Appropriazione simbolica del territorio di Sonia Giusti Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali, Unieversità degli Studi di Cassino, Via Zamosch, 40, I-03043 Cassino (Fr), Italy, [email protected] Quando qualche mese fa ci siamo riuniti presso il Centro di Documentazione “Gastone Venturelli” a Piazza al Serchio (Lucca) abbiamo considerato ancora una volta l’urgenza di raccogliere le tradizioni popolari che stanno scomparendo. Ricordo che Borghini diceva “quel mondo raccontato nelle fiabe e nelle leggende è già scomparso, è archeologia”. Impegnandoci nel compito di non disperdere il patrimonio culturale conservatosi nelle tradizioni popolari è utile ribadire che stiamo parlando di formazioni storiche e, perciò, si tratta di analizzarne lo svolgimento, le ragioni delle permanenze e i bisogni delle rielaborazioni . A questo proposito, per indicare la rappresentazione del mondo conservatasi nelle tradizioni orali consegnataci attraverso le elaborazioni continue e le varianti apportate, si potrebbe usare l’espressione cultura altra allo scopo di mettere meglio in evidenza alcuni aspetti della questione di per se stessi problematici, aspetti fondamentali che sottolineano il nodo del problema. Nel considerare le tradizioni orali, infatti, appare subito chiaro un paradosso metodologico: il fatto è che, se pure si tratta di un mondo passato, chi lo racconta è vivo e agisce nel presente. E poiché non vogliamo parlare di sopravvivenze o frustoli del passato che ancora vagherebbero conservati nelle sfere di marginalità culturale o nei raccoglitori di curiosità antiche, o magari nelle confezioni turistiche, o anche nel serbatoio della nobile e rispolverata professione dei conteurs quale si pratica oggi in Francia ( e che ricorda il fenomeno medievale dei trovatori), poiché, appunto, non vogliamo parlare di tutto questo, è utile insistere sul fatto che le rappresentazioni collettive trasmesse oralmente – e in particolare quelle che legano l’immaginario al territorio - sono vive in quanto rispondono a particolari esigenze cognitive. Come nel mito, così nelle credenze popolari, la carica di significatività intellettuale ed esistenziale perdura fino a condensarsi in cristalli simbolici, concentrati di un sapere condiviso, la cui comprensione è resa possibile dall’analisi sintagmatica tramite la quale accedere sia ai significati antichi che alle spinte creative che si riversano nella dinamica storica. Questo vale fino a quando le storie non si raccontano più; solo allora, esse appartengono esclusivamente al passato e ciò non vuol dire che non siano ancora cultura, anzi cultura altra, conservatasi nel nostro passato anziché nell’altrove geografico . La trasmissione del racconto orale è la prova della sua significatività: finché il racconto popolare di tradizione orale viene trasmesso, con le varianti che ne sono parte consustanziale, e con le radici che affondando nel passato, esso vive nel presente. La definizione gramsciana del folklore come concezione della vita e del mondo, ci incalza verso analisi antropologiche di tipo storicizzante e ci spinge a considerare il folklore nella sua rete di significati i quali, anche se immersi nel passato, si configurano come cultura poiché in essi riscontriamo la forma sistematica di un sapere collettivo. Da questo punto di vista le “osservazioni” gramsciane sul folklore hanno aperto fecondi campi di discussione anche per quanto riguarda l’ambiguità stessa contenuta nella definizione che egli ne dette; infatti, se da una parte Gramsci ha rivalutato il folklore come particolare aspetto della dinamica storica intesa nella sua multidimensionalità, dall’altra lo ha confinato nella marginalità di un agglomerato di lacerti di cultura borghese discesi nella cultura popolare. Nel giudizio che Gramsci dette, per esempio, sul millenarismo di David Lazzaretti - il messia