volume IV - Progetto Fahrenheit

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Sandro Ciurlia
LA SFERA E IL PUNTO:
IMMAGINI FILOSOFICHE DELLA STORIA A CONFRONTO*
I. Com’è noto, il termine storia presenta una costitutiva ambivalenza:
per un verso, designa la conoscenza dei fatti e la disciplina intesa a conseguirla (historia rerum gestarum); per l’altro, indica gli accadimenti stessi (res gestae). Cosa si nasconde alle spalle di tale duplice valenza semantica? Perché questa doppia accezione che ha cosí fortemente impensierito
la riflessione filosofica d’ogni tempo? In quale modo ci atteggiamo di
fronte ai fatti del passato e come li descriviamo? Con quante immagini
filosofiche della storia dobbiamo confrontarci e con quante metodologie
dell’indagine storiografica dobbiamo fare i conti? In cosa consiste, sotto il
profilo metodologico-critico, l’atteggiamento storicistico che riduce ogni
realtà a storia? Quali bisogni soddisfa e quali sono i suoi limiti? In definitiva, quando ci riferiamo al concetto di storia indichiamo un modo d’essere della realtà o un nostro modo di pensarla: esiste la storia o solo gli storici che ne ricostruiscono le intricate fila?
Ha scritto Charles Taylor con fine istinto psicologico: «Soltanto se esisto in un mondo in cui la storia […] ha un’importanza essenziale, posso
definire un’identità per me che non sia banale»1. Pensare di essere inseriti in un largo contesto di relazioni, dominato da regole e da un piano escatologico definito, dà un senso all’esistenza, offre un significato ad ogni
nostro gesto, crea l’ordine di una superiore unità dell’azione cui si partecipa e di cui ci si considera una vivente espressione. Questo sottile mec-
* Il saggio riprende il testo della conferenza da me tenuta il 24 maggio 2002 presso l’Aula consiliare del Comune di Trepuzzi (Le) in occasione della presentazione
´ III (2000/2001), Lógos e storia, a c. di S.
della Rivista di filosofia “’Αρχη”,
Ciurlia, pp. 304. Nella revisione dei passaggi della presente relazione ho preferito
lasciarne inalterata la fisionomia, i riferimenti a grandi prospettive problematiche
e lo stile piano, a tratti allusivo, irrobustendo soltanto l’apparato delle note e dei
rimandi bibliografici.
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canismo è alla base dell’atteggiamento storicistico moderno: esso coglie il
«grido» kierkegaardiano del «singolo» e lega l’identità dell’io individuale
ai destini del genere umano.
«La storia ha un significato – ha ribadito Nicola Abbagnano – se, nonostante l’indipendenza e l’eterogeneità apparenti degli episodi che entrano in essa talvolta a distanze enormi di tempo e di spazio, essa costituisce
un’unica totalità; se questa totalità ha un ordine o un disegno complessivo che subordina a sé tutti gli episodi; se quest’ordine o disegno complessivo ha un unico scopo, un termine ultimo immanente o trascendente; e se
infine l’uomo può, sia pure approssimativamente o genericamente, comprendere questo scopo»2.
Qualcosa di analogo esprimeva Wittgenstein, sebbene nel quadro di una
definizione del «Mistico», quando ha scritto: «[…] Il sentimento del
mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico»3. Wittgenstein
coglie il nocciolo del problema. È proprio tale «sentimento mistico» a fondare i meccanismi di determinazione di ogni filosofia della storia. Cosí, si
pone in essere una «visione del mondo sub specie aeterni»4. I fenomeni
della storia vengono raccolti in un sistema chiuso, il cui possesso esprime
il «sentimento del mondo». L’espressione «totalità delimitata», ai limiti
dell’ossimorico, lega l’individualità all’universale, coinvolge i destini
individuali in un intreccio assoluto (sciolto dal particolare) e lascia emer´
gere la hybris
tipica delle filosofie della storia.
Ritenere che le proprie azioni abbiano una gittata metaindividuale equivale a sostenere, dunque, che la successione cronologica degli eventi allogati in un dato spazio, cioè la storia, costituisca il luogo naturale di fermentazione del Lógos. In tal modo, studiandone le dimensioni di senso,
diviene possibile rispondere alle quattro domande consegnate da Kant alla
meditazione delle generazioni future: «Che cosa posso sapere? Che cosa
devo fare? Che cosa mi è dato sperare? Che cos’è l’uomo?»5.
Pensare ad un’immagine filosofica della storia vuol dire, soprattutto,
rispondere indirettamente all’ultimo interrogativo: cos’è stata, cos’è e,
soprattutto, come potrà definirsi la condizione umana?
Quest’atteggiamento predittivo fonda i grandi paradigmi storicistici di
ogni tempo. Ma, come ha osservato Popper, l’impianto stesso dello stori-
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La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
cismo s’incardina, in fondo, su un «metodo povero». Pretendere di «predire il corso futuro della storia»6 è un’illusione messa in forse da una semplice considerazione: la previsione consiste, in un sistema definito, nella
descrizione di certe regolarità reiterate e reiterabili, frutto della combinazione di un dato numero di fattori espressi nella forma di una sequenza di
fatti. È quel che accade nell’àmbito delle scienze naturali. Come comportarsi, invece, con la storia, che raccoglie eventi, risultato di relazioni fortuite, di clamorose miopie, di generose illusioni, di grandi opportunismi o
dei tizzoni ardenti della passione? C’è qualcosa di logico in tutto questo?
Esistono «leggi storiche»? A giudizio di Popper, è difficile, se non impossibile, per le scienze umane trovare il «loro Galileo»7, perché potremo
magari giungere, grazie allo sviluppo di scienza e tecnologia, a decifrare i
fattori e le cause che regolano i grandi sconvolgimenti naturali, ma non
sarà mai possibile dedurre i contraddittori meccanismi del sentire e del
volere8. Non solo. La «miseria» dello storicismo consiste in un utilizzo del
tutto improprio della categoria dell’«accrescimento».
In altri termini, se la storia è governata da uno sviluppo progressivo
della conoscenza, essa sarà il sigillo dell’ineguagliabile superiorità ontologica dell’uomo, ma, a rigore, essa non può essere descritta in termini di
cammino evolutivo, perché «se è vero che c’è qualcosa come l’accrescimento della conoscenza umana, sarà anche vero che non possiamo anticipare oggi ciò che sapremo soltanto domani»9. In tal modo, tra le pieghe
della certezza metafisica dell’unità della Storia s’insinua l’aculeo del dubbio, della categoria della possibilità, vale a dire di quel che può, con eguale probabilità, essere e non essere. Cos’è, infatti, il possibile? È solo ciò
che si realizza con sforzo, impegno, attraverso la revisione degli errori
compiuti, non ciò che si deve realizzare sol perché ne vagheggiamo la
necessità. Lo storicismo «nasce dalla paura […] e cerca di scaricare la
nostra responsabilità sulla storia e […] su un demoniaco gioco di forze che
ci trascendono»; rappresenta «una falsa speranza e una falsa fede»10. In
ragione di ciò, lo storicismo possiede, nel risvolto contrario, una straordinaria dose di «attrazione emotiva»11, legata alla soddisfazione di quel
bisogno di rassicurazioni, di certezze, di percorsi consolatori in cui identificarsi e credere, di cui ha parlato Taylor.
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Del resto, tra utopie e disincanti è oscillata la cultura filosofica moderna12. Lo storicismo come fenomeno culturale, e a sua volta storico, può
essere collocato nel novero sia delle une, sia degli altri. Come ha chiarito
Paolo Rossi, uno dei grandi idola in cui ha piú fortemente creduto la
modernità è quello che lega lógos e crónos, rendendo la ragione una funzione necessaria, tesa a rischiarare le tenebre dell’ignoto ed a celebrare le
‘magnifiche sorti e progressive’ di un’umanità guidata nella direzione di
un’inarrestabile ascesa verso il meglio13.
Si pensi al sistema hegeliano dell’Assoluto, per il quale la Storia assume entro sé la categoria del Télos. Cosí, le storie individuali costituiscono
solo le fonti della Storia generale del Mondo (Weltgeschichte). Secondo
questa prospettiva, al filosofo spetta il còmpito di scrutare, interpretandone i segni, i piani della Ragione assoluta, verso il pieno riconoscimento
della piena identità di razionale e reale, contro le logiche distintive dell’intelletto14. Sullo sfondo, il crónos ha ormai ceduto il posto all’eternità
dell’Aión.
Nel Novecento, com’è noto, lo storicismo di matrice idealistica subisce
una profonda trasformazione. Complicano ancor piú il quadro le proposte
critiche delle cosiddette filosofie della vita e le ‘provocazioni’ della cultura della crisi. Rimangono, tuttavia, le stesse domande: chi è il soggetto
della storia? Cosa spinge ad agire? In definitiva, la storia ha un senso?
Mutati cosí radicalmente orizzonti e contesti, continuiamo ad interrogarci
sul nostro passato, ma con maggiore distacco, dimostrando piú attenzione
verso quell’individuo che Hegel aveva trattato al pari di un «involucro
vuoto che [al di fuori della dialettica della Storia] cade»15. Nello sguardo
e nel gesto del singolo si raccoglie tutto un mondo, costituito da un irriproducibile circolo di vissuti.
Si tratta di un cambiamento di prospettiva davvero radicale. Per esemplificarne la portata, lo storico tedesco Reinhardt Koselleck ha parlato, nel
descrivere le coordinate critiche del nostro tempo, di una «ridefinizione
dell’area dell’esperienza» e di un restringimento dell’«orizzonte delle
attese»16. Le società complesse, e ancor piú quelle della comunicazione
globale, disegnano i contorni di un nuovo rapporto con il passato e si convincono dell’«irrappresentabilità» del futuro. Sembrano tramontati i tempi
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La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
in cui, per inneggiare ad una forma di unità ontocronologica del genere
umano, un Edmund Burke poteva rallegrarsi del modo in cui gli sviluppi
dell’età moderna avessero delineato la «mappa» dell’umanità, d’un tratto
srotolatasi dinanzi all’orgoglioso sguardo della Ragione; cosí come appare alquanto remota l’epoca in cui un Friedrich Hölderlin poteva improntare la sua produzione poetica alla convinzione del legame strettissimo tra le
azioni del singolo e gli eventi del mondo che lo coinvolgono sino ad involgerlo del tutto17.
Nel mentre, dunque, lo spazio dell’azione si allarga, torna a recitare il
proprio ruolo il ‘singolo’, restituito a se stesso. C’è chi ha parlato - come
Alexandre Kojéve, riflettendo su Hegel - del passaggio ad una «posthistoire», per descrivere il radicale cambiamento novecentesco di registro
interpretativo nell’approccio al passato18. Senza essere cosí decisi, bisogna tenere conto di un dato: quello che prima veniva definito il «Tempo
della Storia» è ora declinato nel segno della dimensione del racconto. È,
questa, la tesi esposta da Paul Ricoeur in Temps et récit, tra il 1983 ed il
1985. Se – come ci si esprimeva una volta – il piano della storia dismette
gli abiti curiali della descrizione dell’evento in funzione di una logica
teleologica, garantita a priori, senza piú indulgenze verso vaticinanti storie dell’Essere rispetto alle quali l’«Angelo immacolato» della Storia
scandisce i suoi imperscrutabili disegni che al filosofo, ex cathedra, tocca
intuire, allora deve modificarsi profondamente l’universo della narrazione storica. La storia diventa il risultato dell’intreccio di tante vite, della
casualità della loro combinazione. È il frutto di desideri, di intrighi, di
aspirazioni che sfociano ora in un progetto, ora in un nulla di fatto, ora in
una tragedia, senza alcuna possibilità di prevedere quando è il tempo dell’uno o dell’altra. Il racconto storico, dati uno spazio ed un arco temporale, dà rilievo ad una certa varietà di accadimenti caratterizzati da comuni
(o simili) condizioni storiche di equilibrio.
