Cristologia – ISSR Pisa
a.a. 2014-2015
Cristologia - proposta sistematica
Le questioni aperte
Dalla trattazione precedentemente si sono fatte largo alcune questioni; alcune sono apparse nel
seguire il cammino che la Chiesa ha percorso alla ricerca della figura dell’identità di Gesù Cristo –
come dire che Dio è Gesù?, come dire che Dio si è fatto uomo? come ci salva Dio in Gesù Cristo? –
altre sono emerse dall’ascolto del dato biblico – come dire che questo Gesù sia Dio?, perché quella
morte così infamante?; che rapporto ha avuto Gesù con Dio? – altre ancora le abbiamo portate con
noi fin dall’inizio, quando appunto ci siamo posti d’innanzi a Lui: è possibile giungere a Lui, alla
sua persona così come questa si è data per le vie della Galilea? come dire qualche cosa su Gesù
nella fede senza però che questo sia un dire di meno, un relativizzare la sua figura o la sua portata?
Se tutto ciò che è possibile dire su Gesù passa per la memoria di Lui, è possibile che sia alla fine
veramente dicibile qualcosa di Gesù?
Alcune questioni trovano spazio e legittimità già in altri corsi – si pensi al rapporto
verità/rivelazione, già tematizzato in teologia fondamentale, o al rapporto tra testo e sua
ermeneutica, già ampiamente affrontato dagli studi biblici – mentre altri hanno bisogno di essere
tematizzati con maggior precisione:
1. La singolarità di Gesù
La singolarità esibita da Gesù rischia d’essere estenuata in una unicità irrelata, un caso così
limite da non essere più in grado d’apparire come rilevante. Perché questa singolarità abbia
ancora un ché d’attraente deve in qualche modo essere ‘vera’, deve avere a che fare con la
mia verità d’essere uomo e pur tuttavia deve essere vera della verità di Dio, ossia assoluta.
Come?
2. Rapporto tra l’incarnazione e il mistero pasquale
Che relazione è possibile pensare tra l’evento dell’incarnazione e quello pasquale? Nel
primo si è andata concentrando tutta la riflessione patristico-medioevale mentre il secondo è
il centro della narrazione neotestamentaria. È possibile pensare una relazione tra questi due
momenti in ordine proprio al tema della salvezza? È possibile una categoria sintetica che
non lasci i due eventi uno di fronte all’altro ma li sappia compenetrare?
3. Rapporto tra Dio in sé e Dio per noi in Gesù
Nella riflessione svolta nelle prime due sezioni – biblica e storica – è apparsa una certa
distanza tra l’essere di Dio per noi in Gesù, che passa per il mistero del suo farsi uomo e del
suo essere proprio quell’uomo che giunge a sperimentare il mistero di iniquità e di gloria, e
l’essere di Dio in sé. L’incarnazione è risultata infatti così ‘difficile’ da pensare perché
chiedeva di tenere assieme l’essere di Dio – assoluto, infinito, unito, unico, indivisibile,
semplice – e l’essere dell’uomo in una unità profonda, senza cadere né in una composizione,
né in una confusione, né in una mutazione o divisione – come afferma Calcedonia – e non
perdere così l’identità stessa di Gesù, un solo e medesimo, il Figlio, ossia il suo essere in (e
non da) due nature. Come dire l’uno e l’altro essere nella unità che tenga conto della
differenza, perché la salvezza non sia un lasciar cadere l’una di fronte l’altra?
4. Rapporto tra modelli rappresentativi e la loro differente prospettiva
Abbiamo avuto modo di incontrare alcuni modelli – nella sezione biblica quello
kataba,sij/avnaba,sij ossia ascendente/discendente, nella sezione storica quello alessandrino
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ed antiocheno – con cui si è cercato di dire l’evento in tutta la sua portata: dire Dio che si dà
e dando-sé comunica proprio se stesso in – e non al di là di – Gesù, della sua umanità vissuta
nella nostra stessa dinamicità. Se la nostra stessa umanità sfugge ad ogni schematizzazione,
come pensare dunque quella esibita da Gesù? Come tenere assieme modelli differenti?
Hanno senso questi modelli di fronte all’assoluta singolarità di Gesù e alla nostra asistematicità?
5. Quale universalità?
Come coniugare l’universalità di Gesù e la sua assoluta singolarità? Come poter pensare una
salvezza di tutti, per tutti e il tenere assieme ancora quel carattere ‘provvisorio’ che è
indisgiungibile dalla condizione nel tempo e nello spazio di Gesù? Come pensare una
salvezza da annunciare ecclesiologicamente e fondata cristologicamente? La salvezza è in
Gesù, ma allora chi non lo ha conosciuto, che ne è di lui?
6. Che relazione tra mistero cristologico e trinitario?
Se il mistero di Dio è accessibile solo dalla parte di Gesù Cristo, ciò detta ogni premessa per
‘dire’ Dio; prendere seriamente questa pre-cedenza significa, allora, pensare Dio alla luce
della capacità che Gesù è ed ha: egli è il luogo in cui Dio offre – la capacità di Dio – il
dirsi/dandosi ma anche quella dell’uomo di dirsi/dandosi in un Altro – la capacità del Figlio.
Da qui la questione: in Gesù è data la via che conduce alla verità di Dio, proprio nella sua
umanità, cosicché è nell’umanità di Gesù che è esibita – e non come caso limite – la divinità
di Dio nella sua filialità, perché è in Gesù crocifisso, morto, risorto e asceso al cielo che si
accede all’essere di Dio; ma allora il dinamismo dell’essere uomo – nel suo divenire sempre
più se stesso in relazione agli altri, nel suo crescere, nel suo divenire – è il luogo ultimo e
definitivo entro cui dire/dare Dio. In Gesù crocifisso e risorto in Dio entra una ultimità e
definitività che è di Dio perché del Figlio che ha imparato qualcosa di sé nell’uscita fuori di
sé, ossia nell’entrare nella condizione dell’uomo?
Attorno alle suddette questioni verterà la sezione sistematica, esercizio entro cui cercare di dare
spazio a tali nodi problematici e al tempo stesso abitarli per poterli conoscere senza per forza
doverli sciogliere o risolvere.
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1. La singolarità di Gesù
La domanda centrale è: “chi è Gesù?”
Si tratta di ri-porre la questione del chi non solo come questione identitaria ma – soprattutto? –
sintetica. Se l’identità del suo chi è stata messa a tema proprio dalle questioni che hanno condotto
allo snodo calcedonese – e quindi le questioni sulla identità tra il Figlio e Gesù, tra quel vere homo e
vere deus, che di fatto quindi porta con sé la stessa identità di Dio come Padre, Figlio e Spirito
perché il chi di Gesù è il chi non semplicemente divino, ma solo quello del Figlio – la domanda sul
fine dell’incarnazione ha posto di diritto la centralità dell’evento in uno spazio temporale che non è
più il solo momento dell’incarnazione, ora infatti si tratta di abbracciare il tempo come misura
dell’agire divino. Il Cristo storico è sintesi di ogni tempo: egli è il primo pensato e il primo voluto,
spostando così l’angolo prospettico dalla visione amartiocentrica.1 In Gesù il chi diventa sintesi di
una prospettiva di alleanza tra Dio e l’uomo – è in fondo la prospettiva pasquale stessa riletta
nell’ultima cena – in cui Gesù passa dall’essere solo il rivelatore di Dio all’essere la rivelazione.
Così è ancora questo chi l’ultima sintesi attorno cui pensare la sua storia e la sua vicenda come
sintetica dell’essere di Dio Trinità: solo il suo chi esibito umanamente apre ad uno sfondo, ad un
orizzonte in cui il dilatarsi dello sguardo è abitato dalla presenza di Dio che è suo Padre, dal chi del
Dio che egli è venuto ad annunciare.
Tenere presente questo chi è il modo per ovviare ad ogni appiattimento del chi si è incarnato sul
chi ci ha salvato e viceversa; nel primo caso il rischio è una lettura funzionale – salvifica – a scapito
dell’identità, nel secondo si percorre una via che va in direzione di una ontologizzazione
dell’identità a scapito della espressione drammatica della vicenda gesuana. A questo punto di
impasse era in fondo giunta la classica divisione del trattato in due parti, il “De Christo
redemptore” e il “De Verbo incarnato”, a cui sfugge il rapporto tra l’evento del dirsi che è un
tutt’uno con il suo darsi. È proprio questa intuizione a ricollocare al centro la ricerca storica di Gesù
e l’analisi neotestamentaria: c’è un chi che solo nella relazione, da una parte, con il Dio/Abbà e,
dall’altra, col suo essere umanamente Dio permette l’esistenza stessa di una storia, di un luogo entro
cui l’umano e il divino si incontrino, si accolgano, si abbraccino, si diano del tempo e diventino
tempo, ne colmino l’essere frammentario proprio nella frammentarietà che solo una storia ha.
1.1. Una questione pre-liminare
La fede ha come suo ultimo e definitivo referente proprio l’identità di Gesù, così come essa viene
ad essere conosciuta, raggiunta ed esibita nell’avvenimento della sua storia e testimonianza. Per la
fede, infatti, non è irrilevante la vicenda storica di Gesù; questa è il luogo del suo darsi. La
testimonianza, che la Scrittura porta con sé, è ordinata proprio all’esperienza che i discepoli hanno
fatto di Gesù e al fare la sua esperienza.2 La fede abita quindi quello spazio (ex-per-iri3) che viene
ad essere dilatato o accorciato dall’evento Gesù Cristo: ogni uomo si trova infatti a fare sempre un
percorso in cui tanto ci si approssima all’evento quanto più questo allarga l’orizzonte esperienziale
dell’uomo. Ogni ora e qui dell’incontro è una finestra che si apre e sfonda la distanza tra il credente
e l’evento originale, ma quanto più ci si approssima all’evento tanto aumenta la sensazione che
all’origine della fede vi sia l’esperienza di Gesù: la sua esperienza del Dio/Abbà,
quell’irraggiungibile intimità personale. Eppure, solo di fronte a quella identità sorge la fede. Così,
solo nell’evidenza della sua assoluta singolarità la fede si fa comune: si crede in una comunità,
1
Cfr. T. PRÖPPER, Redenzione e storia della libertà. Abbozzo di soteriologia, ed. Queriniana, Brescia 1990.
Cfr. P. SEQUERI, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, ed. Queriniana, Brescia 2008.
3
Cfr. E. STEIN, Scientia crucis, OCD, Brescia 2011.
2
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all’interno di un luogo – per cui si crede ad una comunità – in cui è custodita ed aperta la sua
memoria – e non solo la memoria di Lui – e si è generati ristabilendo l’identità, ricostruendo il
frammento, lasciando che si componga, attorno al crocifisso risorto, il riconoscimento di Gesù, il
Figlio.
Due gli estremi da oltre-passare e di cui tener conto, sebbene tra questi sostiamo attratti dal loro
richiamo e fascino perché in fin dei conti pur sempre un passaggio obbligato, come testimoniano gli
stessi vangeli: da un lato la ricerca di una cristologia della fede – di bultmanniana memoria – che
estrinseca l’evento, dall’altro una metafisicizzazione dell’identità che rischia di pensare un punto
sintetico di incontro tra divino e umano del tutto trascendente e distante, contingente eppure
irraggiungibile.
La fede, invece, pone al centro la singolarità di Gesù con tutta la sua concretezza, stabilmente
ancorato ad un tempo e ad un luogo, ancorato ad una storia particolare nella macro-storia di Israele
e che tuttavia ha di diritto e la pretesa di una universalità e ultimità. La fede cristiana si pone come
interpretazione adeguata di un avvenimento; non lo costituisce, semmai ne è costituita cosicché non
può prescindere dal ‘detto’ – dalla storia di Gesù, che è il suo dir-si nel dar-si al Padre – nel suo
sapere il Cristo, il Figlio.
La fede ha a che fare proprio con il chi, quello esibito da Gesù, il chi che si rivolge a Dio/Abbà, il
chi incontrato ed esperito dagli apostoli, il chi che incontriamo nell’ascolto della Parola, che solo
nella Rivelazione avviene a noi interpellandoci: «ma voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).