dell’Amiata - figurava l’aggettivo barbarico; evidentemente Gramsci non riuscì a cogliere in quel fatto di religiosità popolare l’alterità culturale di una visione del mondo propositiva e alternativa alla visione ufficiale della borghesia, nel senso di una visione del mondo altra, capace di mettere in luce i limiti della consolidata cultura borghese, e non una espressione di incapacità intellettuale, un ritardo del pensiero, una debolezza della costruzione concettuale. Le severe considerazioni di Gramsci verso questa forma apocalittica del pensiero si capiscono alla luce del suo impegno intellettuale - in questo caso più politico che storico - fortemente segnato dalla esigenza di combattere le sacche di miseria e i rigurgiti di una mentalità non progressiva che, indubbiamente, conteneva dispositivi socialmente anestetizzanti, oltre a una indiscussa tensione rinnovatrice. Va detto che la simbolicità delle cose non nasce da un “arresto della mente”, da “una impossibilità a rappresentarle con una descrizione analitica…da un difetto del dispositivo concettuale”; anche il sapere simbolico – come il sapere analitico - ha lo scopo di organizzare il mondo in modo “razionale” . Troppo spesso si dimentica la lezione del Vico il quale riconosceva nella “corpolentissima fantasia” dei “bestioni” primitivi non un capriccio della mente, ma la forma di conoscenza primaria con la quale essi erano riusciti a personificare gli universali fantastici; con il riconoscimento di questa forma di conoscenza, che è la fantasia, è emersa tutta l’importanza del processo mitopoietico che, dando corpo all’idea del cielo come padre celeste e all’idea della terra come madre che nutre, personificava idee alle quali si potevano indirizzare preghiere e sacrifici. Non a caso per Vico la civiltà delle genti nasce dai primi culti religiosi e, in particolare, dal culto dei morti. La produzione fantastica del pensiero simbolico, l’immaginario che si fa collettivo in funzione consolatoria ed esplicativa, viene definito nella visione storicistica del folklore, come zona d’ombra da rischiarare storiograficamente . Ritornando al paradosso storico implicito nella scienza folklorica, al quale si è accennato all’inizio, è utile considerare alcune questioni di metodo, prima ancora di passare ad un caso di appropriazione simbolica del territorio, e lo facciamo cominciando dall’uso del termine folklore. Secondo lo storico inglese Laurence Stone fra le scienze sociali l’antropologia ha mostrato “interesse tanto per il passato quanto per i cambiamenti nel tempo” . In altre parole Stone riconosce all’antropologia una vocazione storica, al contrario di molti antropologi che non se la riconoscono affatto. L’applicazione degli strumenti antropologici all’analisi dei sistemi culturali, tanto che siano inseriti nel passato che nel presente, comporta che si definisca sia la griglia spazio-temporale nella quale sistemare la rappresentazione collettiva di una visione del mondo che si vuole capire, sia che si individuino i relativi documenti da interpretare che saranno testimonianze orali, documenti scritti e documenti appartenenti alla cultura materiale. Trattandosi di folklore c’è da sottolineare che ci troviamo di fronte ad una categoria costruita dalla cultura occidentale in seguito ad una serie di eventi intellettuali e sociali e come tale ideologicamente contrassegnata. In altre parole il concetto di folklore ci sollecita a ricostruire sinteticamente i passaggi attraverso i quali questo particolare modo di pensare il mondo si è configurato come oggetto di studio scientifico; seguendo le indicazioni dell’antropologo americano Irving Hallowell, il quale assume come problema la storia dell’ antropologia, ci mettiamo sulla buona strada per capire meglio il peso concettuale del termine folklore nel significato che abbiamo ereditato dagli studi antropologici . Sono note