6 disciplinare DS giur - ASA FO-CE

RASSEGNA RAGIONATA DI GIURISPRUDENZA
DI LEGITTIMITÀ SULL’AZIONE DISCIPLINARE
NELL’IMPIEGO PRIVATIZZATO
Laura Paolucci
Sommario
1. Natura giuridica del potere disciplinare.
2. Codice disciplinare e obbligo di pubblicità mediante affissione.
3. Il procedimento disciplinare:
3a. Contestazione degli addebiti (forma e contenuto)
3b. Diritto di difesa.
3c. Termini.
4. Illecito penale ed illecito disciplinare.
5. Regime delle incompatibilità e azione disciplinare.
6. Azione disciplinare e personale docente non di ruolo
1.
Natura giuridica del potere disciplinare
Il procedimento disciplinare e gli atti che lo compongono, dalla contestazione
degli addebiti alla sanzione, costituiscono atti di gestione del rapporto di lavoro
e sono adottati dalla pubblica amministrazione con i “poteri del privato datore
di lavoro” (art. 5, secondo comma, D.Lgs. n 165/2001). Ad essi pertanto non si
applicano i principi sostanziali desumibili dalla L. n 241/1990 (fatto salvo
l’esercizio degli artt. 22 ss in tema di diritto di accesso, applicabile infatti anche
agli atti di diritto privato della P.A.). I relativi atti, pertanto, non saranno
fondatamente contestabili per violazione della L. n. 241/1990 né,
conseguentemente, in relazione ai vizi tipici del provvedimento amministrativo
(incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere). Tali atti saranno
contestabili (e valutabili dal giudice) in relazione ai vizi degli atti privatistici ed
in particolare in relazione ai vizi del consenso che determinano, in base al
codice civile, l’annullabilità o la nullità dell’atto nonché alla luce delle clausole
generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.. Oppure,
in tema di licenziamento, per violazione delle disposizioni speciali di cui all’art
2119 c.c. o dell’art. 7 della L. n. 300/1970 o della L. n 604/1966.
La chiara affermazione teorica è spesso tradotta in termini più opachi dalla
giurisprudenza, la quale si trova ad “annullare” atti privatistici di gestione del
rapporto di lavoro, ad es., per violazione delle regole sulla competenza
amministrativa.
1
Così Cass. sez. lav. sent. 28/07/2003 n. 11589: Atteso che la l. n.
241 del 1990, sui procedimenti amministrativi, è diretta a regolare in
via generale i procedimenti finalizzati alla emanazione di
provvedimenti autoritativi da parte delle p.a., non può trovare
applicazione nel rapporto di lavoro presso le p.a. che, dopo la c.d.
privatizzazione, è caratterizzato da una sostanziale parità tra le parti
ed è regolato dalla contrattazione collettiva di settore e (ora) dal d.leg.
n. 165 del 2001 (che ha sostituito il d.leg. n. 29 del 1993 e successive
modificazioni).
Nell’ambito del rapporto di lavoro presso le p.a. regolato, dopo la c.d.
privatizzazione, dalle norme di diritto privato, l’atto del datore di lavoro
incidente sulla prestazione lavorativa è un atto paritetico, ancorché
espressione del potere di supremazia gerarchica, privo dell’efficacia
autoritativa
propria
del
provvedimento
amministrativo;
di
conseguenza, il giudice del lavoro ne rileva i vizi secondo le categorie
proprie del diritto civile (inesistenza, nullità, annullabilità, inefficacia)
ed i motivi soggettivi rilevano solo in caso di illiceità (art. 1418 e 1345
c.c.), mentre non sono applicabili né la distinzione tra vizi di legittimità
e di merito elaborata dalla giurisprudenza amministrativa, né i vizi di
legittimità dell’incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge,
previsti dall’art. 26 t.u. n. 1054 del 1924 e dagli art. 2 e 3 l. n. 1034
del 1971 (fattispecie relativa al trasferimento per incompatibilità
ambientale di un insegnante, nella quale la suprema corte ha
confermato la sentenza di merito, correggendone la motivazione).
Il trasferimento degli insegnanti per incompatibilità ambientale, che è
disciplinato dagli art. 468 e 469 d.leg. n. 297 del 1994, ove la
contrattazione collettiva non abbia diversamente disposto, e per
quanto non previsto, dai principi generali fissati dall’art. 2103 c.c., ha
natura cautelare e non disciplinare; conseguentemente, non è
applicabile la procedura prevista dagli art. 503 e 504 stesso decreto
per i trasferimenti disciplinari e, non essendo previsto dalle citate
norme applicabili né un termine perentorio, né alcunché in ordine al
diritto di difesa, il termine per l’adozione del provvedimento è quello
ragionevole oltre il quale verrebbero meno le esigenze d’urgenza del
provvedimento ed il diritto di difesa è soddisfatto dalla possibilità per
l’interessato di far pervenire le proprie osservazioni al dirigente prima
dell’emanazione dell’atto.
Cass. Sez. Sent. 16/05/2003 n. 7704: Le norme della l. n. 241 del
1990 sul procedimento amministrativo riguardano i procedimenti
strumentali alla emanazione da parte della P.A. di provvedimenti
autoritativi destinati ad incidere sulle situazioni giuridiche soggettive
dei destinatari dei medesimi, caratterizzati dalla situazione di
preminenza dell'organo che li adotta, e non sono perciò applicabili agli
atti concernenti il rapporto di lavoro alle dipendenze delle P.A., i quali
sono adottati nell'esercizio dei poteri propri del datore di lavoro
privato, connotati dal potere di supremazia gerarchica, ma privi
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dell'efficacia autoritativa propria del provvedimento amministrativo;
pertanto, all'atto di destituzione dall'impiego adottato all'esito del
procedimento disciplinare ed a seguito di sentenza penale di condanna
per un reato commesso in servizio, non è applicabile l'obbligo della
motivazione stabilito dalla l. n. 241 del 1990, essendo sufficiente che
nel medesimo sia indicato l'illecito disciplinare che ha giustificato la
risoluzione del rapporto di lavoro, costituendo inoltre l'atto di
conformazione al lodo arbitrale di cui all'art. 59, comma 7, d.leg. n. 29
del 1993 un atto dovuto che non richiede alcuna motivazione.
Così, Cass. sez. lav. Sent. 18/02/2005 n. 3360: “Dopo la
privatizzazione del rapporto di lavoro, l’Amministrazione gestisce i
rapporti di lavoro subordinati utilizzando le stesse modalità dei datori
di lavoro privati. Conseguentemente, i principi desumibili dalla l.
