Appropriazione simbolica del territorio

Appropriazione simbolica del territorio
di Sonia Giusti
Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali, Unieversità degli Studi di Cassino,
Via Zamosch, 40, I-03043 Cassino (Fr), Italy, [email protected]
Quando qualche mese fa ci siamo riuniti presso il Centro di Documentazione “Gastone
Venturelli” a Piazza al Serchio (Lucca) abbiamo considerato ancora una volta l’urgenza di raccogliere
le tradizioni popolari che stanno scomparendo. Ricordo che Borghini diceva “quel mondo raccontato
nelle fiabe e nelle leggende è già scomparso, è archeologia”.
Impegnandoci nel compito di non disperdere il patrimonio culturale conservatosi nelle
tradizioni popolari è utile ribadire che stiamo parlando di formazioni storiche e, perciò, si tratta di
analizzarne lo svolgimento, le ragioni delle permanenze e i bisogni delle rielaborazioni .
A questo proposito, per indicare la rappresentazione del mondo conservatasi nelle tradizioni
orali consegnataci attraverso le elaborazioni continue e le varianti apportate, si potrebbe usare
l’espressione cultura altra allo scopo di mettere meglio in evidenza alcuni aspetti della questione di
per se stessi problematici, aspetti fondamentali che sottolineano il nodo del problema.
Nel considerare le tradizioni orali, infatti, appare subito chiaro un paradosso metodologico:
il fatto è che, se pure si tratta di un mondo passato, chi lo racconta è vivo e agisce nel presente.
E poiché non vogliamo parlare di sopravvivenze o frustoli del passato che ancora vagherebbero
conservati nelle sfere di marginalità culturale o nei raccoglitori di curiosità antiche, o magari nelle
confezioni turistiche, o anche nel serbatoio della nobile e rispolverata professione dei conteurs quale
si pratica oggi in Francia ( e che ricorda il fenomeno medievale dei trovatori), poiché, appunto, non
vogliamo parlare di tutto questo, è utile insistere sul fatto che le rappresentazioni collettive trasmesse
oralmente – e in particolare quelle che legano l’immaginario al territorio - sono vive in quanto
rispondono a particolari esigenze cognitive.
Come nel mito, così nelle credenze popolari, la carica di significatività intellettuale ed
esistenziale perdura fino a condensarsi in cristalli simbolici, concentrati di un sapere condiviso, la cui
comprensione è resa possibile dall’analisi sintagmatica tramite la quale accedere sia ai significati
antichi che alle spinte creative che si riversano nella dinamica storica.
Questo vale fino a quando le storie non si raccontano più; solo allora, esse appartengono
esclusivamente al passato e ciò non vuol dire che non siano ancora cultura, anzi cultura altra,
conservatasi nel nostro passato anziché nell’altrove geografico .
La trasmissione del racconto orale è la prova della sua significatività: finché il racconto
popolare di tradizione orale viene trasmesso, con le varianti che ne sono parte consustanziale, e con
le radici che affondando nel passato, esso vive nel presente.
La definizione gramsciana del folklore come concezione della vita e del mondo, ci incalza
verso analisi antropologiche di tipo storicizzante e ci spinge a considerare il folklore nella sua rete di
significati i quali, anche se immersi nel passato, si configurano come cultura poiché in essi riscontriamo
la forma sistematica di un sapere collettivo.
Da questo punto di vista le “osservazioni” gramsciane sul folklore hanno aperto fecondi
campi di discussione anche per quanto riguarda l’ambiguità stessa contenuta nella definizione che
egli ne dette; infatti, se da una parte Gramsci ha rivalutato il folklore come particolare aspetto della
dinamica storica intesa nella sua multidimensionalità, dall’altra lo ha confinato nella marginalità di
un agglomerato di lacerti di cultura borghese discesi nella cultura popolare.