le ricerche pionieristiche di John Thoms il quale nel 1848, sotto lo pseudonimo di Ambrose Merton, usò per la prima volta, il termine folklore strappando le antiquitates dal mondo delle curiosità erudite per farne oggetto di analisi scientifica. Un rapido cenno al bel libro di George W. Stocking L’antropologia vittoriana ci aiuta a inquadrare le motivazioni complesse che contribuirono a costruire la nicchia scientifica del folklore attraverso uno sguardo esteso agli eventi storici che hanno cambiato il modo di pensare: le scoperte geografiche e le numerose informazioni etnografiche dei viaggiatori del ‘700 e dell’’800. Superato lo sconcerto da cui furono presi di fronte alle “scandalose” diversità dei comportamenti umani, gli evoluzionisti seppero utilizzare questa dimensione di alterità - che venne definita immediatamente come inferiorità - per sistemarci dentro anche i volghi rurali e urbani “attardatisi” ai margini della civiltà. Così, anche alcuni popoli europei presero posto nei gradini più bassi della scala evolutiva unidirezionale, pericolosamente accostati ai “primitivi”, col risultato ambivalente che, se da un lato i cosiddetti primitivi furono sistemati nella storia, anziché lasciati nella natura, dall’altro i comportamenti folklorici, propri dei “volghi europei”, furono sistemati negli stessi scalini bassi della scala considerati sacche di ritardo culturale nella marcia verso la civiltà . Secondo l’ideologia evoluzionistica gli elementi comuni dei “primitivi” contemporanei con i primi uomini della nostra civiltà - promiscuità, assenza di scrittura - sembravano indicare nelle culture primitive il laboratorio nel quale ricostruire l’anello mancante nella linea di evoluzione socio-culturale, suggerendo anche la presenza di ritmi diversi di incivilimento. Si trattava di costruire una linea di sviluppo senza vuoti assegnando il posto a ciascuna forma di vita socio-culturale. La negatività con la quale l’etnologia evoluzionistica dell’800 ha fornito la prima sistemazione del folklore ha pesato molto sulla storia del pensiero antropologico: si trattava della stessa prospettiva che aveva retto l’analisi dei “primitivi” e che consisteva nel tentativo di individuare e sistemare in un disegno unitario i tratti universali più che i particolari storici. L’idea degli evoluzionisti che l’umanità avesse progredito verso la civiltà, sia pure con ritmi diversi, era “il balsamo intellettuale” che sosteneva il cosiddetto “fardello dell’uomo bianco” , ovverosia l’impegno morale che gli Europei avevano dovuto accollarsi per sollecitare la crescita civile del genere umano. In questo quadro concettuale c’è posto per una ulteriore sistemazione fondamentale di cui furono artefici gli evoluzionisti: la primitività diventava una qualità negativa riscontrabile in tutte quelle forme comportamentali “non conformi” all’ideale di civiltà ed era individuata nei contadini, nei mendicanti, nei folli e nelle donne. ————————— Questa premessa mi è sembrata utile prima di passare al caso da me scelto come tema del nostro incontro che ha per titolo Immaginario, territorio, paesaggio; in esso è contenuto il chiaro intento di storicizzare le nostre ricerche che, non a caso, sono territoriali, oltre che tematiche, e si propongono per un confronto storicizzante, oltre che come occasione di riflessioni di carattere generale. Indubbiamente l’eredità della scienza antropologica ottocentesca è stata condizionante: essa ci ha consegnato categorie cognitive costruite sull’etnocentrismo e sul binarismo noi / gli altri. Per uscire dalla gabbia di queste categorie e per frammentare il blocco rigido della contrapposizione, noi e gli altri, Jach Goody propone di cercare le differenze nel nostro stesso modo di pensare il mondo. Dice Goody: per non rimanere prigionieri delle categorie che noi stessi costruiamo, è necessario ripensare alla storia