CONCETTI DI BASE di economia e di ragioneria (cinque anni in sei pagine e 25 punti) Istruzioni per l’uso: Ho fatto ampio uso delle parentesi per permettere, saltandole, una lettura più fluida; il loro contenuto, però, non è di minore importanza: va compreso come il resto del testo. Interiorizzare e tener sempre ben presente il contenuto delle parti scritte in verde è indispensabile per comprendere l’economia ed è utile per capire la ragioneria. Interiorizzare e tener sempre ben presente il contenuto delle parti scritte in blu è indispensabile per comprendere la ragioneria ed è utile per capire l’economia. Interiorizzare e tener sempre ben presente il contenuto delle parti scritte in nero è indispensabile per comprendere sia l’economia che la ragioneria. Se non capisci il motivo per cui ciò che leggi è indispensabile o utile alla comprensione, allora o non hai ancora studiato qualcuno degli appunti che, tra la prima e la quinta, ho scritto, o – se li hai studiati – non li hai ancora compresi. 1. E’ nella natura umana cercare di soddisfare i bisogni e i desideri, ed è nella natura umana cercare di soddisfarli minimizzando gli sforzi (in modo da risparmiare risorse e avere così la possibilità – a parità di risorse disponibili – di massimizzare la soddisfazione dei bisogni e desideri). 2. Per soddisfare i bisogni e i desideri materiali occorrono i beni (materiali e immateriali, cioè servizi). 3.a Sono pochissimi i beni naturali e gratuiti, i cosiddetti “beni non economici” per il cui utilizzo nessuno sostiene costi, cioè impiega risorse (i beni non economici sono i beni non scarsi, come la luce del sole, l’aria e l’acqua del mare, il cui uso da parte di qualcuno non ne limita l’uso da parte degli altri). 3.b Quasi tutti i beni devono infatti essere prodotti dall’attività umana, e questi sono i “beni economici”, il cui ottenimento impone un costo; (i “beni economici” sono, cioè, i beni scarsi, come l’energia elettrica, il pane e l’acqua del rubinetto, il cui uso da parte mia ne impedisce l’uso da parte tua: se in quella casa ci abito io tu non puoi usarla, se quel grissino lo mangio io tu te ne devi comprare un altro). D’ora in poi i “beni economici” li chiamerò, semplicemente, “beni” (perché i beni non economici, pur essendo indispensabili alla vita, non essendo scarsi nulla hanno a che fare con l’economia e quindi non ci interessano). 4. I beni possono essere “di consumo” e “di produzione”: sono beni di consumo quelli destinati a soddisfare immediatamente un bisogno umano (come il pane comprato al forno o la bottiglia da ½ litro d’acqua nel distributore al primo piano); sono beni di produzione quelli che servono a produrre altri beni (come la farina comprata dal fornaio o il distributore di bottiglie da ½ litro d’acqua che è ancora lì, al primo piano). I beni di consumo soddisfano direttamente i bisogni, i beni di produzione soddisfano indirettamente i bisogni (perché producono altri beni che, prima o poi, direttamente o indirettamente, soddisferanno bisogni). 5. I beni sono prodotti dalle “aziende”, essendo l’azienda un “organismo che produce beni utilizzando lavoro e altri beni”. E’ utile distinguere le aziende fra “aziende di erogazione”, cioè quelle che (come le famiglie o le associazioni caritatevoli) producono beni con lo scopo ultimo di soddisfare esigenze umane, e “aziende di produzione”, quelle che (come i bar o le case automobilistiche) producendo beni soddisfano esigenze umane allo scopo di arricchirsi. D’ora in poi per “aziende” intenderò le “aziende di produzione”. 6.a Il valore di un bene dipende dal valore dei bisogni che, direttamente o indirettamente, può soddisfare. Non esistendo l’unità di misura della soddisfazione (non esiste il “feliciometro”) non si può nemmeno misurare oggettivamente il valore dei beni. 6.b Non essendo il valore misurabile con certezza, non esiste il “giusto” valore, cioè non ha senso chiedersi quale sia il valore corretto di un bene. Il valore non è, infatti, una caratteristica oggettiva dei beni (come invece lo sono, ad esempio – per i beni fisici – la lunghezza e il colore). Questo perché: 1) il valore è soggettivo (una vacanza al mare vale per te più di una in montagna mentre per me è l’opposto ); 2) l’utilità marginale dei beni è decrescente (e quindi il valore di un bene, per lo stesso soggetto, varia col variare della sua disponibilità: per chiunque ½ litro d’acqua nella bottiglia vale molto se è nel deserto, vale nulla se sta annegando nel Po); è certo che l’utilità complessiva dell’acqua potabile è enorme (senza di essa non ci sarebbe vita sulla Terra) mentre l’utilità complessiva dei tartufi è piccola (la mancanza di tartufi non peggiorerebbe più di tanto la vita di nessuno ), ma quel che conta ai fini del valore non è l’utilità totale ma l’utilità marginale, cioè dell’ulteriore unità che vogliamo di quel bene: poiché di acqua potabile se ne trova ovunque e a metri cubi, mentre i tartufi si trovano difficilmente e a grammi, l’utilità di un grammo in più di tartufo risulta ben maggiore di quella di un ulteriore metro cubo d’acqua; 3) il valore di un bene dipende anche dalla disponibilità di altri beni (ora che il petrolio e quindi la benzina sono abbondanti (e perciò costano poco) per chiunque il tuo scooter vale più della mia bicicletta, ma se il petrolio scarseggiasse e così il prezzo di un litro di benzina diventasse 100 €, tutti preferirebbero la mia bici al tuo scooter (varrebbe di più perché sarebbe più utile a soddisfare i bisogni di trasporto). 6.c Il valore di un bene influisce sul suo prezzo, ma valore e prezzo sono cose differenti, tanto è vero che il valore è soggettivo mentre il prezzo è oggettivo. Il prezzo di un bene che io compro non è né il valore che io do a quel bene (il suo valore è per me maggiore, altrimenti non mi sarei privato di quel prezzo per averlo), né il valore che ha per il venditore (per lui vale meno del prezzo, altrimenti non lo avrebbe ceduto per quell’importo). Quando un bene è sia offerto che domandato da un numero elevato di operatori allora il suo prezzo, pur variando continuamente al variare delle valutazioni degli operatori, tende sempre verso il “prezzo di equilibrio”, cioè il prezzo che rende uguali la quantità offerta e quella domandata di quel bene e che, quindi, si trova all’incrocio della curva discendente della domanda e di quella ascendente dell’offerta (in un piano cartesiano che veda il prezzo sull’asse orizzontale e la quantità su quello verticale). Poche cose sono meno stabili del “prezzo di equilibrio”, il quale infatti, una volta formatisi, è immediatamente abbandonato a causa degli incessanti mutamenti di un ambiente economico che si fa sempre più dinamico e imprevedibile anche a causa dell’avanzare della globalizzazione. 7. Per “produzione” si intende qualsiasi attività originata dalla volontà umana che intende provocare una immissione di valore nell’insieme dei beni esistenti. Il concetto di produzione, perciò, non si esaurisce nella trasformazione fisica di qualche bene – gli input – in un prodotto finito – l’output –, ma è molto più ampio. (A una lotteria tu, che mangi sempre fuori casa, vinci una lavastoviglie mentre io, che non guardo mai la TV, vinco un televisore da 100”. Io non so della tua situazione e tu non sei al corrente della mia. Ermes, che conosce sia te che me, mi propone di scambiare la televisione da 100” per una lavastoviglie e a te chiede di cedere la lavastoviglie in cambio di una televisione da 100”; noi accettiamo entusiasti, Ermes si è limitato a segnalare a me la tua disponibilità (in pratica ha prodotto e fornito una informazione) e per questo suo servizio lo compensiamo con 50 € ciascuno. I beni esistenti sono fisicamente sempre gli stessi, ma il loro valore è aumentato di almeno 100 € (50 + 50) perché ora è più elevato il valore dei bisogni che, con gli stessi beni, si riescono a soddisfare; e questo maggior valore di 100 € l’ha creato il servizio di mediazione (un bene anch’esso) prodotto da Ermes). Chiunque dica che la produzione è la trasformazione di materie prime e altri beni in beni finiti ha capito nulla di economia (anche se magari ha scritto un libro di testo di economia per le scuole medie superiori). 