Nel giudizio che Gramsci dette, per esempio, sul millenarismo di David Lazzaretti - il messia
dell’Amiata - figurava l’aggettivo barbarico; evidentemente Gramsci non riuscì a cogliere in quel
fatto di religiosità popolare l’alterità culturale di una visione del mondo propositiva e alternativa
alla visione ufficiale della borghesia, nel senso di una visione del mondo altra, capace di mettere in
luce i limiti della consolidata cultura borghese, e non una espressione di incapacità intellettuale, un
ritardo del pensiero, una debolezza della costruzione concettuale.
Le severe considerazioni di Gramsci verso questa forma apocalittica del pensiero si capiscono
alla luce del suo impegno intellettuale - in questo caso più politico che storico - fortemente segnato
dalla esigenza di combattere le sacche di miseria e i rigurgiti di una mentalità non progressiva che,
indubbiamente, conteneva dispositivi socialmente anestetizzanti, oltre a una indiscussa tensione
rinnovatrice.
Va detto che la simbolicità delle cose non nasce da un “arresto della mente”, da “una
impossibilità a rappresentarle con una descrizione analitica…da un difetto del dispositivo concettuale”;
anche il sapere simbolico – come il sapere analitico - ha lo scopo di organizzare il mondo in modo
“razionale” .
Troppo spesso si dimentica la lezione del Vico il quale riconosceva nella “corpolentissima
fantasia” dei “bestioni” primitivi non un capriccio della mente, ma la forma di conoscenza primaria
con la quale essi erano riusciti a personificare gli universali fantastici; con il riconoscimento di questa
forma di conoscenza, che è la fantasia, è emersa tutta l’importanza del processo mitopoietico che,
dando corpo all’idea del cielo come padre celeste e all’idea della terra come madre che nutre,
personificava idee alle quali si potevano indirizzare preghiere e sacrifici. Non a caso per Vico la
civiltà delle genti nasce dai primi culti religiosi e, in particolare, dal culto dei morti.
La produzione fantastica del pensiero simbolico, l’immaginario che si fa collettivo in funzione
consolatoria ed esplicativa, viene definito nella visione storicistica del folklore, come zona d’ombra
da rischiarare storiograficamente .
Ritornando al paradosso storico implicito nella scienza folklorica, al quale si è accennato
all’inizio, è utile considerare alcune questioni di metodo, prima ancora di
passare ad un caso di appropriazione simbolica del territorio, e lo facciamo cominciando
dall’uso del termine folklore.
Secondo lo storico inglese Laurence Stone fra le scienze sociali l’antropologia ha mostrato
“interesse tanto per il passato quanto per i cambiamenti nel tempo” . In altre parole Stone riconosce
all’antropologia una vocazione storica, al contrario di molti antropologi che non se la riconoscono
affatto.
L’applicazione degli strumenti antropologici all’analisi dei sistemi culturali, tanto che siano
inseriti nel passato che nel presente, comporta che si definisca sia la griglia spazio-temporale nella
quale sistemare la rappresentazione collettiva di una visione del mondo che si vuole capire, sia che si
individuino i relativi documenti da interpretare che saranno testimonianze orali, documenti scritti e
documenti appartenenti alla cultura materiale. Trattandosi di folklore c’è da sottolineare che ci
troviamo di fronte ad una categoria costruita dalla cultura occidentale in seguito ad una serie di
eventi intellettuali e sociali e come tale ideologicamente contrassegnata.
In altre parole il concetto di folklore ci sollecita a ricostruire sinteticamente i passaggi attraverso
i quali questo particolare modo di pensare il mondo si è configurato come oggetto di studio scientifico;
seguendo le indicazioni dell’antropologo americano Irving Hallowell, il quale assume come problema
la storia dell’ antropologia, ci mettiamo sulla buona strada per capire meglio il peso concettuale del
termine folklore nel significato che abbiamo ereditato dagli studi antropologici .
Sono note le ricerche pionieristiche di John Thoms il quale nel 1848, sotto lo pseudonimo di
Ambrose Merton, usò per la prima volta, il termine folklore strappando le antiquitates dal mondo
delle curiosità erudite per farne oggetto di analisi scientifica.
