“To play or to die ” per una
cultura senza clown
Il palcoscenico del Teatro San Giorgio di Udine è stato
“occupato” pacificamente oggi a mezzogiorno, dagli attori
della compagnia Babel di Palermo per la conferenza stampa di
presentazione di “To Play or to die this is the question…
today”, la nuova Eurovisione per la stagione di Teatro
Contatto.
Un momento, quello dell’incontro con gli attori Giuseppe
Provinzano (attore regista e produttore della piéce) e Chiara
Muscato, con Alberto Bevilacqua (presidente del Css Teatro
stabile di innovazione del Fvg), Claudio de Maglio (direttore
dell’Accademia d’arte drammatica Nico Pepe) e il sindaco di
Udine Honsell sia per presentare lo spettacolo in anteprima
nazionale che per parlare e riflettere del vero argomento: il
teatro come casa della manifestazione della cultura nei suoi
tanti aspetti. Perchè la cultura, nonostante i tagli economici
che si sono operati dall’alto a cominciare dal 2008 continua a
rinascere e vivere attraverso la voglia e l’entusiasmo di
giovani appassionati che vengono sostenuti da organizzazioni
quali appunto il Css nella voglia e desiderio di affermare il
“nuovo”. Rinnovamento e sostegno sono dunque le parole
d’ordine per far sì che un attore possa essere accompagnato
nella crescita senza l’imposizione delle aspettative che
verrebbero da prodotti di largo consumo.
Ed è proprio da questo contesto che si è potuto sviluppare lo
spettacolo visto ieri sera: una chiave di lettura
contemporanea per rivedere l’Amleto, un modo per raccontare le
difficoltà di chi fa cultura e teatro. Sono proprio i due
attori che si chiedono, all’inizio dello spettacolo se ce la
possono fare, anche se solo in due a portare avanti la
rappresentazione, perchè le esperienze di vita degli attori
sono esse stesse storia.
Polonio diventa quindi la controfigura di un mai nominato
Cavaliere, che mente sapendo di mentire per raccogliere il
consenso delle masse. Gertrude la regina ha invece capito che
le donne hanno una grossa arma nel proprio corpo e nel
fingere. Il saggio Orazio sembra l’unico “normale”, tant’è che
è costretto a scendere dal palco e a rifugiarsi nel ruolo
dello spettatore. I temi trattati sono svariati: una lunga
carrellata di denunce tenute assieme agevolmente con la scusa
di Amleto. Il finale è così attuale che i due sopravvissuti
indossano il naso del clown e fanno il verso a freschi giudizi
politici pervenuti dall’estero che testimoniano, nonostante la
“legittima”difesa del Presidente Napolitano, la deriva di una
politica che fra vecchio e nuovo non riesce a trovare una via
d’uscita.
Grazie al cielo la politica “locale” sembra invece avere le
idee più chiare: secondo Honsell la cultura deve stare nelle
mani degli uomini di cultura senza che ci siano
strumentalizzazioni politiche. Il teatro deve essere
considerato dagli spettatori non solo come posto in cui
rilassarsi, ma come “casa” da arricchire con la propria
presenza e partecipazione. Quindi stasera è d’obbligo esserci:
si replica alle 21 sempre al Teatro San Giorgio.
Maria Teresa Ruotolo
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Gorizia regala la standing
ovation al New York City
Ballet
Pubblico in piedi e applausi
interminabili per i ballerini della
leggendaria compagnia americana
Quando mi capita di dover attendere (magari un amico in
ritardo) prima di accedere ad una platea di teatro , osservo
gli altri spettatori e mi faccio un’idea sul target che quel
determinato spettacolo ha richiamato. E prima di ammirare i
Principals del NYCB ,mi chiedo “E’ tutta
bellissima e
magrissima la gente che aspetta di poter appaludire uno
spettacolo di danza?”…scherzi a parte, ieri gran serata per i
fruitori e non di danza classica, al Verdi di Gorizia che è
riuscito a portare in Regione la prestigiosissima Compagnia
americana. Finalmente una VERA Compagnia di danza con
ballerini tutti espertissimi di tecnica e virtuosismo ma,
soprattutto, di palcoscenico. Come si vede che alle spalle
hanno una solidissima struttura che vanta 62 anni di
vita...Nel Verdi tutto esaurito, il sipario si è aperto
puntualissimo sulle note dell’Apollon Musagete di
in cui
riconoscere le sculture di corpi che tanto hanno
caratterizzato i lavori del grandissimo Balanchine, il
ballerino e coreografo russo che firmò il manifesto del nuovo
classicismo, proprio con questo lavoro. I quattro interpreti
hanno brillato di soffusa luce solare ma, a onor del vero, le
ballerine
mi
sono
piaciute
decisamente
di
più…nonostante Gonzalo Garcia fosse molto atteso ; anche
perchè, nel comunicato stampa, veniva presentato come “Il
miglior Apollo del mondo”. Non direi. Indimenticabile Nureyev
e altri, piuttosto…Le tre Muse e soprattutto Ashley Boudernel
ruolo di Tersicore hanno convinto e incantato un pubblico che
è riuscito a trattenere l’applauso, per non spezzare
l’incanto, solo fino al pas de deux di Apollo e Tersicore…da
quello in poi, accoglienze generose fino alla fine dei tre
atti con chiamate continue anche a sipario ormai chiuso. Ma
torniamo al programma: Diamonds (tratto da “Jewels“) apriva il
secondo atto e qui , una longilinea Teresa Reichlen mi
è
sembrata un po’ incerta ma solo nell’espressione del viso
perchè è stata puntualissima nell’esecuzione; belle linee
soprattutto negli arabesque e nelle prese che il
partner, Tyler Angle, ha esguito con estrema sicurezza anche
perchè nel 2009 fece già parte del I cast dello Spring Tour
al Kennedy Center.