dei nostri studi, e focalizzare il momento in cui il settore delle antiquitates si configurò come scienza dei fatti folklorici . Anche allora, infatti, scattò il sistema binario col quale si ordina e si classifica la realtà che rinchiuse il folklore nel pensiero rozzo e involuto simile al pensiero primitivo. In sostanza gli evoluzionisti, preoccupati di ricostruire le tappe evolutive della marcia verso la civiltà, inciampando in tratti culturali che non rientravano nella visione unilineare del progresso, utilizzarono la dimensione primitiva come sacca di contenimento allargandola fino a comprendere i comportamenti “primitivi” del folklore europeo. A questa immagine negativa del folklore si aggiunga il fatto che l’antropologia scientifica si è sviluppata (10) all’interno di una visione del mondo e del tempo radicalmente diverso rispetto alle civiltà antiche. La concezione lineare del tempo rispetto a quella ciclica scandita sui ritmi delle stagioni comportava la sistemazione di eventi irreversibili nella linea temporale di sviluppo. Da questa prospettiva gli evoluzionisti guardavano al primitivo e al folklore come a un ritardo nel progresso di civilizzazione o ad una degenerazione culturale. Nel volume di Goody, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, l’autore afferma che le categorie si radicano nella divisione primaria noi-loro che è binaria ed etnocentrica. Parliamo in termini di primitività/oralità contrapponendoli a civiltà/scrittura alludendo a strutture mentali differenti “alla stregua di macchine scaturite da progetti diversi”. Per molto tempo si è creduto che l’emozione fosse la qualità principale delle culture tradizionali e la razionalità una conquista delle società complesse. Il senso della contrapposizione si può rilevare dallo schema seguente che indica le coppie oppositive costruite dal pensiero evoluzionistico: Semplice/complesso; primitivo/avanzato; tradizionale/moderno; oralità/scrittura Lo schema è evoluzionistico e unilineare ed è difficile smantellare la costruzione, ovverosia l’impalcatura ideologica che regge la nostra visione del mondo; una proposta viene da chi invita a ripartire dall’idea che fra noi sono riscontrabili molte diversità prima ancora che tra noi e gli altri. La fondamentale discontinuità nella conoscenza umana è fatta di percorsi alternativi e incrociati. Ma lo schematismo binario è così pervicace , anzi direbbe Lévi-Strauss, così mentalmente strutturato, che i confini si spostano, ma la coppia oppositiva permane tanto da usare costantemente il rapporto binario noi/gli altri recuperandolo all’interno della nostra cultura. In sostanza, scrive Goody siamo vittime del “binarismo” etnocentrico che si è cristallizzato nelle nostre categorie cognitive. Le differenze fra cultura orale e cultura scritta sono ben individuate in questo passo di Jach Goody: “… le innumerevoli mutazioni della cultura emergono nel corso ordinario dell’interazione verbale, o vengono adottate dal gruppo interagendo, o vengono eliminate nel processo di trasmissione da una generazione all’altra. Se una mutazione viene adottata , la “firma”… dell’individuo tende a cancellarsi mentre nelle culture scritte il fatto stesso che un’opera durerà nel tempo… spesso contribuisce a stimolare il processo creativo e a incoraggiare il riconoscimento dell’individualità” . Le differenze fra prodotti scritti e orali sono profonde e i diversi processi di trasmissione influenzano i processi di composizione; la trasmissione delle composizioni orali consiste in un’alternanza di momenti creativi individuali e di accettazioni sociali, mentre “il processo di trasmissione implica che essa è soggetta a una composizione continua, a una creazione continua, e quindi, rivela alcune delle caratteristiche che i vecchi esegeti attribuivano al misterioso processo dell’invenzione collettiva(…) e spesso la narrazione