8. Per “consumo” si intende l’utilizzo dei beni direttamente finalizzato alla soddisfazione di bisogni. Il consumo, quindi, provoca una distruzione di ricchezza in quanto a fronte della perdita di valore del bene consumato non vi è alcuna produzione di altri beni (vi è, però, un bisogno soddisfatto in più). Così l’uso di 100 litri di benzina, di 1.000 km di autostrada e dell’auto per andare in vacanza costituisce un consumo (e se la benzina costa 1,60 €/l, il pedaggio 0,1 €/km e l’auto durante il viaggio ha perso 40 € di valore per l’usura (si è “ammortizzata” per 40 €), allora sono stati consumati beni del valore complessivo di 300 €); al contrario, in base a quanto scritto al punto precedente, l’uso di 100 litri di benzina, del servizio autostradale e dell’auto da parte di un taxista non costituisce un consumo ma una trasformazione di quei beni in altri (cioè nei servizi di trasporto prodotti a Roma dall’azienda “Romoletto er tassinaro”, beni questi che, a loro volta, possono essere stati o consumati da un turista in vacanza oppure trasformati in qualcosa d’altro ancora se, ad esempio, sono stati acquistati da un lavoratore in trasferta che ha usato il taxi per andare a svolgere un servizio di assistenza da un cliente). 9. La frase “nulla si crea e nulla si distrugge” è vera nel mondo fisico, ma nel mondo economico è totalmente falsa: l’azione umana, infatti, crea o distrugge valore. Mentre l’attività di consumo distrugge sempre valore, l’attività di produzione (intesa come al punto 7.) normalmente crea valore, ma a volte lo distrugge e, in ogni caso, trasferisce valore da un bene a un altro, cioè dagli input all’output. Una produzione (un’attività produttiva) è efficiente se crea valore, cioè se il valore del suo output è superiore al valore degli input utilizzati per ottenerlo. Questo maggior valore è chiamato “utile” (o anche “profitto”) ma sarebbe più chiaro chiamarlo “creazione”. In caso contrario, quando cioè per ottenere un output che vale 100 si utilizzano input dal valore di 110, si dice che l’attività è inefficiente e ha provocato una “perdita”, ma sarebbe più chiaro parlare di “distruzione” (di un valore pari a 10). 10. In tutte le attività umane, e quindi anche nell’attività di produzione, per decidere cosa fare occorrono informazioni, cioè dati. I dati necessari all’azienda per prendere le decisioni si distinguono fra dati di stock (che si riferiscono a un dato istante, come il valore dei debiti, delle attrezzature, del capitale netto e tutti gli altri dati “Patrimoniali”) e dati di flusso (quelli che, per avere significato, devono riferirsi a un dato periodo di tempo, come le vendite, gli stipendi, l’utile e tutti gli altri dati cosiddetti “Reddituali” (o anche, da alcuni, “Economici”)). Se i dati disponibili sono tanti e affidabili allora le decisioni potranno essere buone e l’attività aziendale efficiente; se i dati disponibili sono insufficienti o errati allora le decisioni saranno sbagliate e l’azienda distruggerà ricchezza (o ne creerà meno di quello che potrebbe fare se avesse a disposizione dati validi). 11. I dati relativi all’azienda vengono raccolti nei “conti”, cioè in prospetti ognuno intestato a un elemento di cui interessa conoscere il valore. I conti sono di due tipi: conti Patrimoniali (in cui si annotano i dati di stock) e conti Reddituali (in cui si annotano i dati di flusso). 12. I dati confluiscono nei conti attraverso l’annotazione (la “registrazione”) dei fatti che accadono e che sono relativi all’azienda. Le cose che capitano e che riguardano l’azienda possono distinguersi fra fatti “interni” (come il cuocere gli spaghetti o la rottura di un piatto da parte di un ristorante ) e fatti “esterni” che collegano l’azienda all’ambiente in cui opera (come, sempre per il ristorante, l’acquistare la pasta, il saldare un debito a un fornitore, l’incassare il prezzo del servizio prodotto, il pagare la tassa rifiuti comunale o lo stipendio al cameriere). 13. La contabilità (o, per usare un termine più alla moda, il “sistema informativo aziendale” ) ha la funzione di fornire i dati necessari per prendere decisioni corrette al fine di migliorare l’efficienza aziendale (cioè per fare in modo che l’azienda massimizzi la creazione di ricchezza). La contabilità, brutalmente, si può distinguere fra “contabilità industriale” (o “contabilità dei costi”) e “contabilità generale” (o, semplicemente, “contabilità”). La contabilità industriale ha la funzione principale di informare sui costi di produzione e sull’efficienza dei singoli reparti produttivi, e di questo si occupano soprattutto i tecnici (gli ingegneri); la contabilità generale, di cui invece si occupano soprattutto gli amministrativi (i ragionieri), ha cinque funzioni principali: 1. Informare sulla dimensione che ogni elemento patrimoniale dell’azienda ha in un qualsiasi momento (quindi fornisce dati di stock: quanti € di