiviso. Ci siamo spesso trovati a riflettere intorno all’importanza della comunicazione proprio perché non sembrava facile o possibile comunicare. Un’altra condizione paradossale, un terreno estremamente invitante. La consapevolezza dell’indispensabilità della comunicazione per comprendere e comprendersi, proprio mentre ci si trovava in uno stato di quasi impossibile comunicazione. Come parlare contemporaneamente ad un quattordicenne proveniente dal Marocco e ad un giovanissimo Romeno appena arrivato nel nostro territorio? Come potevano intendersi fra loro? Decisivo, non in vista di un successo, ma quantomeno di un situarsi in quella particolare atmosfera, l’accettare di starci, lo sguardo, il linguaggio non verbale come premessa per un linguaggio condiviso da costruirsi nelle intenzioni prima ancora che nelle parole. Altro elemento ricco di criticità è consistito nella diffidenza, che in particolare i giovani italiani mostravano, verso il termine filosofia. Parola che i nostri ragazzi da un certo punto di vista non si sentivano di definire, ma che al tempo stesso consideravano profondamente inutile. Ulteriore paradosso, come è possibile che qualcosa che non si conosce, non si riesce nemmeno a inquadrare possa dare sufficienti garanzie di profonda inutilità? La domanda ricorrente che ci veniva posta era la solita: a cosa serve la filosofia? Domanda retorica, la loro risposta c’era già ed era precisamente questa: a nulla, a un bel niente. Un giorno, un po’ esasperati, sostanzialmente stufi di svolgere la funzione di educatori sempre accoglienti nei riguardi di qualunque tipo di provocazione abbiamo provato a reagire, sostenendo che la filosofia è vero non serve proprio nulla e nessuno e tanto meno accetta di servire determinate abitudini che frequentemente, nella sezione maschile, venivano agite. Ci riferivamo ad abitudini linguistiche, ma anche a pratiche di convivenza all’insegna della prevaricazione. Abbiamo detto che la filosofia non avrebbe mai servito o sostenuto nessuno di quei comportamenti così spiccatamente autoritari o vessatori che talvolta osservavamo. Ci siamo azzardati a mettere in discussione alcuni termini e alcuni atteggiamenti, frequenti nelle dinamiche carcerarie. Abbiamo detto che la nostra filosofia non solo non avrebbe servito certe mentalità, ma che in qualche modo avrebbe volontariamente mancato di rispetto ad una certa idea di rispetto tutta costruita intorno a logiche di dominio e sopraffazione. Abbiamo deciso di rischiare, senza particolari dispositivi di protezione. La filosofia disattendendo a queste ritualità, eventualmente, lanciava inviti. Inviti decostruttivi, aperture verso nuovi spazi di relazione. Il clima che ne derivò fu infuocato. I detenuti italiani, in riferimento a questo livello di discussione erano coinvolti quasi esclusivamente loro, insistevano nel denigrare le attività filosofiche dicendo che erano insignificanti e incomprensibili e che certe loro convinzioni andavano difese perché permettevano il rispetto di alcune regole. Ancora in gioco il rispetto e ora persino le regole. Ci siamo accorti in questi passaggi di quanto fosse centrale questo termine. Un concetto su cui sostare, abbandonando la nostra iniziale istanza provocatoria, funzionale quanto meno per smuovere da una certa apatia iniziale. A quel punto l’invito è stato nella direzione del confronto, franco se possibile, sul significato di questa parola. Sicuramente il nostro accalorarci è stata vissuto come partecipazione, desiderio di scambio, attenzione verso di loro. Nel secondo gruppo orientamento dell’Istituto Beccaria, la riflessione sul concetto di rispetto è stata la totalità della nostra attività di pensiero condiviso. I ragazzi, pur mantenendo le iniziali riserve nei confronti del termine filosofia, hanno accolto l’invito ed hanno iniziato a portare la loro idea di rispetto, la loro esperienza di vita in riferimento al rispetto. Molto spesso si trattava di episodi che avvicinavano questo termine a logiche di potere e di subordinazione. Abbiamo in tutti i modi provato ad estenderne il significato, cercando quanto meno di valorizzare l’ambiguità possibile di un termine di questo tipo. Per ambiguità intendiamo la possibile pluralità dei suoi significati. Non sappiamo, e non era la nostra intenzione, se alcuni di questi ragazzi hanno cambiato la loro idea di rispetto; certamente a partire dalla riflessione sul concetto di rispetto è nata una relazione che nel tempo si è trasformata da conflittuale e provocatoria in stimolante. Ciò che riteniamo interessante è che i ragazzi abbiano accettato di confrontare le loro idee con quelle di altri, anche in riferimento ad una questione decisiva, una questione che mette in gioco più di altre i rapporti di forza. In qualche modo siamo diventati amici. Vengono ancora in mente alcune riflessioni di Ferraro: “La filosofia è un traduttore d’amicizia…la filosofia è l’arte della traduzione, un tradursi continuo per ritornare