Al di là della caratterizzazione in termini ontologici che assume la temporalità nella prospettiva ricoeuriana, quel che qui interessa sottolineare è
che la sintassi del racconto semantizza eventi immersi nel tempo di un
dato processo storico, senza che, con ciò, il tempo stesso debba diventare
una condizione trascendentale della storia: altrimenti, dire Storia e Tempo
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sarebbe un altro modo per dire Essere e Tempo. È necessario qui evidenziare come la categoria letteraria del racconto minimalizzi la pretesa del
filosofo di rendersi interprete del solenne cammino del Lógos. Non si
dimentichi, d’altronde, che il concetto di storia (dal greco historía) si
significa proprio come la narrazione di ciò che si è visto.
Ora, chi narra descrive ed interpreta quanto ha avuto modo di osservare. Cosí, dal mutamento della nostra immagine filosofica della storia
discende una diversa maniera di confrontarci con essa. Ricondurre la storia all’orizzonte del racconto di fatti individuali significa non solo assumere un atteggiamento di reazione nei riguardi delle grandi Storie ‘a disegno’, ma equivale anche a fare appello ad una dimensione ermeneutica in
quanto parte costitutiva dell’indagine storiografica. La disciplina storica
– alla maniera di un Leopold von Ranke – non può piú definirsi «scienza
oggettiva del passato», proprio perché non è dato prescindere dalla funzione semantizzante del soggetto. Naturalmente, il riferimento all’ermeneutica non va interpretato come invito alla pratica di un caotico relativismo storiografico, in nome di un malinteso ed opportunistico utilizzo della
categoria della «pre-comprensione». Niente di tutto ciò. Si tratta, piuttosto, di capire – come ha ammonito Gadamer – che «in ogni conoscenza
storica è insito un comprendere», perché còmpito dello storico è «“capire
ricercando”»19, anche a rischio di fraintendere per ricominciare a capire.
Qui l’idea della storia come esercizio ermeneutico coincide con la
messa a punto di un articolato complesso metodologico mediante cui studiarla. Non basta. Pensare all’intorno degli effetti dell’evento corrisponde
all’indagarne l’irripetibile singolarità. Ritornare al finito, riappropriarsi
del culto delle differenze, evitare «pratiche metonimiche»20 della storia o
espressioni del tipo «tendenza fondamentale»21 di un tempo, «epistéme di
un secolo» o «paradigma di un’epoca», non indulgere in devianti letture
ideologiche degli eventi: tali atteggiamenti discendono da una concezione
per cosí dire paratattica della storia, senza centro ed ordini prestabiliti, in
un confronto di certo impari, ma carico di fascino, con le oscurità del passato. Sembra consumata per sempre, infatti, l’idea di poter leggere gli
eventi all’insegna di un’unica logica sovraindividuale, deducendo causalmente, per esempio, la crisi dello zarismo dal malconsiglio di Rasputin
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La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
o la «soluzione finale» nazista dai colloqui tra Hitler e Dietrich
Eckhardt.
Non si dà, dunque, consecuzione causale tra gli eventi, ma solo un insieme di processi plausibili, piú o meno credibili, suscettibili di confutazione, giammai veri. La storia è l’epopea o la tragedia di niente e di nessuno
e tantomeno costituisce la pre-istoria di quel che siamo. È, piuttosto, un
intreccio, a tratti labirintico, di quel che è giunto a noi di un certo passato.
Come reagisce lo storico dinanzi a tutto ciò? In qual modo ricalibra i
propri strumenti? Il paradigma della storia come racconto a quale modello
di storiografia filosofica corrisponde? Con quali nuove sollecitazioni
metodologiche quest’ultima deve confrontarsi? Come si costruiscono le
storie? Lo storico può solo perseguire il nobile intento di sollevare qualche
strato di polvere nel frattempo sedimentatosi o contribuire a rimuovere
lembi di oblio posatisi sugli eventi. E se vuole ancora proporre, alla maniera di Marc Bloch, un’apologia del suo mestiere, deve redigerla alla stregua
di un elogio dell’imperfezione e della provvisorietà degli approcci.
II. Minimalismo storiografico? Dare una secca risposta significa eludere la domanda. Val la pena di proporre qualche considerazione. «L’oggetto
della scienza storica – amava ripetere Giulio Preti – non è il nostro passato, ma un altro presente»22. In altri termini, lo storico pone come assiomatica l’idea dell’autonomia del passato; rifugge, nelle sue valutazioni,
dall’aut-aut per approdare all’et-et, considerandosi – dice bene Paolo
Rossi – un «artigiano», educato ad utilizzare certi ‘ferri’ del mestiere, il
quale non dà forma alle cose, ma contribuisce, in dialogo costante con i
suoi ‘vicini di bottega’, a restituire i fatti ad un’immagine plausibile di se
stessi, legandoli a contesti diversificati ed alla mentalità di un tempo o di
un popolo di cui sono il volontario o l’involontario frutto.
Cosí, il «racconto» storiografico assume una fisionomia variabile in funzione della complessità del suo oggetto. Si trasmette la memoria del passato non per prolungare la scia del presente o per dare una giustificazione
al sistema storico di cui si è parte, ma per porre accanto, verificandone le
tangenze, i tanti punti, le tante aree di senso, le tante direzioni che caratterizzano i percorsi accidentati di una civiltà. Con ciò legando le testimo-
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nianze ai contesti, verso una ricognizione degli inevitabili coni d’ombra
del passato non come la condanna ad uno stato di semicecità, quanto alla
maniera di uno stimolo che impegna le piú raffinate griglie interpretative
di cui lo studioso è in possesso. Tutto questo rende la ricerca storica un’impresa critica, che vive delle sollecitazioni di un tempo e che si consuma - e si rigenera - nel tempo.
L’itinerario è segnato: dinanzi all’oscurità del passato, prevale l’atteggiamento che non si picca, con solennità professorale, di eliminare l’incertezza, ma che si orienta ad assumere una veste di diffidenza critica
verso le proprie certezze, aderendo a quella ‘scuola del sospetto’ che
discende dalla convinzione – come ripeteva Lucien Febvre – che «la storia si fa con i testi e con la testa»23. Altrimenti, si riaffonda in forme, magari piú sfumate, di storicismo: se la storia, infatti, è considerata magistra
vitae, allora può essere intesa come il luminoso deposito di senso dal quale
trarre ammaestramenti per non ripetere certi errori del passato. Se è cosí,
però, il riconoscimento di quegli errori diviene causa logica delle nostre
raggiunte certezze: si possono inferire, in tal modo, le coordinate del presente dall’orizzonte del passato, che da altro presente diviene a tutti gli
effetti il nostro passato.
Si fronteggiano, dunque, due immagini filosofiche della storia da cui
discendono altrettanti modi di concepire la ricerca storiografica. Dalla
sfera al punto: vale a dire dalla Storia alle storie, dalla descrizione degli
inesorabili destini del Mondo allo studio dei tanti mondi, delle tante sparse nicchie di significati di cui è costituita la storia di una civiltà. La perfetta simmetricità geometrica della sfera, tutta chiusa e raccolta nella misura di curvatura costante della sua superficie, bene emblematizza l’idea
romantica del sistema assoluto della Storia dell’umanità. Il contraltare di
ciò è il punto, cioè l’individuo concreto, che agisce, arranca, sbaglia, impara dai suoi errori, si relaziona, crea significati e storie. In una parola: vive.
Ritorna, cosí, in primo piano il ruolo recitato dagli interstizi, dai deuteragonisti, dagli sfondi, dai condizionamenti socio-culturali diretti ed indiretti. In questo processo di restituzione del singolo a se stesso, la storia
cessa di essere l’epica narrazione delle imprese di eroi, popoli o idee e si
concilia con la sua finitezza, con la varietà dei punti di vista, delle distin-
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zioni, dei tragitti su cui si fondano gli eventi e le stesse idee. Lo storico si
adegua. Secondo Alain De Libera, «còmpito dello storico è risalire ai dati
testuali, alle strutture argomentative, agli schemi concettuali ed alle interferenze»24. Fare la storia di un problema significa «vedere formarsi dei
nessi; distribuirsi, disfarsi e ricomporsi un certo numero di elementi; considerare scivolamenti, ricorrenze, ma anche […] fatti di struttura»25.
In tal modo diviene superfluo almanaccare sulla vicinanza o sulla lontananza cronologica di un fatto o di un testo, su quando, nel ricostruirne i
percorsi, si stia facendo ‘storia’ o ‘cronaca’. Occorre dotarsi di un atteggiamento di pieno «copernicanesimo cognitivo»26 anche in sede di ricerca
storiografica, comprendendo che la nostra posizione non è gnoseologicamente privilegiata. Cosí, il conflitto delle interpretazioni cessa di considerarsi una patologia per riconoscersi, piuttosto, come un dato fisiologico.
Nell’intersecarsi di tali vie sorgono le prime radici di quello che possiamo
definire «senso storico». Ha scritto Hilary Putnam: «Senso storico è la disponibilità o il talento di comprendere il passato […]; [significa] vincere
la naturale ingenuità che ci farebbe giudicare il passato secondo le misure
[…] della nostra vita attuale, nella prospettiva delle nostre istituzioni, dei
nostri valori e delle nostre verità acquisite»27.
Il recupero della dimensione individuale dell’evento e la sua sottrazione
ad ogni pregiudiziale ideologica svincolano dalla libidine dello «sguardo
d’insieme», perimetrano spazi nel mentre creano circuiti di relazioni, articolano i contorni dei processi storici e chiudono i conti con lo storicismo
assoluto, di cui Popper aveva declamato la «miseria». La scienza storica
non è in grado di prevedere il futuro studiando il passato, ma guarda al
passato riconoscendogli una piena autonomia. Con una certezza metodologica in piú: dare voce al passato significa interpretarlo, non aggiogarlo
al presente. In sintesi, il passato è visto con i nostri occhi, ma di certo i
nostri occhi non creano, guardandolo, il passato.
Questa prospettiva, mentre chiarisce molti equivoci, ingenera tanti altri
problemi. Quest’individualismo metodologico, se sviluppato in tutte le
sue conseguenze, non rimane vittima della sua stessa particolarità? Esso è
davvero spendibile su ogni piano della storiografia filosofica? Non rischia
di avallare una forma di relativismo, incapace di riconoscersi come sino-
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nimo di pluralismo, parto degenere, invece, di una mentalità scetticheggiante? Una storia ed una storiografia di monadi di senso cosa trova innanzi a sé quando si accinge a guardare dietro di sé? Rimane da ribadire una
raccomandazione ai tanti esteti che attraversano gli impegnativi campi
dell’indagine storiografica: nell’accostare la storia al racconto non bisogna pretendere di ridurla a semplice letteratura, perché lo storico rispetta
un ‘cronotopo’ reale; la libertà creativa del semplice narratore è di natura
del tutto diversa e può estendersi con piú disinvoltura.
In altre parole, non basta, per dirla con Georges Duby, «rivestire con le
parole, con le frasi […] le armature»28 (cioè un dato insieme di testimonianze del passato) attraverso il semplice raffinamento dello stile.
Occorre, invece, combinare metodologie, pensare alla storia come ad un
problema aperto e a piú soluzioni, non sempre in contraddizione tra loro.