241/1990 sull’azione amministrativa trovano applicazione solo in caso
di atti o provvedimenti amministrativi, ma non nella normale gestione
del rapporto di lavoro, nella quale l’Amministrazione utilizza atti di
natura negoziale privata”.
Cass. sez. lav. Sent.14/04/2008 n. 9814: Gli atti inerenti al
conferimento degli incarichi dirigenziali sono esclusi dalla categoria
degli atti amministrativi e vanno ascritti a quella degli atti negoziali,
dovendosi quindi fare applicazione delle norme del codice civile in tema
di esercizio dei poteri del privato datore di lavoro. Di conseguenza, il
giudice (ordinario) può sottoporre a sindacato l'esercizio dei poteri,
esercitati dall'amministrazione nella veste di datrice di lavoro, sotto il
profilo dell'osservanza delle regole di correttezza e buona fede,
siccome regole applicabili anche all'attività di diritto privato. Il rispetto
di tali principi a cui è tenuta l'amministrazione datrice di lavoro
"procedimentalizzano" l'esercizio del potere di conferimento (e revoca)
degli incarichi, obbligando a valutazioni anche comparative, atte a
consentire forme adeguate di partecipazione ai processi decisionali e
ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte. La violazione di tali
principi dà origine a responsabilità contrattuale.
Come detto, la violazione delle regole sulla competenza con riferimento agli
atti di gestione del rapporto di lavoro non rileva come vizi dell’atto (che
amministrativo non è), quanto come causa di nullità dell’atto (di natura
privatistica) per violazione di norma imperative ex art 1418, primo comma cc.
Così Sez. lav. sent. 05/02/2004, n. 2168: In tema di rapporto di
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ai sensi
dell'art. 59, quarto comma, del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, trasfuso
nell'art. 55 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, tutte le fasi del
procedimento disciplinare sono svolte esclusivamente dall'ufficio
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competente per i procedimenti disciplinari (u.c.p.d.), il quale è anche
l'organo competente alla irrogazione delle sanzioni disciplinari, ad
eccezione del rimprovero verbale e della censura. Ne consegue che il
procedimento instaurato da un soggetto o organo diverso dal predetto
ufficio, anche se questo non sia ancora stato istituito, è illegittimo e la
sanzione irrogata è, in tale caso, affetta da nullità, risolvendosi in un
provvedimento adottato in violazione di norme di legge inderogabili
sulla competenza; ne' la previsione legislativa è suscettibile di deroga
ad opera della contrattazione collettiva, sia per l'operatività del
principio gerarchico delle fonti, sia perché il terzo comma dell'art. 59
cit. attribuisce alla contrattazione collettiva solo la possibilità di definire
la tipologia e l'entità delle sanzioni e non anche quella di individuare il
soggetto competente alla gestione di ogni fase del procedimento
disciplinare (Fattispecie relativa a procedimento disciplinare nei
confronti di un medico-chirurgo dell’area della dirigenza sanitaria).
2.
Codice disciplinare e obbligo di pubblicità mediante affissione
Uno dei primo effetti pratici della “contrattualizzazione” del pubblico impiego,
in relazione alle vicende giurisdizionali in tema di sanzioni disciplinari, è stata
la frequenza dell’eccezione di nullità della sanzione irrogata in assenza di
previa affissione del codice disciplinare, per asserita violazione dell’art. 7
dellaL. N 300/1970. Dispone infatti tale norma che “Le norme disciplinari
relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può
essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere
portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a
tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti
di lavoro ove esistano”.
Il rigore di tale conseguenza è stato temperato dalla giurisprudenza sia in tema
di impiego pubblico, che quindi, in tema di impiego alle dipendenza della PA,
sulla base di una sorta di principio sostanzialistico di effettività. Sul
presupposto che la previsione richiamata abbia lo scopo di fare previamente
conoscere al lavoratore le condotte, specifiche e peculiari all’impresa, che il
datore di lavoro non tolleri in ambito lavorativo, si è ritenuto che ogni condotta
che l’ordinamento generale consideri illecita in sé (si pensi all’illecito penale)
possa essere ritenuta astrattamente rilevante anche nel rapporto di lavoro, a
prescindere dalla sua inclusione o meno in un codice disciplinare. Il principio è
stato affermato dapprima con riferimento a condotte illeciti così gravi da
comportare la sanzione del licenziamento e quindi anche il relazione a condotte
illecite meno gravi e comportanti sanzioni disciplinari conservative, in relazione
a comportamenti vietati da disposizioni contenute in fonte normativa
legislativa.
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E così: Cass. sez. lav. sent. 07/04/2003 n. 5434: Ai fini della
validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è
necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della
violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del
lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica
previsione (nella specie la suprema corte ha confermato la decisione di
merito che aveva ritenuto irrilevante la mancata affissione con
riferimento alla contestazione mossa ad una dipendente di una casa di
cura di avere sottratto generi alimentari dalla mensa della stessa, cui
era addetta).
Cass. sez. lav. sent. 01/09/2003 n. 12735: Il principio secondo
cui l’onere di redazione ed affissione del codice disciplinare non può
estendersi a quei fatti il cui divieto risiede, non già nelle fonti
collettive, o nelle determinazioni del datore di lavoro, bensì nella
coscienza sociale quale minimo etico, è applicabile solo alle sanzioni
disciplinari espulsive, per le quali il potere di recesso dell’imprenditore,
in presenza di una giusta causa o un giustificato motivo, è tipizzato e
previsto direttamente dalla legge, e non anche per le sanzioni c.d.
conservative, per le quali il potere disciplinare del datore di lavoro,
solo genericamente previsto dall’art. 2106 c.c., esige necessariamente,
per il suo concreto esercizio, la predisposizione di una normativa
secondaria, cui corrisponde l’onere della pubblicità, a norma dell’art. 7
l. n. 300 del 1970, che ha inteso conferire effettività, anche con
riferimento alla comunità d’impresa, al principio nullum crimen, nulla
poena sine lege.
Cass. sez. lav. Sent. 09/09/2003 n. 13194: Ai fini della validità del
licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la
previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di
norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore,
riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione; ne
consegue che i comportamenti del lavoratore che costituiscano gravi
violazioni dei doveri fondamentali del lavoratore - come quelli della
fedeltà e del rispetto del patrimonio e della reputazione del datore di
lavoro - sono sanzionabili con il licenziamento disciplinare a
prescindere dalla loro inclusione o meno all’interno del codice
disciplinare, ed anche in difetto di affissione dello stesso, purché siano
osservate le garanzie previste dall’art. 7, 2º e 3º comma, l. n. 300 del
1970.