La partitura musicale scelta per Diamonds è Simfonia No. 3 in
D major, Op. 29 di Tchaikovsky, precisamente la “polonaise” ed
è impossibile, per gli “addetti ai lavori” non accorgersi
dell’omaggio di Balanchine al classicismo regale di Petipa,
soffuso di citazioni delle atmosfere del Lago dei Cigni. A
seguire, l’Andantino
sempre dello stesso autore ma con
coreografie di Jerome Robbins : Megan Fairchild , già vista
nella parte di Polimnia nell’Apollon, dalle linee più brevi e
veloci ha danzato con
grande sicurezza assieme ad Andrew
Veyette, bravo
e preciso che si ammirerà, più tardi
nell’assolo di Who Cares?. Ad alleggerire l’atmosfera
creata dai brani precedenti, finalmente il brillante lavoro
di Philip Sousa che Balanchine usò per omaggiare gli Stati
Uniti che lo avevano accolto tanti anni prima, dalla Russia
natìa. Ottime performances dei due interpreti: l’indiano
slanciato e bellissimo Amar Ramasar, e la simpatica,
coinvolgente e tecnicamente perfetta Ashley Bouder. Un
discorso a parte merita Mercurial Manoeuvres dove ritroviamo
la coppia
Reichlen/Angle: l’efebica ballerina qui è stata
impeccabile , supportata dal puntualissimo partner nelle prese
che hanno brillato per difficoltà, velocità mercuriale,
appunto e per la partitura
non certo
semplice
di Shostakovich( Piano Concerto n1, po.35) che Christopher
Wheeldon
ha creato nel 2000 per il NYCB: accenti
di
pianoforte che gli interpreti hanno sottolineato con
un’accuratezza talmente sincrona da risultare… naturale; ma
chi danza o ha danzato sulle punte sa quanto poco basti, con
una musica veloce ,per sbagliare e vanificare, così, il
“discorso” voluto dall’autore. La Reichle ha braccia
particolari: non brutte certo ma sembrano molto più adatte ad
eseguire gli appoggi e gli intrecci con il partner in un passo
a due, che non a coronare l’espressività estetica necessaria
nel balletto classico. Vero è che Balanchine è considerato il
coreografo che ha spogliato il balletto classico da lussi e
orpelli, che ha messo i ballerini in calzamaglia e teorizzato
la danza astratta. Ma in una delle ultime interviste
confessò «Non era questo il mio fine, ho abolito i costumi
tradizionali per mancanza di soldi, se avessi potuto avrei
agito in modo diverso» . A riprova di quanto sostengo della
Reichler, nell’ultimo Who Cares?, dopo la serie travolgente
di passi a due e “soli” che fanno applaudire a scena aperta
per la bravura di tutti i ballerini coinvolti nel finale (5
uomini e 4 donne), la bionda interprete rischia spesso
imprecisioni nell’unisono con le altre tre. Questo appare a
maggior ragione solo per l’altissima qualità del gruppo, anche
nell’insieme, ma sempre di ottima interprete si tratta,
penalizzata, forse, solo da leve più lunghe delle sue
compagne. Ho tenuto per ultimo ma non lo era in scaletta,
l’unica esecuzione di repertorio Romantico : il pas de deux,
variazioni e coda daIl Corsaro di Adam, coreografie di Jules
Perrot.
Direzioni in coppia perfette, prese impeccabili,
musicalità, virtuosismo elegantissimo..Bravissimi. E poi
arrivano le variazioni (i due interpreti ballano uno alla
volta eseguendo, solitamente, passi tecnicamente molto
difficili), come da tradizione, prima lui, Joaquin De Luz,
piccolo ma dal corpo guizzante e perfettamente a proprio agio
nella coreografia. Una elevazione consistente e leggerissima
(come la Compagnia in toto: mai sentito, per tutta la serata,
il minimo suono nell’atterraggio al suolo dagli innumerevoli
salti). E’ la volta di Ana Sophia Scheller (già Calliope
nell’Apollon)… perfetta: energica eppure leggiadra, capace di
velocità di combinazioni di punte e giri che mai hanno tolto
eleganza e bellezza…mai una sbavatura nè nelle difficoltà
tecniche e neppure nelle linee delle braccia. La “coda” (il
finale del passo a due, dove entrambi i ballerini eseguono i
virtuosismi più spettacolari e difficoltosi) è stata una
escalation di dimostrazione che sì, i Principals del NYCB sono
degni di portare nel mondo la Danza più esemplare. Pubblico
entusiasta ed io onorata di aver potuto godere di talenti
così .
CYNTHIA GANGI
“La fabbrica dei preti” fa il
pieno a Udine
Un viaggio nei seminari italiani. E’ “ la fabbrica dei preti”,
il nuovo lavoro di Giuliana Musso che ieri sera ha fatto tappa
al Palamostre di Udine che ha registrato il tutto esaurito
nell’ambito della stagione Akropolis del Teatro Club.
Ispirato al libro di don Bellina “La fabriche dai predis”, la
Musso prende in esame un periodo particolare, gli anni
Cinquanta e Sessanta e un anno, il 1965 fa da perno al
racconto: è l’anno del Concilio Vaticano II.