è composta durante la recita”, ma un fatto è certo: l’elemento creativo individuale “non è assente”, non c’è “un misterioso autore collettivo” . Nella continua rielaborazione le versioni orali dei narratori contemporanei si legano alle forme delle culture trascorse in un continuum ricco di varianti che si dipana nel tempo di lunga durata; i narratori ricordano e raccontano storie che hanno ascoltato. E’ questa la situazione di imbarazzo metodologico che porta a domandarci: qual è la dimensione temporale nella quale sistemare il materiale raccolto? Il tempo del narratore o il tempo lontano delle vicende cui si allude nel racconto? Il passato o il presente? In questo settore di studi si palesa concretamente la artificiosità delle periodizzazioni storiche e si rivela viceversa la validità del concetto antropologico di cultura che è trasversale. La natura dinamica di questo concetto non consente di utilizzare i tempi e i luoghi indicati nei manuali di storia e di geografia. Specialmente nel territorio dell’Italia centro-meridionale ci si trova a dover far tornare i conti fra i confini politici che non collimano mai (le Terre di San Benedetto con la Terra di lavoro e con le suddivisioni amministrative regionali). I confini segnati dalle mentalità spesso sono indicati dai tratturi o dai percorsi dei pellegrinaggi, trasversalmente ai confini amministrativi, mentre i dialetti si espandono e si restringono secondo isoglosse che sembrerebbero impazzite se non seguissimo le ragioni storiche e politiche del territorio. Di fronte a questi problemi lo strumento antropologico di cultura (che nel passato è stato costretto in griglie di staticità e atemporalità) può ridisegnare i percorsi della diffusione culturale e della creatività; in questa prospettiva di ricerca è possibile anche sbarazzarsi della connotazione statica di identità culturale. Quando l’antropologo inglese Evans Pritchard si accinse a studiare il sistema di credenze degli Azande parlò di “rete di credenze” così fitto e intricato che “ogni filo dipende da un altro filo e un individuo non può uscire da questa ragnatela poiché è l’unico modo che conosce”. Questa è una scoperta scientifica che nessuno ha dimenticato, e che tuttavia si attaglia solo in parte al mondo folklorico visto che in questo caso si sovrappongono “reti di credenze” che sono diverse fra loro. ————— Chiudo questo intervento con la testimonianza che avevo promesso. Da una ricerca svolta a Cervaro in provincia di Frosinone , ai confini con la provincia di Caserta di cui ha fatto parte fino al 1927, è stata raccolta una leggenda conservatasi nella memoria delle persone anziane . Si dice che di notte nella piazza centrale del paese si aggirino le “Signorinelle”. Le Signorinelle sono fate, raccontano le donne quasi scusandosi di crederci, fate dunque che si presentano come donne belle e giovani, donne eleganti con vestiti di velo, ombrellini da sole ed eleganti polacchine colorate; queste fate/streghe si nascondono fra i rami degli alberi e appaiono d’improvviso per rapire le più belle ragazze del paese. Questa credenza è ancora viva ed è utilizzata per fare rientrare presto a casa le ragazze, prima che faccia notte. L’esistenza di queste fate è fatta risalire alla fine dell’Ottocento perché gli anziani ricordano che erano le loro nonne che raccontavano di averle viste, e, del resto, il modo di vestire da loro descritto ci riporta senza dubbio alla “bella epoque”. Non è stato difficile intravedere nelle Signorinelle la figura della adescatrice e della procuratrice di giovani donne da avviare alla prostituzione nelle case chiuse di Caserta e Napoli. La documentazione conservata negli Archivi di Stato di Caserta e di Napoli relativa agli interventi di ordine pubblico in materia di moralità pubblica - che è già stato in parte consultato sembra avallare questa ipotesi. Sulla base delle