La fede non sorge dall’occasione Gesù di Nazaret, ma mette a tema Lui stesso, la sua persona
concreta nella sua singolarità; la fede sta innanzi ad una persona concreta che non distrugge
l'universale, ma lo fonda nella sua ek-staticità: uno stare fuori di sé per essere nell’altro con un
altro4. La Rivelazione è l'affermazione che nasce dalla comprensione che l’alterità fa parte della
sostanza di Dio: egli è colui del quale dobbiamo predicare l'essere che sta sempre in una relazione.
Cristo è verità dunque non perché adatta Dio al mondo e all'uomo, ma perché la manifesta
accogliendo la differenza, abitandola, ospitandola in sé senza chiedere al mondo e all’uomo di
perdere la sua alterità e differenza, anzi, la fa sua propria ed in essa si sente a casa. Così Gesù è
rivelazione del mondo di Dio: nel suo essere posto innanzi al Padre, nel suo venire ed andare a Lui
egli riscrive la grammatica dell’esperienza religiosa a partire dalla sua identità filiale, dal suo ‘chi’:
è dalla sua ‘visio’ del Padre, è in forza della sua ‘unio’ che egli è quell’uomo che è Dio, solo come
quell’uomo-è è Dio e solo come Dio-è è quell’uomo Gesù. È questa in fondo l’intuizione di
Gaudium et Spes:
«Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche
pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia, quindi,
che tutte le verità su esposte in lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice. Egli è “l'immagine
dell'invisibile Iddio” (Col 1,15) è l'uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con
Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata
assunta, senza per questo venire annientata per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una
dignità sublime. Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo» (22).
Nell’uomo-Gesù l’uomo, e mai come qui, viene a trovare una sua espressione perché il luogo in
cui avviene un suo esprimersi singolarissimo, perché Dio cui non è assieme ad un uomo, ma Dio,
4
Cfr. M. BRACCI, «Alla ricerca di percorsi per dire la Chiesa mystice», in: M. GRONCHI - M. SORIANI INNOCENTI (cur.),
Societas et Universitas. Miscellanea di scritti offerti a don Severino Dianich, ed. ETS, Pisa 2012, 95-112.
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assolutamente unico, singolare, in questo assolutamente unico e singolare uomo, che è tale perché è
Dio.
Siamo così di fronte ad una persona che suscita fede e che richiede fede in forza proprio della sua
umanità singolare, in forza della sua identità singolare espressa tutte le volte in Gesù di Nazaret:
quell'identità filiale accolta nel riceversi dal Padre e vissuta nell'andare al Padre. È questa dedizione
incondizionata all'uomo e al Padre nell'amore indiviso per l’uno e per l'altro – indiviso perché
nell'uno scopre e si rivela nell'altro, nell’uno è nell’altro – che Gesù è persona divina e veramente
umana. È in questa pre-ambolarità della fede che ha senso l’andare ogni volta a quella storia
particolarissima, unica, veramente singolare.
La fede si fonda su un evento che è auto-espressione di Dio, della sua vita trinitaria nella
condizione-espressione creaturale, al modo della natura personale umana. La fede riproduce quel
movimento che le è originario e originante. Dio ha una espressione di sé in sé – il Figlio, il Logos
eterno – e una fuori di sé – la creazione – destinata alla pienezza in Gesù Cristo cosicché, se Dio,
che può trascendere se stesso e proprio lì manifestare al massimo il suo essere-Dio, si dona nella
creazione in Gesù, allora nella risposta creata di Gesù ha creato per noi la possibilità di trascendere
noi stessi e aprirci al lasciar dire-sé di Dio in noi, con noi, per noi. Questa è l’esperienza della fede,
questo è altresì il preambolo ad ogni dire nella fede e a maggior ragione al dire teologico della
cristologia. È solo nella pre-ambolicità dell’esperienza gesuana che si legittima il dire-Dio: è il
mistero dell’incarnazione che lo annuncia squarciando il silenzio del pensare Dio da parte
dell’uomo. Solo se definitivamente ‘persa’ nell’evento Gesù è possibile ‘ritrovare’ l’ultima
intelligibilità, l’estrema possibilità di Dio.
1.2. Cosa si intende con Cristocentrismo
La fede è quindi pre-ambolare perché capace di introdurci al dinamismo che anima e sorregge il
movimento stesso di Dio: in Gesù veniamo ad accostarci sia all’auto-espressione libera di Dio in sé
che all’auto-espressione graziosa fuori di sé. Qui tocchiamo il nodo della stessa epistemologia
teologica, il suo ganglio vitale, che ci ricorda che ogni nostro pensare l'evento Cristo non può che
passare per il dipanarsi della storia di una salvezza. Da qui la domanda: quale determinazione ha
dato a tutto ciò il peccato, quale comprensione dell'intera realtà è sottesa alla centralità di Cristo,
alla sua singolarità se questo fuori di sé gli detta la condizione del suo av-venire? Che singolarità è
quella che emerge da una necessità da intendersi in entrambe le direzioni, sia nel suo venire dal
Padre che nel suo farvi ritorno?
Ora, se Gesù è l'avvento di Dio, allora l'evento Gesù di Nazaret è ‘oltre’ la pre-destinazione
dell’intera creazione e la pre-esistenza del Logos; questo non va inteso nel senso che tutto riposa in
un un ‘oltre’ irraggiungibile, ma che è la temporale singolarità della sua esistenza il valore stesso
della sua storia. Il senso di ogni ‘pre’ sta tutto in quel tempo, in quella libertà è fondata ogni
necessità, in quella contingenza sta e cade il senso dell’assoluto.
Affermare la centralità dell’evento Gesù Cristo permette di andare oltre quelle secche che hanno
pensato ad una realtà convergente – si prenda qui il caso della cristologia come compimento
dell’antropologia, secondo la sintesi di Karl Rahner – anziché divergente – come nel caso del
rapporto tra incarnazione e peccato in Tommaso d’Aquino anziché in Duns Scoto – o piuttosto
astratta – al modo della contemporaneità di Søren Kierkegaard – anziché universale concreta –
secondo l’espressione di Nicolò Cusano – della persona Gesù Cristo. Rahner affermava la
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possibilità di pensare una cristologia che fosse in gradi di andare oltre Calcedonia5, che prenda su di
sé l’esigenza di pensare il mistero del Verbo incarnato al di là della composizione; riaffermando la
centralità dell’evento Gesù Cristo ha portato con sé invece la convinzione di non dover andare ad un
oltre, bensì fermarsi proprio alla sua singolarità, tra l’indisponibilità ultima della sua storia e la
dedizione definitiva in quella storia.
Se è vero che l’identificazione di ‘verità’ e ‘storia’ si dà ultimamente solo in Gesù e in riferimento
a Lui solo, allora è la concretezza dell’evento a non distruggere uno dei due poli ma, anzi, a lasciare
intatta la tensione senza dissolverla a favore di un solo polo. Così la comprensione del reale avviene
nell’affermazione della verità della rivelazione, che è il mistero di Gesù. È qui che si gioca infatti il
sapere della fede, proprio nell’autocomprensione singolare di Gesù e della sua filialità vissuta in
una esperienza originaria e, pertanto, ultima. Verità, libertà, conoscenza, autocoscienza sono
concetti che devono essere detti a partire da Gesù, devono essere cristo-centrati, solo così sono
semplicemente loro stessi, solo così non vengono ridotti a Gesù né Gesù si riduce a loro. Tutto deve
essere provato dal movimento pre-ambolico della fede; in questo senso la fede mette alla prova.
Pertanto, non vi è nessun ‘pre’ di fronte a Gesù: egli è il centro, perfino di quel dinamismo che
vorrebbe mettere Cristo al centro del sapere teologico.
1.3. Il luogo e il contenuto della singolarità
Dov’è il luogo di questa singolarità, intendendo con ‘luogo’ proprio quel centro ‘provato’ e che
‘prova’ la forza del pensare, del dire, del sapere Gesù?
Di certo occorre non ricadere né in un assolutistico principio genericamente ‘divino’ o metafisico,
né in una altra sovra-struttura umana; si tratta invece di rimanere – usiamo qui un verbo caro al
linguaggio giovanneo – al centro, nel concreto esistente che è Gesù in tutta la sua paradossalità.
Il nostro percorso trovava il suo inizio proprio nella storicità singolare ed assoluta di Gesù ed a
questa siamo ritornati proprio ora; ciò significa:
ü che la storicità, intesa proprio quale carattere individule, cronologicamente concluso,
contingente e libero dell’esistenza di Gesù è il luogo di un movimento, di un divenire che
non si riduce né al solo esito finale né ad una sola delle parti che la compongono, ma
prendere sul serio proprio quel paradosso cristiano espresso nell’unità reale di Dio e di
uomo, singolarmente data in un dato singolo, storico, concreto;
ü che la comprensione di questa storia sta sempre nel rapporto proprio della fede, quindi
nella presa sul serio della unicità di quella storia e del suo darsi a comprendere
storicamente; proprio questo affidarsi è il presupposto ultimo e trascendente; proprio
questo suo darsi/andare e offrirsi/venire di Gesù al Padre è lo sfondo ultimo della storia di
Dio, del suo venire/avvenire nella fede, di quell’ultimo sapere di Gesù che sostiene e
identifica ogni sapere Gesù.
Sullo sfondo appare qui feconda sia la riflessione di R. Guardini sul principio euristico6, che si
offre nella opposizione polare della realtà, che quella di S.N. Bulgakov sulle antinomie7.
5
K. RAHNER, «Problemi della cristologia d’oggi», in Saggi di Cristologia e di Mariologia, Roma 1967.
Cfr. R. GUARDINI, Libertà, Grazia, Destino, ed. Morcelliana, Brescia 2009; ID., L’opposizione polare. Saggio per una
filosofia del concreto vivente, ed. Morcelliana, Brescia 1997.
7
S.N. BULGAKOV, L’agnello di Dio. Il mistero del Verbo incarnato, Città Nuova, Roma 1990.
6
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Così il luogo è al tempo stesso il contenuto: Gesù non è colui che assume né è assunto dalla
trascendenza divina, ma egli è il darsi proprio di questa. Se possiamo dire qualche cosa di Dio è
perché questi si è dato dicendosi in un rapporto col Dio/Abbà:
«L’identità e l’autocoscienza di Gesù sono così stagliate da apparire uniche, proprio perché egli si sa e
agisce come il Figlio di Dio/Abbà: e come Figlio tutto si riceve e si dona a Dio, il quale, essendo
Abbà, nulla tiene per Sé solo, ma tutto di Sé comunica al Figlio. L’identità (e l’autocoscienza) di Gesù
con-siste nel suo ex-sistere, nella sua relazionalità: egli si sa Figlio di fronte, anzi, nel rapporto
d’intima comunione con il Padre: Io e il Padre siamo uno (Gv 10,30). Tale rapporto s’esprime,
umanamente, nella dinamica della fede: come esperienza/conoscenza del Padre e come
fiducia/affidamento in Lui e a Lui – un rapporto che, pur essendo percepito da Gesù come immediato,
è al tempo stesso da Lui vissuto storicamente, e dunque per sé esige la crescita, il rischio della libertà,
la prova»8.
È la filialità a dire il venire di Gesù; è la filialità a dire il suo andare in contro al Padre; è la sua
filialità pro-esistente la radice della sua pre-esistenza come della sua post-esistenza; è la filialità la
base dell’insuperabile distinzione di umano e divino perché è il luogo di una unicità e singolarità di
Gesù e del Padre suo, altrettanto unico e singolare; è la filialità lo sfondo che apre alla paternità ma
l’una e l’altra sono s-fondate dall’irrompere della filialità di Gesù e dalla paternità dell’Abbà.
Questa singolarità è l’intima ed ultima misura dell’universalità di Gesù: egli è in ciò che si
identifica e si indentifica in ciò che opera Lui e, in Lui e per mezzo di Lui, il Padre. Solo così egli è
la salvezza e proprio così egli è salvezza universale. Ogni affermazione di salvezza caratterizzata
come ‘universale’ sta e cade all’interno della sua propria singolarità: è questa storia ad avere la
pretesa di universalità proprio per quella sua libera, reale, ultimamente e definitivamente storica
auto-comunicazione. È da questa singolarità che quindi si decide la soteriologia e l’universalità di
questa.