Un rapido cenno al bel libro di George W. Stocking L’antropologia vittoriana ci aiuta a
inquadrare le motivazioni complesse che contribuirono a costruire la nicchia scientifica del folklore
attraverso uno sguardo esteso agli eventi storici che hanno cambiato il modo di pensare: le scoperte
geografiche e le numerose informazioni etnografiche dei viaggiatori del ‘700 e dell’’800.
Superato lo sconcerto da cui furono presi di fronte alle “scandalose” diversità dei
comportamenti umani, gli evoluzionisti seppero utilizzare questa dimensione di alterità - che venne
definita immediatamente come inferiorità - per sistemarci dentro anche i volghi rurali e urbani
“attardatisi” ai margini della civiltà.
Così, anche alcuni popoli europei presero posto nei gradini più bassi della scala evolutiva
unidirezionale, pericolosamente accostati ai “primitivi”, col risultato ambivalente che, se da un lato
i cosiddetti primitivi furono sistemati nella storia, anziché lasciati nella natura, dall’altro i
comportamenti folklorici, propri dei “volghi europei”, furono sistemati negli stessi scalini bassi della
scala considerati sacche di ritardo culturale nella marcia verso la civiltà .
Secondo l’ideologia evoluzionistica gli elementi comuni dei “primitivi” contemporanei con i
primi uomini della nostra civiltà - promiscuità, assenza di scrittura - sembravano indicare nelle culture
primitive il laboratorio nel quale ricostruire l’anello mancante nella linea di evoluzione socio-culturale,
suggerendo anche la presenza di ritmi diversi di incivilimento. Si trattava di costruire una linea di
sviluppo senza vuoti assegnando il posto a ciascuna forma di vita socio-culturale. La negatività con
la quale l’etnologia evoluzionistica dell’800 ha fornito la prima sistemazione del folklore ha pesato
molto sulla storia del pensiero antropologico: si trattava della stessa prospettiva che aveva retto
l’analisi dei “primitivi” e che consisteva nel tentativo di individuare e sistemare in un disegno unitario
i tratti universali più che i particolari storici. L’idea degli evoluzionisti che l’umanità avesse progredito
verso la civiltà, sia pure con ritmi diversi, era “il balsamo intellettuale” che sosteneva il cosiddetto
“fardello dell’uomo bianco” , ovverosia l’impegno morale che gli Europei avevano dovuto accollarsi
per sollecitare la crescita civile del genere umano.
In questo quadro concettuale c’è posto per una ulteriore sistemazione fondamentale di cui
furono artefici gli evoluzionisti: la primitività diventava una qualità negativa riscontrabile in tutte
quelle forme comportamentali “non conformi” all’ideale di civiltà ed era individuata nei contadini,
nei mendicanti, nei folli e nelle donne.
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Questa premessa mi è sembrata utile prima di passare al caso da me scelto come tema del
nostro incontro che ha per titolo Immaginario, territorio, paesaggio; in esso è contenuto il chiaro
intento di storicizzare le nostre ricerche che, non a caso, sono territoriali, oltre che tematiche, e si
propongono per un confronto storicizzante, oltre che come occasione di riflessioni di carattere
generale.
Indubbiamente l’eredità della scienza antropologica ottocentesca è stata condizionante: essa
ci ha consegnato categorie cognitive costruite sull’etnocentrismo e sul binarismo noi / gli altri.
Per uscire dalla gabbia di queste categorie e per frammentare il blocco rigido della
contrapposizione, noi e gli altri, Jach Goody propone di cercare le differenze nel nostro stesso
modo di pensare il mondo. Dice Goody: per non rimanere prigionieri delle categorie che noi stessi
costruiamo, è necessario ripensare alla storia dei nostri studi, e focalizzare il momento in cui il
settore delle antiquitates si configurò come scienza dei fatti folklorici . Anche allora, infatti, scattò
il sistema binario col quale si ordina e si classifica la realtà che rinchiuse il folklore nel pensiero rozzo
e involuto simile al pensiero primitivo. In sostanza gli evoluzionisti, preoccupati di ricostruire le
tappe evolutive della marcia verso la civiltà, inciampando in tratti culturali che non rientravano nella
visione unilineare del progresso, utilizzarono la dimensione primitiva come sacca di contenimento
allargandola fino a comprendere i comportamenti “primitivi” del folklore europeo.