Date queste premesse, pare riproporsi un vecchio dibattito che aveva alimentato le menti migliori dell’età positivistica: la storia è una scienza o
una forma d’arte? È regolata da leggi codificabili? Che rapporto c’è tra il
presente dello storico ed il passato che egli si accinge ad indagare? È una
forma di cronaca o, a suo modo, uno strumento conoscitivo? Mutatis
mutandis, i problemi sono gli stessi, anche se i protagonisti della controversia non si chiamano piú Michelet, Ranke, Fischer, Renan, Fustel de
Coulanges, Villari, Croce, ma Bloch, Febvre, Braudel e giù sino allo stesso Duby, Le Goff, Koselleck, Gadamer. E, in fondo, affascina di piú la persistenza della domanda di fondo che le risposte via via elaborate. Ieri
come oggi. Oggi … come, forse, domani.
III. Il percorso critico sin qui delineato segue le vicende relative agli sviluppi del rapporto tra le idee di progresso e storia nel corso delle età
moderna e contemporanea. Il tema del progresso assume una specifica
fisionomia, insieme ieratico-epistemologica, con Bacone. «Trasformare la
natura», per il Lord Cancelliere, equivale ad interpretare nel modo piú profondo la volontà divina tesa a perseguire un pieno dominio dello spirito
sulla materia. Le metafore bibliche e le allusioni alla Scrittura sono disseminate per tutta la sua opera. La natura va violata, «inquisita». La sua conquista diviene, nel medesimo momento, sinonimo di una vera espugna-
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zione dei suoi segreti e di un’acquisizione dei suoi favori, allo scopo di
creare una scienza davvero intesa a migliorare le condizioni di vita dell’umanità29.
Non si tratta, però, solo di un sogno speculativo. Non è un caso, infatti,
che il Bacone che riflette sul modo di carpire segreti alla natura sia l’utopista de La Nuova Atlantide. Ciò significa che la riflessione sulla scienza
assume specifiche valenze sociali. Ora, al di là dello specifico spazio che
viene ritagliato per l’uomo di scienza, qui importa ribadire come quest’idea di sconsacrare la natura, persino di punirla per il suo millenario dominio sull’uomo, sia tutt’uno con il proposito di pensare ad una società i cui
interni equilibri vadano regolati sul modello delle scienze della natura. Da
qui il baconismo come termine designante un’idea di progresso sociale
esemplata su quella di progresso scientifico. In tal modo, quella del progresso diventa un’ideologia, carica di promesse e di inganni30.
Si potrebbe obiettare, da subito, che la società è fatta di individui dall’identità variabile e che quello di ‘società’ è un concetto troppo complesso
per essere ridotto ad un’unica definizione, mentre la scienza vincola le
proprie incognite, le quali servono, alla fine, a risolvere un’equazione.
Quando si parla delle passioni umane legate ai tanti ruoli sociali che, di
volta in volta, recitiamo, ci si può esprimere solo in termini approssimati,
come aveva intuito Popper. Ma, forse, non è questo il punto. Il baconismo
designa un’etica del lavoro, una metafisica attivistica, che libera il labor
dal pondus e fonda l’endiadi scienza-dominio. Si tratta di un’idea, con
accenti diversi, assai diffusa nella cultura contemporanea, dal Weber de
L’etica protestante e lo spirito del capitalismo alla Dialettica dell’illuminismo di Adorno-Horkheimer, ma le vere origini sono in Bacone.
Emerge, via via, però, la consapevolezza di un fondo d’inesperibilità del
mondo della vita nelle maglie di una ricerca scientifica ormai senza freni,
ma incapace di dare un volto a se stessa ed ai suoi stessi fruitori. Si pensi,
per esempio, allo Husserl di Krisis o agli stessi francofortesi. In definitiva, l’idea di progresso diviene un’ideologia socio-culturale responsabile,
per un verso, di un radicale ridisegno dei rapporti con la natura e capace,
per l’altro, di dettare i ritmi della crescita sociale, all’insegna di una cumulatività dotata di uno statuto ontologico. La fede nel progresso finisce per
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corrispondere alla fiducia in una società governata dalla giustizia, dall’equilibrio, dalla sana distribuzione di diritti e di doveri nell’ascesa verso
l’età aurea del pieno trionfo dell’umano.
Come si è osservato, il Novecento, in molte delle sue espressioni piú
significative, rovescia la fiducia nelle grandi filosofie della storia e decreta la crisi dell’idea di progresso. La consapevolezza di vivere in un’età di
radicale tramonto dei «miti» del passato e dei valori dell’intera civiltà
occidentale è assai diffusa tra gli intellettuali, specie dopo la Grande
Guerra. Un nuovo, a tratti cinico, pessimismo s’impadronisce degli interpreti dello sviluppo della civiltà: idee quali Scienza, Europa, Progresso
vengono svuotate di senso o del tutto riproblematizzate. Dunque, il XX
secolo, il secolo che avrebbe dovuto cogliere i frutti del grande sviluppo
scientifico e culturale dell’Ottocento, collocandosi nel Pantheon della
Storia, rappresenta il tempo in cui si consumano conflitti e si vive nella
paranoica attesa di una minaccia oscura ed incombente. La ‘crisi’ diviene
una categoria designante una temperie culturale, un modo di sentirsi parte
del proprio tempo, una ‘mentalità’, nel senso di una maniera di concepire
il mondo e di proiettarsi nel futuro. Vi ci convivono tante anime, nel segno
di almeno due considerazioni: l’età della crisi coincide con l’epoca del
trionfo dell’industrializzazione, mentre «l’osservazione del presente […]
tende a farsi denuncia del male di vivere, a diventare lamento sulla condizione umana»31.
In questa prospettiva, le soluzioni tra loro alternative ai problemi s’intrecciano, si contaminano e quando si pensa ad un’immagine del mondo
non si porge piú attenzione ai disegni metafisici dello Spirito
dell’Occidente. Piuttosto, emerge un complessivo spirito di reazione
rispetto, per esempio, ai prodigiosi sviluppi di uno degli idola della
modernità: la scienza. Negarne l’evoluzione e le conquiste, infatti, sarebbe equivalso ad assumere un atteggiamento a dir poco miopico nei riguardi dell’impresa scientifica. Ma, in luogo del celebrarne gli splendori e del
magnificare l’ebbrezza dell’assistervi, ci si rifugia in cupe elucubrazioni,
fatte di reminiscenze mitologiche, di rassegnati richiami apocalittici o,
peggio, di progetti di un neoumanesimo nichilista inteso come l’unica via
non tanto per offrire una soluzione alla crisi, quanto per liberarsi dalle
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La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
illusioni della civiltà.
Quel disagio descritto da Freud in termini di «deviazione» dell’energia
libidica ed eudeministica ora celebra solo se stesso, si chiude nella proiezione dei propri timori («il Super-io della civiltà»32), non cerca strumenti
o soluzioni per abreagire i propri riposti conflitti. Anela, per una strana
forma di masochismo, ad infliggersi altre ‘ferite narcisistiche’ per decretare, alla fine, la contraddittorietà di ogni forma di narcisismo: l’uomo del
Novecento, dunque, si riconosce vittima della propria stessa introspezione, non ha piú motivo di riflettersi nella vasca di Narciso se non per ravvisare le proprie imperfezioni. Eppure, per un processo di autolesionismo,
egli si continua a specchiare, anche a rischio di contaminare esteticamente le acque, di violare l’innocenza della Natura con la propria gibbosa
paradossalità. Si pensi, anche solo per fare qualche nome, a Spengler, a
Schweitzer, a Musil, a Thomas Mann, a Ortega o a Broch per comprendere quanto il richiamo simbolico a Narciso sia calzante.
Ciononostante, si continua a pensare all’essenza del moderno individuandola in uno dei prodotti critici della modernità: è la riflessione sulla
«tecnica», infatti, a farla da padrone, ad incarnare le luci e le ombre della
civiltà della decadenza. Se per un verso, infatti, la tecnica rappresenta il
culmine del progresso scientifico, per l’altro è sinonimo dell’immersione
dell’eterea superiorità del Lógos nelle motose pratiche di manipolazione
della materia e costituisce un indice di livellamento socio-culturale, di
spersonalizzazione in processi ripetitivi e spiritualmente amorfi: «Il conoscere si installa […] in un dominio dell’ente […]»33, stabilisce Heidegger
con profondo sguardo vaticinante. Per Horkheimer ed Adorno, invece, la
tecnica assume le vesti di un micidiale strumento di dominio, trasformandosi nello spettro di una nuova barbarie34.
La tecnica ha, altresí, ricadute sociali cosí rilevanti da incidere profondamente sul momento aurorale della moderna società di massa. Se cambiano i valori mutano le relazioni interindividuali, si trasforma la natura
dei vincoli. Lo aveva capito con grande anticipo Ferdinand Tönnies: l’antica e tradizionale Gemeinschaft rifluisce nel contrattualismo della
Gesellschaft35.
Questo processo, poi, diviene un fenomeno di massa. Ha scritto Ortega:
41
Sandro Ciurlia
«C’è un fatto che, bene o male che sia, è il piú importante nella vita pubblica europea dell’ora presente. Questo fatto è l’avvento delle masse al
pieno potere sociale»36. Tale avvento assume le fattezze di un’autentica
ribellione, dissolvendo l’individuo nel gruppo socio-culturale di cui è
parte. In quest’ottica, la tecnica diventa un cieco strumento anomico; la
razionalità tecnica «standardizza» l’esistenza37, «imbarbarisce»38.
L’uomo-massa, sempre piú legato a parametri di rendimento, sfrutta i
ritrovati della tecnica, ma vi si scopre succube; fa sorgere entro sé un
senso di disorientamento a cui non sa dare un nome, perché incapace di
pensare ad un linguaggio volto ad esprimerlo. È come nell’emblematico
urlo di Munch, tutto chiuso nella surreale deformazione del suo volto, a
cui fa eco un cupo e desolato silenzio. E lo sforzo di squarciarlo crea solo
abbattimento, rassegnazione. Falliscono anche i tentativi di creare nuove
forme di aggregazione legate a rinnovati totem socio-culturali intorno a
cui ruotare per creare una dialettica del riconoscimento. Sorge una nuova
categoria esistenziale: l’ansia all’insegna di quell’angoscia kierkegaardiana che configura il sentimento del mero «possibile». Possibile, dunque,
non reale, né necessario. Crollano miti, certezze, sforzi di revisione, si
frantumano i grandi progetti legati ad idee di progresso ontologicamente
determinate, ma sopravvive la capacità di adattamento.
Su questo terreno è possibile, forse, osservare quanto segue: vivere
senza piú garanzie non significa morire, ma pensare ad un nuovo modello
di organizzazione del proprio tempo. In questo senso, la crisi dell’idea di
progresso ha alimentato il progresso della crisi in quanto giudizio critico
sulle coordinate della nostra epoca. È ancora presto per dire che la modernità ha esaurito la propria funzione critica, che si vive ormai in un’età successiva, che alcuni definiscono postmoderna. È difficile, infatti, individuare nette fratture o radicali riorientamenti. Certo è, però, che dinanzi
alle sfide del mondo contemporaneo poche delle tradizionali categorie
dello storicismo moderno hanno retto: la modernità come categoria critica attraversa una stagione di travaglio alquanto evidente.
Cosa rimane? È arduo pronunciarsi. Sarebbe, forse, piú agevole fare l’elenco di quanto non è sopravvissuto alla tumultuosa burrasca del
Novecento. È nell’elenco dei dispersi proprio quell’idea di progresso che
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La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
può considerarsi la condizione di possibilità di ogni forma di storicismo.