ad essere quello che non si è stato, per incontrare quel che non si cercava, ma che potrà dire di aver trovato. Come un amico che è il vero amico.”7 A questi incontri hanno partecipato, talvolta intervenendo vere e proprie argomentazioni, anche gli assistenti, il personale di sorveglianza. Talvolta le prospettive degli assistenti, in riferimento al tema del rispetto mostravano delle grandi differenze, come è naturale che sia, da quelle dei ragazzi, ma non sempre e non in modo così radicale. Il rendersi conto reciproco di questo fatto, di questa inimmaginabile parziale prossimità, ha talora reso possibile un modificarsi di sguardi anche all’interno di dinamiche consolidate come quelle presenti in Istituto. In alcuni momenti le guardie pensavano come i ladri e viceversa e forse grazie a questo processo di riflessione condivisa diminuivano di importanza, almeno per qualche decina di minuti, le differenze di ruolo. Una condizione spaesante, prendeva corpo il non prevedibile, l’impensabile. Questa situazione, per il suo potenziale di disattesa di un radicato luogo comune che vede contrapposti tali ruoli nell’istituzione carceraria, permette di riprendere alcune riflessioni sviluppate da Walter Kohan in riposta ad alcune domande poste da Chiara Chiapperini8. Kohan riprende il frammento 18 di Eraclito che dice che se non si spera l’insperabile, non lo si incontrerà, perché è introvabile e senza percorsi di accesso. Di primo acchito sembrerebbe una proposizione decisamente contraddittoria. Infatti quale senso ci potrebbe essere nello sperare in ciò che non si può sperare? Per Kohan l’interessante della questione sta proprio in questo sperare ciò che non si può sperare, è qui che troviamo la novità, il bagliore, la possibilità che qualcosa che non si prevedeva divenga invitante. In questa prospettiva rovesciamo il luogo comune che impone che ciò che si trova sia conseguenza di ciò che si cerca e che quindi sia in qualche modo prevedibile, e se non lo si trovasse starebbe a significare che non si è cercato come si doveva. Il frammento di Eraclito, invece, inviterebbe all’operazione contraria, ovvero a ritenere ciò che si cerca davvero consista in ciò che si trova e non ciò che ci attendevamo di trovare. In buona sostanza un invito a decostruire, ad indebolire le nostre posizioni pregiudiziali, i nostri convincimenti di base per inaugurare un percorso libero, vertiginoso e appunto non del tutto prevedibile. Una messa tra parentesi di luoghi comuni e di tutto ciò che comunemente intendiamo per verità con la v maiuscola. Il susseguirsi dei nostri incontri ha talvolta invitato i ragazzi alla lettura di alcuni brani. Qualche volta Mark, di Lipman, altre volte alcune poesie, altre volte ancora fatti di cronaca o notizie lette dai quotidiani. La lettura dei quotidiani ha poco alla volta coinvolto tutti i ragazzi dei vari gruppi. Quotidiani nazionali italiani, ma anche quotidiani a tiratura locale, in particolare alcuni giornali del Sud Italia (quotidiani della Calabria, della Campania, della Sicilia), quotidiani nelle lingue di provenienza dei ragazzi reclusi (Romania, Albania, Cina per fare solo alcuni esempi). Il nostro ruolo ha finito con lo scoprire un bisogno e in qualche modo ha permesso un diritto all’informazione. Ogni settimana portavamo i quotidiani, li leggevamo insieme ai ragazzi, li commentavamo. Quasi spontaneamente è sorta l’esigenza di creare uno spazio diverso per questa attività, non più la sala comune presente all’interno dei singoli gruppi, ma uno spazio specifico, una sorta di aula di lettura, di riflessione. Qualcuno ha parlato di stanza dell’intervallo. Per intervallo siamo abituati a pensare ad una distanza fra due cose, ad un periodo di tempo intercorrente fra due fatti. Sicuramente in gioco lo spazio e il tempo con un particolare desiderio, da parte dei ragazzi, di conquistare questa possibilità, di liberare questo fragile territorio a cavallo appunto fra spazialità e temporalità. Non è stato facile convincere il sistema carcerario a rendere possibile questa evoluzione. Significava mutare le abitudini di sorveglianza, ridisegnare alcuni movimenti dei vari gruppi di detenuti che in questo spazio, talvolta, avevano occasione di incontro. Curioso notare che gli unici momenti di incontro previsti fra i gruppi di detenuti erano la Santa Messa e la partita di 7 8 Giuseppe Ferraro, L’nnocenza della verità, pag. 27, Filema Editore, Napoli 2008. Filosofa, consulente filosofica phronesis. Mi sto riferendo all’intervista che Chiara Chiapperini rivolge a Kohan e che si può trovare all’inizio del volume Infanzia e Filosofia (Morlacchi Editore, Perugina, 2005) calcio: due avvenimenti appartenenti all’orizzonte del Sacro. Abbiamo cercato di rendere il più gradevole possibile questo luogo con interventi di imbiancatura e con l’acquisto di alcuni scaffali in grado di contenere i libri disponibili. E’ così nata una piccola biblioteca un’area di lettura e di riflessione. Un