A questa immagine negativa del folklore si aggiunga il fatto che l’antropologia scientifica si
è sviluppata (10) all’interno di una visione del mondo e del tempo radicalmente diverso rispetto alle
civiltà antiche. La concezione lineare del tempo rispetto a quella ciclica scandita sui ritmi delle
stagioni comportava la sistemazione di eventi irreversibili nella linea temporale di sviluppo. Da
questa prospettiva gli evoluzionisti guardavano al primitivo e al folklore come a un ritardo nel
progresso di civilizzazione o ad una degenerazione culturale.
Nel volume di Goody, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, l’autore afferma che le
categorie si radicano nella divisione primaria noi-loro che è binaria ed etnocentrica. Parliamo in
termini di primitività/oralità contrapponendoli a civiltà/scrittura alludendo a strutture mentali
differenti “alla stregua di macchine scaturite da progetti diversi”.
Per molto tempo si è creduto che l’emozione fosse la qualità principale delle culture tradizionali
e la razionalità una conquista delle società complesse.
Il senso della contrapposizione si può rilevare dallo schema seguente che indica le coppie
oppositive costruite dal pensiero evoluzionistico:
Semplice/complesso; primitivo/avanzato; tradizionale/moderno; oralità/scrittura
Lo schema è evoluzionistico e unilineare ed è difficile smantellare la costruzione, ovverosia
l’impalcatura ideologica che regge la nostra visione del mondo; una proposta viene da chi invita a
ripartire dall’idea che fra noi sono riscontrabili molte diversità prima ancora che tra noi e gli altri.
La fondamentale discontinuità nella conoscenza umana è fatta di percorsi alternativi e incrociati.
Ma lo schematismo binario è così pervicace , anzi direbbe Lévi-Strauss, così mentalmente strutturato,
che i confini si spostano, ma la coppia oppositiva permane tanto da usare costantemente il rapporto
binario noi/gli altri recuperandolo all’interno della nostra cultura. In sostanza, scrive Goody siamo
vittime del “binarismo” etnocentrico che si è cristallizzato nelle nostre categorie cognitive.
Le differenze fra cultura orale e cultura scritta sono ben individuate in questo passo di
Jach Goody:
“… le innumerevoli mutazioni della cultura emergono nel corso ordinario dell’interazione
verbale, o vengono adottate dal gruppo interagendo, o vengono eliminate nel processo di trasmissione
da una generazione all’altra. Se una mutazione viene adottata , la “firma”… dell’individuo tende a
cancellarsi mentre nelle culture scritte il fatto stesso che un’opera durerà nel tempo… spesso
contribuisce a stimolare il processo creativo e a incoraggiare il riconoscimento dell’individualità” .
Le differenze fra prodotti scritti e orali sono profonde e i diversi processi di trasmissione
influenzano i processi di composizione; la trasmissione delle composizioni orali consiste in
un’alternanza di momenti creativi individuali e di accettazioni sociali, mentre “il processo di
trasmissione implica che essa è soggetta a una composizione continua, a una creazione continua, e
quindi, rivela alcune delle caratteristiche che i vecchi esegeti attribuivano al misterioso processo
dell’invenzione collettiva(…) e spesso la narrazione è composta durante la recita”, ma un fatto è
certo: l’elemento creativo individuale “non è assente”, non c’è “un misterioso autore collettivo” .
Nella continua rielaborazione le versioni orali dei narratori contemporanei si legano alle
forme delle culture trascorse in un continuum ricco di varianti che si dipana nel tempo di lunga
durata; i narratori ricordano e raccontano storie che hanno ascoltato.