I ragazzi,
futuri preti formati prima di quell’anno si trovano svolgere
il loro ministero nel dopo Concilio, in un momento storico
ricco di contraddizioni ma anche di speranze. L’attrice
conduce gli spettatori in un mondo a parte, quello dei
seminari, un mondo maschile quasi da caserma dove ai bambini
che arrivano a undici anni si impone di lasciare la vita di
prima, gli affetti per concentrarsi solo ed esclusivamente
sulla devozione, la preghiera, il pentimento, la paura. Non
più persona ma numero, prodotto di una fabbrica, in questo
caso quella dei preti.
Sono tre le storie messe in scena, tre storie emblematiche e
rappresentative di una società e di un’intera epoca. La prima
racconta la storia di un prete che lascia le vesti non tanto
perchè si innamora di una donna ma perchè non si riconosce in
una Chiesa che nega l’umanità nel mondo, che lo considera “un
errore vivente” che lo lascia solo, vuoto e che gli toglie
ogni possibilità di esser uomo perchè nonostante lo studio di
anni non ha nemmeno un diploma. Perchè un sacerdote lo è in
eterno. Nonostante tutto. La seconda è la storia di un
sacerdote che è riuscito a trovare la sua strada, lui che
arrivava dalla dolcezza di una famiglia di quattro donne e
che è stato catapultato in un mondo di ghiaccio dove le donne
non esistevano se non attraverso l’immagine alterata degli
insegnanti e degli insegnamenti. Ecco che la donna era
rappresentata come un animale mitologico, un nemico con il
quale non fraternizzare, “una manza” con parti buone e meno
buone. L’ultima storia parla di un prete emiliano depresso e
pauroso perchè è anche un uomo depresso e pauroso che riuscirà
a ritrovarsi solo andando a lavorare in fabbrica facendosi
portavoce della lotta di classe.
Il passaggio da una storia e l’altra è facilitato da immagini
dell’epoca originali che vengono proiettate sugli schermi
bianchi che occupano la scena. L’attrice, legge con voce
apparentemente distaccata brani presi dal regolamento dei
seminari prima di calarsi nei personaggi a cui dare voce, lei
scompare per riapparire nei panni dello spretato friulano, del
prete veneto e infine in quello emiliano.
Non vengono imposti giudizi preconfezionati, vengono suggeriti
spunti di riflessione, una chiave di lettura per entrare in un
mondo di cui si conosce solo la facciata, dove la figura
“pubblica” del prete ha il sopravvento sull’uomo con tutte le
sue contraddizioni e insicurezze.
Riflessione ancor più doverosa oggi quando il papa Benedetto
XVI lascerà il pontificato, lui che ha affermato di non
essersi mai sentito solo, che vede la Chiesa viva e che
rimarrà nel “recinto di San Pietro, non abbandonando la croce,
ma rimanendo in modo nuovo presso il Signore Crocifisso”.
Maria Teresa Ruotolo
NOVARA:
HOMO
SAPIENS
La
grande storia della diversità
umana
La prima mostra al mondo che racconta la
storia dell’umanità attraverso un grande
affresco multidisciplinare
La grande storia della diversità umana a cura di Luigi Luca
Cavalli Sforza e Telmo Pievani 8 mar – 30 giu 2013
Complesso Monumentale del Broletto,
Novara
Homo sapiens. La grande storia della diversità umana è una
mostra internazionale, interamente concepita in Italia,
dedicata all’ambizioso progetto di ricerca interdisciplinare
fondato, fra gli altri, dal genetista italiano, ora professore
emerito alla Stanford University, Luigi Luca Cavalli Sforza,
che per decenni ha sondato i recessi più nascosti della storia
profonda della diversità umana, unendo molecole, fossili,
culture e lingue in una cornice globale coerente di prove.
Oggi per la prima volta un gruppo internazionale di scienziati
ha cominciato a collegare i percorsi di un’antica storia che
ha condotto la nostra specie a uscire meno di 200 mila anni fa
da una piccola valle africana per colonizzare regione dopo
regione l’intero pianeta e a diffondersi formando una grande
varietà di popolazioni e di culture diverse. Questa Mostra,
curata da Luigi Luca Cavalli Sforza stesso e da Telmo Pievani,
filosofo della scienza ed esperto di evoluzione, racconta da
dove veniamo e come siamo riusciti, di espansione in
espansione, a popolare l’intero pianeta, costruendo il
caleidoscopico mosaico della diversità umana attuale. Le
ricerche alla base della Mostra fanno di essa una sfida
inedita e innovatrice nel campo della comunicazione della
scienza: per la prima volta, infatti, ricercatori di tutto il
mondo, appartenenti a discipline molto diverse – come la
genetica,
la
linguistica,
l’antropologia,
la
paleoantropologia, la climatologia – hanno istituito un
progetto di cooperazione sistematica per ricostruire le
origini e i percorsi del popolamento umano, per scrivere
l’atlante del grande viaggio umano sulla Terra. Un approccio
multidisciplinare e internazionale che si riflette sia nei
contenuti della Mostra sia nella composizione del Comitato
Scientifico e che offre per la prima volta al pubblico una
visione d’insieme aggiornata delle ricerche sul campo e dei
risultati raggiunti.
dal Nostro Corrispondente di NOVARA
Accanto alle mimose anche le
fiamme: Scintille al Teatro
Pasolini di Cervignano.