luogo curato, uno spazio dove coltivare dei desideri, delle passioni o semplicemente dove poter leggere il quotidiano del paese di provenienza (che sia la lontana Cina o la, per noi più famigliare, provincia di Reggio Calabria). Le attività svolte all’interno della sezione femminile hanno avuto un percorso differente. Un clima più disteso, una complessiva minor aggressività negli atteggiamenti, la provenienza comune delle ragazze, quasi tutte rom, hanno permesso una maggior facilità di comunicazione. Con loro abbiamo svolto attività a partire dalla lettura di brani dei racconti di Lipman (Elfie, Pixie, Kio e Gus). Gli incontri avvenivano dopo cena ed erano assolutamente facoltativi. Competevamo, quindi, con le trasmissioni televisive della fasce oraria serale. Un ostacolo non sempre superabile. Nel corso degli appuntamenti filosofici con le ragazze abbiamo frequentemente discusso di orgoglio, vergogna e paura. La riflessione in riferimento al tema dell’orgoglio ha portato ad individuare una pluralità di situazioni nelle quali le ragazze ritenevano vi fossero le condizioni per provare orgoglio. Alcuni esempi: l’orgoglio di essere madri (molte ragazze detenute, nonostante la giovane età, avevano già partorito), l’orgoglio di amare, di raggiungere uno scopo, di avere un marito, della sincerità. Ricordo che domandammo per quale motivo potevano dire di essere orgogliose della sincerità. Queste le considerazioni e i pensieri delle ragazze, direttamente riportate dalle “agende”: “Dire la verità cambia il modo in cui ti trattano gli altri, aumenta il rispetto, veniamo credute di più.” “Dire la verità è meglio, anche se fa male a qualcuno perché tanto il dolore prima o poi passa.” “Dire la verità aiuta ad accorciare le cose, ad esempio se dici la verità al magistrato, fai prima.” Quando sei sincero stai a posto con la coscienza e non hai continuamente paura che ti scoprano.” “ In fondo, però, a volte è meglio dire la bugia soprattutto quando sei sicuro che nessuno ti scoprirà”. Da queste brevi frasi quanto il tema della verità, ed evidentemente del suo contrario, fosse al centro della riflessione. Le giovani rom spesso incarcerate per piccoli, ma continui, furti avevano probabilmente dovuto spesso rispondere del proprio comportamento, della propria condotta, in riferimento appunto alla verità. La nostra società, non dimentichiamolo, diffida sistematicamente della parola di chi commette reati e proviene dalla cultura rom alla quale si attribuiscono azioni e intenzioni talvolta né commesse e né pensate. In questo orizzonte il nostro sforzo è stato quello di far uscire il concetto di verità da quello sfondo nel quale era stato collocato. Una possibile idea di verità non solo come esatta ricostruzione degli avvenimenti, ma un’idea di verità che coinvolgesse la dimensione sentimentale, relazionale e che talvolta potesse avere una certa parentela con il coraggio. La verità come esposizione, discontinuità, magari anche con certe dinamiche che venivano riprodotte dalle stesse ragazzine e che a guardar bene non producevano esiti vantaggiosi per nessuno. I nostri inviti, inizialmente vissuti con una certa diffidenza, hanno generato nel tempo un certo coinvolgimento. Abbiamo notato una maggiore partecipazione e una crescente dimostrazione di affetto. Forse non abbiamo raggiunto, nei nostri incontri filosofici serali nella sezione femminile del Beccaria, picchi teoretici significativi, ma almeno abbiano leggermente diminuito l’audience di alcune trasmissioni televisive. Per noi un motivo di sincera soddisfazione. Piero Bertolini e la proposta di un approccio fenomenologico L’esperienza di filosofia nel carcere minorile Beccaria, più in generale le attività promosse da Arciragazzi e da altre associazioni del privato sociale milanese si collocano all’interno di uno scenario che ha permesso di avvicinare la devianza, in discontinuità con un paradigma passato di tipo deterministico, causale, eziologico, con un approccio epistemologico capace di mantenere inalterata la pluralità dei livelli di complessità del fenomeno in questione. Come giustamente sottolinea Pierangelo Barone si tratta di “restituire complessità e specificità epistemologica al campo teorico e pratico della devianza per uscire definitivamente dalle pretese riduzioniste e deterministe di oggettivazione scientifica del problema della devianza, prodotte nei differenti saperi delle scienze umane.”9 Innanzi ai ragazzi difficili, innanzi a condotte devianti si tratta di rimettere in gioco il soggetto, “non tanto come oggetto di uno sguardo scientifico che, volta per volta, ne ha sancito la dimensione patologica in rapporto ad una tara di tipo biologico, genetico-evolutivo, antropologico, psichico, socioculturale; non tanto come punto di applicazione passivo e determinato delle funzioni e delle norme socioculturali che in tal modo ne prefiguravano artificiosamente un esito antisociale; quanto semmai come soggetto attivo.”10 