Non è il caso, però, di ritenersi orfani del sistema, anche perché sia quel
complesso di coordinate categoriali, sia quello del nostro tempo sono storicamente determinati. Un’unica categoria impera sovrana: la storia, non piú
garantita da disegni a priori, ma intesa come racconto di fatti spesso contraddittori tra loro, frutto di slanci e di miopie, di capacità e di imperizie,
perché la storia degli uomini quando è vissuta è fatta dagli uomini stessi ed
è, come tutte le cose umane, fallibile, casuale e finita. Vi convivono senza
escludersi progetti, utopie, ecatombi, illusioni e sconfitte, grandi marce a
passo di carica e ritirate in punta di piedi, spesso soffuse di rossori.
La crisi delle grandi filosofie della storia è stata un fenomeno di ampia
portata, sino a diventare una diffusa condizione di tipo socio-culturale. Si
tratta di un aspetto in parte enfatizzato, in parte ancora non compreso in
tutta la sua variegata articolazione. Di fatto, va ravvisato un significativo
mutamento dell’asse delle certezze che ha caratterizzato l’orizzonte degli
equilibri dell’uomo contemporaneo. Fenomeni quali il postmodernismo
sono il frutto di un’esigenza e di una necessità: liberarsi dagli ordini precostituiti dopo le lezioni di disincanto offerte dalle guerre e dalle spaventose catastrofi novecentesche; creare, pensandole, le condizioni di un pensiero della differenza e del dialogo. Non c’è, dunque, soluzione di continuità tra tali percorsi, né sotto il profilo storico, né sotto quello critico39. Il
tanto decantato ‘post’ non è un ‘trans’ critico, ma solo la prevedibile conseguenza delle contraddizioni del XX secolo.
Un aspetto impensierisce alquanto: la dissacrante critica postmoderna
alle «grandi narrazioni» speculative della Storia del Mondo pare voler
recuperare, soprattutto, le ragioni della fallibilità del singolo che fa la storia. Ma, per certi versi, ci si trova anche dinanzi al tentativo di elaborare
nuove forme di unità, magari programmaticamente slegate da ogni possibile identificazione con forme di universalismo ontologico, eppur messe
nelle condizioni di sfuggire all’anarchismo della feroce logica per la quale
a dominare è soltanto la volontà dell’individuo sostenuta dalla spinta ad
affermarsi. Tanti ritrovati surrogatori vedono la luce sottoforma di limitate ‘ontologie regionali’, intese a creare analogie tra le tante saettanti
schegge individuali. Dunque, anche le avanguardie postmoderne sono
43
Sandro Ciurlia
prospettive che con il problema del fondamento hanno tanto a che fare.
Tutto ciò tradisce l’esigenza di radicamento, di costruzione di un’identità civile e culturale cui le grandi filosofie della storia davano voce. Ed
oggi, orfani senza ammetterlo del clima critico del sistema, ci si rassicura,
dinanzi al buio dei valori in cui la modernità ha creduto, accendendo qualche esile lumicino. Farsi una ragione di quanto ha ormai fatto il proprio
tempo, l’impianto delle filosofie della storia, non significa non continuare
a cercare un superiore piano del ragionamento in grado di costituirsi come
l’orizzonte regolativo delle nostre volizioni, dei nostri proponimenti, visto
che lo stesso esserci in tanto è tale in quanto è sempre un essere-con.
Questa persistente tensione verso l’unità non mina un dato di fondo: il
Novecento travolge e nebulizza molte certezze del razionalismo moderno,
divenendo un arcipelago di significati. La storia non si spezza, però, perché vi convivono differenze e analogie tra periodi, azioni, prospettive e
sconfitte. Certo, diceva già Plutarco, il grande Pan è morto. L’ordine del
mondo ha lasciato il posto alla dismisura, alla sconsacrazione, al piú sfrenato e persino cinico individualismo, ma perché farne un dramma?
Rimane uno stato di disagio cui si può far fronte allargando le prospettive
interpretative, rendendo centro del nostro mondo i problemi, non le soluzioni piú o meno capaci di soddisfare l’umana esigenza di rassicurazione.
Dopo il disincanto delle diagnosi sorge il reincanto per le prognosi. Non
si ha piú bisogno di vaticini, di fuorvianti interpreti dell’oracolo di Delfi:
la vera grazia e la bellezza risiedono nella spinta a rintracciarle. Una simile spinta è ricerca; e la ricerca è critica, giudizio, interpretazione degli
equilibri variabili su cui si fonda un tempo. Non c’è piú un Soggetto di
fronte alla Natura, ma tante ed inassimilabili teste, accanto ad una natura
ormai privata di sacralità, esito essa stessa della categoria del conflitto. Ma
una diagnosi, anche se realistica, cruda e senza illusioni, non esclude la
prognosi. Anzi, la richiama.
Il cinismo e l’appiattimento dei valori hanno preso il sopravvento?
Impostare il problema in tal modo è già un limitarne il senso e la portata.
In fondo, persino i piú aspri nemici novecenteschi del pensiero utopico,
Popper e Berlin, non hanno esitato a riconoscerne la regolatività. Dinanzi
agli sconquassi di un’epoca, come la nostra, in costante conflitto con se
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La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
stessa, la concordia diviene sinonimo, molto piú debolmente, di ragionevolezza, valida, anche qui, come idea regolativa. Si tratta, in altri termini,
non tanto di proporre un nuovo «cosmo» o di riscontrare tecniche mediante cui assemblare, nonostante la loro riottosità, le disiecta membra del
nostro mondo e del nostro sapere, quanto di far leva sull’idea che il contrasto tra idee, progetti, percorsi non debba per forza sfociare nella rissa,
ma che possa trasformarsi in un terreno di possibilità, in un’occasione per
mettere in luce schemi di lettura delle cose. Certo, cosí intesa, la categoria del confronto costituisce il sarcofago del ‘pensiero unico’, la tomba
delle filosofie sistematiche, ma anche il trionfo di una ragione libera, dialogica, interpretante, affascinata dal misterioso fascino del paradosso e
della contraddizione. Inutile nascondersi i rischi di questa prospettiva; cosí
come è altrettanto inutile continuare a baloccarsi con idee, abbastanza
fumose da irritare, quali ‘bellezza’ e ‘armonia’, visto che ci è dato convivere con i tanti ordini che l’individuo dà a sé. Il «legno storto dell’umanità» non si raddrizza: se s’insiste troppo, si spezza.
Invece di patire in una condizione di travaglioso calvario, si costituisca
quel che si può edificare: poco e non per sempre. Del resto, se ogni edificio avesse l’imponenza di una piramide, forse non ci sarebbe un tetto per
tutti e tanto meno saremmo in grado di ammirare quella meraviglia architettonica chiamata piramide. Pensare per spazi limitati significa conoscere la stratigrafia di un terreno e capire cosa si può costruirvi. Per rimanere nella metafora, la piramide serve a capire a qual grado di raffinata complessità può giungere un progetto ed a fare intendere la costitutiva perfettibilità di ogni percorso di pensiero. Se cosí non fosse, non saremmo davvero all’altezza, in un’epoca che dischiude opportunità infinitamente maggiori rispetto al passato, degli sforzi di chi ci ha preceduto. D’altra parte,
a cosa serve il richiamo all’Eden celeste se non ad infiammare il gusto e
la fatica di guadagnarselo? Conta davvero sapere se ha delle fattezze definite e dimora in un luogo? È, forse, piú interessante il cammino che l’approdo, piú l’ebbrezza della fiamma dell’intelligenza che la rassicurante
atemporalità di un unico, maestoso epilogo che ricetti in sé il senso dell’intera esistenza.
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Sandro Ciurlia
IV. Il Novecento è il secolo nel quale questi tumultuosi percorsi hanno
manifestato se stessi; un secolo, il ventesimo, «lungo» quant’altri mai40. I
mutamenti avvenuti nel suo corso hanno avuto una portata ampia ed epocale. Una violenza di inaudita portata lo ha attraversato, sgretolando le
certezze piú consolidate. In questo senso, «il Novecento è stato il secolo
[…] del dubbio radicale»41. Se, per un verso, molte delle illusioni in una
condizione di progresso ontologicamente garantita si sono sgretolate, per
l’altro viviamo in un’epoca che, in molti campi, può vantare conquiste
enormi. Con una consapevolezza, ormai pienamente consolidata: lo sviluppo tecnologico, nel mentre fornisce tutti gli strumenti per un deciso
miglioramento delle condizioni collettive di vita, è destinato a mettere a
repentaglio i delicati equilibri su cui si fonda la convivenza e l’esistenza
stessa degli uomini42.
I pericoli sono molti. Da qui le filosofie della responsabilità e della speranza, legate a quel filone utopistico che attraversa in lungo ed in largo il
secolo XX. Si pensi, per esempio, a Ernst Bloch. Per stornare i venti della
crisi, egli guarda al futuro con un senso di attesa carico di «speranza»,
nella persuasione che, cosí facendo, lo sguardo si volge al non-ancoraavvenuto43. Anche in questa circostanza, la fiducia nelle «promesse» della
storia rassicura, ridona fiducia nella volontà di agire, di migliorare. Come
si vede, siamo ancora all’interno di una mentalità storicistica. Quando,
però, viene meno «l’idea del Progresso inevitabile e necessario, non resta
che perseguire un progresso possibile, guidato da scelte consapevoli»44.
In questo clima di perdita delle antiche firmitates emergono emozioni
nuove, forme rinnovate di coinvolgimento e di suggestione. Riappaiono
all’orizzonte antichi timori millenaristici, come se aleggiasse un’antica
minaccia, all’aggressione della quale è necessario, in tutti i modi, sottrarsi. Nel novero di tali paure si colloca il timore di vedersi attaccati dalla
«Madre Terra»: la natura non conserva piú una condizione d’inviolabilità
rispetto al pensiero, pertanto si ribella. Per secoli, il problema della crisi
ecologica è stato trascurato45. Una filosofia oggi capace di farsene caricotiene bene a mente le parole di Arnold Toynbee: «L’Uomo, il figlio della
Madre Terra, non sarà mai in condizione di sopravvivere al matricidio, se
mai dovesse commetterlo. L’autodistruzione sarebbe la sua punizione»46.
46
La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
Da qui l’«enigma», presentato nella forma di un dilemma: «L’Uomo
ucciderà la Madre Terra o la riscatterà»47. Secondo Toynbee, l’uso scriteriato della tecnologia condurrà alla prima soluzione. Dinanzi alla drammatica emergenza del problema ecologico, si fa avanti la necessità di
attrezzarsi per scegliere, affinché, isolando un problema, un ampio ventaglio di soluzioni e di griglie interpretative, anche tra loro alternative, possano permettere di controllarlo.
Questo percorso consente di evidenziare la preziosità dell’approccio
ermeneutico ai problemi. L’ermeneutica diviene il luogo d’esercizio della
critica, indica un gioco di equilibri tra griglie interpretative non coincidenti fra loro. Piú in generale, rappresenta la garanzia di un filosofare
senza dogmi, il sinonimo di un atteggiamento d’inquieta insoddisfazione
dinanzi a soluzioni troppo nette o a prepotenze ideologiche, per pensare ad
una filosofia davvero all’altezza dei vorticosi processi del nostro tempo48.