8
P. CODA, Il logos e il nulla. Trinità, religioni, mistica, Roma 2003, p. 161.
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2. La salvezza in Gesù Cristo: quale universalità?
La domanda a cui dobbiamo cercare di rispondere è: che cosa significa che Gesù ci salva, che
Gesù è il salvatore, il redentore?
Se il chi è stato chiarito in ordine alla/nella sua auto-comunicazione, alla/nella sua relazione
ultima ed intima con il Padre, allora ogni determinazione del suo chi riposa in quella
determinazione che Gesù fa di sé, il suo essere ‘luogo’ del/nel suo venire ed andare al Padre.
Anche in questo caso il nostro percorso lo svolgiamo in 4 passi, partendo prima dal significato del
termine ‘salvezza’, per accedere così ai modelli che i diversi significati suppongono e così andarli a
‘provare’ alla luce dell’evento Gesù lasciando che ci riverberino e allarghino l’orizzonte.
2.1. Una questione terminologica Nel NT abbiamo si incontrano diversi termini con cui il chi di Gesù ha trovato lo spazio per dirsi
in quella dinamica di offerta e dono di salvezza; andiamo ora alla ricognizione di questi termini
cercando di evidenziarne i tratti costitutivi e, quindi, identitari di Gesù. Raduniamo i diversi termini
in tre regioni di significato: redenzione, riconciliazione ed espiazione.
Redenzione «21 Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla
legge e dai profeti; 22 giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono.
E non c'è distinzione: 23 tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, 24 ma sono giustificati
gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù - διὰ τῆς
ἀπολυτρώσεως τῆς ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ» (Rm 3,21-24)
«28 Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose
che sono, 29 perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. 30 Ed è per lui che voi siete in Cristo
Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia (δικαιοσύνη), santificazione
(ἁγιασµὸς) e redenzione (καὶ ἀπολύτρωσις) 31 perché, come sta scritto: Chi si vanta si vanti nel
Signore» (1Cor 1,28-31)
Il termine ἀπολύτρωσις (apolutrôsis) è una parola composta da ἀπό e λύτρον; il sostantivo
femminile ha significato di rilascio, ottenuto con il pagamento di un riscatto, per cui anche di
redenzione, procurata dal pagamento di un riscatto. Il richiamo corre all’immagine del go’el
pasquale (cfr. Es 6,6; 15,13-17) e al riscatto del congiunto trattenuto prigioniero di guerra (Is 41,14;
43,14). Il senso ultimo è che Dio è colui che libera, che paga il riscatto; Dio stesso procede
all’acquisto del suo popolo, suo speciale possesso (cfr. Es 15,16; 19,5) liberando Israele da
Babilonia (cfr. Is 51,11; 52,3-9) e lasciando intendere quella liberazione ultima e definitiva: « Li
strapperò di mano agli inferi, li riscatterò dalla morte? Dov'è, o morte, la tua peste? Dov'è, o inferi,
il vostro sterminio? La compassione è nascosta ai miei occhi» (Os 13,14; cfr. Sal 130,7-8).
Accanto a questo termine e a questi testi troviamo anche il termine σωτηρία (sôtêria) salvare.
«67Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo, e profetò dicendo: 68 “Benedetto il Signore Dio
d'Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo, 69 e ha suscitato per noi una salvezza potente
nella casa di Davide, suo servo, 70 come aveva promesso per bocca dei suoi santi profeti d'un tempo:
71
salvezza (σωτηρίαν) dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano…”» (Lc 1,67-71).
«46Allora Maria disse: “L'anima mia magnifica il Signore 47 e il mio spirito esulta in Dio, mio
salvatore (τῷ σωτῆρί µου), 48 perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le
generazioni mi chiameranno beata» (Lc 1,46-48).
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«17Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per
mezzo di lui (σωθῇ … δι' αὐτοῦ). 18 Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato
condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio» (Gv 3,17s).
Il termine derivata da σωτήρ (sôtêr), come sostantivo propriamente astratto. Nel NT il termine è
legato a Dio 8x, a Gesù 16x. Se mai a Cristo è dato il titolo di redentore λυτρωτής (lutrôtês) –
riferito invece a Mosé in At 7,35 – di Gesù si dice invece che «in nessun altro vi è salvezza - οὐκ
ἔστιν ἐν ἄλλῳ οὐδενὶ ἡ σωτηρία» (At 4,12).
Accanto a questi primi due termini si trova anche il verbo ἐλευθερόω (eleutheroô) e il sostantivo
ἐλεύθερος con il significato di rendere libero, liberare dal dominio del peccato.
«1Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. 2 Poiché la legge dello
Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte (ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ
ἠλευθέρωσέν σε ἀπὸ τοῦ νόµου τῆς ἁµαρτίας καὶ τοῦ θανάτου)» (Rm 8,1s).
«19La creazione (ἡ κτίσις) stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; 20 essa infatti è
stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre
la speranza 21 di essere lei pure liberata dalla schiavitù (ἐλευθερωθήσεται ἀπὸ τῆς δουλείας) della
corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio (τῆς φθορᾶς εἰς τὴν ἐλευθερίαν τῆς
δόξης τῶν τέκνων τοῦ θεοῦ)» (Rm 8,19-21).
«31Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: “Se rimanete fedeli alla mia parola,
sarete davvero miei discepoli; 32 conoscerete la verità (γνώσεσθε τὴν ἀλήθειαν) e la verità vi farà liberi
(καὶ ἡ ἀλήθεια ἐλευθερώσει ὑµᾶς)”» (Gv 8,31s).
Ad ἐλεύθερος può essere affiancato anche il termine ῥύοµαι (rhuomai), voce media del verbo ῥέω
(rheô), un verbo primario, forma prolungata di ἐπω col significato di attirare a sé, liberare e così
anche salvare.
«e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male (ῥῦσαι ἡµᾶς ἀπὸ τοῦ πονηροῦ)» (Mt 6,13).
«39E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: 40 “Tu che distruggi il
tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!”. 41
Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: 42 “Ha salvato gli altri, non può
salvare se stesso (Ἄλλους ἔσωσεν, ἑαυτὸν οὐ δύναται σῶσαι·). È il re d'Israele, scenda ora dalla croce
e gli crederemo”» (Mt 27,42-43).
Due brani collegano tra loro ῥύοµαι e σωτήρ:
«70 come aveva promesso per bocca dei suoi santi profeti d'un tempo: 71 salvezza dai nostri nemici
(σωτηρίαν ἐξ ἐχθρῶν ἡµῶν), e dalle mani di quanti ci odiano. 72 Così egli ha concesso misericordia ai
nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza 73 del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, 74
di concederci, liberati dalle mani dei nemici (χειρὸς ἐχθρῶν ῥυσθέντας), di servirlo senza timore, 75 in
santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni» (Lc 1,71-75).
«25 Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi:
l'indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. 26 Allora tutto
Israele sarà salvato (πᾶς Ἰσραὴλ σωθήσεται) come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore (ἐκ Σιὼν ὁ
ῥυόµενος), egli toglierà le empietà da Giacobbe» (Rm 11,26).
Interessante notare il parallelismo nel brano di Lc tra la liberazione e la salvezza dalle mani dei
nemici, come in Rm tra il liberatore di Sion e la salvezza di Israele.
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Il passaggio al termine latino salus comporta uno scivolamento sul piano che denota la salute,
l’essere guariti e il benessere (da cui i termini salubris e salvus); la salvezza così va ad esprimere
una vita integra e buona in sé, sciogliendola invece dalla relazione con un altro come suggerisce
invece il termine liberazione. Anche in questo caso sarebbe interessante indagare quanto di questo
scivolamento confluisca nella tradizione medioevale di una creazione in sé compiuta e di una
salvezza che porta un di più rispetto alla relazione che presuppongono invece i termini greci.
Riconciliazione «10Se infatti, quand'eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio (κατηλλάγηµεν τῷ θεῷ) per
mezzo della morte del Figlio suo (διὰ τοῦ θανάτου τοῦ υἱοῦ αὐτοῦ), molto più ora che siamo
riconciliati (καταλλαγέντες), saremo salvati mediante la sua vita (σωθησόµεθα ἐν τῇ ζωῇ αὐτοῦ). 11
Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora la
riconciliazione abbiamo ottenuto (τὴν καταλλαγὴν ἐλάβοµεν)» (Rm 5,10-11).
«17Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di
nuove. 18 Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo (καταλλάξαντος
ἡµᾶς ἑαυτῷ διὰ Χριστοῦ) e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione (τὴν διακονίαν τῆς
καταλλαγῆς). 19 È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo (ἐν Χριστῷ κόσµον
καταλλάσσων), non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della
riconciliazione (τὸν λόγον τῆς καταλλαγῆς). 20 Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come
se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio
(καταλλάγητε τῷ θεῷ)» (2Cor 5,18-20).
Il verbo che Paolo utilizza non è in continuità con la tradizione ebraica; utilizza invece il verbo
καταλλάσσω (katallassô), composto da κατά (secondo, verso) e ἀλλάσσω (cambiare, scambiare una
cosa per un'altra). Il senso dell’espressione appartiene alla cultura greco-romana in cui il significato
è legato sia allo scambio, per esempio delle monete con valore equivalente che il passaggio da una
estraneità ed ostilità ad una relazione che interrompe il disaccordo, una trasformazione. Così in Rm
5,10-11 si fa riferimento al passaggio dalla ostilità, da una estraneità tra Dio e l’uomo ad una
riconciliazione: Dio non è più il nemico, ma è Dio che si fa prossimo riconciliando l’intero cosmo
(cfr. Rm 11,15; 2Cor 5,19). Dio stesso desidera che noi ci riconciliamo con Lui (2Cor 5,18-20).
Paolo afferma che questa riconciliazione è già avvenuta eppure chiede che ci si lascia riconciliare
ancora.
In questo caso il termine sembra fare riferimento ancora una volta al chi di Gesù come luogo entro
cui la riconciliazione avviene, il modo in cui questa si dà è nell’entrare in relazione con Lui, con la
sua storia e con la sua identità.
Espiazione «23 tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, 24 ma sono giustificati gratuitamente per la sua
grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. 25 Dio lo ha prestabilito a servire come
strumento di espiazione per mezzo della fede (θεὸς ἱλαστήριον διὰ [τῆς] πίστεως), nel suo sangue, al
fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, 26 nel tempo della
divina pazienza» (Rm 3,25).
«1 Certo, anche la prima alleanza aveva norme per il culto e un santuario terreno. 2 Fu costruita infatti
una Tenda: la prima, nella quale vi erano il candelabro, la tavola e i pani dell'offerta: essa veniva
chiamata il Santo. 3 Dietro il secondo velo poi c'era una Tenda, detta Santo dei Santi, con 4 l'altare
d'oro per i profumi e l'arca dell'alleanza tutta ricoperta d'oro, nella quale si trovavano un'urna d'oro
contenente la manna, la verga di Aronne che aveva fiorito e le tavole dell'alleanza. 5 E sopra l'arca
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stavano i cherubini della gloria, che facevano ombra al luogo dell'espiazione (τὸ ἱλαστήριον). Di tutte
queste cose non è necessario ora parlare nei particolari» (Eb 9,5).
Il termine ἱλαστήριον (hilastêrion) deriva da una parola derivata da ἱλάσκοµαι, voce media di
ἵλεως (darsi, placare, conciliare a sé stesso), è riferito alla propiziazione o espiazione, al mezzo con
cui placare o espiare, l’elemento di una propiziazione. Cristo è qui definito come l’ἱλαστήριον, il
propiziatore.
Nella traduzione dei LXX il termine ἱλαστήριον compare 21x. È utilizzato per designare la sede
della misericordia (kapporeth) il coperchio dorato dell’arca dell’alleanza, che nel giorno dello yom
kippur – il giorno dell’espiazione – il sommo sacerdote aspergeva con sangue perché purificasse la
sede della misericordia, togliendo così la macchia del peccato di Israele e rinnovando l’alleanza.
Seguendo questa immagine rituale Dio sarebbe colui che ha prestabilito Gesù come autentica e
definitiva sede della misericordia (cfr. Rm 3,25), poiché «è lui che ha amato noi e ha mandato il suo
Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati (καὶ ἀπέστειλεν τὸν υἱὸν αὐτοῦ ἱλασµὸν περὶ
τῶν ἁµαρτιῶν ἡµῶν)» (1Gv 4,10). L’uomo non può kipper (pulire) il proprio peccato – interessante
notare l’uso del verbo kipper, per il quale Dio non è mai complemento oggetto –, ma Dio lo fa per
l’uomo. Ancora una volta è l’azione di Dio in favore dell’uomo e Gesù ne è il propiaziatore.