Un soggetto nelle condizioni di prendere parte ad un processo comunicativo che implica intenzionalità e circolarità interazionale11. Stiamo avvicinando una declinazione particolare della pedagogia interpretativa della devianza minorile, precisamente l’approccio fenomenologico. In Italia tale apertura viene proposta da Piero Bertolini, fra le altre cose direttore dell’Istituto Beccaria dal 1958 al 1969. La prospettiva fenomenologia inaugura interventi che mettono al centro la dimensione del cambiamento, quella della progettazione come fattori determinanti nel processo di emancipazione, promozione e valorizzazione del soggetto. Un simile sguardo riprende, come indispensabile elemento di comprensione del comportamento antisociale, “il punto di vista del soggetto circa il suo essere-nelmondo, il significato che egli attribuisce alla attualità che lo circonda e ai suoi stessi vissuti, il valore e l’importanza che egli investe o ha investito nella realtà in cui egli è immerso.”12 Un movimento che permette di oltrepassare l’approccio che intendeva l’azione penale come trattamento di tipo correzionale che in qualche modo doveva “sopperire all’inadeguatezza sociale del soggetto, nell’illusione che attraverso il procedimento rieducativo forzoso si potesse produrre un cambiamento significativo della personalità.”13 La centralità di un’idea come quella della promozione del minore non prevede certo attività educative finalizzate al riadattamento della personalità del soggetto supposto deviante a quei valori maggiormente in voga nella società. Si tratta di uscire, in qualche modo, dalla logica che intende l’intervento educativo come cura in senso forte. Più che curare si tratta di creare condizioni di emancipazione, di ripristino della centralità del soggetto “come essere relazionale continuamente esposto al mondo reale e, necessariamente in rapporto con l’Altro da Sé. Significa cioè proporre l’ineludibilità del punto di vista del minore che si rende protagonista di atti trasgressivi e/o devianti, come principio di problematizzazione e di intervento, nella consapevolezza che l’interpretazione di eventuali comportamenti disadattivi sia imprescindibilmente legata al significato che ad essi viene dato da chi ne è attore.”14 Stiamo facendo riferimento, evidentemente, ad una prospettiva che abbandona o almeno limita il giudizio, una possibilità, raccogliendo l’invito di Husserl, di sospensione delle precomprensioni della realtà intese come mondo-già-dato. Un invito ad assumere, come suggerisce Piero Bertolini, un atteggiamento entropatico al fine di generare delle relazioni autentiche. Il concetto husserliano di Einfuhlung, tradotto da Filippini con entropatia, sta a significare la necessità di sentire dentro l’altro, il farsi recettivi rispetto alla sua interiorità. Nel secondo libro di Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologia, intitolato Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione, Husserl riferendosi ai soggetti estranei afferma: “In quanto noi rendendoli oggetti di entropatia, li cogliamo come analoghi del nostro sé, il loro luogo ci è dato come un qui, rispetto al quale tutto il resto è un là. Ma, insieme con questa analogicizzazione, che non produce un che di nuovo rispetto all’io, abbiamo il corpo vivo estraneo come un là, identificato col fenomeno del corpo vivoqui…Con questa realtà io pongo un analogo del mio io e del mio mondo circostante, cioè un secondo io con i suoi elementi soggettivi, con i suoi dati sensoriali, con le mutevoli manifestazioni 9 P. Barone, Pedagogia della marginalità e della devianza, p. 78, Guerini, Milano 2001 Ibidem 11 In riferimento al tema del soggetto di particolare interesse i lavori di G. De Leo, La devianza minorile. Metodi tradizionali e nuovi modelli di trattamento, NIS, Roma 1990 e di P. Bertolini, L. Baronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia, Firenze 1993 12 P. Bertolini, L. Baronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, p. 40, La Nuova Italia, Firenze 1993 13 P. Barone, Pedagogia della marginalità e della devianza, p. 87, Guerini, Milano 2001 14 Ibidem 10 che sono sue e con le cose che attraverso queste manifestazioni si manifestano. Le cose poste dagli altri sono anche le mie: nell’entropatia i prendo parte alle posizioni dell’altro…ciò comporta la possibilità di uno scambio attraverso il cambiamento di posto…ma in nessun modo l’altro può avere (quanto allo statuto originario del vissuto che gli viene attribuito entropaticamente) la stessa manifestazione che ho io”15 Stiamo parlando di un elemento di transito, entropatia come passaggio dall’intuizione dei propri vissuti al farsi presente dei vissuti altrui e, al contempo, poiché dà luogo ad un sapere presuntivo, non elimina del tutto lo scarto fra sé e l’altro. Una dimensione paradossale, come rileva Alice Pugliese: “L’entropatia rappresenta la possibilità di percepire qualcosa che non è tematico, qualcosa che non si presenta