credito abbiamo ora verso il cliente X, quanti di debito verso il fornitore Y, quale era il saldo del c/c CREDEM il 31.3.2013, quale è adesso il valore del nostro fabbricato di via Zatti, quanti € di debito residuo avevamo il 31.12.2012 nel mutuo alla B.N.L., quanti sono adesso i crediti complessivi verso i nostri clienti in USA); 2. Informare sulla dimensione che ogni elemento reddituale dell’azienda raggiunge in un qualsiasi periodo di tempo (quindi fornire dati di flusso: quanti € di vendite abbiamo avuto nel 3° trimestre 2013 verso il cliente X, quante vendite negli U.S.A. nell’anno 2012, quanti € di gasolio abbiamo acquistato dal fornitore Y nel 2° semestre 2013, quanta energia elettrica nell’anno 2013, quanti interessi passivi sono maturati nel primo semestre 2013 sul mutuo BNL.); 3. Informare sulla situazione patrimoniale complessiva che l’azienda ha (aveva) in un qualsiasi momento della sua esistenza, dalla sua nascita a oggi. Nella “fotografia” che si scatta si evidenziano da una parte (a sinistra) i valori attivi patrimoniali e, dall’altra (a destra), i debiti e il “Capitale Netto” aziendale (ottenuto come differenza). Debiti (capitale di terzi) e “Netto” (capitale proprio) sono le due uniche “fonti di finanziamento” dell’attivo aziendale, le fonti attingendo dalle quali si è acquisito l’attivo. 4. Informare sull’andamento economico complessivo dell’azienda in un qualsiasi periodo della sua vita. In questo “filmato” appare da una parte (a destra) cosa l’azienda ha prodotto nel periodo che ci interessa e quanto vale questo output; dall’altra (a sinistra) ci mostra cosa ha utilizzato nel periodo e quant’era il valore degli input utilizzati (valore che si è trasferito nell’output ottenuto). La differenza fra valore della produzione ottenuta e valore degli input usati è il reddito aziendale del periodo considerato. 5. Ricostruire in un qualsiasi momento le vicende aziendali accadute in un qualsiasi periodo della vita aziendale, anche lontano molti anni; ciò, tra l’altro, rende possibile il controllo di ciò che è stato fatto. 14. La “situazione patrimoniale” esistente nell’istante T1 e il “conto economico” del periodo compreso fra un momento precedente T0 e l’istante T1 sono i due documenti di gran lunga più importanti che formano il “Bilancio” (dell’esercizio (o periodo) da T0 a T1). Poiché (come già sappiamo dal punto 6.) il valore non è un dato oggettivo, le voci che appaiono nel bilancio (ad eccezione del valore della cassa e dei debiti) sono inevitabilmente incerti, soggettivi, stimati da chi redige il bilancio. Il bilancio “falso” non si contrappone, quindi, al bilancio “vero” (che non può esistere, come non esiste il “vero” valore dei beni); il bilancio “falso” è un bilancio “disonesto”, cioè quello in cui sono indicati valori ritenuti sbagliati da chi lo redige, valori messi lì allo scopo di ingannare chi li legge, per dare a chi legge il bilancio una idea della situazione aziendale diversa da quella che ha chi lo ha redatto. 15. Per giungere ai suoi scopi e anche per redigere il bilancio aziendale, la contabilità (generale) può tranquillamente non occuparsi dei fatti interni di gestione e rilevare solo quelli esterni, adottando un sistema di registrazione dei fatti (la “partita doppia”) che prevede essenzialmente queste sei regole: 1. 2. 3. 4. 5. 6. Un miglioramento nel valore di un elemento patrimoniale dell’azienda si registra a sinistra (in “Dare”) del conto patrimoniale interessato; ogni suo peggioramento, invece, si inserisce a destra (in “Avere”) del conto patrimoniale coinvolto. Il valore consumato di un fattore produttivo (input) si registra a sinistra (in “Dare”) di un conto di reddito; il valore dell’output prodotto si registra a destra (in “Avere”) di un conto di reddito. La registrazione di ogni fatto aziendale provoca l’inserimento nel Dare (di uno o più conti) di un importo complessivo esattamente uguale all’importo complessivo che viene annotato in Avere (di uno o più conti). I fattori produttivi destinati a esaurire la loro utilità in poco tempo (meno di un anno) si considerano consumati già al momento dell’acquisto, e quindi (vedi punto 2. I parte) il loro acquisto si annota in dare di un conto di reddito (si finge di averli già consumati). I consumi dei fattori produttivi destinati a dare utilità per molto tempo (più di un anno) si registrano solo quando si redige il bilancio, e quindi l’acquisto delle “immobilizzazioni” si registra in dare di un conto patrimoniale (vedi punto 1. prima parte) . Il valore dei beni prodotti lo si registra al momento in cui li si vende. Al momento del bilancio si tiene poi conto, in aumento, di eventuali beni prodotti ma non ancora venduti e, in diminuzione, di eventuali vendite nel periodo di beni prodotti nel periodo precedente o prima ancora. 