Cass. sez. lav. sent. 09/03/2004 n. 4778: La garanzia, prevista
dall’art. 7, 1º comma, l. 20 maggio 1970 n. 300, di pubblicità del
codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti, si
applica al licenziamento disciplinare soltanto quando questo sia
intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo
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previste dalla normativa collettiva o validamente poste dal datore di
lavoro, e non anche quando faccia riferimento a situazioni giustificative
del recesso previste direttamente dalla legge o manifestamente
contrarie all’etica comune o concretanti violazione dei doveri
fondamentali connessi al rapporto di lavoro (nella specie, la sentenza
impugnata, confermata dalla suprema corte, aveva ritenuto che la
condotta del lavoratore, il quale, in relazione ad un incidente stradale
occorso nello svolgimento delle proprie mansioni di autista alla guida di
un autoveicolo aziendale, aveva attestato nel verbale di constatazione
amichevole modalità del sinistro diverse da quelle reali, rivestisse
carattere indiscutibilmente antigiuridico, a prescindere dalla sua
gravità o rilevanza penale, donde l’irrilevanza della inclusione di tale
condotta nel codice disciplinare e della stessa affissione del codice).
Cass. sez. lav. sent. 02/09/2004 n. 17763: Anche relativamente
alle sanzioni disciplinari conservative (e non per le sole sanzioni
espulsive) deve ritenersi che, in tutti i casi nei quali il comportamento
sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come
illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza
penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice
disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di
là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle
relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della
propria condotta, dovendosi d'altro canto considerare che sarebbe
contraddittorio affermare la sussistenza di un interesse del lavoratore
ad essere previamente edotto della possibilità di essere destinatario di
una sanzione conservativa per i detti comportamenti e negarla in
presenza di sanzioni di carattere espulsivo, le quali sono ben più
afflittive.
Cass. sez. lav. sent. 07/11/2006 n. 23726: Il carattere
ontologicamente disciplinare del licenziamento non comporta che il
potere di recesso del datore di lavoro per giusta causa o giustificato
motivo (già previsto dagli articolo 1 e 3 della legge 604/66) debba
essere esercitato in ogni caso previa inclusione dei fatti contestati in
un codice disciplinare e affissione del medesima: tali ultimi
adempimenti non sono, infatti, necessari in relazione a quei fatti il cui
divieto (sia o no penalmente sanzionato) risiede nella coscienza sociale
quale minimo etico e non già nelle disposizioni collettive o nelle
determinazioni dell’imprenditore.
E' legittimo il licenziamento
comminato ad un docente per avere espresso pubblicamente, e in
forma polemica, aspre critiche alla struttura formativa suo datore di
lavoro (Centro di formazione professionale), comportando tale
comportamento violazione delle regole di convivenza civile, che
impongono il reciproco rispetto e che sono radicate nella coscienza
sociale. La successiva divulgazione dei fatti alla stampa messa in atto
dal docente costituisce un indice della volontà dello stesso di denigrare
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la struttura, valendo perciò ad escludere che i fatti addebitati
costituiscano soltanto un esercizio, di per se legittimo, del diritto di
critica. (Fattispecie relativa a scuola non statale, ma con affermazione
di principi di carattere generale applicabili ad ogni contesto lavorativo)
Cass. sez. lav. sent. 27/11/2006 n. 25099: In tema di affissione
del codice disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, la previsione
delle sanzioni e delle relative conseguenze in norme aventi forza di
legge - in particolare, per l'amministrazione scolastica, il capo IV,
sezione V, del d.lgs. n.297 del 1994 recante le sanzioni disciplinari, le
diverse fattispecie di illecito, pur con clausole generali, e il relativo
procedimento - garantisce, attraverso la pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale, la conoscenza da parte della generalità, rendendo inutile la
previsione nel codice disciplinare e la relativa affissione. (Nella specie,
la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva fatto corretta
applicazione del principio esposto in massima in controversia in cui un
insegnante, lamentando la mancata affissione del codice disciplinare,
aveva
dedotto
la
nullità
del
richiamo
scritto
irrogato
dall'amministrazione scolastica per aver abbandonato la sorveglianza
di una classe senza tempestiva espressione dell'adesione alla
partecipazione ad un'assemblea sindacale. La S.C. ha, peraltro,
rilevato che il ricorrente non aveva invocato alcuna utile disposizione
collettiva capace di derogare alle disposizioni di legge, e che anzi la
disposizione collettiva da questi richiamata, l'art. 56 CCNL 5 agosto
1995, rinviava espressamente al citato decreto legislativo).
Cass. sez. lav. sent. 08/01/2007 n. 56: Nel rapporto di lavoro
degli insegnati della scuola pubblica, ai fini dell'osservanza dell'art. 7
dello statuto dei lavoratori - che prescrive l'affissione delle norme
disciplinari vigenti all'interno dell'impresa per rendere conoscibili a tutti
i lavoratori le fattispecie di illecito e le relative sanzioni, applicabile
anche al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti per il combinato
disposto degli artt. 55 e 59 del d.lgs. n. 29 del 1993 - deve ritenersi
che, tanto per i comportamenti per i quali è prevista la sanzione
espulsiva, quanto per quelli per i quali è prevista la sanzione
conservativa, l'affissione non sia necessaria ove il comportamento
vietato e la sanzione applicabile siano previsti da disposizioni
contenute in fonte normativa avente forza di legge, come tale
ufficialmente pubblicata e conosciuta dalla generalità. (Nel caso di
specie, la Corte ha ritenuto che correttamente il giudice di merito
avesse negato l'obbligo di affissione, in quanto il capo IV, sez. V, t.u.
sulla scuola approvato con d.lgs. 16 aprile 1994 n. 297 enumera le
sanzioni disciplinari, distingue le diverse fattispecie di illecito e
disciplina il relativo procedimento di irrogazione della sanzione).
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3.
Il procedimento disciplinare
3 a) Contestazione degli addebiti (forma e contenuto)
La contestazione di addebiti deve avere un contenuto riferito ai fatti (nel loro
accadimento materiale e fenomenico) che il datore di lavoro considera rilevanti
sul piano disciplinare, con precisione necessaria e sufficiente al fine di
consentire il diritto di difesa dal dipendente. Non è elemento necessario della
contestazione nè la valutazione del concreto rilievo di tali fatti per il datore di
lavoro (essendo questo oggetto della sanzione) né l’indicazione delle norme
violate.