Ormai esistono correnti ed aree definite all’interno del vasto piano delle
filosofie dell’interpretazione. Non è qui opportuno descriverne le estensioni o prendere posizione sulla maggiore o minore plausibilità dell’una o
dell’altra. Importa ribadire un punto: l’elogio dell’ermeneutica corrisponde all’invito ad irrobustire l’orizzonte della comprensione di una qualunque vicenda critica. Comprendere significa, innanzitutto, evitare di fraintendere, come ammoniva già Schleiermacher49. Non basta. Il carattere
stesso della comprensione stimola e raffina la capacità del giudizio, induce ad assumersi la responsabilità delle proprie idee e, soprattutto, aiuta a
persuadersi che nessuno è portatore di verità assolute, perché è insensato
il concetto stesso di «verità della storia». Esistono solo le storie e gli uomini che le intrecciano. In questo senso, «il còmpito della riflessione ermeneutica odierna sembra essere quello di cercare il modo per consentire che
identità e differenza, appartenenza e distanziamento convivano in un rapporto dialettico aperto, in maniera che all’interno di esso nessuno dei due
momenti finisca con il prevaricare sull’altro»50.
Una filosofia del dialogo, dunque, della sobrietà della spiegazione, del
riconoscimento del principio della molteplicità dei punti di vista; purtuttavia, una filosofia, questa, non esente da pericoli, limiti e contraddizioni.
Alle spalle dell’assunto «tutto è interpretazione» si profilano gli spettri del
47
Sandro Ciurlia
relativismo. Se, per un verso, l’interpretazione agevola i tentativi di spiegazione, allora ogni percorso interpretativo diventerebbe plausibile,
appunto perché, in qualche misura, interpreta un problema. Cosí, però, ci
si perde davvero in una selva di opinioni ed il dialogo interpretativo rischia
di risolversi in sconclusionati chiacchericci. Ad un passo dal piú sfrenato
relativismo si collocano le novelle versioni di pirronismo: se tutti hanno il
diritto di dire la propria verità, che esprime valutazioni soggettive, allora
l’idea di una verità interindividuale è un’amena illusione.
Questi i tarli che si annidano nelle maglie di ogni filosofia dell’interpretazione. Certo, agevolare l’espressione di osservazioni personali non
significa autorizzarle in senso stretto, ma educarle ad esprimersi. Senza
ritornare alle questioni della validità del comprendere e della codificazione di criteri intersoggettivi di controllo di quanto si viene sostenendo, l’ermeneutica non può proporsi come un lucido strumento di ricerca per le
scienze umane e sociali. Era questa, per esempio, la preoccupazione principale di Emilio Betti sin dal 1955, la cui teoria dell’interpretazione vuol
essere una forma di riconoscimento dell’oggettività del dato e non tanto
della soggettività dell’interprete51.
C’è un aspetto ontologico della questione ancora piú preoccupante.
Sostenendo l’idea che ogni elemento che si descrive è solo una nostra rappresentazione, si giunge alla ridicola condizione della ‘perdita’ dell’oggetto dell’interpretazione, come non accadeva nemmeno nelle piú ingenue
forme di berkeleysmo contro cui Kant lanciava i suoi infuocati strali. Se
«tutto è interpretazione», «nulla esiste» se non in una prospettiva interpretativa. Riferirsi all’orizzonte critico dell’ermeneutica equivale a coinvolgere il fattore della soggettività nella costruzione del giudizio sulle
cose, non a rendere queste ultime il frutto dei ghiribizzi creazionistici del
soggetto.
Certo, porsi nella prospettiva della ricerca dei principî del comprendere
significa ritornare ad immergersi in una prospettiva trascendentale. Essi
varrebbero come condizioni trascendentali dell’interpretazione, ma, a loro
volta, non potrebbero piú dirsi oggetto d’interpretazione, in ragione del
loro «ruolo metaermeneutico»52. Ciò è inevitabile: «Prima ancora di essere interpretazione, la filosofia non può non essere teoria, non può non
48
La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
avere […] carattere trascendentale, poiché siamo noi stessi a dare senso
alla nostra esperienza»53. Quest’itinerario colloca l’ermeneutica nel pieno
della tradizione filosofica moderna, con tutti i suoi tormenti. Riflettere sui
rischi dell’ermeneutica filosofica non è in contraddizione con il termine
‘elogio’ prima adoperato. Infatti, proprio perché si tratta di un itinerario
critico promettente è il caso di valorizzarne i pregi, evidenziandone anche
i limiti e, soprattutto, i potenziali rischi.
Emerge e si consolida, dunque, l’idea che una filosofia libera dalle
garanzie del sistema sopravvive nelle direzioni di senso che emergono dal
dialogo, dal confronto, dagli stimoli volti a rendere la ricerca un’impresa
imprevedibile, ma critica. In questo modo, combinando fenomeni e parole, l’ermeneutica costruisce verità finite54, intesse storie, educa punti di
vista e continua ad interrogarsi su se stessa, per comprendere cosa significhi interpretare e cosa pensare. Cosí, nel superare gli steccati delle garanzie ontologiche, determina linee di relazione con la tradizione e getta ponti
verso un futuro mai garantito, eppure posto lì solo per essere esplorato e
colonizzato dai nostri slanci critici e dai nostri progetti.
V. Il senso complessivo delle riflessioni sin qui tratteggiate si raccoglie
in un’unica domanda: le filosofie della storia sono davvero un vecchio e
‘cattivo’ ricordo? Viviamo in una condizione d’incertezza, all’insegna
della categoria della crisi. Cosí, il concetto di civiltà – come aveva ricordato Taylor – assume una sorta di catartica valenza psicologica per superare conflitti, per popolare di presenze reali e simboliche quel senso di
angosciosa solitudine che ci portiamo dentro nella società dell’immobilismo in movimento. Con finezza s’interroga Remo Bodei: «Riusciamo a
darci una storia della nostra vita senza inserirla in una qualche ‘storia del
mondo’? Dubito che si possa completamente isolare la sfera dell’esperienza individuale. […] Ecco perché sostengo che […] di una certa idea di
senso globale non possiamo fare a meno»55.
Ha ancora un senso parlare di ‘senso globale della storia’? La questione
assume significativi ed inediti risvolti se si considera che, forse per la
prima volta ed al di là delle non sempre ispirate meditazioni dei filosofi,
siamo in grado di pensare la storia, nell’era delle società complesse
49
Sandro Ciurlia
immerse in un contesto globale, come un tutto, in un sistema-mondo costituito da identità locali calate entro un orizzonte ormai planetario56. Si continua ad essere soli, ma simultaneamente, pertanto si vive in una condizione di costante presenza di tutti a tutti. Sembra quasi un paradosso: in un
mondo globalizzato, in cui i rapporti tra pubblico e privato, individuale e
collettivo, unità e molteplicità vanno ridefiniti sin dalle radici alla volta di
una nuova categoria di ‘totalità’, si sente ancora il desiderio di porre confini, d’intagliare sulla marmorea lastra della storia il proprio piccolo solco.
In questa dialettica del riconoscimento emergono le aspirazioni, i timori e
le incertezze di sempre57.
In fondo, l’idea di partecipare a piani sovraindividuali risveglia
quell’«eroismo», come dice Leopardi, senza cui la ragione segue, con
fredda e spregiudicata determinazione, il suo corso58, molto spesso sbagliando senza avvedersene. D’altra parte, per il metafisico non conta se si
sbaglia, ma come si sbaglia, trasgredendo i dettami dell’essere.
L’idea di una storia complessiva dell’umanità, oltre ad assumere una
grande presa psicologica, finisce con l’esprimersi nei termini di una grande aspirazione verso cui tendere, intesa a dotare di un sottofondo d’idealità i singoli gesti individuali. La categoria etica della responsabilità si alimenta dello stesso impianto, perché (detto con linguaggio kantiano) rendersi all’altezza di un punto di vista cosmopolitico libera dall’angustezza
di quella mediocrità tipica di chi agisce rispondendo solo a se stesso.
La tematica della presenza (o sopravvivenza) dello storicismo nell’orizzonte della filosofia contemporanea si carica, dunque, di implicazioni di
varia natura e s’intreccia con innumerevoli altri percorsi di ricerca. Certo,
creare un clima di coinvolgimento capace di superare la mera determinazione individuale non corrisponde certo all’intenzione di riproporre vecchie teologie delle storia, magari secolarizzate. L’impegno – come ha
sostenuto Fulvio Tessitore, meditando Humboldt – va verso una «disincantata teleologia senza télos»59, «che non intende smarrire i fatti (e le loro
verità) nel tutto (e nella sua verità) e, al tempo stesso, non intende annegarli nel mare caotico di impazzite particolarità incomunicanti»60. In tal
modo, diviene possibile liberarsi tanto da dannose genuflessioni a forme
di «storia monumentale»61, quanto da storiolatrie, «che laicizzano e rifon-
50
La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
dano l’ontologia metafisica della tradizionale scienza dell’Essere»62.
Emerge, piuttosto, uno storicismo critico, per il quale gli «individui storici […] non sono le incarnazioni provvisorie (pur realissime) e susseguentisi dell’universale, ma sostanze che acquisiscono l’universale attraverso il
processo di oggettivazione dell’esperienza vitale, ossia sono dei relativi
che sfuggono al relativismo […] perché sono essi stessi soggetti di un percorso di universalizzazione, che fa dell’individuo consapevole di sé il
principio e il fine di una massima universale»63. Quest’‘ermeneutica dell’alterità’ e della ‘finitudine’ rifonda lo statuto dell’individuale, crea le
ragioni del «pluralismo» ed alimenta un’«etica della responsabilità» della
quale si sente oggi un massiccio bisogno64.
Una posizione mediana, di equilibrio, che soddisfa, per un verso, il
nostro bisogno di certezze, elevandolo ad un livello in cui il gesto del singolo si sente coinvolto in un circuito piú ampio di relazioni interindividuali, e che esonera, per l’altro, da troppo impegnative «storiodicee»65.
Dinanzi ai lamenti dei catastrofisti o ai paradossi dei cultori della fine
della storia66, matura una consapevolezza: fare i conti con l’epoca dell’utopia e del disincanto non coincide con la decretazione della fine del
mondo, ma solo con la fine di un mondo e del suo paradigma di principî e
di valori67. Ne può discendere, sul versante della storiografia filosofica,
l’idea di una «storia a ‘n’ dimensioni»68, consapevole dei suoi limiti, capace di elaborare ragionevoli e coerenti congetture, valide solo fino a prova
contraria. Quest’invito al rigore della ricerca ed alla sobria coscienza critica del giudizio non contrassegna tanto l’éthos di un mestiere impegnato
in un tortuoso percorso di ricerca, quanto designa una ‘condizione’, fatta
di luci e di ombre, di trionfi e di fallimenti. Lo sguardo critico della ragione, del resto, ce lo ha insegnato il criticismo kantiano, vive dei suoi costitutivi coni d’ombra. E nel grigiore dell’ombra si vede magari male, eppur
si vede! È sempre il caso, si chiedeva Wittgenstein, di «sostituire un’immagine sfocata con una nitida? Spesso, non è proprio l’immagine sfocata
ciò di cui abbiamo bisogno?»69.
Questo elogio della finitezza pone in ombra le ragioni dello storicismo?
È possibile fare un uso finito dell’idea di Storia? Di quante accezioni si
costituisce il termine storicismo? Tra queste, ce n’è qualcuna che può
51
Sandro Ciurlia
ancora suscitare il nostro interesse?