16. Come già detto, l’attività umana crea, distrugge e trasferisce valore da un bene a un altro: nell’attività di consumo si ha in ogni caso distruzione di ricchezza (il valore dei beni esistenti diminuisce e in compenso ci sono più bisogni soddisfatti); nell’attività di produzione si ha in ogni caso trasferimento di ricchezza da un bene all’altro (dagli input all’output) e inoltre o si crea ricchezza (se l’azienda è efficiente) o se ne distrugge (se l’azienda è inefficiente). Nel corso della storia, poi, l’uomo non ha mai perso l’abitudine di distruggere ricchezza anche senza soddisfare bisogni e al di fuori del caso dell’azienda inefficiente: lo ha fatto (e continua a farlo) sia all’ingrosso (con le guerre e con le decisioni politiche sbagliate) sia al minuto (con le decisioni private irrazionali, i vandalismi, gli attentati ma anche con altri delitti contro il patrimonio come i furti e le rapine, attività umane in cui, oltre a un trasferimento di ricchezza dalla vittima del reato al delinquente che lo compie, si realizza anche una distruzione di valore (la porta scassinata o, anche nel caso di furto senza scasso, il fatto che gli oggetti rubati perdono di valore perché posseduti da persone che li apprezzano meno dei legittimi proprietari, e se non capisci torna ai punti 6. e 7.); ma l’uomo distrugge ricchezza anche con i delitti contro la persona: l’omicidio di un bravo idraulico riduce il valore del capitale umano esistente sulla terra, e quindi la possibilità di soddisfare bisogni). 17. Nel corso della storia l’uomo ha creato molta più ricchezza di quanto ne abbia distrutta, tanto è vero che mentre i nostri progenitori decine di migliaia d’anni fa morivano quasi tutti di freddo e di fame nelle caverne e mentre pochi secoli fa morivano di peste e di appendicite ma nei lazzaretti (e non pochi ancora di fame e di freddo nelle loro stamberghe), oggi noi ci ammaliamo per l’eccesso di calorie derivante dal troppo cibo nello stomaco e il troppo caldo in classe. Se oggi abbiamo a disposizione cibo in abbondanza, termosifoni caldi, auto comode, cure efficaci ecc. ecc. è perché non tutto il valore creato da noi e dalle precedenti generazioni è stato distrutto, nonostante i tanti bisogni soddisfatti e le tante attività inefficienti o irrazionali che mai l’uomo ha interrotto. La parte non distrutta del valore creato è il “risparmio”, quel risparmio che, se non viene trasformato e mantenuto in moneta, è anche “investimento”, cioè valore in grado di soddisfare in futuro, direttamente ma più spesso indirettamente, sempre più bisogni. 18. Se, invece, da decine di migliaia d’anni le gazzelle continuano a essere mangiate dai leoni e i pettirossi continuano a morire di fame negli inverni troppo nevosi è principalmente perché, al contrario dell’uomo, gazzelle e pettirossi (ma anche leoni, scimpanzé e tutti gli altri animali) non scambiano. Tutti gli animali, come l’uomo, tendono a riprodursi; tutti gli animali, come l’uomo, cercano di soddisfare i propri bisogni; tanti animali, come l’uomo, producono beni per soddisfare meglio i bisogni (il pettirosso fa il nido, il ragno la ragnatela, lo scoiattolo fa scorta di nocciole ecc.). L’unica differenza che distingue l’attività istintiva del genere umano da quella di tutti gli altri esseri viventi è l’attitudine a scambiare (nessuno ha mai visto un cane dare un osso a un altro in cambio di una crosta di formaggio). E’ l’attitudine allo scambio il vero regalo fatto da Prometeo al genere umano, non l’intelligenza e la memoria (come falsamente racconta la mitologia greca): intelligenza e memoria le hanno anche gli animali (certamente noi abbiamo più intelligenza – ma probabilmente meno memoria – di loro, ma è una mera questione quantitativa; la qualità dell’attitudine allo scambio, invece, è solo nostra); è questa attitudine che ha permesso all’uomo di diventare sempre più efficiente nella sua azione produttiva, perché ha reso possibile