Scintille. Piccoli frammenti di materia umana incandescente
illuminano fiammeggiando il cielo di New York City in una
qualunque giornata della primavera del 1911 nei pressi di
Washington Square: particelle ardenti che s’irraggiano
dall’alto degli ultimi piani dell’enorme palazzo della factory
della Shirtwaist Company, come stelle cadenti che lumeggiano
in pieno giorno. Scintille. Piccoli frammenti di vita che si
spengono nel silenzio di un qualunque pomeriggio di lavoro, in
cui nessuna di queste minime schegge d’esistenza, operose
ruote dentate votate soltanto alla macchina salariale, ha
deciso di rinunciare alla propria paga giornaliera per
scioperare in nome dei propri diritti e in nome della
giustizia. Scintille è uno scorcio scenico, un incendio fatto
di piccole fiammelle che irradiano una luce su una tragedia
consumatasi oltreoceano alle 16.40, il 25 marzo di quell’anno,
quando alla fabbrica di camicie 146 operaie giovanissime
persero la vita per le negligenze di chi non assicurava loro
condizioni di sicurezza sul luogo di lavoro: un rogo che, come
una gabbia fatta di sbarre di fiamma, forse scaturito dalle
lampade a gas poste su ogni fila delle macchine delle
cucitrici, le attanagliò imprigionandole come topi in
trappola, facendo prendere fuoco ai tessuti ammucchiati in
enormi cumuli negli stanzoni e impedendo loro di raggiungere
le uscite sbarrate dai proprietari, nel timore potessero
uscire prima dell’orario stabilito.Le donne perirono in parte
nel tentativo di raggiungere il tetto sulle scale logorate
dalle fiamme che non furono in grado di reggerne il peso, e in
parte lanciandosi dalle finestre, cercando disperatamente di
trovare la salvezza.
A pochi giorni dalla Festa della Donna il Teatro Pasolini di
Cervignano ha scelto di portare in scena uno spettacolo che
racconta drammaticamente un evento che la celebrazione dell’8
marzo porta con sé ma che, spesso,tradisce, limitandosi ad una
tradizione che non svela gli ostacoli che la sua affermazione
ha dovuto affrontare, basti pensare soltanto al fatto che ci
sono voluti più di cento anni per avere l’elenco ufficiale
delle vittime di quel tragico evento: nomi, cognomi e
nazionalità. Laura Curino, con un intenso e accorato monologo
che esonda correnti piene di passione che scorrono poderose in
ogni singola battuta, rievoca i momenti della giornata in cui
scoppiò l’incendio attraverso l’esperienza di una lavoratrice
dell’opificio, madre di due figlie operaie che, come lei,
erano emigrate in America per avere un’occupazione e mantenere
il capofamiglia a casa, senza lavoro, rincorrendo il sogno
dell’overseas. Una cronistoria che si carica nel corso dello
spettacolo della maestria affabulatoria dell’unica
protagonista della scena che, grazie alla scelta dell’autrice
Laura Scigliano, svela le speranze e le delusioni di un
quotidiano faticoso, pieno di difficoltà e rinunce, ma
squarciato ogni tanto dalla freschezza e dalle gioie di una
gioventù femminile che non osa sognare, perché soggiogata dal
peso di una vita completamente dedita alla produzione
industriale.
La tragicità dell’evento viene così svincolata dal processo di
musealizzazione che ha trasformato l’8 marzo in un vuoto
contenitore in cui includere indistintamente ogni lotta e
conquista del mondo in rosa, senza restituirne le coordinate
essenziali.Lo spettacolo lascia lo spettatore incapace anche
solo d’applaudire: la forza patetica e drammatica delle parole
della Curino sono come un devastante pugno allo stomaco che
lascia un’amarezza colma di consapevolezza tra le lacrime che,
nelle scene finali, infiammano come scintille gli occhi
dell’intera platea.Una vera e propria crocifissione laica e
commovente ci conduce inevitabilmente al pianto: delle camicie
bianche, appese alle strutture metalliche, evocano le macchine
da cucire della factory con le quali l’attrice durante
l’intera narrazione sembra volere creare un rapporto quasi
umano nella desolazione della vita, e diventano emblema
funereo di quelle vite anonime,spezzate ingiustamente, ma
resuscitate nel ricordo, fra le ombre che gli indumenti
proiettano sul fondale che pare sospirare mestamente le stesse
parole che la voce narrante della mamma, che ha perso le
figlie quel tremendo 25 marzo 1911, pronuncia infine: ”non
dimenticatevi di Rosa e di Lucia”. La memoria forse ci aiuterà
a meditare anche sulla logica produttiva di un oggi in cui
compriamo inconsapevolmente senza chiederci che cosa si celi
davvero dietro quegli oggetti di cui amiamo riempirci.
Dietro l’8 marzo, oltre alle mimose, ci sono anche le fiamme.
Quelle scintille.
Ingrid Leschiutta
[email protected]
© Riproduzione riservata
“Macbeth” nell’allestimento
scenografico di Josef Svoboda
con la regia di Henning
Brockhaus
Dopo il grande successo de “Il Corsaro”, che ha inaugurato la
Stagione 2013, “Macbeth” di Verdi, con la ricostruzione delle
scene di Josef Svoboda e la regia di Henning Brockhaus, è il
secondo titolo che la Fondazione Teatro Lirico “Giuseppe
Verdi” di Trieste dedica al grande compositore nell’anno delle
celebrazioni verdiane.
Lo spettacolo sarà in scena da venerdì 8 marzo a sabato 16
marzo con la direzione di Giampaolo Maria Bisanti.
L’allestimento scenografico originale di Svoboda è ricostruito
da Benito Leonori, i costumi sono di Nanà Cecchi, i movimenti
coreografici di Maria Cristina Madau. Nella compagnia di canto
figurano i nomi di Dimitra Theodossiou, Fabián Veloz, Armando
Kllogjeri, Paolo Battaglia.
Orchestra e Coro del Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di
Trieste.
Al Teatro Verdi di Trieste prosegue l’omaggio a Verdi con la
messa in scena di Macbeth nell’allestimento ideato dal grande
scenografo ceco Josef Svoboda, in occasione del decimo
anniversario dalla sua scomparsa , e realizzato in
coproduzione tra Fondazione lirica triestina, la Fondazione
Pergolesi Spontini di Jesi e il Carlo Felice di Genova.