Nel riflettere sull’attualità dello storicismo bisogna, innanzitutto, guardarsi dal fare un uso ideologico della storia. Altrimenti, si renderebbe di
nuovo il passato la giustificazione delle nostre scelte ed il presente il faro
attraverso cui illuminarne alcune aree a discapito di altre. Sorge, cosí, un
gioco sottile, fatto di prese di posizione dogmatiche, di lacerazioni e di
netti manicheismi, perché «l’ideologia, che per sua natura è una questione
di tutto-o-niente, […] è intellettualmente devitalizzata, e poche questioni
possono essere ancora formulate, intellettualmente, in termini ideologici»70. Tra queste, di certo, non c’è la storia. Per sua stessa natura, la storia
si presta con facilità ad un uso ideologico. «La storia – ha scritto Paul
Valéry – è il prodotto piú pericoloso che la chimica dell’intelletto abbia
elaborato. Le sue proprietà sono ben note. Fa sognare, inebria i popoli,
genera presso di loro falsi ricordi, esagera i loro riflessi, conserva aperte
le vecchie ferite, li tormenta nel riposo, li conduce al delirio delle grandezze o a quello della persecuzione, e rende le nazioni amare, superbe,
insopportabili e vanitose»71. Il Novecento ne è la piú lampante
dimostrazione.
Esiste un’altra forma di utilizzazione ideologica della storia, meno evidente eppure piú subdola e perniciosa. Alle spalle dei resoconti storici, talvolta, si nasconde l’assenza di alternative interpretative, in certi casi frutto di autentica povertà critica, ma, in molti altri, sinonimo di pigro conservatorismo. La coordinazione dell’azione in un certo quadro storico non
diviene piú solo il risultato della consapevolezza del carattere storicamente determinato degli eventi. Si trasforma, invece, in un ostinato ostacolo
contro cui rischia d’infrangersi la ricerca critica. In questa prospettiva, è
utile ricordare l’ammonimento di un antistoricista qual era Husserl:
«Abbiamo bisogno anche della storia. Non però di perderci, come fa lo
storico, nell’analisi delle connessioni in cui si sono sviluppate le grandi
filosofie; piuttosto noi abbiamo bisogno di queste filosofie per se stesse,
dello stimolo che proviene dal loro proprio contenuto spirituale. Infatti da
queste filosofie del passato scaturisce […] una vita filosofica, con tutta la
ricchezza e la forza delle loro motivazioni viventi. Ma non diventeremo
filosofi grazie alle filosofie. Rimanere ancorati alla sola dimensione stori-
52
La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
ca, cercare di occuparsene in un’attività storico-critica, voler raggiungere
la scienza filosofica in un’elaborazione eclettica o in un Rinascimento
anacronistico: sono questi soltanto tentativi senza speranza. Non dalle filosofie, ma dalle cose e dai problemi deve provenire l’impulso alla
ricerca»72.
Al di là della convinzione del ‘continentale’ Husserl sul primato della
teoria sulla storia e della ricerca speculativa sulla mera erudizione, si rimane suggestionati dallo stimolo critico a guardare alle questioni ancora
aperte, in tutta la loro articolazione problematica, per trasformare la storia
non in un rifugio, ma in un bacino di senso cui attingere suggerimenti,
indicazioni, da accogliersi o da rigettarsi che siano. Con ciò non s’intende
addomesticare l’antistoricismo di Husserl, né espungerne la parola dal
contesto storico-critico entro cui si colloca, ma focalizzare l’attenzione su
un altro dei possibili usi ideologici della storia cui s’è fatto riferimento,
conseguenza, questa, implicita nelle intenzioni husserliane: la storia può
essere un fortissimo suggello di atteggiamenti reazionari; può, inoltre,
sclerotizzare la ricerca speculativa, frenandola. In piú, vale l’invito di
Husserl ad osare criticamente, ad impegnarsi in un confronto ininterrotto
con le tematiche emergenti dalla concretezza della «vita», per rendere la
meditazione filosofica uno degli strumenti mediante cui rispondere alle
domande ed alle emergenze di un tempo. In tal modo, si libera anche la
soggettività dello storico da ceppi di varia natura, dando libero spazio alle
sue prospettive interpretative e critiche.
La liberazione da usi ideologici della storia rafforza una certezza ormai
consolidata: non esiste un senso della storia. O, meglio, ne esistono tanti e
risultano tutti legati alle volizioni ed alle azioni del singolo che, co-reagendo con i propri simili, fa la storia. Ha scritto Popper: «Non c’è nessuna storia dell’umanità; c’è soltanto un numero illimitato di storie, che
riguardano tutti i possibili aspetti della vita umana». Né può esistere una
«storia universale […] dell’umanità, [perché] se ci fosse, dovrebbe essere
la storia di tutti gli uomini. Dovrebbe essere la storia di tutte le speranze,
di tutte le lotte e di tutte le sofferenze umane. E ciò per la ragione che nessun uomo è piú importante di un altro uomo»73. Cosí, la domanda sul
senso della storia diviene insensata, perché ognuno ci mette il proprio ed
53
Sandro Ciurlia
agisce come meglio può. In questo senso, «dobbiamo trovare la nostra giustificazione nel nostro lavoro, in quello che facciamo noi stessi e non in un
fittizio “senso della storia”»74; solo in questa maniera possiamo riuscire ad
imporre a quest’ultima «i nostri fini» e non uno «scopo ultimo»75, riuscendo, forse, a domarne le forze.
Questa prospettiva antistoricista e per cosí dire ‘narrativa’ si differenzia
alquanto da quella medesima tendenza a liberarsi dai grandi quadri speculativi propria di certe soluzioni nichiliste. Ha impegnativamente scritto
Gianni Vattimo: «[…] La storia ha un senso, e questo consiste nella dissoluzione del senso, cioè […] c’è un filo conduttore nella storia della “caduta progressiva”, nel “declinare” […] i vari significati globali che alla storia sono stati attribuiti»76. Difficile, in fondo, investire di senso la desautorazione di senso senza riconoscere un elevato livello fondativo a quel gesto
di pensiero mediante cui ciò si compie. Ritorna, qui, la consueta critica al
pensiero debole: il piano a cui si ricorre per liberarsi dal fondamento si
dimostra, a sua volta, un piano fondativo77. Il problema, però, cosí non si
risolve: smontare le grandi filosofie della storia e compiacersi di farlo
risponde a precise motivazioni storiche e critiche, ma non getta lumi sull’immagine filosofica della storia con la quale, quando la furia iconoclasta
s’attenua, ci si sta confrontando. Non si giunge a pensare davvero il senso
della storia facendo leva sui paradossi; forse è piú utile chiedersi se c’è,
qual è, perché ha assunto una simile identità, ammesso che si sia riusciti a
coglierne i contorni, e su quale registro tale senso vada declinato.
Le filosofie della storia tradiscono attese soteriologiche, ascese escatologiche e, soprattutto, lasciano emergere il gran bisogno psicologico di
sentirsi parte di un destino collettivo. Le idee di «fine» e «significato», in
ogni prospettiva storicistica, sono termini correlativi78. Ma sono le coordinate della società contemporanea a sancirne l’inattualità. L’unità della
storia implica la previsione degli eventi. Viceversa, lo iato tra attese e possibilità in cui vive l’uomo contemporaneo genera una condizione di tale
disincanto che il méta-récit diviene solo l’allegoria di una speranza ed il
marmoreo sarcofago di un’illusione. Tra passioni ed amari tradimenti si
aprono anche, però, «varchi e possibilità da individuare»79, in un circuito
rispetto al quale si ampliano sia lo spettro dei propri tentativi interpretati-
54
La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
vi, sia l’orizzonte della propria esperienza, con tutte le ricadute in termini
di «frustrazione» che ne possono derivare, alla luce della presenza di «uno
spazio di complessità [sempre piú] difficile da organizzare»80.
Ritorna il problema dei rapporti tra cultura e tradizione. Affrontando
questo tema, si riesce a combinare l’esigenza di leggere in termini di continuità la storia dell’umanità ed il riconoscimento delle identità culturali
dalle cui relazioni è scaturita quella cosa che chiamiamo storia. Rimane di
certo viva la domanda di Vattimo: «Sappiamo ancora muoverci in questa
dilatazione di orizzonti?»81. Certo, si è parte di una tradizione e ci si dispone a problematizzarla mediante il confronto con le altre, ma continua ad
impensierire il distacco tra il piano dell’individuale e l’orizzonte di quei
valori condivisi che creano le comunità e fanno la storia. Superare illusioni ed abbattimenti, come suggerisce Bodei82, non significa smettere di
preoccuparsi dinanzi ad una situazione di confine che rischia di continuo di
debordare o nelle imperatorie astrattezze di qualche altra metamorfica
forma di pensiero unico o nel farisaico lassismo del relativismo anarchico.
Abbiamo ancora bisogno, forse, di un piano normativo metaindividuale, per creare un collegamento tra le tante prospettive di senso di cui l’individuo è portatore, allo scopo di determinare un orizzonte di esperienze
comuni da cui discende il senso dell’appartenenza personale e culturale,
per distribuire, secondo flessibili criteri, onori ed oneri, riconoscimenti ed
obblighi. Quando si parla di unità non c’è proprio nulla da inquietarsi. Non
si sta tentando di recuperare una stantìa nozione di universale ontologicamente garantito. Piuttosto, ci si riferisce all’unità come all’insieme di
valori e di principî comuni su cui si fonda il concetto stesso di cultura,
senza impegnarsi troppo sul piano della loro aseità. Se c’è uno spazio
comune in cui ciascuno, memore del proprio vissuto, può parlare un linguaggio le cui morfologia e sintassi sono condivise dal suo vicino, allora
è possibile definire tale spazio «unità». È a questo punto che l’individuo
torna a sentirsi parte di un genere e riconosce se stesso nel colloquio con
l’altro, senza proiettarsi su di lui e senza fagocitarlo. Quel che conta è la
condizione del dialogo nella quale il linguaggio fonde orizzonti, costruisce le identità, forgia la persona e la rende all’altezza della storia, capace
di essere storia.
55
Sandro Ciurlia
In questa rinnovata dialettica tra il singolo e i molti risiede lo spazio d’azione dell’unità. Le pagine piú ispirate degli storicisti servono oggi proprio a comprendere quanto complessa e quanto necessaria sia la relazione
tra questi piani. Si può anche essere lontani, per temperamento ed intime
convinzioni, dall’idealismo, eppure considerare stimolante la lezione, per
esempio, di uno Hegel, per il quale la storia è sì imperniata su un piano
speculativo, ma è pur sempre il prodotto dialettico di individui inestricabilmente consegnati, in prima istanza, alla loro particolarità e contingenza. Anche per il sistema hegeliano dell’Assoluto, l’ordine generale delle
idee serve a strappare gli uomini dalla loro condizione di finitezza per condurli ad un livello superiore in cui dominano i raffinati disegni della
Ragione. Continuare a confrontarsi con questi alti momenti della storia del
pensiero può servire ad elevare dalle contraddizioni della contingenza ed
a guardare lontano, proiettando verso un futuro che sta solo a noi costruire in modo confacente al raffinarsi delle nostre esigenze. «Penso – ha scritto significativamente Giacomo Marramao, colloquiando con Angelo
Bolaffi – che possiamo sperare di ricostruire la trama silenziosa che connette la dinamica dei frammenti […] alla logica del sistema solo a condizione di riprendere l’abitudine di pensare in grande […] non solo e non
sempre assumendo l’angolazione prospettica dell’identità ma anche quella della differenza […], della distanza e della diaspora»83.