2.2. Modelli e teorie soteriologiche alla prova della singolarità di Gesù I termini con cui si dice il senso della salvezza ruotano attorno ad una comprensione della stessa,
per cui abbiamo l’immagine della sostituzione penale/admirabile commercium, del sacrificio
espiatorio e la sostituzione rappresentativa o vicaria.
Se prima abbiamo visto i termini, ora possiamo vedere come lo stesso Nuovo Testamento abbia
fatto ricorso ad alcuni modelli:
a. la riconciliazione operata da Dio con il mondo presuppone la dedizione del Figlio stesso di Dio per
tutti noi (Rm 8,32; Gv 10, 17-18), il sangue versato (Gv 10, 17) viene inteso come ciò che espia
(Rm 3, 25), giustifica (Rm 5, 9) e purifica (1Gv 1, 7);
b. il dono di sé per noi arriva fino a diventare un vero e proprio scambio del posto: egli viene ridotto a
peccato (2Cor 5,21), maledizione (Gal 3, 13), affinché noi diventiamo giustizia di Dio (2Cor 8, 9).
È nella sua carne che viene condannata la nostra inimicizia e il nostro peccato (Rm 8, 23) ed è in
questa sostituzione (Col 1, 13) che noi siamo espropriati di quanto ci è proprio (1Cor, 6, 19), ossia
morti e resuscitati nell’evento Pasquale con Cristo (Rm 6, 3; Col 3, 3; Ef 2, 5);
c. il dono della salvezza viene descritto come il pagamento di un prezzo (il sangue di Cristo: 1Cor 6,
20; 7, 23; 1Pt 1, 18), come denaro di riscatto (Mc 10, 45 par) senza di cui non si dà nessuna
remissione (Eb 9,22), alcun dono di vita (Gv 10);
d. la liberazione dalle catene (Lc 13, 16; Mt 12, 29) avviene nello Spirito Santo in modo che viene
assicurata un’introduzione nella vita divina trinitaria (Gal 4, 6; Rm 8, 10);
e. mentre la mancanza e perdita del rapporto iniziale con Dio torna spesso nel topos dell’ira di Dio
(Mt 3, 7; Rm 1,18), l’avvenimento della riconciliazione viene ricondotto all’amore misericordioso:
l’amore del Padre (Rm 8, 39) dona il Figlio per tutti (Rm 8, 32) e questo amore è ciò che riconcilia
il mondo a Dio (2Cor 5, 19; Col 1, 20).
La verità di questi modelli non risiede in loro stessi, ma deve essere ancora sottoposta alla verità
esibita da Gesù, che anche la salvezza sia cristo-centrata. In questi modelli è intesa e interpretata la
mediazione salvifica operata da Gesù nella offerta che egli fa di sé, ma questa non è assoluta, anzi
deve essere riportata al senso che Lui ha dato alla sua morte e con cui è passato alla fede della
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Chiesa. Per far ciò passiamo ora per tre testi che sono sia lo sfondo della narrazioni che dell’autointerpretazione esibita da Gesù: il Sal 22, il terzo carme di Is 52,13-53,12 e Lv 16.
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Sal 22,2) Il Sal 22 esprime il grido di abbandono di Gesù sulla croce (cfr. Mc 15,34) e si tratta anche del
testo che conta ben 8 citazioni esplicite e 12 allusioni nel NT.
Il Salmo è diviso in 2 sezioni: un lamento personale come atto di accusa (vv. 1-21) e un
ringraziamento e inno di lode per il rovesciamento della condizione e della sorte dell’orante (vv. 2231). È possibile ravvisare una inclusione operata per mezzo del v.1 – il lamento verso Dio perché
non concede l’aiuto invocato – e il v. 32 – la proclamazione della lode rivolta a Dio che ha
compiuto la sua opera, che lo ha liberato.
La sofferenza dell’orante è espressa dal salmista ora come una malattia intesa come punizione
divina (vv. 7-9), ora come una febbre che lo lascia debole (vv. 15-18), ora come la sentenza di un
processo cui fa seguito la pena e l’uccisione (vv. 13-14; 21-22). L’orante chiede aiuto e formula il
suo voto: «annunzierò il tuo nome … ti loderò» (v. 23) se Dio verrà in suo soccorso (vv. 21-22);
così egli attende fiducioso la propria liberazione, pregando i fratelli e le sorelle (v. 23) e la grande
assemblea (v. 26).
Di versi i riferimenti ad altri testi dell’AT. Sullo sfondo si possono udire i brani di Is 49,14 - «Il
Signore mi ha abbandonato, mi ha dimenticato» – e Is 53,5 – «trafitto per i nostri delitti» –; per la
condizione in cui si trova l’orante ricorrono brani come il Sal 22,7 – «possono contare tutte le mie
ossa» – Ger 49,15 – « Poiché ecco, ti renderò piccolo fra i popoli e disprezzato fra gli uomini» – e
18,16 – « Il loro paese è una desolazione, un oggetto di scherno perenne. Chiunque passa ne rimarrà
stupito e scuoterà il capo» – mentre il tema della sofferenza ha in Giobbe (cfr. Gb 42,1-17) ed Is
53,4-9– «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori … percosso da Dio e
umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà
salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti … il Signore fece ricadere
su di lui l'iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come
agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo … Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per
l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte … sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse
inganno nella sua bocca» – il suo controcanto.
Le allusioni a Gesù nel NT sono in relazione ora alla sete (cfr. Mc 15,23.36; Gv 19,28-29), ora allo
scuotere il capo (Mc 15,29-32 e //), ora allo scherno (Mt 27,8-9), ora alla divisione delle vesti (cfr.
Mt 27,15; Lc 22,34; Gv 19,23-24). È però nell’invocazione a Dio il passaggio drammatico
dell’invocazione. Nell’orto egli prega dicendo: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da
me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36), mentre sulla croce
prega con le parole del salmista: «Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?,
che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Alcuni dei presenti, udito ciò,
dicevano: “Ecco, chiama Elia!”. Uno corse a inzuppare di aceto una spugna e, postala su una canna,
gli dava da bere, dicendo: “Aspettate, vediamo se viene Elia a toglierlo dalla croce”. Ma Gesù,
dando un forte grido, spirò» (Mc 15,34-37).
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Sottolineiamo due elementi del salmo. Nulla suggerisce che la causa di tale sofferenza sia l’ira di
Dio. La sofferenza ha come contraltare la fiduciosa attesa; così Gesù è affiancato per il suo
abbandono filiale: si è affidato a Dio, Lui lo libererà.
«Il Signore fece scendere su di Lui l’iniquità di noi tutti» (Is 53,4) Is 52,13-53,12 è citato ben 14 volte nel NT. Su chi sia questo servo ci sono diverse ipotesi (Israele,
un singolo individuo – per cui perfino il profeta stesso – oppure il popolo tutto o anche il
governatore Zorobabele). Andiamo anche in questo caso ad evidenziare alcuni elementi.
Non si fa cenno alla morte del ‘servo’; vi sono allusioni, ma non sembra si faccia riferimento al
patibolo della croce; le aspettative giudaiche intorno alla figura del ‘messia’ ponevano di fatto una
distanza tra questi e il servo perseguitato; nessuno può essere liberato dalla morte da qualcun altro,
anzi, si può essere puniti con la morte solo per proprie colpe perché ogni colpa è sempre e soltanto
personale (cfr. Nm 5,5-10; Dt 24,16; 2Re 14,6; Ez 3,18-19; 18,1-32); anche in questo testo mai
viene evocata l’ira di Dio, perché il suo progetto è semmai quello di esaltare il suo servitore fedele
(52,13-15).
Sebbene venga ad essere tematizzata l’obbedienza alla volontà divina, non se ne comprende però
in ultima analisi la relazione col farsene carico del servo.
«in quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi» (Lv 16,30) Il capitolo 16 è inserito all’interno della sezione cc. 11-16, in cui si affronta il modo per eliminare
ed evitare le impurità rituali, ed introduce alla sezione successiva, i cc. 17-26, dedicata al codice di
santità: «siate santi come io sono santo» (Lv 19,2; 20,26).
Il c. 16 descrive il sacrificio da compiere il giorno dell’espiazione (yom kippur). Dopo aver scelto
quale animale sacrificare a Dio e quale abbandonare ad Azazel, Aronne pone le mani sulla vittima
sacrificale conferendole le iniquità del popolo (v. 21) e abbandonandola alla morte.
Certo, Cristo non è capro espiatorio, sia perché il rito con Gesù cessa d’essere necessario sia
perché egli ha espiato una volta per sempre (cfr. Eb 9,1-10,18). Eppure non mancano i riferimenti:
«Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi,
come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo
passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede» (Gal 3,13s).
Paolo qui omette di citare una parte essenziale del testo; così il testo completo: «Se un uomo avrà
commesso un delitto degno di morte e tu l'avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere
non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è
una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità» (Dt
21,22-23). L’apostolo così toglie ogni rimando alla maledizione divina: Gesù sulla croce resta
maledetto dalla Legge e da coloro che l’amministrano, ma non da Dio, perché «colui che non aveva
conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per
mezzo di lui giustizia di Dio» (2Cor 5,21).
Lutero leggerà in questo testo la radice della sua “teologia della croce”, cosicché in Gesù Cristo,
quale ricettacolo del potere del peccato, viene a trovarsi il trasgressore per un atto di sostituzione, il
concreto (il peccatore) per l’astratto (il peccato). L’agire di Dio è qui l’elemento decisivo: con quel
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«lo trattò (ἐποίησεν ἁµαρτίαν letteralmente lo fece peccato) da peccato in nostro favore» (2Cor
5,21) Paolo suggerisce tutta la distanza tra l’essere peccatore e l’essere fatto, come in Lv, peccato,
maledizione per volontà sua. Così, «ciò che era impossibile alla legge … Dio lo ha reso possibile:
mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha
condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non
camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito» (Rm 8,3-4).
Dove la legge ha fallito, ora viene lo Spirito: si tratta del nuovo e definitivo ordine secondo la
forma esibita da Gesù, la forma filiale e non più legale. Di Gesù si afferma quindi che la sua carne,
la sua condizione è ciò che ha vissuto portando su di sé il gravame della stessa, il peccato in
solidarietà con gli uomini sebben egli non fosse peccatore.
Anche il tema dell’ira diventa così del tutto inconsistente: «poiché Dio non ci ha destinati alla sua
collera ma all'acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per
noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui» (1Tess 5,9-10).
Da questa carrellata risulta chiaro:
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che Gesù non è venuto ad immolarsi perché fosse placata l’ira di Dio
che Gesù non soffre per dare soddisfazione
ma ha partecipato alla condizione umana che è determinata dalla legge del peccato ed
espressa da questo nella forma della ‘morte’ (cfr. Rm 5-7)
Gesù è semmai sotto lo stesso giudizio divino, vi si sottopone in totale unione con l’uomo,
con ogni uomo
Più che di un ‘sacrificio’ – di cui sembra evidente ora l’inconsistenza – ha senso semmai leggere
nel linguaggio sacrificale l’esprimersi della donazione di sé di Gesù: «Dio ha tanto amato il mondo
da dare il suo Figlio» (Gv 3,16; cfr. 2Cor 5,19). Nella relazione quindi che lega Gesù a Dio/Abbà si
ha il luogo entro cui si fa esplicita la forma libera del darsi di Dio, forma capace di passare fino alla
de-formazione della croce per giungere alla trans-formazione gloriosa nella resurrezione.
È da qui che va emergendo il chi, la singolarità assoluta di Gesù, esibita nella sua solidarietà al
Padre e all’uomo ed è a questa singolarità che occorre lasciare spazio ora.
2.3. Il luogo cristocentrico: la salvezza secondo la Lettera agli Ebrei Il luogo neotestamentario all’interno del quale il tema ‘sacrificale’ è affrontato cristologicamente è
la Lettera agli ebrei.