Cass. sez. unite, sent del 22/08/2007 n. 17827: In tema di
giudizio disciplinare nei confronti di professionista, la formale
incolpazione non richiede una minuta, completa e particolareggiata
esposizione delle modalità dei fatti che integrano l'illecito e l'indagine
volta ad accertare la correlazione tra addebito contestato e decisione
disciplinare non va fatta alla stregua di un confronto meramente
formale, dovendosi piuttosto dare rilievo all'iter del procedimento e alla
possibilità che l'incolpato abbia avuto di avere conoscenza dell'addebito
e di discolparsi. Tuttavia, anche se sono valorizzabili elementi non
desumibili direttamente dal testo della formale incolpazione, è
necessaria una adeguata ricognizione dei medesimi e una valutazione
della loro idoneità ad esplicitare ed integrare il capo di incolpazione,
ipotesi che non sussiste nel caso in cui nei confronti di un avvocato,
incolpato dei fatti di cui al capo di imputazione formulato in sede
penale dai quali sia stato assolto, oltre che della condotta tenuta in
relazione e in dipendenza dei fatti medesimi, connessi e
consequenziali, sia applicata la sanzione disciplinare per i fatti
accessori contestati. (La S.C. ha ritenuto che detta formula di chiusura
era generica ed avrebbe dovuto essere vagliata ed eventualmente
giustificata sulla base dell'esame del contesto delle circostanze in cui
era avvenuta la promozione del procedimento disciplinare e attraverso
cui si era sviluppata la contestazione disciplinare ed altresì della
concreta portata della decisione di condanna disciplinare).
Cass. sez. lav. sent. del 20/07/2007, n 16132: In materia di
provvedimenti disciplinari a carico del lavoratore, l'art. 7 della legge n.
300 del 1970 stabilisce che nessuno di tali provvedimenti può essere
assunto senza previa contestazione dell'addebito; ne consegue che, in
caso di licenziamento disciplinare intimato per assenza ingiustificata
dal lavoro che superi il numero di giorni di assenza previsto dal CCNL
(tre nel caso di specie,), il datore di lavoro ha l'onere di indicare
specificamente nell'atto di contestazione tutti i giorni di assenza, non
potendo essere computate, qualora la contestazione sia relativa ad un
solo giorno, le ulteriori assenze del lavoratore intercorse tra la data di
invio e quella di ricezione della contestazione medesima.
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Cass. sez. lav., sent. del 27/03/2009, n. 7523: Il datore di lavoro,
una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del
prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti
infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli
stessi fatti, il detto potere, ormai consumato, essendogli consentito
soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il
biennio, ai fini della recidiva, nonché dei fatti non tempestivamente
contestati o contestati ma non sanzionati - ove siano stati unificati con
quelli ritualmente contestati - ai fini della globale valutazione, anche
sotto il profilo psicologico, del comportamento del lavoratore e della
gravità degli specifici episodi addebitati. (Nella specie, la S.C. ha
confermato la decisione impugnata, che aveva annullato il
licenziamento disciplinare e dichiarato l'inidoneità a sorreggere la
sanzione espulsiva, per contrasto col divieto del "ne bis in idem", delle
ulteriori contestazioni di addebito per fatti pregressi, recapitate al
lavoratore ma non seguite da sanzione, neppure dedotte come
circostanze aggravanti).
Cass. sez. lav., sent. del 02/02/2009 n. 2579: In tema di
licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al
dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur
dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli
atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro
concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non
occorre che l'esistenza della "causa" idonea a non consentire la
prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel
complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice - nell'ambito degli
addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che
giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di
gravità richiesto dall'art. 2119 cod. civ.. (Nella specie, relativa a due
condotte di appropriazione indebita, contestate ad un cassiere di
banca, e posta in essere mediante doppia contabilizzazione di addebiti
sul conto corrente dei clienti, la S.C., nell'affermare il principio di cui
alla massima, ha ritenuto la correttezza della decisione della corte
territoriale che, pur avendo escluso la riferibilità del primo episodio al
lavoratore licenziato, ha valutato il secondo episodio sufficiente a
minare definitivamente il vincolo fiduciario nei confronti del
dipendente).
E sulle contestazioni plurime:
Cass. sez. lav. sent. del 18/09/2007, n 19343: Ove venga
intimato licenziamento disciplinare per una pluralità di addebiti, la
nullità della contestazione di alcuni di questi per mancato rispetto del
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termine a difesa del lavoratore si estende all'atto di recesso nel suo
complesso solo ove risulti provato, ed accertato, che gli addebiti
ritualmente contestati, siano di per sé insufficienti a giustificare il
licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione
della corte territoriale che aveva ritenuto nullo il licenziamento
disciplinare intimato per una pluralità di addebiti, a causa
dell'anticipazione del licenziamento a momento anteriore alla scadenza
del termine a difesa del lavoratore relativo ad alcuni solamente degli
addebiti, invitando il giudice del rinvio a riesaminare il fatto e a
determinare se, sulla base degli altri addebiti ritualmente contestati, il
datore di lavoro avrebbe ugualmente disposto il licenziamento, ovvero
se le altre mancanze fossero di per sé insufficienti per giustificare la
sanzione espulsiva).
Cass. sez. lav, sent. del 14/09/2007, n 19232: In tema di
licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo,
allorquando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti
sul piano disciplinare, il giudice di merito deve esaminarli non
partitamente, ma globalmente al fine di verificare se la loro rilevanza
complessiva sia tale da minare la fiducia riposta dal datore di lavoro
nel dipendente, atteso che la molteplicità degli episodi, oltre ad
esprimere un'intensità complessiva maggiore dei singoli fatti, delinea
una persistenza che costituisce ulteriore negazione degli obblighi del
dipendente ed una potenzialità negativa sul futuro adempimento degli
obblighi stessi. Inoltre, ai fini della valutazione della permanenza del
rapporto fiduciario tra datore e dipendente va considerato che la
fiducia richiesta è di differente intensità a seconda della natura e della
qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto
delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono. (Nella
specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito per non aver
considerato complessivamente la condotta della dipendente infermiera professionale in un ospedale, addetta al blocco operatorio , nella molteplicità delle contestazioni e dei fatti interni alle singole
contestazioni, fra le quali medicinali scaduti, attrezzature e supporti
medico chirurgici scaduti, mancata sterilizzazione di mobili e
suppellettili, ingiustificata presenza di creme per mani di uso
personale, nonché cibi e bevande; per non aver valutato i fatti
addebitati nell'ambito della peculiare delicatezza della funzione svolta,
della conseguente elevata responsabilità e della fiducia che esigeva;
per l'inadeguata valutazione della ritenuta assenza di danno
all'immagine di una struttura ospedaliera che la divulgazione della
notizia propalata dalla lavoratrice - presenza di medicinali, attrezzature
e supporti medico chirurgici scaduti - comportava nei confronti del
personale dell'azienda e per la diffusiva potenzialità verso l'esterno).