la specializzazione delle attività: ognuno tende a fare solo ciò in cui riesce meglio e lo produce soprattutto per gli altri, poi scambia la sua produzione con tutto ciò che gli serve per soddisfare i propri bisogni e che gli altri sanno fare meglio di lui. 19. Poiché lo scambio è la base della civiltà umana l’uomo, dopo decine di migliaia d’anni di baratto, nell’arco degli ultimi tre millenni ha progressivamente perfezionato un mezzo che ha reso gli scambi sempre più agevoli e fluidi e perciò più frequenti: questo strumento è la moneta, ovvero qualcosa che tutti accettano in cambio dei loro beni. Con lo sviluppo della moneta, a fianco del mondo dell’economia reale [fatta di produzione e di consumo di beni che possiedono l’utilità di soddisfare (direttamente – i beni di consumo – o indirettamente – i beni di produzione – i bisogni umani] è nato ed è cresciuto un mondo parallelo: il mondo della finanza, ovvero della moneta e del credito, essendo il credito nient’altro che moneta disponibile in un momento successivo rispetto all’attuale. Né la moneta né (gli altr)i diritti di credito (e quindi i debiti, che sono solo i crediti visti di spalle) servono direttamente a qualcosa (i soldi non deodorano le ascelle, non tolgono il mal di denti ecc.); nonostante ciò moneta e diritti di credito, moltiplicando gli scambi e di conseguenza la specializzazione delle attività, hanno contribuito enormemente all’arricchimento del genere umano. 20. I due sistemi – quello dell’economia reale e quello della finanza – vivono nello stesso ambiente, l’ambiente dell’azione umana; vivono in simbiosi fra loro, una simbiosi mutualistica, non parassitaria: entrambi, cioè, traggono vantaggi dall’esistenza dell’altro. La priorità va, però, all’economia reale, perché senza beni i diritti (tutti, non solo quelli di credito) non hanno alcun valore: a fronte dei diritti di credito, del diritto alla casa, del diritto alla salute, del diritto alla scuola, del diritto di tutti all’acqua potabile ecc. stanno, rispettivamente: i debiti, l’obbligo di far godere le proprie case agli altri, l’obbligo di produrre i servizi sanitari e scolastici, l’obbligo di scavare pozzi e collegarli con le tubazioni ai rubinetti ecc., e questi obblighi – avendo un valore esattamente uguale ma di segno contrario a quello dei relativi diritti – annullano, per la collettività, il valore dei diritti che gli appartenenti a quella collettività si sono messi in testa di avere ma che sono solo frutto della loro fantasia e ignoranza, in quanto per una collettività il valore dei diritti, al netto del peso dei doveri, è zero. Ma se il mondo dei diritti è un mondo vuoto e non può esistere staccato dal mondo dell’economia reale, non significa che la finanza sia un parassita che succhia valore dal mondo dell’economia reale, tutt’altro: i prodotti finanziari non assorbono certo il valore dei beni reali, semplicemente quel valore lo rispecchiano e lo misurano. Il loro è un riflesso del valore dei beni (fisici e servizi) reali (e, in particolare, dei beni di produzione), e come tutti i riflessi è solo un’immagine: per ogni “X” di valore (cioè di utilità) di un bene reale ci sono “Y” € (o $, o £ ecc., dipende dal metro con cui si misura il valore) di crediti (di diritti) e “– Y” € (o $, o £ ecc.) di debiti (di doveri). Il mondo dell’economia reale, se anche può esistere da solo, senza il mondo della finanza langue e si sviluppa (se si sviluppa) molto meno di quanto può fare grazie all’esistenza parallela del mondo della finanza, la cui funzione di lubrificante per gli scambi migliora enormemente l’efficienza del sistema economico. 21. Per capire il mondo della finanza è basilare avere compreso cosa è l’interesse, che non è solo “il compenso per l’uso del denaro altrui”, come si insegna ai bambini, ma anche qualcosa d’altro. Anzi, se è (anche) il compenso per l’uso del denaro lo è come conseguenza della sua vera natura, che non è monetaria ma reale: l’interesse è il prezzo del tempo, l’unica risorsa improducibile dall’uomo e l’unico input (insieme al lavoro) sempre necessario in ogni produzione (qualsiasi produzione richiede tempo: il forno, la farina e il lavoro del fornaio vengono prima del pane). E’ nella natura umana dare alla medesima cosa un valore via via inferiore man mano che la sua disponibilità si allontana nel tempo: se preferisci vincere alla