E’ questa la situazione di imbarazzo metodologico che porta a domandarci: qual è la
dimensione temporale nella quale sistemare il materiale raccolto? Il tempo del narratore o il tempo
lontano delle vicende cui si allude nel racconto? Il passato o il presente? In questo settore di studi si
palesa concretamente la artificiosità delle periodizzazioni storiche e si rivela viceversa la validità del
concetto antropologico di cultura che è trasversale. La natura dinamica di questo concetto non
consente di utilizzare i tempi e i luoghi indicati nei manuali di storia e di geografia. Specialmente nel
territorio dell’Italia centro-meridionale ci si trova a dover far tornare i conti fra i confini politici che
non collimano mai (le Terre di San Benedetto con la Terra di lavoro e con le suddivisioni amministrative
regionali). I confini segnati dalle mentalità spesso sono indicati dai tratturi o dai percorsi dei
pellegrinaggi, trasversalmente ai confini amministrativi, mentre i dialetti si espandono e si restringono
secondo isoglosse che sembrerebbero impazzite se non seguissimo le ragioni storiche e politiche del
territorio. Di fronte a questi problemi lo strumento antropologico di cultura (che nel passato è stato
costretto in griglie di staticità e atemporalità) può ridisegnare i percorsi della diffusione culturale e
della creatività; in questa prospettiva di ricerca è possibile anche sbarazzarsi della connotazione
statica di identità culturale.
Quando l’antropologo inglese Evans Pritchard si accinse a studiare il sistema di credenze
degli Azande parlò di “rete di credenze” così fitto e intricato che “ogni filo dipende da un altro filo
e un individuo non può uscire da questa ragnatela poiché è l’unico modo che conosce”. Questa è una
scoperta scientifica che nessuno ha dimenticato, e che tuttavia si attaglia solo in parte al mondo
folklorico visto che in questo caso si sovrappongono “reti di credenze” che sono diverse fra loro.
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Chiudo questo intervento con la testimonianza che avevo promesso. Da una ricerca svolta a
Cervaro in provincia di Frosinone , ai confini con la provincia di Caserta di cui ha fatto parte fino al
1927, è stata raccolta una leggenda conservatasi nella memoria delle persone anziane .
Si dice che di notte nella piazza centrale del paese si aggirino le “Signorinelle”. Le Signorinelle
sono fate, raccontano le donne quasi scusandosi di crederci, fate dunque che si presentano come
donne belle e giovani, donne eleganti con vestiti di velo, ombrellini da sole ed eleganti polacchine
colorate; queste fate/streghe si nascondono fra i rami degli alberi e appaiono d’improvviso per rapire
le più belle ragazze del paese. Questa credenza è ancora viva ed è utilizzata per fare rientrare presto
a casa le ragazze, prima che faccia notte.
L’esistenza di queste fate è fatta risalire alla fine dell’Ottocento perché gli anziani ricordano
che erano le loro nonne che raccontavano di averle viste, e, del resto, il modo di vestire da loro
descritto ci riporta senza dubbio alla “bella epoque”.
Non è stato difficile intravedere nelle Signorinelle la figura della adescatrice e della procuratrice
di giovani donne da avviare alla prostituzione nelle case chiuse di Caserta e Napoli.
La documentazione conservata negli Archivi di Stato di Caserta e di Napoli relativa agli
interventi di ordine pubblico in materia di moralità pubblica - che è già stato in parte consultato sembra avallare questa ipotesi.
Sulla base delle testimonianze raccolte possiamo affermare che sulla spinta di comuni
esperienze e comuni sentimenti di paura conservatisi nell’immaginario collettivo le Signorinelle
occupano ancora la piazza alberata del paese, oggi illuminata a giorno, ma evidentemente non ancora
del tutto “addomesticata” .