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3 b) Diritto di difesa
Il procedimento disciplinare vero e proprio è oggetto di minuziosa disciplina nei
CCNL dei Comparti del pubblico impiego: la contrattazione ha in parte ricalcato
la disciplina originariamente contenuta nel D.P.R. n 3/1957, in parte
modificandola (così, ad es., è con riferimento al momento di inizio dell’azione
disciplinare, ingabbiata in un termine a giorni fissi dalla conoscenza del fatto in
luogo dell’impreciso “subito” dell’art. 103 del citato D.P.R. o con riferimento
all’anticipazione del momento di obbligatoria sospensione del procedimento
disciplinare per la contestuale pendenza di procedimento penale, stabilità nel
momento della presentazione della denuncia in luogo dell’effettivo esercizio
dell’azione penale di cui all’art 117 del D.P.R. 3/1957).
Con riferimento alla “forma” del contraddittorio (orale o scritta), va
sottolineata una qualche differenza terminologica tra la disposizione di cui
all’art 7 della L. n 300/1970 e quella dell’art 55 del D.Lgs. n 165/2001: se l’art
7 dispone che “Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento
disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente
contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa. Il lavoratore potrà
farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o
conferisce mandato. [...] In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del
rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi
cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa”,
l’art 55, quinto comma, del D.Lgs. n 165/2001 ad un primo precetto simile: “Il
“[...] dipendente, ... viene sentito a sua difesa con l'eventuale assistenza di un
procuratore ovvero di un rappresentante dell'associazione sindacale cui
aderisce o conferisce mandato” aggiunge: “Trascorsi inutilmente quindici giorni
dalla convocazione per la difesa del dipendente, la sanzione viene
applicata nei successivi quindici giorni”).
Da tale differenza sembra desumersi la scelta del legislatore, salve diverse
disposizioni contrattuali, per un contraddittorio orale (difficile immaginare una
“convocazione” che attivi un contraddittorio non sincrono) e dunque la non
estensibilità in ambito pubblico del principio espresso da Cass. lav. n.
1661/2008.
Cass. sez. lav., sent. del 25/01/2008 n. 1661: L'art. 7 della legge
n. 300 del 1970 - il quale subordina la legittimità del procedimento di
irrogazione delle sanzioni disciplinari alla previa contestazione degli
addebiti, al fine di consentire al lavoratore di esporre le proprie difese
in relazione al comportamento ascrittogli - non comporta in ogni caso
l'obbligo per il datore di lavoro di convocare il lavoratore stesso per
consentirgli di discolparsi oralmente, atteso che è in facoltà di
quest'ultimo di esercitare il suo diritto di difesa nella più completa
libertà di forme e, dunque, anche per iscritto o mediante l'assistenza di
un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisca o conferisca
mandato.
11
3 c) Tempestività e rispetto dei termini del procedimento
La previsione di termini perentori di conclusione del procedimento disciplinare
ed il rigido “ancoraggio” temporale del suo inizio introdotto dalla contrattazione
collettiva, pongono prepotentemente la questione della precisa identificazione
del dies a quo (termine iniziale) e del dies ad quem (termine finale) del
procedimento disciplinare.
Sull’immediatezza della contestazione, in assenza di previsioni che
pongano un termine rigido.
Cass. sez. lav, sent. n. 29480 del 17/12/2008, n. 29480: Nel
licenziamento per motivi disciplinari, il principio dell'immediatezza della
contestazione dell'addebito e della tempestività del recesso datoriale,
che si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del
datore di lavoro, deve essere inteso in senso relativo, potendo in
concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno
lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno
spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della
struttura
organizzativa
dell'impresa
possa
far
ritardare
il
provvedimento di recesso; in ogni caso, la valutazione relativa alla
tempestività costituisce giudizio di merito, non sindacabile in
cassazione ove adeguatamente motivato. (Nella specie, la S.C. ha
confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto essere stato
rispettato il principio dell'immediatezza in relazione alla contestazione
disciplinare intimata dopo quattro mesi dall'ultimo episodio di utilizzo,
da parte del dipendente, del telefono di ufficio con il quale erano stati
inviati, anche fuori dall'orario di lavoro e nell'arco di un anno, oltre
tredicimila brevi messaggi, attesa la necessità di controllare
l'estraneità dei messaggi ai motivi di servizio).
Cass. sez. lav, sent. del 02/02/2009, n. 2580 : L'intervallo
temporale fra l'intimazione del licenziamento disciplinare e il fatto
contestato al lavoratore assume rilievo in quanto rivelatore di una
mancanza di interesse del datore di lavoro all'esercizio della facoltà di
recesso; con la conseguenza che, nonostante il differimento di questo,
la ritenuta incompatibilità degli addebiti con la prosecuzione del
rapporto può essere desunta da misure cautelari (come la
sospensione) adottate in detto intervallo dal datore di lavoro, giacché
tali misure - specialmente se l'adozione di esse sia prevista dalla
disciplina collettiva del rapporto - dimostrano la permanente volontà
datoriale di irrogare (eventualmente) la sanzione del licenziamento,
con la precisazione che il requisito dell'immediatezza della
contestazione deve essere inteso in senso relativo, potendo essere
compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando
12
l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale
maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa
dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando
comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle
circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo. (Nella
specie la S.C. ha ritenuto corretto il ragionamento effettuato dal
giudice di merito in ordine all'insussistenza della violazione del
principio di immediatezza in presenza di una sospensione cautelare di
un cassiere di istituto di credito intervenuta dodici giorni dopo il fatto
illecito, della formulazione della contestazione di addebito verificatasi
dopo altri ventitré giorni ed, infine, di un provvedimento disciplinare
irrogato a due mesi dal fatto).
Ma qual è la conoscenza dei fatti necessaria e sufficiente ad integrare in capo
all’amministrazione l’onere di attivazione del procedimento disciplinare? Anche
laddove sia previsto un termine espresso a giorni di inizio del procedimento
disciplinare, da quando comincia a decorrere questo termine? Qual è l’evento
determinante a tal fine? Una conoscenza dei fatti che possa definirsi
piena.
Cass. sez. lav, sent. del 02/10/2007, n 20654: In tema di
procedimento disciplinare nei confronti di dipendente pubblico, il
termine di venti giorni tra conoscenza del fatto e contestazione
dell'addebito previsto dall'art. 24 del contratto collettivo del comparto
ministeri ha natura ordinatoria, avendo le parti indicato un parametro
di tempestività consentendone tuttavia un'elastica dilatazione per
accertamenti necessari al fine di una compiuta conoscenza del fatto.