lotteria una crociera godibile questa estate piuttosto che una identica ma godibile fra due anni è perché per te il tempo ha valore, e questo valore va a diminuire il valore (attuale) della crociera disponibile fra due anni; se sei disposto a scambiare un abbonamento a 10 spettacoli teatrali utilizzabile solo fra un anno con uno a 8 spettacoli sfruttabile però da subito, è perché un anno di attesa vale, per te, più di due spettacoli teatrali, e quindi per te il prezzo del tempo (applicato al bene spettacolo teatrale) di almeno il 25% all’anno (2/8 = 25%). Ognuno di noi dà al tempo un valore diverso (come, d’altronde, facciamo con qualsiasi bene), e per ognuno di noi il prezzo che siamo disposti a pagare per anticipare il godimento di un bene (cioè per “comprare” il tempo) varia da bene a bene. Poiché il denaro può essere scambiato con qualsiasi bene, il tasso di interesse (cioè il prezzo che siamo disposti a pagare per anticipare l’uso del denaro) è la sintesi, è la media ponderata dei tanti diversi prezzi che siamo disposti a pagare per anticipare l’uso dei tanti possibili beni acquistabili col denaro. Ecco perché il tasso di interesse è il prezzo che noi diamo al tempo, ecco perché il tasso d’interesse è il segnale di gran lunga più importante che guida gli uomini nelle loro scelte economiche, sia di produzione, sia di consumo. 22. Per capire la finanza è anche indispensabile comprendere la relazione fra il tasso d’interesse e il valore degli investimenti, cioè dei beni destinati a produrre utilità in futuro (spesso nel corso di un periodo anche lungo di tempo). Abbiamo appena visto che il valore attuale di una somma di denaro (come il valore che ha oggi qualsiasi bene) diminuisce man mano si allontana il momento in cui quel denaro (quel bene) sarà disponibile. Un investimento che si prevede renderà 1.000 € all’anno per 20 anni di seguito vale quindi 20.000 € solo se il tasso d’interesse è nullo, solo cioè se al tempo non viene dato valore; ma se il tasso è del 10% allora quell’investimento (quel diritto di ricevere 1.000 € all’anno per vent’anni) vale oggi meno di 20.000 € [vale, esattamente, 8.513,60 €, perché già i primi 1.000 € che riceverai fra un anno valgono, oggi, un po’ meno di 1.000 € (valgono1.000 x 1/1,11 = 909,09 €), e via via fino agli ultimi 1.000 € che riceverai fra 20 anni e che valgono, oggi, molto meno di 1.000€ (1.000 x 1/1,120 = 148,60 €)]. Ecco come il tasso d’interesse influisce sul valore dei beni di produzione durevoli (sulle “immobilizzazioni”, direbbero i ragionieri) e quindi anche sul totale dell’attivo patrimoniale e di conseguenza sul capitale netto: se il tasso d’interesse aumenta i valori calano, se il tasso d’interesse diminuisce i valori aumentano. 23. Il tasso d’interesse a cui io sono disposto a prestare (a far usare il mio denaro) o comunque a investire la liquidità che ho disponibile è la somma di quattro elementi (di cui l’ultimo ha valore sempre negativo): 1) il “tasso base” (il tasso a cui io sarei disposto a prestare (a investire) se avessi la certezza di recuperare la somma iniziale e se mi aspetto che l’inflazione sia zero, cioè che i prezzi dei beni rimangano costanti per tutta la durata del prestito (dell’investimento)); 2) il “tasso di inflazione” che mi aspetto ci sarà durante il prestito (l’investimento); 3) la componente “rischio” (cioè il compenso che pretendo per il rischio che corro di un eventuale mancato rimborso del prestito concesso e/o di mancato pagamento degli interessi (“rischio debitore”) o di una perdita di valore del bene in cui ho investito e/o di un suo rendimento minore dell’atteso); 4) (con valore i costi (in termini sia di rischio perdita della liquidità per furti o fallimento del depositario, sia di eventuali imposte sulla liquidità) derivanti dalla detenzione di liquidità (e se 4) è maggiore della somma dei primi tre allora il tasso nominale è negativo) negativo) 24. Il tasso d’interesse, come tutti i prezzi, segue la legge della domanda e dell’offerta (e quindi, in particolare, diminuisce all’aumentare dell’offerta) ma, diversamente da tutti gli altri, è il prezzo di un bene la cui produzione èa costo zero (è sufficiente che Mario Draghi prema col dito una volta in più sul tasto dello zero del computer della B.C.E. e gli euro disponibili si decuplicano) e la cui quantità è decisa da un unico soggetto, la Banca Centrale (direttamente, per la moneta legale, indirettamente per quella bancaria). Potendo regolare la quantità di moneta, la Banca Centrale può in pratica decidere quale tasso base è opportuno che si formi sul mercato. 