in originale, attraverso i miei sensi. E’ un percepire, attraverso e oltre la percezione attuale, qualcosa che si presenta come un indeterminato in “più”. Si tratta di un di più intenzionale: non un’aggiunta estrinseca, ma richiesta, esatta dalla forma stessa della mia esperienza attuale. Nell’entropatia sento, dunque il percepito, qualcosa che porta oltre il dato della percezione, e che pure fa parte della sua verità. E’ il paradosso di una percezione che smentisce se stessa, che si toglie per acquistare una verità più ricca e piena.”16 Un altro elemento di estrema importanza, sempre nell’orizzonte fenomenologico, va rintracciato nella rilevanza attribuita all’apertura al possibile come costante e della relazione educativa. Aprire al possibile implica immaginare cambiamenti, processi di trasformazione dei ragazzi coinvolti nel percorso educativo; significa supporre futuro anche per i giovani detenuti in carcere. Lo sguardo di Lévinas L’esperienza di filosofia all’interno delle mura dell’Istituto Beccaria ha sicuramente permesso una riflessione intorno al tema dell’alterità, un’opportunità per riprendere in considerazione il concetto di diversità. Al tempo stesso un’esplorazione della nostra identità, della nostra soggettività e di conseguenza delle complesse dinamiche che regolano il nostro agire. Nell’intervento educativo e nel ruolo dell’insegnamento abbiamo l’opportunità, attraverso l’incontro con una pluralità di soggetti diversi, differenti, stranieri, di ri-scoprire parti della nostra stessa individualità, di ridefinire nuovamente la nostra identità. Un cammino. Una riflessione che trova terreno fertile nelle dinamiche messe in movimento dalla pratica della comunità di ricerca, dal gioco di pensiero che questa modalità permette, dagli esercizi che potremmo individuare proprio a partire dall’assetto originario, inizialmente pensato da Lipman. Comunità di ricerca che deve saper essere indagatrice, sul pensiero, sulla conoscenza, sullo sforzo dedicato a trovare soluzioni, sia pure parziali, dialogica, nel senso che tutti i membri della comunità pongono domande, cooperativa, apertura autentica alle ragioni dell’altro e promozione di una conoscenza intesa come frutto dell’“agire comunicativo”, individualizzata, cioè in grado di riconoscere le diversità di posizione. Comunità di ricerca che può anche essere esperienza spaesante, capace di smascheramenti e decostruzioni, in grado di gettare sguardi a ritroso su meccanismi mai troppo sufficientemente esplorati e messi in discussione. Le esperienze educative, e in qualche modo anche quelle didattiche, ci spingono ad un ripetuto ed incessante incontro con l’altro. I ruoli di educatore e di insegnante ci “costringono” a fare i conti con l’altro e ad elaborare, in conseguenza di ciò, diverse risposte. Diverse nel senso che non è pensabile porsi in modo uguale nei confronti di tutti e così facendo è un po’ come se questa differenza, questa alterità, inizialmente collocata innanzi a noi, s’insinuasse dentro di noi, divenisse un po’ alla volta una possibilità del nostro agire, una risorsa. Tuttavia l’entrata in scena dell’altro viene a configurarsi come irruzione minacciosa della differenza, specie in un contesto omologante come talvolta può essere quello della scuola, ma non certo solo della scuola, che predilige “il riferimento a paradigmi di identificazione scarsamente differenziati, selettivi o gerarchizzati, non 15 H. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Vol. II, p. 170, Einaudi, Torino 2002 16 A. Pugliese, La dimensione dell’intersoggettività: fenomenologia dell’estraneo nella filosofia di Husserl, p. 127, Mimesis Editore, Milano 2004 rispettosi della pluralità dei soggetti e delle culture.”17 L’elemento della diversità può dare origine a conflitti, può mettere in crisi il funzionamento del sistema educativo. I ragazzi difficili delle periferie, i figli di migranti, i disabili rischiano di non venire compresi e accolti in una scuola “non pensata né strutturata per un’educazione alla diversità, ma sostanzialmente come un’istituzione educativa centralizzata dove i valori dell’identità e dell’uguaglianza, che pure sono irrinunciabili, rischiano di essere gestiti in modo educativo non corretto, come una sorta di reductio ad unum delle diversità.”18 In questo senso ci pare di grande stimolo avvicinare alcune riflessioni proposte da Lévinas, nell’immaginare una scuola, una società, ma per certi versi anche un progetto come quello realizzato presso il carcere minorile, pensati per l’altro e a partire dall’altro, nel cogliere il diverso come portatore di valore, come avente diritto. Interessante notare, fra l’altro, come Lévinas si collochi innanzi alla filosofia dell’empatia, al pensiero di Husserl. Prevalgono le differenze anche se non mancano alcune sottolineature positive. Lévinas, appunto, dell’approccio fenomenologico apprezza la coscienza della problematicità “di estendere ad altri il senso io ed