Anche questo, però, va fatto con misura. Continuare ad interrogare i
classici non significa decontestualizzarli o renderli un’occasione per giustificare, in modo colto ed elegante, una certa presa di posizione. Far respirare aria nuova alle polverose stanze dei fatti storici non equivale a trasformare la grigia quiete della ricerca nell’atmosfera frizzante di un frivolo banchetto. In altri termini, un testo rimane una testimonianza, non un
pretesto. Affinché ciò sia, provvedono il rispetto filologico del documento e l’attenzione con cui lo si colloca nel clima culturale da cui discende,
senza lacerazioni, dal momento che il rapporto che l’interprete instaura
con le grandi testimonianze del passato è sempre mediato dalla loro insuperabile alterità. Filologia e critica, dunque, nel rispetto dell’autonomia
del passato e nel segno della curiosità interpretante verso quel che accade.
Certo, la realtà in cui viviamo è sempre piú un crogiolo di contraddizio-
56
La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
ni, difficili da dominare, dinanzi a cui prevale, spesso, la furbizia del raggiro o l’arroganza del privilegio: da sempre, «il genere umano crede […]
non il vero, ma quello che è, o pare che sia, piú a proposito suo», aveva
confessato Tristano all’amico84. Misurarsi con la disequazione storia-progresso significa affrontare anche il friabile terreno del quotidiano, sostenerne persino il lezzo, magari senza dimenticare di sdegnarsene, ma con
l’astuzia di chi sa che, affinando le proprie mosse, può dare scacco al caso,
pensandosi in una prospettiva fatta di azione e di pensiero85. Non c’è nulla
di dilettantescamente moralistico in questo. Nessuno pretende di dare
lezioni di dover-essere ai fatti. Disincanto, però, non significa miopia od
opportunistica accettazione dello stato delle cose, ma tendenza a cogliere
il meglio, senza dimenticare di ravvisare le deviazioni e gli scantonamenti … se non altro per sapere come, di correzione in correzione, migliorare
l’assetto dei dati, dei problemi e delle soluzioni.
Quest’ambizione è ardua e finita e nondimeno meravigliosa. Serve ad
evitare la fuga dinanzi alle crisi ed a non chiudersi «nella compiaciuta contemplazione della propria eccellenza interiore [anziché] misurarsi con il
reale»86. A questo occorrono le grandi pagine della nostra tradizione speculativa, le testimonianze della ricerca di un orizzonte comune di convivenza; questo è lo scopo piú alto dell’ermeneutica filosofica in quanto
ininterrotto esercizio di interrogazione critica del passato e di vigile osservazione degli equilibri del presente. La tradizione, in quest’ottica, diviene
una preziosa riserva di percorsi di senso a cui attingere nei momenti d’incertezza87. Tutto ciò rappresenta un’autentica risorsa per la stessa ricerca
filosofica: come ricorda Mario Vegetti, «la filosofia non può vivere senza
interpellare la propria tradizione; ma se non è in grado di porle domande
pertinenti […] non otterrà risposte fruibili per la stessa riflessione teorica,
ma al piú un’eco, talvolta grottesca, del proprio soliloquio. Viceversa, se
non le vengono poste domande filosoficamente rilevanti, la tradizione
rimane muta, o non fa che ripetere se stessa in gerghi irrimediabilmente
opachi»88.
Tutto questo rende variegata ed affascinante l’esperienza dell’oggi. Il
futuro va guadagnato giorno per giorno. Non conta, scriveva lo storicista
Weber, vivere «nell’attesa di nuovi profeti e nuovi redentori»; occorre
57
Sandro Ciurlia
«mettersi al lavoro ed adempiere al [proprio] ‘còmpito quotidiano’ […].
Ciò è semplice e facile, quando ognuno abbia trovato e segua il demone
che tiene i fili della sua vita»89.
NOTE
1
C. TAYLOR, Il disagio della modernità, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 48. Per
una ricostruzione delle posizioni di Taylor si veda A. PIRNI, Charles Taylor.
Ermeneutica del sé, etica e modernità, Lecce, Milella, 2002, soprattutto la Parte
seconda, pp. 109-213.
Il disagio della modernità genera il passaggio al postmoderno. Ma anche il
clima postmoderno determina, a sua volta, disagi: cfr. Z. BAUMAN, Il disagio
della postmodernità, Milano, Bruno Mondadori, 2002.
2
N. ABBAGNANO, Per o contro l’uomo, Milano, Rizzoli, 1968, p. 247.
3
L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, 6.45, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-16, Torino, Einaudi, 1974, pp. 1-82: 81.
4
Ib.
5
I. KANT, Logica, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 19.
6
K.R. POPPER, Miseria dello storicismo, Milano, Feltrinelli, 20023, p. 17.
7
Id., p. 21.
8
Come conferma M.L. SALVADORI, «se una “lezione” […] offre la storia del
Novecento è che i trionfi conseguiti dalle scienze nel controllare la natura si sono
accompagnati agli enormi insuccessi generati dall’incapacità di controllare gli sviluppi della società e della vita degli Stati e dei loro popoli» (Il Novecento.
Un’introduzione, Roma-Bari, Laterza, 2002, p 162).
9
K.R. POPPER, Miseria dello storicismo, cit., p. 18.
10 K.R. POPPER, Tutta la vita è risolvere problemi. Scritti sulla conoscenza, la
storia e la politica, Milano, Rusconi, 1996, p. 186. La citazione della critica dello
storicismo esposta da Popper in quest’opera, che è del 1994, accanto a Miseria
dello storicismo, datata 1957, dimostra la sostanziale identità di vedute mantenuta
dal filosofo nel corso degli anni intorno allo spinoso problema del «senso della storia».
11 K.R. POPPER, Miseria dello storicismo, cit., p. 158. La posizione di Popper
viene qui citata perché bene sintetizza i principali limiti dell’atteggiamento storicistico. È evidente, però, che le stesse valutazioni di Popper sono espressione del
contesto culturale che le ha prodotte, cosí com’è facile comprendere i limiti dell’interpretazione popperiana del concetto stesso di storicismo, ridotto polemicamente ad una sola delle tante sue possibili accezioni. È tornato, di recente, con toni
polemici sul tema G. GALASSO nel volume Nient’altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 159 e sgg.
12 Cfr. C. MAGRIS, Utopia e disincanto. Storie, speranze, illusioni del moderno,
58
La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
Milano, Garzanti, 2001.
13 Cfr. P. ROSSI, Idola della modernità, in AA.VV., Moderno postmoderno.
Soggetto, tempo, sapere nella società attuale, a c. di G. Mari, Milano, Feltrinelli,
1987, pp. 14-31 [ora in Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Bologna,
Il Mulino, 1989, pp. 39-63].
14 Cfr. G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, Milano, Rusconi,
1996, pp. 59 e sgg. Per un commento della complessa pagina hegeliana, si veda A.
PEPERZAK, Filosofia e politica. Commentario della Prefazione alla Filosofia del
diritto di Hegel, Milano, Guerini e Associati, 1991, pp. 109 e sgg.
15 G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, voll. 4, Firenze, La Nuova
Italia, 1966-1967, v. I, p. 91.
16 Cfr. R. KOSELLECK, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtliche
Zeiten, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1979.
17 Cfr. R. BODEI, Progresso: la parabola di un’idea-forza, Intervista a c. di R.
Parascandalo, in “Lettera Internazionale”, XII, 48 (1996), pp. 25-9: soprattutto
25-6.
18 Cfr. A. KOJÉVE, L’idea della morte nella filosofia di Hegel, in La dialettica
e l’idea della morte in Hegel, Torino, Einaudi, 1991, pp. 143-204: 182-204.
19 H.G. GADAMER, Istorica e linguaggio. Una risposta, in R. KOSELLECK –
H.G. GADAMER, Ermeneutica e istorica, Genova, Il Melangolo, 1990, pp. 3949: 46.
20 P. ROSSI, Un altro presente. Saggi sulla storia della filosofia, Bologna, Il
Mulino, 1999, p. 22. Per un’analisi critica di questo libro, si permetta di rinviare
´ cit., pp. 169al nostro La storia: un altro presente o il nostro passato?, in “’Αρχη”,
222.
21 Cfr. P. ROSSI, Paragone degli ingegni etc., cit., p. 31. Rossi si riferisce al discusso volume di E. SEVERINO, La tendenza fondamentale del nostro tempo,
Milano, Adelphi, 1988. D’altro canto, l’ultima parte di Paragone degli ingegni etc.
(cit., soprattutto pp. 144 e sgg.) è dedicata proprio ad una serrata critica delle posizioni severiniane, ritenute «già tutte presenti in Heidegger» (Id., p. 156 n.).
22 G. PRETI, Saggi filosofici, voll. 2, Firenze, La Nuova Italia, 1976, v. II, p. 287.
23 La battuta di Febvre, insieme acuta e polemica, è riportata in G. SEMERARI,
Filosofia e storia, in “Studi urbinati”, voll. 2, XLI (1967), v. II, pp. 799-807: 803.
24 A. DE LIBERA, Il problema degli universali da Platone alla fine del
Medioevo, Firenze, La Nuova Italia, 1999, p. 8.
25 Id., pp. 7-8.
26 N. RESCHER, I limiti della scienza, Roma, Armando, 1990, p. 107.
27 H. PUTNAM, Mezzo secolo di filosofia americana: uno sguardo dal di dentro, in “Iride”, X (1997), pp. 407-37: 434.
28 G. DUBY, Scrivere la storia, in AA.VV., La scrittura e la storia. Problemi di
storiografia letteraria, a c. di A. Asor Rosa, Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp.
43-53: 47.
29 Cfr., per la schiettezza e la sinteticità con cui vengono trattati questi argomen-
59
Sandro Ciurlia
ti, F. BACONE, Pensieri e conclusioni sull’interpretazione della natura o sulla
scienza operativa, in Scritti filosofici, a c. di P. Rossi, Torino, UTET, 19992, pp.
363-400.
30 Cfr. W. LEISS, Scienza e dominio. Il “dominio sulla natura”: storia di una
ideologia, Milano, Longanesi, 1976.
Sulla storia dell’idea di progresso si vedano G. SASSO, Tramonto di un mito.
L’idea di progresso tra Ottocento e Novecento, Bologna, Il Mulino, 19882; P.
ROSSI, Naufragi senza spettatore. L’idea di progresso, Bologna, Il Mulino, 1995.
31 M. NACCI, Introduzione, in AA.VV., Tecnica e cultura della crisi (19141939), a c. di M. Nacci, Torino, Loescher, 1982, pp. 9-26: 19.
32 Cfr. S. FREUD, Il disagio della civiltà, in Il disagio della civiltà e altri saggi,
Torino, Boringhieri, 1971, pp. 199-280: soprattutto 222 e sgg.
33 M. HEIDEGGER, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti,
Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 74.
Sul problema della tecnica è da tener presente M. NACCI, Pensare la tecnica:
un secolo di incomprensioni, Roma-Bari, Laterza, 2000.
34 Cfr. M. HORKHEIMER – T. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, Torino,
Einaudi, 19662, pp. 34-5 e 93-4.
35 Cfr. F. TÖNNIES, Gemeinschaft und Gesellschaft. Grundbegriffe der reinen
Sociologie, Leipzig, Reisland, 1887.
36 J. ORTEGA Y GASSET, La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1962,
p. 3.
37 Cfr. K. JASPERS, La situation spirituelle de notre époche, Louvain-Paris,
Nauwelaeterts-Desclée de Brouwer, 19523, pp. 56-62.
38 Cfr. J. HUIZINGA, La crisi della civiltà, Torino, Einaudi, 1962, pp. 114-5.
39 Si permetta di rinviare al nostro La modernità e i suoi linguaggi. Oltre l’apo´ cit., pp. 25-70.
fantico, in “’Αρχη”,
40 È nota la polemica, avviata dalla tesi di E.J. HOBSBAWM (Il secolo breve,
Milano, Rizzoli, 1995), sul senso del secolo XX. Come ha scritto M.L. SALVADORI, non solo si può rovesciare l’assunto di Hobsbawm, ma addirittura si può
parlare del Novecento come del secolo «piú lungo della storia» (Il Novecento, cit.,
pp. 157 e sgg.).