Se il sacrificio presuppone che (1) si agisca in un contesto cultuale, che (2) lo sfondo di fede sia
all’opera e che (3) sia offerta qualche cosa di valore con l’obiettivo di produrre una comunione tra
offerente e Dio e la trasformazione dei partecipanti, la Lettera agli ebrei però (1) nega alla morte di
Gesù il contenuto cultuale, (2) non afferma che gli uomini vadano verso Dio con i loro doni perché
è Dio stesso a provvedere i mezzi necessari (cfr. Gen 22,1-14) e (3) non prevede la fede
dell’officiante.
Il mistero del suo amore: «pur essendo Figlio imparò … l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,9) Il punto di vista di Eb sta invece nella rivelazione della volontà di Dio stesso, il mistero del suo
amore:
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«Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice:
Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,
un corpo invece mi hai preparato.
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Non hai gradito
né olocausti né sacrifici per il peccato.
7
Allora ho detto: Ecco, io vengo
- poiché di me sta scritto nel rotolo del libro per fare, o Dio, la tua volontà.
8
Dopo aver detto prima non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né
sacrifici per il peccato, cose tutte che vengono offerte secondo la legge, 9 soggiunge: Ecco, io vengo a
fare la tua volontà. Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo. 10 Ed è
appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù
Cristo, fatta una volta per sempre» (Eb 10,5-10).
È il volere di Dio che, nella citazione del Sal 40, viene ad essere il primo testimone della fine della
logica del sacrificio in vista di una vita intera vissuta nella oblazione di sé.
«7 Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e
lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; 8 pur essendo Figlio,
imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì 9 e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per
tutti coloro che gli obbediscono, 10 essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di
Melchìsedek» (Eb 5,7-10).
Il sacrificio di Gesù non è quindi solo quello che appare sulla croce, ma «nei giorni della sua vita
terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da
morte e fu esaudito» (5,7). La sua è una vita passata ad offrire se stesso, in questo è una vita piena,
perfetta: la perfezione delle sue mani divine riempite, come un crogiolo, dell’umanità così fatta
capace di dire l’amore di Dio. Il riferimento alla perfezione che Eb qui inserisce trova la sua
comprensione nel testo della consacrazione sacerdotale: «1Osserverai questo rito per consacrarli al
mio sacerdozio. Prendi un giovenco e due arieti senza difetto; 2 poi pani azzimi, focacce azzime
impastate con olio e schiacciate azzime cosparse di olio: di fior di farina di frumento. 3 Le disporrai
in un solo canestro e le offrirai nel canestro insieme con il giovenco e i due arieti» (Es 9,1-3). Come
le mani del sacerdote dovevano essere riempite della misura di farina e olio perché, riempite,
potessero essere colme e così perfette per il sacrificio, allo stesso modo Gesù è reso perfetto
nell’andare colmo della sua stessa umanità verso Dio/Abbà. Gesù non sacrifica la sua umanità,
quasi deponendola perché inadatta, al contrario egli carica la sua offerta di sé proprio inserendo la
sua umanità, quella che è stata da lui colmata perché resa capace di dire e vivere la sua vita filiale
divina. Viene così ad essere istituito un rapporto singolarissimo tra la figliolanza divina e
l’obbedienza cristica e che è stato espresso meravigliosamente da Bernardo di Chiaravalle: «non è
perché prima di allora egli ignorasse che cosa fosse la misericordia - la sua misericordia si estende
di eternità in eternità; ma perché ciò che conosceva per natura da tutta l’eternità, l’ha appreso
mediante un’esperienza che si inseriva nel tempo»9. Così allora, la sua esistenza è stata bagnata,
avvolta, come l’ilasterion dell’arca, dall’umanità che, non deposta, è stata per Lui maestra: «pur
essendo Figlio imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì» (5,9).
Così il Figlio attraversa il nostro mistero e lo abita dal di dentro:
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I gradi dell’umiltà e della superbia. L’amore di Dio, 6.
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«11 Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più
perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, 12 non con sangue
di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci
così una redenzione eterna. 13 Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca,
sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, 14 quanto più il sangue di
Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza
dalle opere morte, per servire il Dio vivente?» (Eb 9,11-14).
Gesù, attraversando filialmente l’esperienza umana, così attraversa il mondo di Dio con l’umanità
che ha fatto sua. Eb sembra intuire una reciprocità immanente dell’evento dell’incarnazione:
quell’uomo, che il Lógos può essere, è quel Gesù che è il Cristo-Messia, cosicché quell’umanità di
Dio, che è l’essere umano di Gesù, è attraversata ed attraversa l’essere del Figlio nella forma
esibita dall’obbedienza fino alla croce del Cristo crocifisso e risorto.10
«Con uno Spirito eterno offrì se stesso» (Eb 9,14) Il suo sacrificio, nell’umano assunto, è rivolto a Dio: questa sua umano-divinità è protesa verso il
Padre; verso Dio si innalza per volontà stessa di Dio: «con uno Spirito eterno offrì se stesso senza
macchia a Dio» (Eb 9,14). Il testo di Eb ha ancora una volta un rimando importante. Il libro del
Levitico ricorda come il problema dei culti antichi era di “far salire” fino a Dio le vittime immolate.
Il mezzo adoperato era il fuoco; grazie a questo le vittime si trasformavano in un fumo che saliva
verso il cielo e Dio poteva respirare il profumo del sacrificio e trovarvi soddisfazione. Il fuoco era
dunque capace di dare un una spinta verso l’alto e permetteva all’offerta di raggiungere Dio. Però
non qualsiasi fuoco era adatto a questa funzione sacrificale; per far salire veramente presso Dio
occorreva un fuoco che venisse da Dio stesso: soltanto un fuoco sceso dal cielo sarebbe stato capace
di risalire al cielo con le offerte. Così il Levitico sottolinea che il culto sacrificale del popolo di Dio
si effettuava per mezzo di un fuoco venuto da Dio. Per l’inaugurazione di questo culto «un fuoco
era uscito dalla presenza del Signore e aveva consumato sull’altare dell’Olocausto e i grassi» (Lev
9,29). Una tradizione analoga metteva nella stessa prospettiva il culto nel tempio di Salomone: il
fuoco celeste, venuto sull’altare, era stato accuratamente trattenuto in modo da poter servire in
continuazione per i sacrifici.
«Il fuoco di Dio – afferma A. Vanhoye – non è la folgore che piomba dalle nubi, ma lo Spirito Santo,
Spirito di santificazione, capace di effettuare la vera trasformazione sacrificale di far passare l’offerta
nella sfera divina … per avvicinarsi a Dio, l’uomo ha bisogno di uno slancio interno, non di un
movimento esterno. Chi comunica lo slancio interno è lo Spirito di Dio. Il sacrificio di Cristo non si
attuò quindi per mezzo del fuoco continuo che bruciava sull’altare del tempio, ma “per mezzo dello
Spirito eterno” … Questa forza spirituale ha realizzato la vera trasformazione sacrificale, facendo
passare Gesù dal piano “del sangue e della carne” (Eb 2,14) al piano dell’intimità celeste con Dio
(9,4). In questa maniera, Cristo è stato, come dice S. Paolo, “costituito figlio di Dio con potenza
secondo lo Spirito di santificazione” (Rm 1,4)»11.
Nell’offerta suprema di Gesù l’autore di Ebrei intravede la stessa azione: questa volta è lo Spirito
(«mediante spirito eterno offrì se stesso immacolato a Dio»: 9,14) ad animare Gesù e renderlo
capace di realizzare un’oblazione e una salvezza eterna conforme alla sua identità filiale. Se per una
redenzione è necessario un sacerdote capace di offrire, di far salire la vittima fino a Dio, Cristo,
bruciando in sé di quello Spirito eterno, ha dato una forza singolarissima all’offerta filiale ed ha
10
Cfr. M. BRACCI, Nel seno della Trinità. Il mistero dell’ascensione di Gesù, ed. ETS, Pisa 2011.
A. VANHOYE, «L’azione dello Spirito Santo nella passione di Cristo secondo l’Epistola agli Ebrei», in: Credo in
Spiritum Sanctum, vol. I, Atti del Convegno Internazionale di Pneumatologia (Roma 22-26 marzo 1982), Città del
Vaticano 1983, pp. 764-765.
11
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potuto darla nell’offerta di sé, vero uomo e vero Dio. In questo senso Cristo è sacerdote: capace di
far salire attivamente (e non solo come vittima passiva) la sua offerta fino a Dio, perché ha avuto in
sé lo ‘Spirito eterno’. Così ‘lo Spirito’ non solo anima il movimento attivo dell’amore di Gesù verso
il Padre e gli uomini (culminante nell’evento della croce), ma opera la stessa trasformazione
esistenziale, la glorificazione del suo essere umano, facendone la ‘via perfetta’ verso il Padre.
Dio/Abbà accoglie Gesù, ne prende lo slancio e al contempo lo sorregge: il Padre non ha mai
lasciato solo il proprio Figlio. Certi di questa intimità i vangeli hanno narrato l’episodio del
battesimo (cfr. Lc 3,21-22) e, a sottolinearne l’indissolubile vicinanza, narrano della presenza dello
Spirito all’incarnazione (cfr. Lc 1,35). Il dono del suo Spirito, sulla croce e a Pentecoste, ha
permesso alla Chiesa di pensare tutta la vita di Gesù come una continuo essere attraversato e spinto
dallo Spirito. Anche il quarto evangelo, richiamando l’episodio del battesimo, afferma che lo Spirito
scese e rimase su Gesù (cfr. Gv 3,5-8) per essere così donato dalla croce (cfr. Gv 19,34) al Padre e
così ridonarlo alla Chiesa da risorto (cfr. Gv 20,21-23). Lo Spirito non lo lascia mai solo, ma lo
spinge nella sua umanità pienamente filiale e lo sorregge nella stessa nostra fragilità umana: così
«imparò, dalle cose che patì, l’obbedienza» (Eb 5,7) e fu resa perfetta la sua umanità, la stessa
nostra, anche se ferita dalla condizione del peccato, scrivendo una storia di apertura verso il cuore
del Padre.
È possibile tracciare quasi uno schema: al venire dello Spirito viene Gesù e al tornare del
crocifisso nello Spirito al Padre viene lo Spirito dal Risorto. Lo Spirito manda Gesù ad annunziare il
vangelo: pertanto Gesù «non solo evangelizza nello Spirito Santo, ma anche “evangelizza” lo
Spirito Santo»12. Lo Spirito concorre al ‘costituirsi’ della vicenda di Gesù e al ‘dispiegarsi’ della sua
vicenda, custodendone ad un tempo la singolarità e l’universalità e, al contempo, rivelando il
rapporto stesso con il Cristo. Tra il racconto e l’annuncio dell’esperienza dello Spirito su Gesù e
dello Spirito di Cristo nella fede vi è un così intimo intreccio, fondato sulla percezione che il
giungere su Gesù dello Spirito rende comprensibile nello Spirito il giungere di Gesù come il Figlio
di Dio che è il Messia. Lo Spirito quindi, in qualche modo, conduce il Figlio nell’incarnazione, ma,
ancor di più, lo conduce alla sua perfetta condizione umana nell’unzione: il Figlio è il Messia, il
Cristo. Di più: alla kénosis del Figlio va a corrispondere anche una kénosis dello Spirito. L’atto
kénotico è uno solo: si tratta di una corrispondenza perfetta tra la vita del Figlio e quella dello
Spirito, perfezionata nell’opera del Figlio e dello Spirito, per cui l’uno dirige l’agire dell’altro,
l’altro rende perfetto l’agire dell’uno: «la kénosis personale del Figlio è esaurita; e, insieme ad essa,
la kénosis d’azione dello Spirito Santo, che è ormai dato al Figlio, secondo l’espressione del
precursore, non con misura, cioè incommensurabilmente»13.