ancora il fatto che ponessero l’accento irriducibile che porta al tu nella simpatia o nell’amore, per la dose di irripetibilità che contengono.”19 Emerge, a partire da questa visione, un’idea di una singolarità non subordinabile a partire da un modello privilegiato. Pertanto “se l’io non è trasponibile ad altri allora non è l’io l’accesso all’altro.”20 L’altro si presenta a me con il suo starmi innanzi, come ciò a cui devo rispondere, come un’iniziativa che avanza attraverso il linguaggio e che chiede conto. Il linguaggio, scrive Lévinas “nella sua funzione di espressione si rivolge ad altri e lo invoca. Certamente non consiste nell’invocarlo in quanto rappresentato e pensato, ma è proprio per questo motivo che lo scarto fra il medesimo e l’altro, in cui il linguaggio sta, non si riduce ad un rapporto fra concetti, di cui uno limita l’altro, ma descrive la trascendenza in cui l’altro non pesa sul medesimo, lo obbliga soltanto, lo rende responsabile, cioè parlante. La relazione del linguaggio non si riduce a quella che riferisce al pensiero un oggetto che gli è dato.”21 Nel linguaggio si presenta un essere che si pone come trascendenza sia nei miei confronti, sia rispetto alla possibilità di una qualificazione comune in un concetto. Questo essere si manifesta non a partire da me, bensì a partire da sé stesso, si impone come presenza, volto. Questa visione porta con sé una conseguenza, ovvero che se l’altro non viene trovato a partire da me, ne ricaviamo che l’altro non può ritenersi punto d’approdo. Ciò segna la distanza dalla prospettiva husserliana. Per Husserl, infatti, l’altro, come sottolinea Riva, “veniva percepito nella situazione paradossale di presentarsi come un altro io, senza tuttavia darsi mai in originale, cosa possibile soltanto al sé.”22 Per Lévinas, invece, il nascere del pensiero arriva con il sorgere dell’altro in modo che l’altro non risulti un guadagno, ma una condizione preliminare dell’etica. Come si può concretamente ripensare l’educazione partendo dall’altro? In questa prospettiva, non dovremmo intendere la figura dell’educatore come colui che “tira fuori” le componenti migliori dell’educando destinato, in questo modo, ad una posizione marginale. L’educatore dovrà, piuttosto, comprendere l’altro a partire dalla sua storia, dal suo ambiente, dalle sue abitudini. Siamo di fronte, come rileva Curci, “ad una presa di distanza dalla lezione di Socrate, per cui ogni insegnamento è già nell’anima e al maestro non resta che l’esercizio della maieutica per tirare fuori la conoscenza che dorme nell’inconsapevole allievo. Al contrario per Levinas è l’altro che ci tira fuori dall’ego e ci sollecita.”23 In questa logica, nell’intervento educativo e nel ruolo dell’insegnamento abbiamo l’opportunità, attraverso l’incontro con una pluralità di soggetti diversi, differenti, stranieri, di ri-scoprire parti della nostra stessa individualità, 17 Nanni A., Educare alla convivialità, Emi, Bologna 1994, pp. 104-105. Ibidem. 19 F. Riva, Una possibilità per l’altro, p. LXXII in E. Lévinas, G. Marcel, P. Ricoeur, Il pensiero dell’altro, Edizioni Lavoro, Roma 2008 20 Ivi, p. LXXIII 21 E. Lévinas, L’io e la totalità, p. 63, in E. Lévinas, G. Marcel, P. Ricoeur, Il pensiero dell’altro, Edizioni Lavoro, Roma 2008 22 F. Riva, Una possibilità per l’altro, p. LXXIV in E. Lévinas, G. Marcel, P. Ricoeur, Il pensiero dell’altro, Edizioni Lavoro, Roma 2008 23 Curci S., Pedagogia del volto, Emi, Bologna 2002, p. 70. 18 di ridefinire nuovamente la nostra identità, forse di trasformarla. Un cammino. Intervenire in situazioni problematiche o in ambiti dove sono presenti soggetti disabili significa intervenire “sulle potenzialità di azione e partecipazione nei contesti di vita, modificando di volta in volta quei fattori che intervengono nel determinarla.”24 Interventi in riferimento alla disabilità, che non possono non chiamare in causa una didattica dell’integrazione e ancor prima una politica dell’inclusione. Per integrarsi, in una società come quella nella quale viviamo così attraversata da differenze (religiose, culturali, etniche e non solo) non basta tollerare, portare rispetto, piuttosto ci sembra decisivo costruire insieme, cooperare, condividere. Convivialità ed interazione: gli inviti di Illich e Vygotsky Sorgono spontanei due brevi richiami in possibile connessione reciproca. Da un lato la nascita di una cultura della convivialità delle differenze, di una solidarietà attiva, dall’altro l’orizzonte di pensiero vygotskijano. Convivialità, “è coabitazione, coesistenza pacifica…non esclusione di nessuno, inclusività senza imposizione, accoglienza senza sequestro, scoperta dell’altro e valorizzazione della differenza; è soprattutto reciprocità.”25 Parlando di convivialità ci pare impossibile non prendere in considerazione la riflessione di Ivan Illich che colloca la convivialità in aperto contrasto con la produttività industriale. Per Illich ogni soggetto si definisce nel