testimonianze raccolte possiamo affermare che sulla spinta di comuni esperienze e comuni sentimenti di paura conservatisi nell’immaginario collettivo le Signorinelle occupano ancora la piazza alberata del paese, oggi illuminata a giorno, ma evidentemente non ancora del tutto “addomesticata” . Riservandoci di riportare le testimonianze rilasciate in dialetto, ci sembra utile considerare che fra le figure che arricchiscono il tradizionale mondo simbolico del casertano - fatto di ianare, lupi mannari, diavoli e monacielli - questa della “Signorinella” ha il pregio della novità assoluta: figura simbolica, nuova di zecca, coniata dalla fantasia popolare di fine ottocento e rielaborata nei particolari, ma non alterata nel nucleo, essa ha preso definitivamente posto nel pantheon dell’inquietante mondo dell’immaginario collettivo. Molti sono i motivi che ci aiutano a ricostruire le motivazioni profonde e i percorsi storici che hanno spinto alla costruzione della figura ambigua e perversa della Signorinella costruita sulla base delle caratteristiche stregoniche (ambivalenza morfologica e funzionale): l’esigenza di appropriarsi di uno spazio che, anche se nel cuore dell’abitato, continua a sfuggire al controllo umano; l’uso di categorie negative per riempire simbolicamente di orrore ciò che si sottrae all’uso e la cui inquietante vacuità risulta insopportabile se non è in qualche modo rielaborata a livello cognitivo. L’interdizione dello spazio rientra nelle strategie simboliche e rappresenta il contrassegno della volontà umana che rivendica l’addomesticamento dei luoghi da abitare. Luoghi che vengono definiti con valenze di negatività assoluta, dimensione spazio-temporale non-addomesticata, alla maniera delle antiche carte geografiche che indicavano la pericolosità dei luoghi con il cartiglio Hic sunt leones, e che proprio attraverso questo avvertimento rientravano nella mappatura del mondo che non lascia spazi vuoti alla conoscenza , fino al punto di colmare di orrore ciò che non può essere colmato di domesticità. In questo processo mitopoietico gli eventi storici negativi e incontrollabili sono riassorbiti nella sfera dell’immaginario, definiti con gli strumenti simbolici e contrassegnati col marchio della negatività. Come gli spuntoni di roccia che squarciano le morbide colline intorno a Cervaro, il paese delle Signorinelle, impraticabili caverne dove non penetra mai il sole, luoghi di paura che vengono assegnati al dominio del diavolo, dimora infernale nella quale sono nascosti tesori maledetti. Nella ricerca che abbiamo fatto sono state raccolte testimonianze di arricchimenti improvvisi e di conseguenti rovinose disgrazie; la spiegazione è sempre stata la stessa: le ricchezze improvvise sono dovute a patti col diavolo delle colline e perciò giustamente punite. Nella leggenda paesana delle Signorinelle abbiamo individuato, come motivo centrale, il rapimento senza possibilità di riscatto, il rapimento come definitivo destino di ragazze strappate alla comunità. Nella struttura di questa leggenda le fanciulle sono le protagoniste e la coppia oppositiva che innesca la dinamica e lo svolgimento delle vicende è rappresentata dall’ambivalenza femminile: l’ingenuità delle fanciulle rapite e l’invidia delle Signorinelle rapitrici; queste due qualità stereotipate, chiuse nella bellezza femminile, prendono corpo nello scenario arboreo di una piazza di paese, avamposto di tenebre e di pericoli, spazio ambiguo, incistato nel cuore della comunità come luogo sinistro dove si svolge l’epilogo della storia. Una storia raccontata da molte donne anziane , narrata senza fronzoli retorici, tutta tesa intorno all’essenzialità del fatto. Non ci sono eroi che salvano in questa storia: l’elemento maschile è apparentemente assente dal racconto, non appare se non dietro le quinte come beneficiario ultimo del rapimento; è l’elemento negativo, la