Riservandoci di riportare le testimonianze rilasciate in dialetto, ci sembra utile considerare
che fra le figure che arricchiscono il tradizionale mondo simbolico del casertano - fatto di ianare,
lupi mannari, diavoli e monacielli - questa della “Signorinella” ha il pregio della novità assoluta:
figura simbolica, nuova di zecca, coniata dalla fantasia popolare di fine ottocento e rielaborata nei
particolari, ma non alterata nel nucleo, essa ha preso definitivamente posto nel pantheon
dell’inquietante mondo dell’immaginario collettivo.
Molti sono i motivi che ci aiutano a ricostruire le motivazioni profonde e i percorsi storici
che hanno spinto alla costruzione della figura ambigua e perversa della Signorinella costruita sulla
base delle caratteristiche stregoniche (ambivalenza morfologica e funzionale):
l’esigenza di appropriarsi di uno spazio che, anche se nel cuore dell’abitato, continua a sfuggire
al controllo umano;
l’uso di categorie negative per riempire simbolicamente di orrore ciò che si sottrae all’uso e
la cui inquietante vacuità risulta insopportabile se non è in qualche modo rielaborata a livello cognitivo.
L’interdizione dello spazio rientra nelle strategie simboliche e rappresenta il contrassegno
della volontà umana che rivendica l’addomesticamento dei luoghi da abitare. Luoghi che vengono
definiti con valenze di negatività assoluta, dimensione spazio-temporale non-addomesticata, alla
maniera delle antiche carte geografiche che indicavano la pericolosità dei luoghi con il cartiglio Hic
sunt leones, e che proprio attraverso questo avvertimento rientravano nella mappatura del mondo
che non lascia spazi vuoti alla conoscenza , fino al punto di colmare di orrore ciò che non può essere
colmato di domesticità. In questo processo mitopoietico gli eventi storici negativi e incontrollabili
sono riassorbiti nella sfera dell’immaginario, definiti con gli strumenti simbolici e contrassegnati col
marchio della negatività.
Come gli spuntoni di roccia che squarciano le morbide colline intorno a Cervaro, il paese
delle Signorinelle, impraticabili caverne dove non penetra mai il sole, luoghi di paura che vengono
assegnati al dominio del diavolo, dimora infernale nella quale sono nascosti tesori maledetti. Nella
ricerca che abbiamo fatto sono state raccolte testimonianze di arricchimenti improvvisi e di conseguenti
rovinose disgrazie; la spiegazione è sempre stata la stessa: le ricchezze improvvise sono dovute a
patti col diavolo delle colline e perciò giustamente punite.
Nella leggenda paesana delle Signorinelle abbiamo individuato, come motivo centrale, il
rapimento senza possibilità di riscatto, il rapimento come definitivo destino di ragazze strappate alla
comunità.
Nella struttura di questa leggenda le fanciulle sono le protagoniste e la coppia oppositiva che
innesca la dinamica e lo svolgimento delle vicende è rappresentata dall’ambivalenza femminile:
l’ingenuità delle fanciulle rapite e l’invidia delle Signorinelle rapitrici; queste due qualità stereotipate,
chiuse nella bellezza femminile, prendono corpo nello scenario arboreo di una piazza di paese,
avamposto di tenebre e di pericoli, spazio ambiguo, incistato nel cuore della comunità come luogo
sinistro dove si svolge l’epilogo della storia. Una storia raccontata da molte donne anziane , narrata
senza fronzoli retorici, tutta tesa intorno all’essenzialità del fatto. Non ci sono eroi che salvano in
questa storia: l’elemento maschile è apparentemente assente dal racconto, non appare se non dietro
le quinte come beneficiario ultimo del rapimento; è l’elemento negativo, la chiave dell’intera storia
che non prevede altre conclusioni.
Si tratta di una leggenda concentrata sul motivo centrale del rapimento, per niente abbellita
da vicende parallele o incastonate nello svolgimento delle vicende; niente che faccia presagire il
pericolo altrove; esso colpisce solo nel luogo incantato e nel tempo notturno.