rapporto con gli altri e con l’ambiente per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. Tali strumenti possono trovare ordine in una serie continua avente ad un estremo lo strumento dominante e all’estremo opposto lo strumento conviviale; pertanto “il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del dono. Il rapporto industriale è riflesso condizionato, risposta stereotipata dell’individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che egli non conoscerà mai, o da un ambiente artificiale, che mai comprenderà; il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone che partecipano alla creazione della vita sociale.”26 Passare dalla produttività alla convivialità significa sostituire a valore tecnico un valore etico, a un valore materializzato un valore realizzato. Per Illich quando in una società, qualunque sia il sistema politico che la governi, abbassa la convivialità al di sotto di un certo livello, diviene inevitabilmente prigioniera di una condizione di carenza; infatti nessuna ipertrofia della produttività riuscir mai a soddisfare i bisogni creati e moltiplicati secondo ritmi vorticosi. Si tratta, pertanto, di prevedere un sostanziale rovesciamento. Solo ribaltando completamente “la struttura profonda che regola il rapporto fra l’uomo e lo strumento potremo servirci degli strumenti che sappiamo costruire. Lo strumento veramente razionale risponde a tre esigenze: genera efficienza senza degradare l’autonomia personale, non produce né schiavi né padroni, estende il raggio d’azione personale. L’uomo ha bisogno di uno strumento con il quale lavorare, non di un’attrezzatura che lavori al suo posto.”27 In questa prospettiva la convivialità rappresenta il primato della dimensione cooperativa, partecipativa, inclusiva, etica, il superamento, in buona sostanza, di logiche tecniche basate sul profitto. L’attenzione di Vygotskij posta intorno ai concetti di interazione e di attività ci sembrano di estremo interesse. Vygotskij ritiene che lo sviluppo cognitivo vada ricondotto alle interazioni sociali dell’individuo nell’ambiente; la nostra capacità di conoscere noi stessi, in quest’ottica, si forma grazie alle nostre interazioni con gli altri soggetti. L’invito è a porre attenzione alla partecipazione attiva dell’alunno, ad esempio, nella costruzione del significato e a non valorizzare l’acquisizione passiva delle nozioni. Grande importanza viene attribuita proprio al contesto sociale di apprendimento. Per Vygotskij l’apprendimento cooperativo può avere conseguenze positive sullo sviluppo cognitivo dei giovani; per gruppo cooperativo s’intende un gruppo di alunni con abilità 24 Santi M., Didattica e cultura dell’integrazione. Dalle definizioni ai significati, ???? Nanni A., Educare alla convivialità, Emi, Bologna 1994, pp. 164-165. 26 Illich I., La convivialità, Boroli Editore, Milano 2005, pp. 28-29. 27 Ibidem, pp.27-28. 25 diverse che s’impegnano nel tentativo di risolvere un problema o portare a compimento un progetto. In ogni gruppo eterogeneo di bambini, ci sarà la possibilità per un bambino più competente di aiutare un compagno scolasticamente meno capace. L’obiettivo dei gruppi cooperativi è proprio quello di privilegiare la dimensione del mutuo sostegno, cercando così di non enfatizzare le logiche competitive. Questa idea si basa sull’assunzione che il valore percepito del successo scolastico aumenta quando tutti i soggetti coinvolti si sforzano di raggiungere lo stesso scopo. Così la classe diviene “una comunità di alunni in cui i bambini sono impegnati in attività che facilitano lo sviluppo di tutti gli elementi della comunicazione (lettura, scrittura, parola e ascolto).”28 I vantaggi della cooperazione risultano apprezzabili non solo fra i bambini, ma coinvolgono anche la figura dell’insegnante o dell’educatore che, in questo modo, ne trae giovamento e si trova nella possibilità di interrogare nuovamente la sua funzione. Futura umanità Con il nostro intervento all’interno del carcere Beccaria, con la nostra proposta educativo-filosofica sia chiaro non avevamo in testa un’idea pre-definita di uomo, non avevamo certo intenzione di sviluppare un progetto con scopi salvifici riferendoci magari ad un orizzonte terapeutico capace di comprendere una certa idea di cura. Chiamarsi fuori da questa visione, non implica certo la mancanza di consapevolezza, come direbbe Rovatti29, di essere in ogni caso immersi in una società profondamente caratterizzata da paradigmi terapeutici: “una poderosa macchina terapeutica, che si identifica sempre di più con le istituzioni stesse che provvede all’individuo una gamma di diversivi consistenti nell’offerta continua, microfisica e iperspecializzata, di tecniche e dispositivi di benessere, dalla cura del proprio corpo alle cure per i suoi bambini, alle infinite opportunità sociali di attenzione regolata nei confronti di se stessi.”30 In ogni caso nella nostra prospettiva educare, filosofare se vogliamo, ha