L’allestimento storico ricostruito da Benito Leonori nei
Laboratori di Jesi viene presentato con la regia di Henning
Brockhaus nel massimo rispetto del genio svobodiano e della
sua originalissima interpretazione dello spazio scenico e
della luce in costante magico rapporto con la drammaturgia
musicale.
Sul podio dell’Orchestra del Teatro Verdi di Trieste il
direttore milanese Giampaolo Maria Bisanti, uno dei migliori
direttori d’orchestra della sua generazione che vanta un vasto
repertorio , dall’opera ai grandi capolavori della sinfonica.
I ruoli principali della compagnia di canto sono interpretati
da Fabián Veloz (Macbeth) al suo debutto in Italia, Dimitra
Theodossiou (Lady Macbeth), Paolo Battaglia (Banco) e Armaldo
Kllogjeri (Macduff). Completano il cast Giacomo Patti
(Malcolm), Sharon Pierfederici (Dama di Lady Macbeth), Dario
Giorgielè (Medico/Prima apparizione) Stefano Consolini (
Domestico di Macbeth), Francesco Musinu (Sicario) Giuliano
Pelizon e Hektor Leka ( Araldo). Nella compagine artistica
anche il Coro del Teatro Verdi istruito dal M° Paolo Vero, i
solisti del Coro dei Piccoli Cantori della Citttà di Trieste e
la Civica Orchestra di Fiati della Città di Trieste. I ruoli
principali dell’opera nella recita del 9 marzo saranno
interpretati da Angelo Veccia e Tiziana Caruso .
Macbeth , inizialmente non conseguì il successo sperato, ebbe
una genesi complessa che approdò a due versioni: quella
originaria che debuttò a Firenze, al Teatro La Pergola nel
1847 e quella definitiva di Parigi rappresentata al Théàtre
Lyrique il 21 aprile 1865, frutto della revisione operata dal
Maestro cioè dopo il 1860, dopo gli anni giovanili a cui
appartiene la stesura, e dopo gli “Anni di galera”.
Si deve alla Verdi-Renaissance, operata dall’area culturale
anglo-tedesca negli anni Venti del Novecento, il riscatto del
valore drammaturgico del grande compositore italiano con il
recupero di titoli dimenticati. Fra questi Macbeth, che venne
rappresentato a Vienna, a Dresda, a Berlino, a Zurigo, a
Glyndebourne e al
Festival di Salisburgo. In Italia invece la rinascita verdiana
fu più tarda e il riscatto di Macbeth coincise con l’edizione
diretta dal M° Vittorio Gui (1951) al Maggio Musicale
Fiorentino e poi entrò definitivamente in repertorio con
l’edizione prodotta dal Teatro alla Scala di Milano del 1952,
diretta da Victor de Sabata con Maria Callas nel ruolo di Lady
Macbeth: un trionfo.
Macbeth segna una svolta nel teatro musicale della prima metà
dell’Ottocento verso il nuovo ‘dramma musicale’ di cui è il
primo originale tentativo. “Brevità e solennità” raccomandò
Verdi al librettista Piave, inviandogli gli appunti della
sceneggiatura, perché in Macbeth non c’è tempo per rallentare
il ritmo. Siamo in pieno dramma di una tipica coppia criminale
con tutte le sue implicazioni psicanalitiche, le regressioni,
i complessi di colpa; è il dramma di due solitudini che non si
incontrano. La solitudine di Lady Macbeth affonda nel vuoto
della follia; quella di Macbeth
autodistruzione progressiva.
nel
vuoto
di
una
Dramma della coscienza e della psicologia del potere, non
dramma d’amore, nell’opera c’è anche lo spazio per la
dimensione corale, con la partecipazione del popolo: il famoso
canto “Patria oppressa” all’inizio del quarto atto, è la
grande scena corale sul tema della libertà degli “oppressi” ,
simbolo del Risorgimento come il “Va pensiero” e “Oh Signore
dal tetto natio” dei “Lombardi alla prima crociata”. In
seguito, questi canti assunsero il senso più generale
di“sofferenza umana universale”, significato diverso dal
dolore per la patria perduta.
L’allestimento con le scene di Josef Svoboda , debuttò con
grandissimo successo nel 1995 all’Opera di Roma; fu ripreso al
Teatro Carlo Felice di Genova nel 1998, al Bunka Kaikan di
Tokyo nel 2000 e all’Opera di Budapest nel 2002. Nello
spettacolo si succedono una straordinaria varietà di immagini
e le ombre si sovrappongono alle ombre creando illusioni e
allusioni: il fantastico mondo delle streghe, l’incubo del
potere, le apparizioni regali, il corteo dei profughi scozzesi
tra una rete informe di filo spinato, in un gioco di
apparizioni, sparizioni, convivenze inquietanti. Passioni
malvagie a cui fanno riscontro il buio, la notte le ombre che,
nella lettura estremamente originale del dramma, richiamano
altri abissi inesplorati, come ad esempio l’inconscio di Lady
Macbeth.