25. Quando la Banca Centrale decide, per “stimolare l’economia” (cioè per far aumentare più velocemente il P.I.L. (o per e quindi aumentare (o calare meno) i redditi dei cittadini) di schiacciare verso il basso il tasso d’interesse (come fanno da tempo le B.C.) fa lievitare i valori (monetari) degli investimenti e questo ha una serie di conseguenze: farlo calare di meno) 1. i creditori e tutti gli altri investitori sono contenti perché si credono più ricchi (il valore monetario dei loro crediti e dei loro altri investimenti è aumentato); 2. i capitali netti di tutte le aziende, compresi quelli delle banche, aumentano perché aumenta il valore in moneta delle loro immobilizzazioni mentre i debiti non cambiano, così che le banche e le aziende che prima avevano patrimoni netti negativi non devono più fallire né i loro proprietari devono fare apporti; 3. i debitori sono contenti perché pagano meno interessi sui debiti il cui valore, al contrario di quello dei crediti e degli altri investimenti, resta immutato, non risentendo del calo dei tassi. Anche i debitori, quindi, si credono più ricchi (o meno poveri); 4. i consumatori sono contenti perché, coi tassi bassi, riescono a comprare (a consumare) di più a debito; 5. gli imprenditori sono contenti perché il costo per nuovi investimenti (a debito) è ora più basso e quindi risultano più convenienti. Questa straordinaria serie di (spesso solo apparenti e momentanei) effetti positivi poggia quasi sempre, però, su una base reale immutata, su un’economia reale che resta ammalata: se prima dell’intervento della B.C. l’economia languiva a causa dell’inefficienza del sistema economico complessivo (a sua volta causata da investimenti sbagliati e/o da norme di legge assurde e/o da incentivi pubblici all’ozio e/o da ostacoli pubblici alle iniziative imprenditoriali e/o da un eccesso di trasferimenti da chi produce a chi distrugge ricchezza sia consumando più del suo reddito sia producendo in perdita come tante aziende pubbliche), allora il calo dei tassi serve solo a posticipare e aggravare in futuro l’intensità e la durata dell’inevitabile diminuzione del reddito. Il reddito complessivo di una collettività è infatti dato dal valore dei beni che è in grado di produrre, non dal valore dei beni che consuma. La formuletta keynesiana Y(P.I.L.) = C(consumi) + G(spesa pubblica) + I(investimenti) + (X – M) (saldo fra export e import) è una identità contabile e, come tale, è sempre valida, ma va letta nella giusta direzione che è quella data dall’ordine cronologico dell’attività economica reale: prima c’è la produzione e solo dopo ci può essere il consumo, l’investimento eccetera. Se la produzione aumenta, allora si potrà consumare, investire, fare spesa pubblica in più; letta (cronologicamente) da destra a sinistra non ha senso: se aumento i consumi, se aumento gli investimenti, se aumento la spesa pubblica è sciocco pensare che per incanto aumenti la produzione. E’ scambiare la causa con l’effetto, è come pensare che se apro l’ombrello allora viene a piovere. La ricetta keynesiana può a volte essere utile per curare casi teorici di patologie economiche raramente verificatisi nella storia (il “New Deal” di Roosevelt, lungi dall’aver risolto la “grande crisi” come falsamente scrivono molti testi scolastici, ha in realtà prolungato la crisi scoppiata nel 1929 (ma maturata nei “favolosi anni ‘20” soprattutto per effetto, anche allora, di una eccessiva espansione del credito permessa dalla B.C.) fino allo scoppio della II guerra mondiale (che ha risolto il problema a suo modo: travolgendo la ricetta keynesiana di più deficit pubblico e più moneta funziona certamente solo se si scambia l’immagine riflessa che il mondo finanziario offre della realtà economica con il mondo reale dei beni e dei bisogni. E’ indubbio che se aumento la domanda espressa in moneta allora aumenta il valore della produzione, ma è il valore espresso in moneta che aumenterà certamente (potrebbero salire i prezzi), non il valore dei bisogni reali che i beni prodotti saranno in grado (direttamente o indirettamente) di soddisfare. tutto per ricominciare poi da zero con la pace );