(Nella specie, la P.A. aveva contestato il fatto dopo quasi quattro mesi
dalla comunicazione della sentenza penale pronunciata per gli stessi
fatti -avvenuti circa sette anni prima - nei confronti del dipendente, il
quale in precedenza era stato sospeso cautelarmente dal servizio ma
non aveva ricevuto contestazione di addebito; la S.C., ritenendo che il
"dies a quo" del termine andasse fissato alla data di acquisizione dei
verbali del giudizio penale -non essendo invece sufficiente la
conoscenza della sentenza che proscioglieva per prescrizione - ha
confermato la sentenza di merito che, con motivazione ritenuta
adeguata e conforme ai criteri di ermeneutica contrattuale, aveva
qualificato il termine ordinatorio).
Cass. sez. lav, sent. del 02/03/2007, n 4932 In tema di
procedimento disciplinare a carico dei pubblici dipendenti, nel caso di
fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 97 del
2001, che all'art. 10 comma terzo, dopo la sentenza n. 186 del 2004
della Corte costituzionale, stabilisce che i suddetti procedimenti devono
13
essere
instaurati
entro
90
giorni
dalla
comunicazione
all'amministrazione o all'ente competente per il procedimento
disciplinare della sentenza di condanna penale del dipendente, il
termine per l'avvio del procedimento decorre dalla sentenza di
condanna solo qualora i fatti siano stati conosciuti dall'amministrazione
a seguito della comunicazione di tale sentenza e non anche ove
anteriormente a tale data l'amministrazione ne avesse già avuto
conoscenza, atteso che altrimenti il principio di immediatezza della
contestazione, che è elemento costitutivo della potere di recesso
disciplinare del datore di lavoro, subirebbe una deroga ingiustificabile
dopo l'assoggettamento alle regole proprie dei rapporti di lavoro
privati, consentendone l'indiscriminato differimento, contrariamente a
quanto si desume dall'art. 5 della legge citata, che nel prevedere la
sospensione del procedimento disciplinare in relazione alla pendenza
del
procedimento
penale,
presuppone
che
delle
vicende
disciplinarmente rilevanti l'amministrazione sia venuta a conoscenza
già prima dell'avvio del procedimento penale. (Nella specie la S.C. ha
cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto sussistente la
tempestività del procedimento disciplinare, perché avviato nel rispetto
dei termini di cui all'art. 10, benché anteriormente al procedimento
penale risultasse la piena conoscenza dei fatti da parte
dell'amministrazione,
che
li
aveva
denunziati
penalmente,
costituendosi P.C. e disponendo la sospensione dal servizio del
dipendente).
Cass. sez. lav., sent. del 10/05/2007, n. 10668: In tema di
procedimento disciplinare a carico dei pubblici dipendenti, nel caso di
fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 97 del
2001 e del contratto collettivo nazionale del comparto ministeri 16
maggio 1995, con riguardo all'ipotesi del rilievo penale dei fatti
addebitati, ai fini della sussistenza del requisito della tempestività,
l'avvio del procedimento disciplinare con la contestazione può essere
differito all'esito dello stesso procedimento penale, senza che si possa
applicare, attribuendogli natura perentoria, il termine di venti giorni
previsto dall'art. 24, comma secondo del suddetto contratto. Non
avendo le parti regolato il regime del procedimento disciplinare
applicabile in relazione a procedimenti penali iniziati prima della
stipulazione del contratto, ma solo il caso di quelli sospesi, il requisito
della tempestività deve essere valutato, seguendo il criterio di
ragionevolezza, assumendo il parametro costituito dal termine di
centottanta giorni fissato dalla norma contrattuale per riattivare il
procedimento sospeso, termine che consente la ponderazione
dell'interesse del dipendente pubblico a una sollecita definizione della
propria situazione disciplinare con l'esigenza dell'amministrazione di
instaurare tale procedimento. (Nella specie - relativa a dipendente
sospeso dal servizio nel 1993, riammesso nel 1998 per scadenza del
14
termine, condannato con sentenza di primo grado cui aveva fatto
seguito sentenza di appello in data 5 luglio 1999, pronunciata in sede
di richiesta di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen., di
non
doversi
procedere
per
prescrizione,
comunicata
all'amministrazione il 23 febbraio 2000 - la S.C. ha confermato,
correggendone la motivazione, la sentenza di merito che aveva
affermato la tempestività dell'azione disciplinare avviata con
contestazione notificata il 12 giugno 2000).
Sugli effetti della natura recettizia riconosciuta agli atti del
procedimento disciplinare, si può affermare che con riferimento alla
contestazione degli addebiti possa ritenersi come dies a quo quello della sua
conoscenza da parte del dipendente e con riferimento alla sanzione, come dies
ad quem , quello della sua emanazione.
Tale soluzione del resto è l’unica in linea con la considerazione del momento
partecipativo dell’atto come momento autonomo e distinto rispetto all’atto da
partecipare. Momento che, come nella notificazione vera e propria, consta
almeno di due momenti: quello dell’azione del soggetto mittente che vuole
portare a conoscenza del destinatario un atto e che, eventualmente, si avvale
dell’intermediazione di altri, e quello dell’azione del soggetto destinatario, che
lo riceve, la cui collaborazione è talvolta necessaria in relazione al mezzo
utilizzato (si pensi alla racc. a.r.). Ma è anche l’unica in linea con i principi
espressi dalla Corte Costituzionale in tema di notifica degli atti giudiziari (Corte
Costituzionale - Sent. 26/11/2002 n. 477; Corte Costituzionale - Sent.
23/01/2004 n. 28; Corte Costituzionale - Ord. 12/03/2004 n. 97) ove si
afferma che “risulta ormai presente nell'ordinamento processuale civile, fra le
norme generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale relativamente alla funzione che sul piano processuale, cioè come atto della
sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il notificante
- il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il medesimo
deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario.
Conseguentemente, alla luce di tale principio, le norme in tema di notificazioni
di atti processuali vanno ora interpretate, senza necessità di ulteriori interventi
da parte del giudice delle leggi, nel senso che "la notificazione si perfeziona nei
confronti del notificante, al momento della consegna dell'atto all'ufficiale
giudiziario", con salvezza dei relativi termini processuali.
Cass. sez. lav, sent. del 21/07/2008, n 20074: In tema di
sanzioni disciplinari nei rapporti di lavoro pubblico privatizzato, la
contestazione degli addebiti al lavoratore ha natura recettizia e
determina, ai sensi dell'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, l'avvio della
procedura; conseguentemente, il procedimento disciplinare si estingue,
ex art. 120, primo comma, del d.P.R. n. 3 del 1957, ove non sia stato
compiuto alcun atto nei novanta giorni successivi, decorrenti dalla
contestazione al dipendente e non dal momento di emanazione del
relativo atto, la cui rilevanza resta meramente interna e prodromica
all'avvio del procedimento.