Questa è la lettura dell’opera che ne fa il regista Henning
Brockhaus: “Macbeth è l’opera più sorprendente che Verdi abbia
mai scritto da un punto di vista musicale, canoro e
drammaturgico. Purtroppo Verdi però non sviluppò più nelle
opere successive questo recitar cantando con le sue relative
indicazioni interpretative. I due protagonisti non hanno una
sola nota di bel canto e anche per questo oggi è difficile
mettere in scena quest’opera. Nessuna Lady Macbeth, nella
maggior parte delle edizioni presentate al pubblico, ha il
coraggio di “sporcare la voce”, per citare un termine del
Maestro di Busseto, di cantare con una voce abbruttita,
andando così contro la volontà di Verdi. Il compositore
emiliano è del tutto rivoluzionario nell’affrontare gli abissi
più profondi dell’essere umano, usa moltissimo la cromatica e
arriva addirittura a scrivere ppppp in partitura; è stato il
primo a farlo. È inoltre evidente un vitalissimo ritmo
drammaturgico dato dal susseguirsi di numerose scene e la
maggior parte di esse si svolge durante la notte che diventa
metafora del lato oscuro del nostro essere, dell’umanità.
Anche questo aspetto può rappresentare una difficoltà in più
per la lettura di Macbeth e per il suo pubblico, ma al tempo
stesso motivo di interesse. In quest’opera emergono tutte le
contraddizioni interiori, la complessa sfera emotiva e i
conseguenti atteggiamenti degli esseri umani. Per esempio
Macbeth ha un solo motivo per uccidere Duncano: colmare un
profondo senso di vuoto legato alla decadenza e
all’affievolimento frustrante del rapporto erotico con Lady
Macbeth. Entrambi i coniugi cercano dunque, da psicotici, una
compensazione, un nuovo stimolo per la loro vita e la trovano
sia nella corsa al potere sia nel compimento degli omicidi (da
quello di Duncano ai successivi). Lady Macbeth diventa folle,
prima omicida poi suicida e Macbeth cinico assiste alla sua
morte. Un altro dei motivi per cui quest’opera è stata spesso
sottovalutata è la mancanza di un protagonista tenore
allontanandosi così ancora di più dalla tradizione lirica.
Sono però convinto che Macbeth possa essere uno studio raro,
interessante e analitico della psicopatia umana”.
Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste : prima
rappresentazione: venerdì 8 marzo 2013 ore 20.30. Repliche:
sabato 9 marzo, ore 20.30 C* domenica 10 marzo, ore 15.30 D
martedì 12 marzo, ore 20.30 B. giovedì 14 marzo, ore 20.30 E,
sabato 16 marzo, ore 15.30 S
www.teatroverdi-trieste.com
Shostakovich e Beethoven al
Verdi di Pordenone
Recensione – Guardare al passato per parlare del presente,
della Russia e di se stesso. Basterebbe pensare all’impiego
crittogrammatico che Dmitrij Shostakovich fece del proprio
nome nel motto che viene a più volte ripreso durante il
concerto.
Scritto nel 1959 per Mstislav Rostropovic, il primo concerto
per violoncello op.107 di Shostakovich non è solamente un
capolavoro di linguaggio musicale, è il manifesto di
un’opposizione alla dittatura, sottintesa e parodiata nei
continui richiami al folklore russo, citato e deformato a più
riprese in partitura.
Al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, il concerto di
Shostakovich era affidato a Mischa Maisky, violoncellista tra
i più celebri e stimati al mondo e all’Orchestra Arturo
Toscanini, guidata da Asher Fisch.
Il Shostakovich di Maisky è elettrico, tellurico, quasi
sgarbato. L’artista non ricerca la bellezza del suono ma la
verità. Ci riesce. Un discorso musicale ricco di inflessioni,
di colori, di fantasia, persino di violenza e ripiegamenti di
un’intimità ritenuta. Il primo movimento è caratterizzato da
un’urgenza espressiva esplosiva, perfettamente assecondata dal
corno della Toscanini, il secondo è un profluvio di colori,
nella cadenza Maisky dà sfogo a un virtuosismo tecnico al
servizio della musica che va a risolversi in un allegro
incalzante, corrusco, ritmicamente travolgente.
Il violoncellista, salutato trionfalmente a fine concerto, ha
ricambiato l’affetto del pubblico con tre bis, tra cui non
poteva mancare il suo celeberrimo Bach.
Dallo straordinario, con la Settima di Beethoven, si rientra
nell’ordinario. La lettura di Fisch, alla guida di
un’Orchestra Arturo Toscanini precisissima, è decisamente
tradizionale. Un Beethoven in salsa romantica che guarda al
passato piuttosto che al presente, fuori tempo massimo
potrebbe sostenere qualcuno. Il suono è denso, cupo, i tempi
rilassati, la trasparenza sacrificata in favore della
compattezza. Ne esce una prova dal forte impatto drammatico
benché povera di colori e prudente nell’agogica, solida ma
routinaria.
Paolo Locatelli
[email protected]
© Riproduzione riservata
DA NON PERDERE: SWAN LAKE ON
ICE AL ROSSETTI FINO AL 3
MARZO
Si tratta di uno spettacolo emozionante basato su
atleti/artisti dai virtuosismi mozzafiato. Il cast, la cura
dei costumi e le coreografie sono di fattura internazionale e
si vede. E’ al Rossetti fino a domenica 3 marzo uno dei
più bei spettacoli degli ultimi anni visti su questo
palcoscenico. Si tratta della trasposizione pattinata sul
ghiaccio del balletto Il Lago dei Cigni di Ciaikovskij. Le
maestranze e la parte tecnica del Teatro è riuscita in un
impresa titanica: trasformare il palco 12m x 14m del palco in
un vero e proprio catino di ghiaccio dove le evoluzioni e le
figure dei ballerini-pattinatori raggiungono vette sublimi.