chiave dell’intera storia che non prevede altre conclusioni. Si tratta di una leggenda concentrata sul motivo centrale del rapimento, per niente abbellita da vicende parallele o incastonate nello svolgimento delle vicende; niente che faccia presagire il pericolo altrove; esso colpisce solo nel luogo incantato e nel tempo notturno. L’azione si concentra in due momenti: la violazione di una prescrizione - non andare di notte in piazza - e la seduzione maligna delle Signorinelle che si conclude con il rapimento senza possibilità di liberazione. Non c’è aggressione, c’è la seduzione dell’offerta di una vita di ricchezze e di libertà dalle regole che la società impone. E c’è lo scenario tipico delle fiabe: il mondo vegetale e oscuro traboccante di forze negative, rischio assoluto, punto di non ritorno tranne che per l’intervento dell’eroe positivo che, in questo caso, non c’è. Note 1 - G. Cocchiara. (1971, 1° ed.1952). Premessa a Storia del Folklore in Europa. Einaudi, Torino 2 - Cfr. T. Seppilli.(1996). Antropologia storica. L’ambiguità di una “nuova frontiera” per gli antropologi e F. Cardini. (1996). Antropologia storica. L’ambiguità di una “nuova frontiera” per gli storici, in AA.VV. Cultura planetaria o pianeta multiculturale. (a cura di S. Giusti) Domograf, Roma. 3 - S. Giusti.(1979). Messianesimo in Toscana nella seconda metà dell’Ottocento. La riforma di David Lazzaretti. Garigliano, Cassino. 4 - S. Briosi. (1992). Il simbolo, il mito e l’antropologia. in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia” vol.XIII, p. 183. 5 - E. de Martino. (1953-’54). Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni. in «Studi e Materiali di Storia delle religioni» XXIV-XXV, pp.1-25; cfr. anche P. Cherchi. (1996). Il peso dell’ombra. Liguori, Napoli e S. Giusti. (2000). Antropologia storica. Ei Editori, Roma. 6 - L. Stone. (1987). Viaggio nella storia. Laterza, Bari, p. 15 (ed. or. The Past and the Present, 1981). 7 - I. Hallowell e F. Maiello. (1992). Storia e antropologia della storia. Ei Editori, Roma. 8 - G. W. Stocking. (2000). Antropologia dell’età vittoriana. Ei Editori, Roma (ed. orig. Victorian Anthropology, 1987). 9 - J.Goody. (1981). L’addomesticamento del pensiero selvaggio. Angeli, Milano (ed.or. The Domestication of the Savage Mind.Cambridge U. P. 1977). 10 - I. Hallowell e F. Maiello, op.cit. pp. 22-26. 11 - J. Goody, op. cit. p. 9. 12 - Ibidem, p.12. 13 - P. Bogatyrev e R. Jakobson. (1929). Die Folklore als eine besondere Form des Schaffens. trad. it. Il folklore come un particolare modo di creazione, 1929; cfr. in G. B. Bronzini. (1980). Cultura popolare. Dialettica e contestualità. Dedalo, Bari, pp.81-94. Jakobson, ha sempre negato che fra storia e struttura ci fosse un’antinomia, e sul rapporto fra elementi costanti e varianti sosteneva: „E’ necessario concepire i mutamenti come struttura, non bisogna parlare di cambiamenti singoli, fra loro disgiunti. Riconosco che è difficile, ma occorre farlo“, cfr. R. Jakobson. (1989). Russia, follia, poesia. (a cura e con Prefazione di T. Todorov, Guida , Napoli, p.44; (ed. or. Russie folie poésie, Ed. du Seuil, 1986). Con Bogatyrev, Jakobson era legato da una amicizia che durò fino alla sua morte, un’amicizia forte al punto da dedicargli il IV volume dei Selected wrigtings (sul folklore), L’aja, Mouton 1979; la collaborazione fra i due studiosi cominciò, come raccontra lo stesso Jakobson nell’intervista a Tzvetan Todorov, quando nel 1914 si incontrarono la prima volta agli sportelli della segreteria universitaria di Mosca per riempie dei moduli, e lì scoprirono di fare quasi „lo stesso lavoro“: a Jakobson interessava la dialettologia, a Bogatyrev il folklore. 14 - J. Goody, op. cit., pp. 36-38. 15 - R. Bedani. (1997). Figure simboliche nell’immaginario collettivo di Cervaro, in „Storia, antropologia e scienze del linguaggio“, a. XII, n.3.