15
Cass.sez. lav., sent. del 09/03/2009, n. 5637 : In tema di
procedimento disciplinare nei confronti di dipendente in rapporto di
lavoro pubblico privatizzato, l'art. 24, comma 7, del c.c.n.l. comparto
Ministeri del 16 maggio 1995 si interpreta nel senso che il
procedimento disciplinare si conclude con una declaratoria di chiusura
del procedimento per non luogo a procedere disciplinarmente ovvero
con irrogazione di una sanzione entro il termine decadenziale di
centoventi giorni dalla contestazione dell'addebito (comma 6 del citato
art. 24), trattandosi di atti con cui il datore di lavoro esprime la propria
valutazione ed esaurisce il proprio potere disciplinare. Ne consegue che
la comunicazione all'interessato dell'atto sanzionatorio, per sua
natura recettizio, si colloca al di fuori del procedimento disciplinare,
riguardando esclusivamente la fase, successiva, di perfezionamento e
di efficacia nei confronti del destinatario della sanzione medesima, e
non assume rilievo ai fini del rispetto dell'anzidetto termine di
decadenza.
Che succede se, in occasione della comunicazione “a mani” di un atto al
dipendente (contestazione di addebiti, come altro), questi si rifiuti di riceverlo?
L’interpretazione giurisprudenziale è rigorosa.
Cass. sez. lav. sent. 05/11/2007 n. 23061:
Tra soggetti privati, può sussistere, in relazione alle circostanze e
purché non sia prescritto per legge o per contratto l'utilizzo di un
mezzo specifico (ad esempio con lettera raccomandata, per
telegramma, tramite fax, ecc.), un obbligo di ricevere comunicazioni a
mano da altri soggetti privati, quando i due soggetti privati siano già
uniti da uno stretto vincolo contrattuale, che comporti, o possa
comportare, una serie di comunicazioni reciproche, ed anche quella
comunicazione specifica si inserisca all'interno del rapporto negoziale.
In particolare, quest'obbligo si deve ritenere esistente, quando non sia
previsto altrimenti, nell'ambito del lavoro subordinato in forza del
vincolo che lega il prestatore al datore, e che comporta perciò, sia pure
per ragioni funzionali al rapporto di lavoro e limitatamente ad esse,
una soggezione del dipendente al datore di lavoro. Quindi, in un caso
di consegna a mano di lettera di licenziamento ad un lavoratore, il
rifiuto del destinatario di ricevere tale atto unilaterale recettizio, non
esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta.
(Nella specie, la S.C. ha confermato sul punto la sentenza di merito
che aveva ritenuto illegittimo il rifiuto opposto dal lavoratore a ricevere
la lettera di licenziamento che il datore intendeva consegnargli a mano
all'interno della struttura nella quale lavorava e durante l'orario di
lavoro).
16
Cass. sez. lav., sent. n. 26390 del 03/11/2008, n. 26390 : Nel
rapporto di lavoro subordinato è configurabile, in linea di massima
(giacché non esiste un obbligo o un onere generale ed incondizionato
di ricevere comunicazioni scritte da chicchessia e in qualunque
situazione), l'obbligo del lavoratore di ricevere sul posto di lavoro e
durante l'orario lavorativo comunicazioni, anche formali, da parte del
datore di lavoro o di suoi delegati, in considerazione dello stretto
vincolo contrattuale che lega le parti di detto rapporto, sicché il rifiuto
del lavoratore destinatario di un atto unilaterale recettizio di riceverlo
comporta che la comunicazione debba ritenersi regolarmente
avvenuta, in quanto giunta ritualmente, ai sensi dell'art. 1335 cod.
civ., a quello che, in quel momento, era l'indirizzo del destinatario
stesso. (Nella specie, la S.C., enunciando l'anzidetto principio, ha
confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto tardiva
l'irrogazione del licenziamento disciplinare, giacché intervenuta oltre il
termine previsto dalla contrattazione collettiva secondo una scansione
procedimentale che muoveva dalla comunicazione degli addebiti, da
reputarsi, quest'ultima comunicazione, avvenuta a seguito del rifiuto
del lavoratore di ricevere personalmente sul posto di lavoro l'atto di
contestazione degli addebiti medesimi).
Se tale giurisprudenza, di stampo sostanzialista, aiuta l’amministrazione nelle
operazioni di comunicazione degli atti disciplinari al destinatario, consentendo
di mettere nel nulla eventuali atteggiamenti ostruzionistici del dipendente, non
legittimerà comunque un’azione dell’amministrazione che non sia rigorosa:
qualche dubbio di legittimità ad es. potrebbe porsi in relazione alla prassi in
essere presso molti uffici scolastici di trasmettere l’atto disciplinare
(contestazione o sanzione che sia) alla istituzione scolastica sede di servizio del
dipendente destinatario dell’atto per la comunicazione a quest’ultimo.
Se tra il momento della trasmissione da un organo all’altro e la consegna (ad
es. a mani) dell’atto passassero dei giorni per l’assenza del dipendente o per
festività o altro), una tale “procedura” di notificazione potrebbe prestare il
fianco ad un evenuale eccezione di tardività, che sarebbe meglio evitare, pur
tenendo conto della giurisprudenza sopra richiamata.
Sempre con riferimento al termine finale, in una fattispecie particolare:
Cass. sez. lav., sent. del 28/09/2006, n. 21032: Il disposto del
quinto comma (ultimo periodo) dell'art. 55 del d.lgs. 30 marzo 2001,
n. 165, - secondo cui, con riferimento al procedimento disciplinare,
"trascorsi inutilmente quindici giorni dalla convocazione per la difesa
del dipendente, la sanzione viene applicata nei successivi quindici
giorni" - si riferisce univocamente alla sola evenienza che il dipendente
non si avvalga della facoltà di difendersi e, in tal caso, prescrive di
applicare la sanzione nel termine di quindici giorni dalla scadenza del
primo termine, non essendo necessarie ulteriori valutazioni
dell'Amministrazione; tale disposizione non può essere, invece, estesa
17
alla diversa ipotesi (verificatasi nel caso di specie sottoposto al vaglio
della S.C.) di audizione del dipendente, in forza del principio secondo
cui le norme sulla decadenza, per il loro carattere eccezionale, non
sono applicabili oltre i casi espressamente previsti, ai sensi dell'art. 14
delle disposizioni sulla legge in generale.
4.