26 pattinatori che hanno partecipato ai Campionati Europei e
Nazionali, e
che insieme detengono più di 250 medaglie e
piazzamenti sul podio rendono la danza contemporanea su
ghiaccio ad un nuovo livello artistico sublime con le loro
imprese audaci e spettacolari. Alcune figure
sono così
complesse che non sono ancora state nominate nei passi
accademici di danza e la maestria sta nell’eseguirne molte
nell’intimità di un palcoscenico teatrale congelato molto più
piccolo di una pista olimpionica da gara. Le stelle del
ghiaccio imperiali
con
i loro set sontuosi, e gli
spettacolari effetti speciali insieme agli oltre 100 cambi di
splendidi costumi hanno guadagnato una reputazione
impareggiabile che è stata accolta con calore ed applausi a
scena aperta dall’esigente pubblico del Rossetti. I confini
del genere di danza su ghiaccio con la loro abilità e
prestanza fisica hanno raggiunto un potenziale creativo e
potente effetto scenico nella narrazione dell’amore tra il
principe Sigfrido e la bella Odette costretta di giorno ad
esser trasformata in cigno e di notte ad avere sembianze
umane. A tanta accuratezza nella danza, che spinge la
coreografia verso limiti nuovi, fa riscontro un’altrettanto
meticolosa attenzione alla messinscena. Gli spettatori di Swan
Lake on Ice infatti hanno potuto apprezzare un sontuoso e
mutevole impianto scenico, impreziosito da raffinati e moderni
effetti luce e una ricchezza rara di costumi, ispirati
all’epoca Romanov e realizzati tenendo conto della tradizione
russa del Bolshoj. Certamente un appuntamento unico e da non
perdere assolutamente, in programma da ieri (26 febbraio) sino
al 3 marzo con rappresentazioni anche pomeridiane.
Consiglio
a tutti di ammirare le stelle del ghiaccio Imperiali che hanno
raccolto lodi a cinque stelle da parte della critica e dalle
standing ovation del pubblico in alcune delle sedi più
prestigiose del mondo.
Enrico Liotti
RIPRODUZIONE RISERVATA
“Swan Lake on Ice, al Teatro
ROSSETTI 26 feb. AL 3 MAR. in
prima
ed
esclusiva
per
l’Italia
Non il caso, ma la volontà del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia di affiancare
al suo importante impegno nella produzione di spettacoli di prosa, una politica
rilevante di scambio e confronto con l’estero ha portato a Trieste, negli ultimi anni,
momenti di grande spettacolo internazionale, come Swan Lake e Nutckraker di Matthew
Bourne, Cats, Chess…
A questa collana di eventi appartiene senz’altro Swan Lake on
Ice, che dal 26 febbraio al 3 marzo
offrirà agli spettatori uno spettacolo quantomai
originale e insolito. Uno spettacolo che unisce armoniosamente il fascino eterno del
capolavoro di Ciajkovskij, alla poesia della danza di grande tradizione, e alla
straordinarietà di uno spettacolo sul ghiaccio, eseguito da atleti-danzatori di
elevato livello. Qui il segreto del successo di questo show, che orgogliosamente
si differenzia dal kitsch degli “Ice Gala” e rivendica a ragione una propria
natura di elegante balletto sul ghiaccio. Il lavoro della compagnia “The Imperial Ice
Stars” ha successo ed eco in tutto il mondo. Non è facile “infiammare” il pubblico
competente e “viziato” della Royal Albert Hall… eppure a Trieste il gruppo arriva
reduce da una serie di sold out nella sala londinese. Dal 2006, anno della creazione
ad opera del direttore artistico, regista e coreografo Tony Mercer, gli artisti di
“The Imperial Ice Stars” raccolgono il tributo più entusiasta dalla critica e dal
pubblico, con un repertorio che oltre al Lago dei Cigni comprende altri grandi
balletti del repertorio, come Cenerentola e Schiaccianoci. L’arrivo di Swan Lake on
Ice a Trieste non passerà inosservato: innanzitutto perché farà vivere al Politeama
Rossetti – che nella sua storia già ha ospitato gli spettacoli più disparati, compresi
pugilato, grandi balli cittadini e cinema – un’avventura inedita: quella di
trasformarsi in una grande pista di pattinaggio sul ghiaccio.Ma ben altro rende Swan
Lake on Ice un appuntamento imperdibile: l’allestimento vanta infatti una cura
meticolosa e prevede un sontuoso impianto scenico (di Eamon d’Arcy), che permette
molti mutamenti e sorprese. Molto d’effetto è poi il lavoro del light designer Gavan
Swift, che riesce a ricreare le nebbiose atmosfere del lago, a illuminare festosamente
il salone da ballo del Principe e a seguire tutte le incredibili evoluzioni del
cast. Meritano infine una nota i costumi di Albina Gabueva, che sono realizzati
tenendo conto della tradizione russa del Bolshoj, s’ispirano all’epoca dei Romanov e
si succedono in gran sfarzo in oltre 100 cambi. E più d’ogni cosa, sono la forza
delle coreografie di Tony Mercer e soprattutto le interpretazioni dei danzatori a
fare la differenza, a regalare anima e palpito alle eterne figure del Principe
Sigfrido e della bella Odette, tormentata dall’incantesimo che di giorno la trasforma
in un immacolato cigno. La passione pericolosa di Odile, la purezza di Odette, l’amore
per il giovane Principe in cerca di una degna sposa, che sarà sua nonostante i
sortilegi del mago, necessitano dell’anima di un corpo di ballo affiatato, della
perizia di ottimi solisti, delle idee di un regista colto e fantasioso. Swan Lake on
Ice possiede tutto questo, come dimostra il ricco carnet di premi internazionali di
teatro che ha ricevuto (sebbene teatralmente rappresenti un modello piuttosto
inconsueto). Merito di Mercer che pretende per il suo cast pattinatori eccellenti (ma
non inclini a vacui acrobatismi) che siano contemporaneamente intensi ed espressivi
danzatori.