L’azione si concentra in due momenti: la violazione di una prescrizione - non andare di notte
in piazza - e la seduzione maligna delle Signorinelle che si conclude con il rapimento senza possibilità
di liberazione. Non c’è aggressione, c’è la seduzione dell’offerta di una vita di ricchezze e di libertà
dalle regole che la società impone. E c’è lo scenario tipico delle fiabe: il mondo vegetale e oscuro
traboccante di forze negative, rischio assoluto, punto di non ritorno tranne che per l’intervento
dell’eroe positivo che, in questo caso, non c’è.
Note
1 - G. Cocchiara. (1971, 1° ed.1952). Premessa a Storia del Folklore in Europa. Einaudi, Torino
2 - Cfr. T. Seppilli.(1996). Antropologia storica. L’ambiguità di una “nuova frontiera” per gli antropologi e F.
Cardini. (1996). Antropologia storica. L’ambiguità di una “nuova frontiera” per gli storici, in AA.VV. Cultura
planetaria o pianeta multiculturale. (a cura di S. Giusti) Domograf, Roma.
3 - S. Giusti.(1979). Messianesimo in Toscana nella seconda metà dell’Ottocento. La riforma di David Lazzaretti.
Garigliano, Cassino.
4 - S. Briosi. (1992). Il simbolo, il mito e l’antropologia. in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia” vol.XIII, p.
183.
5 - E. de Martino. (1953-’54). Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni. in «Studi e Materiali di Storia
delle religioni» XXIV-XXV, pp.1-25; cfr. anche P. Cherchi. (1996). Il peso dell’ombra. Liguori, Napoli e S. Giusti.
(2000). Antropologia storica. Ei Editori, Roma.
6 - L. Stone. (1987). Viaggio nella storia. Laterza, Bari, p. 15 (ed. or. The Past and the Present, 1981).
7 - I. Hallowell e F. Maiello. (1992). Storia e antropologia della storia. Ei Editori, Roma.
8 - G. W. Stocking. (2000). Antropologia dell’età vittoriana. Ei Editori, Roma (ed. orig. Victorian Anthropology,
1987).
9 - J.Goody. (1981). L’addomesticamento del pensiero selvaggio. Angeli, Milano (ed.or. The Domestication of the
Savage Mind.Cambridge U. P. 1977).
10 - I. Hallowell e F. Maiello, op.cit. pp. 22-26.
11 - J. Goody, op. cit. p. 9.
12 - Ibidem, p.12.
13 - P. Bogatyrev e R. Jakobson. (1929). Die Folklore als eine besondere Form des Schaffens. trad. it. Il folklore come
un particolare modo di creazione, 1929; cfr. in G. B. Bronzini. (1980). Cultura popolare. Dialettica e contestualità.
Dedalo, Bari, pp.81-94. Jakobson, ha sempre negato che fra storia e struttura ci fosse un’antinomia, e sul rapporto fra
elementi costanti e varianti sosteneva: „E’ necessario concepire i mutamenti come struttura, non bisogna parlare di
cambiamenti singoli, fra loro disgiunti. Riconosco che è difficile, ma occorre farlo“, cfr. R. Jakobson. (1989). Russia,
follia, poesia. (a cura e con Prefazione di T. Todorov, Guida , Napoli, p.44; (ed. or. Russie folie poésie, Ed. du Seuil,
1986). Con Bogatyrev, Jakobson era legato da una amicizia che durò fino alla sua morte, un’amicizia forte al punto da
dedicargli il IV volume dei Selected wrigtings (sul folklore), L’aja, Mouton 1979; la collaborazione fra i due studiosi
cominciò, come raccontra lo stesso Jakobson nell’intervista a Tzvetan Todorov, quando nel 1914 si incontrarono la
prima volta agli sportelli della segreteria universitaria di Mosca per riempie dei moduli, e lì scoprirono di fare quasi
„lo stesso lavoro“: a Jakobson interessava la dialettologia, a Bogatyrev il folklore.
14 - J. Goody, op. cit., pp. 36-38.
15 - R. Bedani. (1997). Figure simboliche nell’immaginario collettivo di Cervaro, in „Storia, antropologia e
scienze del linguaggio“, a. XII, n.3.