Si tratta di una kénosis rivelante l’amore trinitario, per cui nell’offerta di sé emerge l’essere stesso
di Dio. Il Padre viene rivelato, più che nell’offerta della vittima, nell’accogliere quell’amore che da
sempre è la vita sua e del Figlio nello Spirito; così il Padre si rivela nell’amore filiale di Gesù, nel
dono che egli fa di se stesso nello Spirito, e nel dono dello Spirito nel Figlio risorto. La salvezza è
quindi operata nel singolare darsi di Gesù nello Spirito al Padre cosicché questa salvezza è opera di
tutta la Trinità: nel dare-sé del Padre al Figlio e nel filiale dono-di-sé nel (dono dello) Spirito, colui
che è il dono nel quale entrambi si scoprono attraversati dall’amore dell’uno per l’altro, l’uomo
12
F. LAMBIASI – D. VITALI, Lo Spirito Santo: mistero e presenza. Per una sintesi di pneumatologia, Bologna 2005, p.
62.
13
S. BULGAKOV, Il Paraclito, EDB, Bologna 1971, p. 451.
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riceve di poter accedere all’amore filiale per opera dell’amore paterno che lo attraversa. È questa la
forma ultima della salvezza, la forma cristologica perché cristo-centrata. Non accediamo infatti a
questa se non perché questa si è data definitivamente nella singolarità assoluta esibita da Gesù.
Questa salvezza viene a noi pertanto in Gesù: nel suo venire ed andare al Padre nello Spirito. A
questa forma cristocentrica deve quindi essere ri-letta ogni altra forma espressiva della salvezza
stessa, come la croce.
La morte filiale di Gesù Come ha fatto giustamente notare il padre F.X. Durrwell14 vi è stata una lettura della morte di
Gesù che ha interpretato alcuni passi – «egli è stato consegnato per i nostri peccati» (Rm 4,25),
«egli è morto per i nostri peccati» (1Cor 15,3), «egli ha portato i nostri peccati sul legno della
croce» (1Pt 2,24) – nel senso di un suo rimanere schiacciato sotto il peso dei nostri peccati. Così la
morte di Gesù non poteva che apparire se non una fosca e cupa tragedia. Si arrivò perfino a
rileggere questi brani come il luogo in cui Dio Padre inviava il proprio Figlio per soddisfare e
riparare l’enorme offesa che il peccato aveva arrecato a Dio. Ma così, colui che «è la luce che viene
nel mondo» (Gv 1,9), avrebbe subito un’eclissi totale con cui dissipare le tenebre stesse.
Se il peccato è proprio ciò che chiude alla comprensione di Dio, lo Spirito di Dio, è invece colui
che ci introduce nel mistero di Dio con la sua luce. Paolo, infatti, afferma: «se Cristo non è
resuscitato, allora la nostra fede è vana e voi siete ancora nei vostri peccati» (1Cor 15,17).
La morte non è dunque la buona notizia, ma «ricordati di Gesù Cristo resuscitato dai morti …
secondo il vangelo che io predico» (2Tm 2,8). Siamo quindi chiamati a vedere nella croce non la
morte, ma la vita intima di Dio rivelata da Gesù, il Figlio.
«Dio lo ha resuscitato per noi, come anche sta scritto nel salmo secondo: Mio figlio sei tu, oggi ti ho
generato» (At 13,33).
Appaiono quindi inseparabili la morte e la resurrezione, così si afferma che la morte è un mistero
di gloria, il mistero del «Figlio unigenito del quale abbiamo visto la gloria» (Gv 1,18). Mediante la
morte, Gesù passa da questo mondo al Padre, la morte per Lui è circonfusa di gloria, la stessa che
aveva fin dal principio l’ha anche ora alla fine: «ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella
gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17,5). Così Gesù, essendo Figlio,
chiede di tornare a Dio, suo Padre, da Figlio. Il suo morire è per lui, in un senso che andremo a dire
meglio, un tutt’uno con la sua stessa origine. Giunta, infatti, l’ora del passaggio al Padre, Gesù offre
la propria vita: «Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di
nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di
riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,17s).
La morte per Gesù non è una separazione, una frattura con la vita, ma il modo con cui dire l’amore
che riceve dal Padre e che lo fa Figlio, il modo con cui dire proprio la vita che ha in comunione col
Padre. La morte è quindi il momento in cui fa propria la vita, può farla propria donandola così come
lui stesso l’ha ricevuta. È il Padre che lo genera: da tutta l’eternità lo genera perché sia il Figlio
amato (cfr. Mc 1,11). Gesù, il Figlio che è «uscito da Dio» (Gv 16,27), è diventato uomo e come
ogni uomo, come ognuno di noi, ha dovuto essere uomo. Così Gesù è stato quell’uomo che, come
uomo, è stato Figlio perché si è messo in cammino verso il Padre: «io vado al Padre mio» (Gv
14
Cfr. F.X. DURRWELL, La morte del Figlio. Il mistero di Gesù e dell’uomo, EDI, Napoli 2007, p. 17.
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14,12). Così Gesù, camminando verso il Padre, è diventato il cammino di accesso presso il Padre:
nell’amore che ha ricevuto dal Padre, Gesù ha dato la vita sua – «Nessuno ha un amore più grande
di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13) – quella che egli stesso ha già ricevuto perché
il Padre possa nuovamente dargliela.
Così dunque muore Gesù sulla croce, in una forma di perfetta accoglienza della vita. Lui dona la
propria vita perché la sua l’ha vissuta come il Padre l’ha donata a lui. È in questo dono che accoglie
il dono del Padre, si mette ancora una volta in atteggiamento filiale. Offertosi al Padre in totale
recettività, Gesù muore generato. È nella croce che ci mostra il suo lasciarsi dare la vita, proprio nel
momento in cui la offre. Il «tutto è compiuto» (Gv 19,30) sulla croce è un rimettere la propria vita
definitivamente là dove essa è, nel seno del Padre (cfr. Gv 1,18). Solo il Padre poteva dunque
ridargliela e non come ad uno che ritorna in vita (cfr. Lazzaro), ma come colui che la riceve da
figlio: generandolo. Così Gesù sulla croce è Figlio, perché sulla croce è generato dal Padre nella
resurrezione e perché sulla croce è Figlio che si lascia generare e non trattiene la vita per sé.
Il Figlio morto per noi: «egli mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Chiunque incontra Gesù, dalla croce lo incontra come colui che ha dato la sua vita e che l’ha
ricevuta. Così Gesù è nella morte per noi come nessuno avrebbe mai potuto pensare15: «egli mi ha
amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).
La morte di Gesù non è una morte che strappa dalla condizione umana. Ciascuno di noi, infatti,
anche dopo la resurrezione di Gesù incontra ancora la morte in tutta la sua tragicità. La morte di
Gesù però è manifestazione dell’unione che c’è tra il Padre e il Figlio e che nessuno può spezzare o
interrompere: «io e il Padre siamo uno» (Gv 10,30). Questa stessa unione è ciò che è l’intimo
dell’essere del Padre e del Figlio; in Dio si dà un reciproco essere l’uno nell’altro: «Come tu, Padre,
sei in me e io in te» (Gv 17,21).
Ora, questo essere-figlio e il reciproco essere-padre di Dio, nella morte di Gesù è rivelazione e
dono: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola» (Gv 17,21). Questo
essere l’uno nell’altro è al contempo detto e donato. La morte non è solo il luogo in cui Gesù muore
da Figlio, ma è anche il momento in cui Dio Padre lo genera, cosicché la vita che il Padre gli dona
indefettibilmente è la vita che egli dona nel donarsi. Così muore Gesù: nel donarsi, dona al Padre e
a noi, resuscitando, diventa Spirito datore di vita (1Cor 15,43), la vita che egli stesso ha dal Padre è
che lo fa Figlio.
Questo Spirito è uno «Spirito di filiazione» (Rm 8,15). Nel riceverlo siamo anche noi spostati
dalla morte alla vita (cfr. 1Gv 3,14), dalla logica che la vita è un possesso e va trattenuta alla logica
del dare la vita per poterla ricevere: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri;
come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
Gesù è «morto per noi» (2Cor 5,15) perché ci è dato definitivamente come il Risorto, come colui
che ha la vita e la dona in pienezza: «per noi egli è morto e resuscitato» e per Lui noi riceviamo lo
Spirito di Lui. La sua morte è salvifica: non perché opera la salvezza per noi a scapito della morte di
Gesù – visione sacrificale –, ma perché nell’amare il Padre Gesù è il Figlio che riceve la vita dal
Padre. Gesù nel morire si lascia amare dal Padre, lascia al Padre di farlo ancora, in pienezza, Figlio.
15
Si confronti l’«id quo maius cogitari nequi» di Anselmo di Aosta.
19
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Il dono che egli fa a noi è il dono del mostrarci un ‘altro’ morire, un morire alla propria autoesistenza perché sia possibile vedere la vita sgorgare nel donare senza misura, senza perderla.
Morendo rivolto verso il Padre, Dio lo dona al mondo; Gesù, in comunione con il Padre, ci dona la
sua filialità.
In questa offerta di sé è raggiunta e oltrepassata la distanza tra l’umano e il divino; in Gesù l’uomo
e Dio giungono fino alla croce, lì dove l’umano è fatto capace del mondo divino tanto da essere
fatto luogo dello spirare stesso di Dio. Lì, sulla croce, laddove il Padre genera e il Figlio è generato
nell’unico respiro che è vita e che è il comune respiro di entrambi, lì lo Spirito va oltre ogni misura
del dono; lì il dono con-misura «l’ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità» (Ef 3,18)
dell’umano stesso attraversato dall’essere-amore di Dio:
«la volontà paterna, che viene trasmessa al Figlio nel Pneuma, di fatto è l’eterno consiglio trinitario
della redenzione del mondo. Nell’eternità sono partecipi di questo consiglio il Figlio e lo Spirito, così
come il Padre, anche se ora, durante l’incarnazione “economica” del Figlio, questa volontà unitaria
pervenga al Figlio attraverso lo Spirito come la volontà paterna, come attestano univocamente tutti e
quattro i Vangeli. Se si riflette su questo, risulta evidente che l’ispirazione di Cristo da parte dello
Spirito Santo gli riferisce entrambe le cose: in modo “economico”, lo informa univocamente dalla
volontà del Padre, ma, celata in essa, vi è la sua stessa volontà trinitaria. La volontà paterna che lo
Spirito riporta al Figlio in ogni momento e in tal modo l’opposto di una ingiunzione che cada su di Lui
dall’alto o dall’esterno – a guisa di dovere imposto o come inebriamento dionisiaco –, ma, pure nella
distanza relativa al piano “economico”, è qualcosa di eternamente familiare, patrio. In quanto Gesù sta
di fronte al Padre come uomo, la volontà paterna e divina, gli è donata tramite lo Spirito, ed Egli,
sempre nell’obbedienza, l’accoglie come un dono dell’amore di questo Padre. Tuttavia, nella
medesima ispirazione dello Spirito, egli sa di aver detto “sì” già da sempre a questo dono, in una
condizione dell’accordo eterno e per nulla puramente passivo con il volere del Padre. E se nell’
“economia” terrena questa volontà gli apparirà sempre più come una istituzione “posta”, addirittura
stabilita come una “positività” incomprensibile – fino all’agonia nell’Orto degli Ulivi –, nondimeno,
pur entro questo necessario oscuramento, in virtù dell’ispirazione dello Spirito, che ispira sempre fra
Padre e Figlio, il “sì” conquistato con dura lotta – “Non la mia, ma la tua volontà” – rimane nella
profondità della risonanza e della consonanza dell’eterno consenso trinitario»16.
Lì quindi lo Spirito prova la forma umana, la prova alla misura dell’ampiezza, della lunghezza,
dell’altezza e profondità (cfr. Ef 3,18) della filialità di Gesù. In questo senso la fede è un continuo
mettere alla prova, nel senso proprio di lasciare ‘provare’ ad emergere, come com-misurata ad ogni
uomo, la condizione esibita in Gesù.
Lo Spirito porta quindi a compimento l’evento-Gesù portandolo alla massima capacità possibile:
donarsi non solo filialmente, ma essere fatto capace di spirare lo Spirito in-umanizzato come solo il
Figlio è capace nel seno della Trinità, ridonarlo a Dio Padre nella condizione filiale e umanata.
Quell’uomo che è Dio ha spirato nella sua condizione – la nostra – l’amore filiale donando lo
Spirito eterno. La forma umana risulta così trasformata ed al contempo elevata, fatta capace di
qualcosa che è solo di Dio. L’uomo è fatto capace dell’atto proprio di Dio, di attraversare e lasciarsi
attraversare dall’amore che Dio è; l’uomo è così ek-sposto nell’ek-staticità personale intratrinitaria.