cercato di perseguire gli obiettivi dell’autonomia e della responsabilità, ha provato a permettere a ciascun individuo di divenire quello che è e non ciò che altri individui, istituzioni pensano sia giusto o vantaggioso che divenga. In buona sostanza una proposta filosofica come educazione all’essere, disponibile al potere-essere-diversamente in aperta contrapposizione al formare al dovere essere. Da queste premesse il tentativo di azzardare un’altra idea di cura. Un’idea di cura, si diceva non come forza terapeutica, ma piuttosto come esperienza di relazione, inserita in uno sfondo di emancipazione, fatta di impegno critico, ri-definizioni di categorie e smascheramenti di relazioni di potere, un indirizzo, scrive Antonio Cosentino, che “connota una vocazione pratica della filosofia, un suo orientamento verso la prospettiva dell’impegno trasformativo.”31 Un tentativo di attenuazione dei dispositivi di potere-sapere, un’operazione “situabile in un ambito di soggettività che, smontando le tecniche di potere che l’ha costituita, smonta anche se stessa e, prendendo le distanze da se stessa, deve imparare a costruire una nuova casa da abitare, un nuovo paesaggio in cui muoversi; deve, in altre parole, appropriarsi degli stessi processi di soggettivazione e governarli individualmente e autonomamente”32 Un soggetto pertanto, invitati dalle riflessioni di Pier Aldo Rovatti in riferimento al pensiero di Foucault, che potrebbe assumersi la responsabilità e la libertà di agire una contromanovra, di curarsi da sé. Un’idea di libertà come possibilità di praticare un'uscita da se stessi, “un'alterazione della propria condizione di soggetti bloccati nei dispositivi identitari, un allargamento degli orizzonti dell'abitudine, ma anche un'eccedenza rispetto 28 Dixon-Krauss L. (a cura di), Vygotskij nella classe, Erikson, Trento 2000, p. 114. In riferimento alle riflessioni riguardo il legame fra società e paradigmi terapeutici si veda il lavoro di Pier Aldo Rovatti La filosofia può curare? Raffaello Cortina Editore, Milano 2005 30 P. A. Rovatti, Possiamo addomesticare l’altro? La condizione globale, pp. 20-21, Forum Editrice Universitaria Udinese, Udine 2007 31 A. Cosentino, La filosofia come pratica sociale, pp. 103-104, Apogeo, Milano 2008 32 Ivi, 108 29 a essi e dunque a se stessi, infine l'assunzione di un rischio di esposizione, per dir così, senza rete protettiva che attutisca l'eventuale caduta.”33 Dicevamo educazione all’essere in grado di contemplare la diversità come valore, non come pericolo. Si tratta di compiere quello sforzo di educazione alla simpatia nel senso di un tentativo di sabotaggio dell’ideologia del nemico a tutti i costi. A questo proposito tornano in mente alcuni versi del poeta greco Kavafis: Perché ormai è notte E i barbari non sono ancora venuti. Anzi, taluni che vengono dai confini dicono che di barbari non ce ne sono più. E adesso Che sarà di noi senza i barbari? Questa gente, in fondo, era una soluzione Nei nostri giorni continuiamo affannosamente ad identificare nemici (l’altro ieri i marocchini, ieri gli albanesi, oggi i romeni, ieri oggi e temo anche domani i rom) e, come sottolinea Rovatti, a “proiettare su di loro la nostra angoscia. E’ un modo di addomesticare l’altro, che troverà ogni volta un pezzo di realtà su cui appoggiarsi, ma così non riusciremo mai ad avvicinare l’altro.”34 Per tentare davvero di farlo, non resta che “una via a disposizione, per quanto possa apparirci paradossale: lasciare la porta aperta.”35 In questa condizione auspichiamo un futuro inteso come tempo nel quale mettere in gioco i talenti, le risorse, le abilità dei soggetti coinvolti nei progetti. Per certi aspetti l’idea della filosofia in carcere, o meglio la decisione di inaugurare momenti di riflessione condivisa, ha cercato di gettare ponti verso ciò che ancora potrà essere, verso ciò che sarà diversamente, senza con questo tralasciare tutto ciò che l’esperienza pregressa è in grado di offrire. Una valorizzazione temporale del futuro in quanto esso “è volto, essenzialmente, a favorire nel ragazzo una progressiva e consapevole appropriazione del materiale di esperienza e a sollecitare la sua capacità di trascenderlo.”36 Anche se talvolta i ragazzi del carcere minorile portavano con loro vissuti estremamente problematici, abbiamo cercato di creare con loro spazi di progettazione condivisa, scenari in cui mettere in gioco, energie, pensieri, azioni, abbiamo provato, metaforicamente, ad aprire porte. In buona sostanza abbiamo continuato ad immaginare possibile una futura umanità. 33 Pier Aldo Rovatti, Il soggetto che non c’è, in Mario Galzigna [a cura di], Foucault oggi p. 222, Feltrinelli, Milano 2008. 34 P. A. Rovatti, Possiamo addomesticare l’altro? La condizione globale, p. 44, Forum Editrice Universitaria Udinese, Udine 2007 35 Ibidem 36 P. Bertolini, L. Baronia, Ragazzi difficili, Pedagogia interpretativa e linee di intervento, p. 58, La Nuova Italia, Firenze 1993