Illecito penale ed illecito disciplinare
Si è già accennato delle differenti disposizioni (art 117 D.P.R. n 3/1957 e
CCNL) che regolano l’influenza del procedimento/processo penale sul
procedimento disciplinare.
Come noto, l’art. 117 del D.P.R. 3/57, nel fare riferimento all’”inizio dell’azione
penale” allude, come affermato da pacifica giurisprudenza (fra le tante, Cons.
Stato, A.P. n. 4/2000 cit; Cons. Stato, comm. Spec. 5.2.2000, n. 479; Cons
Stato, sez. VI 29.10.1999, n. 1635; Cons. Stato, sez. IV, 7.5.1998, n. 780)
all’evento tecnico-processuale della comunicazione di garanzia ai sensi
dell’art. 416 c.p.p. (e cioè il rinvio a giudizio ovvero agli atti ad essa
equiparati: richiesta di pena ex art. 444 c.p.p., richiesta di giudizio immediato
ex art. 453 c.p.p., richiesta di decreto penale di condanna ex art. 459 c.p.p.).
Come noto infatti l’azione penale inizia solo con il compimento di detti atti in
base al quale l’indagato assume la posizione di imputato, a ciò non essendo
equipollenti la mera presentazione di un esposto o di una denuncia e nemmeno
l’iscrizione nel registro degli indagati.
Ne consegue che con riferimento al personale al quale si applichi tale
disposizione (personale docente) la piena legittimità dell’inizio dell’azione
disciplinare nei confronti del dipendente che non abbia (e fino a che non abbia)
assunto la qualità di imputato. Con la conseguenza che l’azione disciplinare
potrà anche concludersi prima di tale momento.
Assolutamente anticipato è invece l’obbligo di sospensione del procedimento
disciplinare nelle disposizioni della contrattazione collettiva, come detto
anticipato sin dalla presentazione della denuncia (o della conoscenza della
pendenza del procedimento penale): la semplice iscrizione del dipendente nel
registro degli indagati determina l’effetto sospensivo.
5.
Regime delle incompatibilità e azione disciplinare
Per espressa previsione dell’art 53 del D.Lgs. n 165/2001 la violazione delle
regole sull’esclusività dell’impiego pubblico rileva quale illecito disciplinare.
Il problema giuridico che si pone è, con riferimento alle ipotesi che
costituiscono cause di incompatibilità assoluta con il rapporto di lavoro (cioè
non autorizzabili in astratto) quali quelle indicate nell’art. 60 del D.P.R. n
3/1957 (la cui vigenza è confermata dal primo comma dell’art 53 e quindi con
riferimento all’esercizio del commercio, dell'industria, all’esercizio di
professione o all’assunzione di impieghi alle dipendenze di privati o
all’assunzione di cariche in società costituite a fine di lucro), se la
contestazione di tale divieto debba avvenire nella forma ed attraverso il
18
procedimento disciplinare ovvero attraverso il procedimento di decadenza di
cui all’art. 63 del D.P.R. n 3/1957, pure esso “salvato” dall’art. 53 D.Lgs. n
165/2001.
Cass. sez. lav. sent. del 19/01/2006 n. 967 L'istituto della
decadenza dal rapporto di impiego, come disciplinato dagli articoli 60 e
seguenti del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, è applicabile ai dipendenti
di cui all'art. 2, commi secondo e terzo, del d.lgs. 30 marzo 2001, n.
165, in forza dell'espressa previsione contenuta nell'art. 53, comma
primo, dello stesso decreto, e, siccome attiene alla materia delle
incompatibilità, è estraneo all'ambito delle sanzioni e della
responsabilità disciplinare di cui all'art. 55 dello stesso testo
normativo.
Il recesso dell’amministrazione potrà avvenire dunque previa semplice
diffida al dipendente a fronte della perdurante omessa cessazione della
causa di incompatibilità da parte del dipendete. Laddove invece il
dipendete facesse cessare la causa di incompatibilità nel termine di cui
all’art. 63 D.P.R. n 3/1957, allora gli effetti ulteriori del
comportamento del dipendente potrebbero essere fatti valere quale
illecito disciplinare.
6.
Azione disciplinare e personale docente non di ruolo
Come noto, il D.Lgs. n 297/1994 contiene alcune disposizioni (gli artt. da 535 a
549) aventi ad oggetto l’azione disciplinare nei confronti del personale docente
non di ruolo.
La legittimità di una disciplina diversificata tra personale di ruolo e non di ruolo
è stata spesso affermata dalla Corte Costituzionale: con ordinanza 137 del
02/02/1988 ad es. la Corte ha affermato che non è ingiustificata la disciplina
diversificata, quanto al regime delle assenze, degli insegnanti non di ruolo rispetto alla disciplina relativa al restante personale statale - attesa la
peculiarità della loro posizione (così in particolare, nelle modalità di
reclutamento, di assegnazione delle sedi e di conservazione del posto); ne`,
d'altro canto, l'identità di regime (nei congedi e nelle aspettative) del personale
docente di ruolo e non di ruolo, può essere assunta a riferimento di
un'assimilazione, non consentita, attesa la diversità delle situazioni
considerate.
Non è tanto il principio di uguaglianza che deve fare riflettere circa la
sopravvivenza di queste disposizioni quanto piuttosto il combinato disposto
degli artt. 55 e 69 del D.Lgs. n 165/2001.
Se da un lato, infatti, l’art. 55 del D.Lgs. n 165/2001 compie un operazione di
salvataggio “chirurgico” di alcune disposizioni in materia disciplinare del D.Lgs.
n 267/1995 (“Fino al riordinamento degli organi collegiali della scuola nei
19
confronti del personale ispettivo tecnico, direttivo, docente ed educativo delle
scuole di ogni ordine e grado e delle istituzioni educative statali si applicano le
norme di cui agli articoli da 502 a 507 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n.
297”) ampliate al Capo dalla contrattazione collettiva (così l’art. 91 del CCNL
2007: “Per il personale docente ed educativo delle scuole di ogni ordine e
grado, continuano ad applicarsile norme di cui al Titolo I, Capo IV della Parte
III”), in generale il primo comma dell’art 69 rende inapplicabili a seguito della
stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997, in relazione ai
soggetti e alle materie dagli stessi contemplati “le norme generali e speciali del
pubblico impiego”, vigenti alla data del 13 gennaio 1994 che cessano in ogni
caso di produrre effetti dal momento della sottoscrizione, per ciascun ambito di
riferimento, dei contratti collettivi del quadriennio 1998-2001.
In tale situazione normativa, le norme disciplinari del personale docente non di
ruolo sono le stesse del personale di ruolo, così come il relativo procedimento.
20