La salvezza è questo essere posti in un altro, per l’altro e con l’altro. A questa intuizione ci
introduce Paolo quando afferma: «4Dalla lettura di ciò che ho scritto potete ben capire la mia
comprensione del mistero di Cristo. 5 Questo mistero non è stato manifestato agli uomini delle
precedenti generazioni come al presente è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo
16
H. U. VON BALTHASAR, Lo Spirito e l’istituzione, Morcelliana, Brescia 1979, pp. 57-58.
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dello Spirito: 6 che i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a
formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo, 7 del quale
sono divenuto ministro per il dono della grazia di Dio a me concessa in virtù dell'efficacia della sua
potenza» (Ef 3,4-6). Il muste,rion – mystérion - che si è rivelato nel Cristo penetra l’uomo, lo
incorpora chiedendogli di divenire così lui stesso strumento della sua propagazione in un
coinvolgimento che si realizza in un con-corpo (su,sswma, Ef 3,6) perché operato nello Spirito (e[n
pnu/ma, Ef 4,4).
Il mistero dell’incarnazione è quindi un tutt’uno con il mistero pasquale, con il mistero salvifico
perché non è la lettura puntuale di un momento solo della storia, bensì è l’essere uomo di Gesù che
è l’essere Dio: Dio è Padre, Figlio e Spirito, cosicché quando si fa altro Dio si mostra come persona
ed è uomo, così l’amore che Dio è (cfr. 1Gv 4,8.16) non è altro dall’amore che l’uomo Gesù ha
sperimentato e provato – divinamente e, pertanto, nella sua umanità. Così nell’incarnazione
incontriamo Dio che, secondo l’espressione di Rahner, «può divenire qualcosa», in modo che
«colui che è in se stesso immutabile può essere mutabile nell’altro»:
«l’immanente auto-asserzione di Dio nella sua eterna pienezza è la condizione dell’auto-asserzione di
Dio fuori di sé e questa continua quella. Per quanto la pura posizione dell’altro, diverso da Dio, sia
opera di Dio in modo assoluto, senza differenza di persone, la possibilità della creazione può bensì
avere il suo prius ontologico, il suo fondamento nel fatto che Dio, primogenito, esprime se stesso in sé
e per sé e vuole così la distinzione originaria divina in Dio stesso»17.
Pertanto, è Dio in se stesso che viene a noi in Gesù, nella sua capacità di essere sé in un alterità
che non lo comprime limitandolo, anzi, in una alterità che abita e attraversa perché capace della
differenza. Vi è quindi una sorta di sfida:
«sfida a divenire (maggiormente) persona. La persona è nella misura in cui deve essere, ovvero nella
misura in cui interagendo con altre “allarga” lo spazio del proprio essere persona, o meglio, lascia
allargare. Il divenire-persona è infatti un dono, che necessita, naturalmente, di un’accettazione e di una
risposta … Tra l’io e il tu spira un “tra” particolare che, prescindendoli entrambi, li rimanda l’uno
all’altro»18.
Quanto avviene, secondo questa dinamica personale come sempre da inverarsi, è il mistero
dell’uomo, del suo essere in relazione con gli altri, un essere sempre in divenire. Questo mistero
umano non può essere stato misconosciuto dal Figlio incarnato e asceso, anzi egli lo ha vissuto
inverando proprio il nostro essere uomini posti nella relazione di Dio, ma allo stesso tempo
all’ékstasis del suo essere nell’altro ha fatto spazio ad una kénosis assimilatrice dove potesse
avvenire l’accoglimento affettuoso dell’alterità: la carne del Figlio si è fatta vera immagine di Dio,
nella sua libera e radicale autodonazione, assumendo in modo nuovo il rapporto tra infinito/perfetto
e finito/imperfetto. Ora la kénosis, vista dal basso dell’uomo, può essere vista sì come spoliazione e
purtuttavia ci chiede di vederla, dall’alto di Dio, anche come una sorta di arricchimento. Nel mistero
della salvezza assistiamo ad una sorta di pericoresi tra il Figlio/Lógos e il Figlio/Cristo – alter in
altero – tra il Verbo discendente e il Cristo ascendente, tra il dono del Figlio da parte del Padre
nello Spirito e il dono del Cristo stesso al Padre risorto nello Spirito.
17
18
K. RAHNER, «Teologia dell’incarnazione», in: ID., Saggi di cristologia e mariologia, Roma 1966, p. 108.
G. GRESHAKE, Il Dio unitrino. Teologia Trinitaria, Queriniana, Brescia 2005, p. 171.
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Gesù, Verbo generato dal Padre nello Spirito, si è incarnato per opera dello Spirito assumendo la
natura umana e non solo kenotizzandosi. Gesù, il Risorto dal Padre nello Spirito, ascende al Padre, e
là, dal Padre e con il Padre, dona lo Spirito evangelizzato e divenuto antropo-ferente, assurgendo
alla sua gloria e donando un nuovo posto, preparato proprio da Lui (cfr. Gv 14,2 ). Questo rapporto
tra il Figlio, che è il Cristo, e il Padre, vissuto come esperienza concreta dell’amore di Dio, avviene
nello Spirito ed è donato nel dono dello Spirito. Questo è il tema della salvezza là dove Gesù lo ha
posto, là dove è definitivamente cristo-centrato.
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2.4. La salvezza degli altri In un dialogo con il mondo contraddistintosi ormai dal pluralismo religioso, posto il chi come
centrale nella singolarità di Gesù il Cristo, posto il cosa sia salvezza e il perché Gesù è il salvatore,
la domanda ora non può che spostarsi all’universale dono di tale salvezza proprio in virtù della
centralità dell’unico chi. Pertanto, come, in che modo si può parlare di salvezza degli altri e delle
altre esperienze religiose? Come giustamente afferma Gronchi, si tratta di una domanda
impertinente.
Partiamo dai due testi assiomatici:
1. «… Dio, nostro salvatore, … vuole che tutti gli uomini siano salvati (πάντας ἀνθρώπους
θέλει σωθῆναι) e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,3-4)
2. «Questi [Gesù] è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d'angolo. In
nessun altro c'è salvezza (οὐκ ἔστιν ἐν ἄλλῳ οὐδενὶ ἡ σωτηρία); non vi è infatti altro nome
dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,1112)
Si osservi anzitutto che il termine, presente in entrambi i testi, per dire salvezza in greco è σωτήρ
(sôtêr), termine che abbiamo già visto essere un sostantivo propriamente astratto. Nella riflessione
teologica si è sempre pensata la questione dell’universalità della salvezza, così è stato possibile
elaborare modelli che provassero ad esprimere il concetto secondo diverse prospettive:
1. la prospettiva ecclesio-centrica, che approda ad un esclusivismo;
2. la prospettiva cristo-centrica, che approda ad un inclusivismo;
3. la prospettiva teo-centrica, che approda ad un pluralismo.
Molte di queste questioni trovano il loro senso proprio a partire dall’elemento Gesù Cristo, ossia
dal ruolo che questi gioca nelle diverse prospettive, ma anche dal paradigma e dalla coscienza
ecclesiologica che fa da sfondo.
È utile partire nella nostra analisi e prospettiva da alcuni punti fermi che il Magistero ha compreso
e fissato. Andiamo a vedere seguendo i soggetti del Magistero ordinario:
1) Concilio Vaticano II
a) nella Nostra Aetate (n. 2) e nella Ad Gentes (n. 11) si fa riferimento ai semi del Verbo di giustiniana
memoria.
b) nella Lumen Gentium si fa riferimento alla volontà di Dio «di santificare e salvare gli uomini non
individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo
riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità» (n. 9) e parla così di una Chiesa che è come
sacramento universale di salvezza in Cristo (1).
c) Nella Dei Verbum (n. 2) Cristo viene presentato come mediatore e pienezza della Rivelazione e, in
essa, della salvezza.
d) È in LG 16 che si prende in considerazione proprio coloro che non hanno ancora ricevuto l’annuncio
del Vangelo; di questi si afferma che sono ordinati in vari modi a Dio (cercando sinceramente Dio,
sforzandosi di compiere con le opere la volontà di Lui conosciuta nel dettame della coscienza e
quando la divina provvidenza non nega loro gli aiuti necessari) perché la grazia divina opera nelle
altre esperienze religiose come preparazione ad accogliere il Vangelo
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2) Giovanni Paolo II
a) Nella Lettera enciclica Redemptor Hominis afferma che il redentore dell’uomo è Gesù Cristo, egli è
il centro del cosmo e della storia (n. 1), per cui nell’incarnazione Dio ha dato all’uomo una
dimensione definitiva da cui sgorga la dignità propria dell’essere-uomo (n. 10) e il principio
permanente della missione (n. 11).
b) Nella Redemptoris missio (n. 55) si afferma che Cristo si fa presente nelle ricchezze spirituali di cui
le religioni sono espressione. È lo Spirito a vivificare quest’uomo ed è anche all’origine della sua
domanda esistenziale e religiosa (n. 29; cfr. Dominun et vivificantem, n. 53). Si noti qui come dalla
sola presenza di Cristo come ‘semina verbi’ si passi ora ad una estensione della sua mediazione,
assumendo la portata universale per la grazia dello Spirito. Non si tratta però più di una preparazione
evangelica, ma proprio di una presenza salvifica di Dio.
c) Nella Novo millennio ineunte (n. 56) viene affermato che la Chiesa ha dato, ma ha anche ricevuto
dalle altre religioni (cfr. Concilio con GS, n. 92).
3) Congregazione per la Dottrina della Fede
a) Nel 2000 esce il documento Dominus Iesus, strutturato su questioni ecclesiologiche e cristologiche
inerenti proprio la salvezza di Gesù; il testo prende in considerazione alcuni autori la loro proposta di
una teologia del pluralismo religioso. Vi si afferma la unicità e universalità salvifica di Cristo e della
Chiesa (n. 7), ribadendo la pienezza e definitività della rivelazione in Cristo (n. 6) ed escludendo sia
un’azione del Logos separata dalla vicenda concreta e singolare di Gesù (n. 10) sia una azione
universale dello Spirito altrettanto indipendente (n. 12). Si invita così la teologia a pensare ancora al
senso di quelle mediazioni partecipate (n. 14, peraltro già affermate da Redemptoris missio, n. 5) e
al modo cirstologico con cui Dio raggiunge coloro che, pur non rifiutando esplicitamente Cristo,
tuttavia non aderiscono a Lui nella fede (n. 21, anche qui riprendendo il tea conciliare espresso da
AG, n. 7).
b) Nel 2007 esce la Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione. Ribadendo ancora che
occorre dare seguito al mandato missionario di Cristo e che questo non viene meno a causa del
dialogo e del rispetto con le altre religioni, si sposta l’attenzione sul lato antropologico: poiché « è
proprio dell'uomo il desiderio di rendere partecipi gli altri dei propri beni. L'accoglienza della Buona
Novella nella fede, spinge di per sé a tale comunicazione. La Verità che salva la vita accende il cuore
di chi la riceve con un amore verso il prossimo che muove la libertà a ridonare ciò che si è
gratuitamente ricevuto», pertanto «la piena adesione a Cristo, che è la Verità, e l'ingresso nella sua
Chiesa non diminuiscono ma esaltano la libertà umana e la protendono verso il suo compimento, in
un amore gratuito e colmo di premura per il bene di tutti gli uomini. E' un dono inestimabile vivere
nell'abbraccio universale degli amici di Dio, che scaturisce dalla comunione con la carne vivificante
del Figlio Suo, ricevere da Lui la certezza del perdono dei peccati e vivere nella carità che nasce
dalla fede» (n. 7). Così la testimonianza è posta come diritto-dovere del cristiano, fondata
sull’esperienza religiosa che lo anima (n. 11), affinché nello scambio di doni possa offrire la
pienezza dei mezzi di salvezza (n.12). In questo modo l’azione cristologica è portata avanti proprio
nell’adesione a Lui che aderisce al Padre: l’offerta di sé sta e cade nelle singole azioni in cui il
cristiano offre, nello stesso Spirito di Gesù, se stesso.
Attorno a questi punti proviamo ad annodare alcuni pensieri cristo-centrati.