41 M.L. SALVADORI, Il Novecento, cit., p. VI.
42 Cfr. Id., pp. 159 e sgg.
43 Cfr. E. BLOCH, Il principio speranza, voll. 3, Milano, Garzanti, 1994, v. I, pp.
338 e sgg. e, soprattutto, v. II, pp. 517-861.
44 M.L. SALVADORI, Il Novecento, cit., p. VII.
45 Cfr., per esempio, V. HÖSLE, Filosofia della crisi ideologica, Torino, Einaudi,
1992. Il volume è dedicato a Hans Jonas e si lega ai motivi della filosofia della
responsabilità. Riflettendo sul tema del rapporto dell’uomo con la natura nella prospettiva di una «filosofia della crisi ecologica», l’ambizioso obiettivo di Hösle è
quello di recuperare «una dimensione metafisica per l’uomo della civiltà della
60
La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
tecnica» (Id., p. 12).
46 A. TOYNBEE, Il racconto dell’Uomo. Cronaca dell’incontro del genere
umano con la Madre Terra, Milano, Garzanti, 1977, p. 595.
47 Id., p. 603.
48 Cfr. D. BELL, La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni
Cinquanta a oggi, Milano, SugarCo, 1991.
49 I contributi principali di F.D.E. SCHLEIERMACHER sul tema dell’interpretazione sono ora raccolti in Ermeneutica, Milano, Rusconi, 1996. Si veda anche la
silloge degli Scritti filosofici, a c. di G. Moretto, Torino, UTET, 1998.
50 F. BIANCO, Introduzione all’ermeneutica, Roma-Bari, Laterza, 19992, pp.
202-3.
51 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, voll. 2, Milano, Giuffrè,
19902, v. I, p. 102: «Il senso deve essere quello che nel dato si ritrova e da esso si
ricava, non già un senso che in esso si trasferisce dal di fuori: la totalità e la coerenza debbono essere immanenti al dato storico, e non già da desumersi da un sistema ad esso estraneo».
52 F. BIANCO, Introduzione all’ermeneutica, cit., p. 203.
53 Id., pp. 203-4.
54 Cfr. M. RUGGENINI, I fenomeni e le parole. La verità finita, Genova,
Marietti, 1992.
55 R. BODEI, La storia senza senso, in AA.VV., Filosofia al presente, a c. di G.
Vattimo, Milano, Garzanti, 1990, pp. 9-24: 14. Dello stesso cfr. anche Se la storia
ha un senso, Bergamo, Moretti & Vitali, 1997.
56 Dunque, non c’è confronto se non con la finitezza e l’incertezza dell’individuo. Ne è un’indiretta ed ulteriore conferma proprio l’idea di società complessa,
non tanto per le sue significazioni sociologiche, quanto per i suoi risvolti teorici.
In generale, una società si dice complessa perché fatta di circuiti variabili e pluristratificati di relazioni e di intrecci. C’è, però, una diffusa consuetudine, tesa a rintracciare la complessità nell’ordine della realtà dei fatti. Ora, la complessità è in
noi o nel mondo? È il frutto della proliferazione dei nostri codici linguistici o, viceversa, è la conseguenza dell’inadeguatezza del nostro linguaggio dinanzi alla prorompente articolatezza della natura delle cose? Rimane in piedi il problema, al di
là di ogni presa di posizione piú o meno coerente e raffinata. Coltivare la domanda sulla natura della complessità consente, ancora una volta, di riappropriarsi della
dimensione del limite o, meglio, della consapevolezza dei limiti delle nostre rappresentazioni. Anche la vertigine della tanto decantata categoria della complessità, pertanto, continua a ricordare la finitezza dell’umana capacità di giudizio.
57 Per descrivere questa condizione d’incertezza e per verificarne le molteplici
implicazioni, può risultare utile consultare AA.VV., Il mondo incerto, a c. di M.
Pera, Roma-Bari, Laterza, 1994.
Sulla posizione del tema della storia nell’era globale cfr. A. GIOVAGNOLI,
Storia e globalizzazione, Roma-Bari, Laterza, 2003.
58 Cfr. G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, 45, voll. 2, Firenze, Sansoni,
61
Sandro Ciurlia
19893, v. I, p. 31.
59 F. TESSITORE, Il senso della storia universale, Milano, Garzanti, 1987, p.
297.
60 Id., p. 50.
Tra gli ultimissimi contributi pubblicati intorno alla questione dell’attualità
dello storicismo si vedano F. TESSITORE, Nuovi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002; AA.VV., I percorsi dello storicismo italiano nel secondo Novecento, a c. di M. Martirano ed E.
Massimilla, Napoli, Liguori, 2002.
61 Cfr. F. TESSITORE, La questione dello storicismo, oggi, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 1997, pp. 24 e sgg.
62 F. TESSITORE, Filosofi italiani allo specchio: Fulvio Tessitore, in “Bollettino
della Società Filosofica Italiana”, ns, 175 (2002), pp. 7-9: 8.
63 Id., p. 9. Continua Tessitore: «Ragionando lungo questa via si scopre che la
vita non è fondata da un’essenza che ne attesta la verità, ma che essa stessa si autofonda certificandosi nella sua costruentesi verità; che l’esperienza della vita non è
il processo linearmente progrediente verso il fine, ma è un segmento finito dell’infinità priva di senso che trova in sé il proprio fine, in quanto questo gli è dato
dall’osservatore agente; che il soggetto non è l’esplicazione di un dato originariamente riassunto in un bozzolo, ma un evento che si costruisce attraverso il farsi
dell’azione, validificata dalla responsabilità che la fa essere qual è e deve essere;
che essere e dover essere non sono unificati nella dialettica necessaria del reale
(Wirklichkeit), ma sono l’effettività (Eigentlichkeit) della scelta responsabile del
soggetto, che scegliendo si fa e li fa; che il tempo non è lo spazio dell’accadere,
ma è esso stesso ciò che accade; che la storia non è un luogo dal quale si proviene e col quale si entra in relazione, ma è il risultato della storiografia, ossia l’evento conosciuto (Ereignis) attraverso un processo gnoseologico che non dà l’esplicazione dell’oggetto ma la funzionale creazione delle forme dell’oggettivazione della vita» (Ib.).
64 Cfr. Ib.
L’espressione «ermeneutica della finitudine», riferita al criticismo kantiano,
ricorre in N. ABBAGNANO, Le origini storiche dell’esistenzialismo, Corso di
Storia della filosofia dell’A.A. 1943-1944, Facoltà di Lettere e Filosofia, R.
Università di Torino, Torino, Tip. A. Viretto, 1944, p. 109.
65 Il termine «storiodicea», vagamente leibniziano, teso a designare l’insieme
delle condizioni di possibilità e d’esistenza della storia, è contenuto in C.-I. MARROU, La conoscenza storica, Bologna, Il Mulino, 19952, p. 243.
66 Si pensi, per esempio, a F. FUKUYAMA, The end of history and the last man,
London, Hamish Hamilton, 1992.
67 Cfr. C. MAGRIS, Utopia e disincanto, cit., pp. 7-16.
68 Cfr. F. BRAUDEL, Scritti sulla storia, Milano, Mondadori, 1989, pp. 93-134
e 168-219.
69 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1974, p. 49.
62
La sfera e il punto: immagini filosofiche della storia a confronto
70
D. BELL, La fine dell’ideologia, cit., p. 464.
P. VALÉRY, Regards sur le monde actuel. De l’Histoire, in Œuvres. Edition
etablie et annotee par J. Hytier, voll. 2, Paris, Gallimard, 1957-60, v. II, p. 935.
72 E. HUSSERL, La filosofia come scienza rigorosa, Roma-Bari, Laterza, 1994,
p. 105.
73 K.R. POPPER, Tutta la vita è risolvere problemi, cit., p. 175. Nella sua riflessione sul senso dello storicismo, Popper non trascura d’investire anche l’orizzonte delle condizioni necessarie a rendere possibile la ricerca storiografica: la liberazione dallo storicismo diviene un invito a liberare la creatività dello storico (cfr.
soprattutto Id., pp. 160, 163 e 170). Il passaggio è significativo, quantunque le
figure dello storico e del filosofo della storia vengano rivestite un po’ troppo disinvoltamente dello stesso statuto.
74 Id., p. 184.
75 Id., p. 185.
76 G. VATTIMO, Conversazione con Remo Bodei: La storia ha un senso?, in
AA.VV., Filosofia al presente, cit., pp. 9-24: 10.
77 Prendendo le mosse dal recente volume di G. VATTIMO, Vocazione e responsabilità del filosofo, Genova, Il Melangolo, 2000, ho sviluppato la questione nel
´ cit., pp. 225-53.
saggio Le ragioni forti del pensiero debole, in “’Αρχη”,
78 Cfr. K. LÖWITH, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della
filosofia della storia, Milano, Edizioni di Comunità, 1963, pp. 23-44.
79 R. BODEI, La storia senza senso, cit., p. 13.
80 Id., p. 18.
81 G. VATTIMO, Conversazione etc., cit., p. 23.
82 R. BODEI, La storia senza senso, cit., p. 22.
83 A. BOLAFFI – G. MARRAMAO, Frammento e sistema. Il conflitto-mondo
da Sarajevo a Manhattan, Roma, Donzelli, 2001, p. 5.
84 G. LEOPARDI, Dialogo di Tristano e di un amico, in Poesie e prose, voll. 2,
Milano, Mondadori, 19902, v. II, pp. 212-21: 213.
85 Del «caso» tesse un elogio O. MARQUARD nel volume Apologia del caso,
Bologna, Il Mulino, 1991. Secondo Marquard, alle scienze umane spetta il còmpito di «compensare» il vuoto di valori e di senso generato dall’età della tecnica, non
senza lasciare nuovi spazi a idee come scepsi ed ironia. Cosí, la società della tecnica diventa la società del caso.
Dello stesso si veda anche Estetica ed anestetica, Bologna, Il Mulino, 1994.
86 D. LOSURDO, L’ipocondria dell’impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi,
Lecce, Milella, 2002, p. XIV.
87 Era questa la convinzione, per esempio, di Nicola Abbagnano su cui si poggia
l’impianto dei cosiddetti scritti popolari, nei quali il filosofo salernitano risponde
ai quesiti di senso piú ordinari e quotidiani, attingendo a quel deposito di saggezza costituito dalle filosofie della tradizione occidentale: cfr. S. VECA, La filosofia
popolare, in AA.VV., Nicola Abbagnano. Un itinerario filosofico, a c. di B.
Miglio, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 175-84.
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Sandro Ciurlia
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M. VEGETTI, Filosofi italiani allo specchio: Mario Vegetti, in “Bollettino
della Società Filosofica Italiana”, ns, 177 (2002), pp. 37-40: 39-40.
89 M. WEBER, La scienza come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 1973, pp. 3-43: 42-3.
La conferenza weberiana sulla scienza ebbe facile presa su un’intera generazione di studiosi tedeschi formatisi nel primo decennio del secolo XX. Al riguardo, basterebbe citare la testimonianza di K. LÖWITH, espressa in La mia vita in
Germania prima e dopo il 1933, Milano, Il Saggiatore, 1995, p. 37: secondo
Löwith, l’impressione che la conferenza La scienza come professione sortì fu
«sconvolgente».
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