I suoi consulenti creativi sono atleti olimpionici (uno fra tutti Evgeny
Platov, che lo ha affiancato nel lavoro coreografico e che – gli appassionati lo
ricorderanno nel 1994 e nel ‘98 al fianco della splendida Oxsana Grishuk – è stato
l’unico uomo a vincere due meritatissime medaglie d’oro nella danza sul ghiaccio)
capaci di armonizzare nella danza, secondo un disegno di necessità e bellezza, le
potenzialità atletiche degli eccellenti danzatori, inserendo tripli flip e doppi axel
da brivido, che però potranno essere letti come elementi di un linguaggio coreografico
elegante.
Swan Lake on Ice è uno spettacolo diretto e
coreografato da Tony Mercer.
Le musiche sono quelle originali di P.I. Ciajkovskij, gli
arrangiamenti di Tim A. Duncan, i costumi di Albina Gabueva,
le luci di Harry Tabner sul disegno originale di Gavan Swift,
le scene infine sono firmate da Eamon d’Arcy. Lo spettacolo è
prodotto da James Cundall e Tony Mercer – Lunchbox Theatrical Productions. Lo
spettacolo è interpretato dalla compagnia Imperial Ice Stars, composta da Vasili
Andreev, Yulia Ashcheulova, Maksim Beliakov, Bogdan Berezenko, Anastasia Ignatyeva,
Ekaterina Ivleva, Volodymyr Khodakivskyy, Fiona Kirk, Yahor Maistrou, Konstantin
Medovikov, Artur Minchuk, Maria Mukhortova, Svetlana Nalimova, Iuliia Odintcova,
Jurijs Salmanovs, Alina Saprykina, Olga Sharutenko, Tatiana Smirnova, Danil Tataurov,
Olga Tataurova, Oleg Tazetdinov, Vadim Yarkov, Aleksei Vasilev, Svitlana Pylypenko,
Anna Silaeva.
Swan Lake on Ice – in abbonamento Danza e Musical – va in
scena da martedì 26 febbraio a domenica 3 marzo: tutti i
giorni fino al 2 marzo le recite saranno serali, con inizio
alle 20.30. Venerdì 1 marzo inoltre ci sarà una replica alle
ore 17 e sabato 2 marzo una alle ore 16 e domenica 3 è in
programma una mattinée alle ore 11.
Informazioni e biglietti per lo spettacolo sono disponibili presso i consueti punti
vendita dello Stabile regionale, sul sito www.ilrossetti.it. Per informazioni si può
contattare anche il centralino del Teatro allo 040.3593511. La Stagione2012-2013 del
Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia va in scena grazie al sostegno della
Fondazione CRTrieste. Si ringraziano tutti i Soci, in particolare il Comune di
Trieste,la Regione FriuliVenezia Giulia ela Provinciadi Trieste.
Antartica, storia
eroi e di ghiacci
vera
di
La stagione teatrale ERT Friuli Venezia Giulia ha messo in
scena ieri sera a Colugna, in un affollato Teatro Bon, una
storia di uomini, ghiacci, avventura: Antarica, la storia del
capitano Shackleton e della sua spedizione alla conquista del
Polo Sud.
Una storia forse un po’ dimenticata quella di Shackleton
rispetto a quelle di altri esploratori come il più famoso
Amundsen: circa un secolo fa, nel 1914, il Regno Unito
sovvenziona la Spedizione Imperiale Trans Antartica. Il
programma è raggiungere il Polo Sud, attraversarlo con le
slitte trainate da cani e tornare a casa con la nave Aurora
che attende dall’altra parte del continente. La nave che parte
si chiama Endurance, resistenza, comandata da Sir Ernest Henry
Shackleton un capitano di lungo corso animato da una
incolmabile fame di curiosità per la conoscenza. L’Endurance
non arriverà mai a destinazione in quanto verrà schiacciata
dai ghiacci ed affonderà. Tutti gli uomini, grazie all’abilità
del Capitano si salveranno.
Silvia Elena Montagnini in un monologo di poco più di un’ora,
con la regia di Bobo Nigrone,
racconta la fierezza del
capitano, la sua inventiva e la sua insaziabile voglia di
scoprire, di conoscere attraverso il suo viaggio tra i
ghiacci. Così le parole, senza essere soffocate da scenografie
ingombranti (l’attrice si muove su un palco vuoto fatta
eccezione di un telo bianco) permettono allo spettatore di
calarsi nel viaggio e vivere l’avventura del Capitano e dei
suoi uomini. Sembra quasi di sentirla addosso quell’acqua
salata e fredda che taglia la pelle, di ascoltare il silenzio
assordante della nave che si muove tra i ghiacci e di vedere
quel buio assoluto che attanaglia gli uomini per tre mesi
durante l’estate boreale.
Poi anche le parole tacciono per lasciare spazio a un breve
filmato originale dell’epoca dove le immagini e le sensazioni
che lo spettatore ha creato nella sua mente durante la
narrazione prendono vita e si fondono e si confondono con ciò
che si vede proiettato sul telo bianco. Ecco i volti degli
eroi di un secolo fa. Ma cosa fa diventare un uomo un eroe si
chiede l’attrice durante lo spettacolo e la domanda viene
rimbalzata anche agli spettatori. Il Capitano Shackleton
sembra aver fatto suo l’insegnamento di Dante: “..fatti non
foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.
Suggerimento più che mai utile in un periodo in cui di certo
non si diventa eroi per virtù e conoscenza.
Maria Teresa Ruotolo