ü Come abbiamo già più volte notato riguardo il senso cristo-centrico della Rivelazione,
l’affermazione «Gesù è il Cristo» (At 5,42) appartiene al sapere-Gesù nella fede e
coincide, quindi, direttamente con la verità stessa di Dio, visto che l’uno sta e cade
nell’altro. Solo Gesù ci permette di entrare in questa relazione, non perché mediatore
‘mediato’, ma perché in Lui si con-centra questo sapere che è vero della verità saputa
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nella relazione umana e divina. Nell’auto-esprimersi della/nella sua singolarità assoluta
filiale, nell’accedere al fondo della sua coscienza intima, Gesù trova se stesso perché tutte
le volte là vi trova il Padre che gli dice: “Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato” (Sal 2,7;
cfr. Eb 5,5); così in Gesù quanto matura nel tempo è l’identità del suo essere il mistero di
Dio, mistero che non ha il tempo a regolarlo, ma l’eternità per viverlo.
Al con-tempo, questa esperienza si dà come identità: egli è il Figlio del Padre. Questa è la
sua verità; di questa verità egli ne è il testimone e chiama tutto il tempo a raccogliersi
attorno a questa esperienza della verità che Lui sta facendo nella carne (cfr. 1Cor 7,29). La
‘verità’ si dice ormai solo nel ‘darsi’; la verità mantiene tutta la sua forza di identità e
relazione in Gesù: egli è Dio che si fa dono, egli è il Figlio e il Figlio è questo essere dono
del Padre. La verità sta in questo riconoscimento, sta nell’accoglienza di questa alterità:
lasciare spazio a che questa verità venga, che av-venga in dono.
Così si accede al ‘mistero’ della verità: il Padre fa e dà – in Lui sono un tutt’uno – in dono
(Spirito) il dono (Gesù) di sé. Gesù, pertanto, si riconosce accogliendo-sé (egli è in sé il
dono del Padre) e testimonia così, vivendo il suo essere-Figlio, il dono del Padre: è Lui e
Lui è questa stessa accoglienza del Padre, cosicché l’accogliere il dono del Padre in sé (lo
Spirito) è, dà e fa un tutt’uno con il suo donarsi al Padre, offrendogli se stesso, anche il suo
essere dono: «“Tutto è compiuto!”. E, chinato il capo, spirò» (Gv 19,30). Così Gesù dona
al Dio/Abbà, filialmente e umanamente, Dio; offre ciò che Dio è: lo Spirito che è Dio
nell’essere dono-di-Sé, presenza nell’altro e per l’altro dell’altro (alius … alius … alius).
Questo mistero, poiché av-viene in Gesù e ci è donato da Gesù nel dono di sé nel suo
Spirito, questo stesso mistero in-viene in noi (av-viene in-dono) perché anche noi
divenissimo in Lui (Paolo parla di un essere con-crocifisso – συσταυρόοµαι di Rm 6,3,4 –
con Cristo di modo che può affermare: «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.
Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se
stesso per me», Gal 2,19-20) e potessimo così divenire con Lui partecipi del suo conessere [«questo mistero non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni
come al presente è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che
i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità –
συγκληρονόµα (eredi con) –, a formare lo stesso corpo – σύσσωµα (membra con) –, e ad
essere partecipi – συµµέτοχα (con partecipi) – della promessa per mezzo del vangelo»: Ef
3,6. Il testo ha così ben tre con-σύν per esprimere la nuova condizione del credente in
Cristo]. Nella fede quindi accogliere/riconoscere sono un tutt’uno: formano un plesso
unico di dono/verità perché ci viene dato il dono – lo Spirito – di accoglierlo – la grazie
che Gesù è – e in Lui di ricevere chi lo dona – il Padre.
Accogliere Gesù è quindi un atto composto. È dato da un fatto, Gesù che viene e va al
Padre, che è anche rivelazione, il dono che Gesù è. Gesù nella sua fattualità è la
rivelazione del TU del Padre (cfr. Gv 10,30). Così la verità di Gesù ha a che fare con ciò
che egli ha fatto: aver fatto dono di sé al Padre e l’essere il dono del Padre. Il suo essere
persona composta è atto che con-pone, per cui essere in Cristo significa essere con-posti,
inseriti, innestati nella sua verità, nella sua esperienza per la sua verità e per la sua
esperienza. Così ha senso l’espressione giovannea «Io sono la via, la verità e la vita.
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). Gesù è la via che conduce alla
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verità che produce la vita. Con-ducendo al Padre pro-duce la vita e nel pro-venire dal
Padre per-viene a noi come via19.
ü Ora questo venire di Gesù si compie nel suo andare al Padre. Gesù, la salvezza, viene nel
suo lasciarsi/abbandonarsi al Padre, alla verità che gli dice chi è nel momento che questa è
saputa. Così Cristo-centrata, la salvezza mostra tutta la sua con-sistenza nell’esserericevuta, sicché tutte le volte che è accettata/accolta nella sua alterità – data
dall’accoglienza dell’a/Altro – si va compiendo quell’atto del sapere proprio della fede:
siamo messi in una tensione Spirituale, introdotti in un venire che ci pre-cede e spinti
nell’andare che ci guida e attrae. La salvezza trova così la sua determinazione cristica e al
contempo ci permette di sapere il sapore della salvezza che abita le più remote, profonde e
nascoste pieghe dell’essere umano religioso, qualunque esso sia. Chi accoglie la verità che
si appropinqua e ci fa prossimi nel lasciarci venire in-contro a lei, quell’uomo accoglie la
Verità nel suo intimo; questi lo curva, lo prova facendolo nuova creatura, nuovo uomo in
Cristo, e così lo investe della sua alterità. Chi dovesse incontrarlo ha lasciato che un
a/Altro si attendasse nel suo cuore (cfr. Gv 1,14), ha aperto la sua umanità al Dio che
viene, ha preparato il proprio cuore all’incontro e questo è già, ora, inizio e germe della
comunione che l’Altro ha preparato e deciso in sé per noi.
ü La salvezza si configura per tutti – e quindi per gli altri – come un dono.
È un dono nel senso che è donata; nessuno si salva da solo: il cristiano non si salva da
solo, lo salva Cristo. Ogni uomo ha un Altro che lo salva. Qui si inserisce la lettura
ecclesiologica della salvezza che affondale sue radici nel pensiero anticotestamentario.
Infatti, secondo la promessa che Dio fa ad Abramo in Gen 12,1-3, ogni altro che riconosca
il dono di Dio in Abramo troverà la benedizione di Dio20. Non ci si salva da soli significa
quindi che la salvezza ha a che fare con un altro, è dono di un altro, dell’accogliere la
inesauribile condizione di vulnerabilità, non-autosufficienza, inermità che dice l’esperienza
originaria di un essere-con21. Questa esistenza esposta agli altri è un’esistenza che
esperisce il dono di essere narrati da altri, di ricevere, nella storia di un altro, l’apertura per
la nostra storia, perché la nostra storia possa essere salvata dall’oblio dell’autosufficienza22. Dire che la salvezza è un dono è quindi affermare che c’è un agire di un altro
(il dono che Gesù è proprio nella sua condizione filiale e umana) che reca in dono (lo
Spirito) per un altro (la fonte di ogni per-dono, il Padre). Significa prendere sul serio che la
salvezza non è mai qualche cosa che si possiede, ma è ciò che si riceve, l’accogliere nel
dono – nell’altro – l’altro che si dona: per(-il-)dono ci si fa poveri di sé, si viene fatti
capaci di un altro-me che l’latro-da-me ha recato nel dono-di-sé.
Ma è anche dono perché è identità personale; non si riceve in dono qualche cosa. Ciò che è
ricevuto non è altro che la persona: la persona che dona e noi che riceviamo noi stessi nel
accogliere il dono. Così icasticamente annuncia l’autore sacro: «non è bene che l’uomo sia
solo» (Gen 1,18). L’altro mi è dato in dono e non c’è dono senza l’altro; le parole di Gesù
sul giudizio escatologico restano ineludibili e indicano una via: «Venite, voi, i benedetti
19
cfr. A. MILANO, Quale verità. Per una critica della ragione teologica, EDB, Bologna 1999, pp.91-161; specialmente
pp. 146-156.
20
Sul tema della salvezza che Isarele è ed offre per gli altri proprio nella sua alterità: M. BUBER, Sion. Storia di
un’idea, ed. Marietti, Torino 1988.
21
Cfr. J. BUTLER, La disfatta del genere, Meltemi, Roma 2006; ID., Vite precarie. Contro l’uso della violenza in
risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004.
22
F. BOTTURI, La generazione del bene. Gratuità ed esperienza morale, Vita & Pensiero, Milano 2009, pp. 163-194.
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del Padre mio; ereditate il regno che v'è stato preparato fin dalla fondazione del
mondo. Perché ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui
straniero e mi accoglieste; fui nudo e mi vestiste; fui ammalato e mi visitaste; fui in
prigione e veniste a trovarmi» (Mt 25,34-36). L’altro, nella sua alterità, nella sua
differenza, chiede con-fidenza cosicché dando accoglienza produce, crea in noi spazio al
dono che porta, se stesso, e al contempo a noi stessi che veniamo ad essere fatti altri
rispetto a prima. Il dono è quindi sempre qualcuno: Dio, quando viene, viene sempre in
modo personale23. Così la salvezza degli altri è sempre in un altro. Non c’è dono di
salvezza senza il suo esistenziale personale; così Hemmerle affermava che «il donar-si di
Dio dona Dio»24 e questi viene quindi sempre totalmente, tutto in ogni suo dono di sé. Dio,
se viene in modo nascosto ad ogni uomo, non ha tuttavia nascosto la sua presenza
nell’essere dell’uomo: per un uomo è venuto uomo. Si tratta quindi di imparare a vedere
nella identità personale questa salvezza che è il venire di Dio personalmente. Con Gesù
non è più possibile adeguatamente distinguere il dono della salvezza dal dono dell’uomo.
ü È dunque in Dio che la salvezza riposa, perché è dono donato e fonte di ogni dono e
perché, quando dona, dona se stesso sempre personalmente. È Lui il fautore dell’incontro,
già da sempre determinato ad essere realizzato nella graziosità offerta da Gesù, nel suo
essere via che conduce alla verità; così egli è la vita, perché al di fuori di Lui – togliendo
Lui dall’orizzonte della salvezza – non si può accogliere la salvezza.
23
Cfr. K. RAHNER, Osservazioni sul trattati dogmatico «De Tinitate», in: ID, Saggi Teologici, San Paolo, Roma 1965,
pp. 587-634; ID., Il Dio trino come fondamento originario e trascendentale della storia della salvezza, in «Mysterium
Salutis» vol. III, Queriniana, Brescia 1969, 401-507.
24
K. HEMMERLE, Tesi di un teologia trinitaria, Città Nuova, Roma 1996, p. 67.
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Sommario
Le questioni aperte ............................................................................................................................... 1 1. La singolarità di Gesù................................................................................................................... 3 1.1. Una questione pre-liminare .................................................................................................................... 3 1.2. Cosa si intende con Cristocentrismo ...................................................................................................... 5 1.3. Il luogo e il contenuto della singolarità .................................................................................................. 6 2. La salvezza in Gesù Cristo: quale universalità?............................................................................ 8 2.1. Una questione terminologica ................................................................................................................. 8 Redenzione ................................................................................................................................................ 8 Riconciliazione ......................................................................................................................................... 10 Espiazione ................................................................................................................................................ 10 2.2. Modelli e teorie soteriologiche alla prova della singolarità di Gesù .................................................... 11 «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Sal 22,2) .................................................................. 12 «Il Signore fece scendere su di Lui l’iniquità di noi tutti» (Is 53,4) .......................................................... 13 «in quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi» (Lv 16,30) ............................. 13 2.3. Il luogo cristocentrico: la salvezza secondo la Lettera agli Ebrei .......................................................... 14 Il mistero del suo amore: «pur essendo Figlio imparò … l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,9) ..... 14 «Con uno Spirito eterno offrì se stesso» (Eb 9,14) .................................................................................. 16 La morte filiale di Gesù ............................................................................................................................ 18 Il Figlio morto per noi: «egli mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). ................................ 19 2.4. La salvezza degli altri ........................................................................................................................ 23 28