RASSEGNA RAGIONATA DI GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ SULL’AZIONE DISCIPLINARE NELL’IMPIEGO PRIVATIZZATO Laura Paolucci Sommario 1. Natura giuridica del potere disciplinare. 2. Codice disciplinare e obbligo di pubblicità mediante affissione. 3. Il procedimento disciplinare: 3a. Contestazione degli addebiti (forma e contenuto) 3b. Diritto di difesa. 3c. Termini. 4. Illecito penale ed illecito disciplinare. 5. Regime delle incompatibilità e azione disciplinare. 6. Azione disciplinare e personale docente non di ruolo 1. Natura giuridica del potere disciplinare Il procedimento disciplinare e gli atti che lo compongono, dalla contestazione degli addebiti alla sanzione, costituiscono atti di gestione del rapporto di lavoro e sono adottati dalla pubblica amministrazione con i “poteri del privato datore di lavoro” (art. 5, secondo comma, D.Lgs. n 165/2001). Ad essi pertanto non si applicano i principi sostanziali desumibili dalla L. n 241/1990 (fatto salvo l’esercizio degli artt. 22 ss in tema di diritto di accesso, applicabile infatti anche agli atti di diritto privato della P.A.). I relativi atti, pertanto, non saranno fondatamente contestabili per violazione della L. n. 241/1990 né, conseguentemente, in relazione ai vizi tipici del provvedimento amministrativo (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere). Tali atti saranno contestabili (e valutabili dal giudice) in relazione ai vizi degli atti privatistici ed in particolare in relazione ai vizi del consenso che determinano, in base al codice civile, l’annullabilità o la nullità dell’atto nonché alla luce delle clausole generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.. Oppure, in tema di licenziamento, per violazione delle disposizioni speciali di cui all’art 2119 c.c. o dell’art. 7 della L. n. 300/1970 o della L. n 604/1966. La chiara affermazione teorica è spesso tradotta in termini più opachi dalla giurisprudenza, la quale si trova ad “annullare” atti privatistici di gestione del rapporto di lavoro, ad es., per violazione delle regole sulla competenza amministrativa. 1 Così Cass. sez. lav. sent. 28/07/2003 n. 11589: Atteso che la l. n. 241 del 1990, sui procedimenti amministrativi, è diretta a regolare in via generale i procedimenti finalizzati alla emanazione di provvedimenti autoritativi da parte delle p.a., non può trovare applicazione nel rapporto di lavoro presso le p.a. che, dopo la c.d. privatizzazione, è caratterizzato da una sostanziale parità tra le parti ed è regolato dalla contrattazione collettiva di settore e (ora) dal d.leg. n. 165 del 2001 (che ha sostituito il d.leg. n. 29 del 1993 e successive modificazioni). Nell’ambito del rapporto di lavoro presso le p.a. regolato, dopo la c.d. privatizzazione, dalle norme di diritto privato, l’atto del datore di lavoro incidente sulla prestazione lavorativa è un atto paritetico, ancorché espressione del potere di supremazia gerarchica, privo dell’efficacia autoritativa propria del provvedimento amministrativo; di conseguenza, il giudice del lavoro ne rileva i vizi secondo le categorie proprie del diritto civile (inesistenza, nullità, annullabilità, inefficacia) ed i motivi soggettivi rilevano solo in caso di illiceità (art. 1418 e 1345 c.c.), mentre non sono applicabili né la distinzione tra vizi di legittimità e di merito elaborata dalla giurisprudenza amministrativa, né i vizi di legittimità dell’incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, previsti dall’art. 26 t.u. n. 1054 del 1924 e dagli art. 2 e 3 l. n. 1034 del 1971 (fattispecie relativa al trasferimento per incompatibilità ambientale di un insegnante, nella quale la suprema corte ha confermato la sentenza di merito, correggendone la motivazione). Il trasferimento degli insegnanti per incompatibilità ambientale, che è disciplinato dagli art. 468 e 469 d.leg. n. 297 del 1994, ove la contrattazione collettiva non abbia diversamente disposto, e per quanto non previsto, dai principi generali fissati dall’art. 2103 c.c., ha natura cautelare e non disciplinare; conseguentemente, non è applicabile la procedura prevista dagli art. 503 e 504 stesso decreto per i trasferimenti disciplinari e, non essendo previsto dalle citate norme applicabili né un termine perentorio, né alcunché in ordine al diritto di difesa, il termine per l’adozione del provvedimento è quello ragionevole oltre il quale verrebbero meno le esigenze d’urgenza del provvedimento ed il diritto di difesa è soddisfatto dalla possibilità per l’interessato di far pervenire le proprie osservazioni al dirigente prima dell’emanazione dell’atto. Cass. Sez. Sent. 16/05/2003 n. 7704: Le norme della l. n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo riguardano i procedimenti strumentali alla emanazione da parte della P.A. di provvedimenti autoritativi destinati ad incidere sulle situazioni giuridiche soggettive dei destinatari dei medesimi, caratterizzati dalla situazione di preminenza dell'organo che li adotta, e non sono perciò applicabili agli atti concernenti il rapporto di lavoro alle dipendenze delle P.A., i quali sono adottati nell'esercizio dei poteri propri del datore di lavoro privato, connotati dal potere di supremazia gerarchica, ma privi 2 dell'efficacia autoritativa propria del provvedimento amministrativo; pertanto, all'atto di destituzione dall'impiego adottato all'esito del procedimento disciplinare ed a seguito di sentenza penale di condanna per un reato commesso in servizio, non è applicabile l'obbligo della motivazione stabilito dalla l. n. 241 del 1990, essendo sufficiente che nel medesimo sia indicato l'illecito disciplinare che ha giustificato la risoluzione del rapporto di lavoro, costituendo inoltre l'atto di conformazione al lodo arbitrale di cui all'art. 59, comma 7, d.leg. n. 29 del 1993 un atto dovuto che non richiede alcuna motivazione. Così, Cass. sez. lav. Sent. 18/02/2005 n. 3360: “Dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro, l’Amministrazione gestisce i rapporti di lavoro subordinati utilizzando le stesse modalità dei datori di lavoro privati. Conseguentemente, i principi desumibili dalla l. 241/1990 sull’azione amministrativa trovano applicazione solo in caso di atti o provvedimenti amministrativi, ma non nella normale gestione del rapporto di lavoro, nella quale l’Amministrazione utilizza atti di natura negoziale privata”. Cass. sez. lav. Sent.14/04/2008 n. 9814: Gli atti inerenti al conferimento degli incarichi dirigenziali sono esclusi dalla categoria degli atti amministrativi e vanno ascritti a quella degli atti negoziali, dovendosi quindi fare applicazione delle norme del codice civile in tema di esercizio dei poteri del privato datore di lavoro. Di conseguenza, il giudice (ordinario) può sottoporre a sindacato l'esercizio dei poteri, esercitati dall'amministrazione nella veste di datrice di lavoro, sotto il profilo dell'osservanza delle regole di correttezza e buona fede, siccome regole applicabili anche all'attività di diritto privato. Il rispetto di tali principi a cui è tenuta l'amministrazione datrice di lavoro "procedimentalizzano" l'esercizio del potere di conferimento (e revoca) degli incarichi, obbligando a valutazioni anche comparative, atte a consentire forme adeguate di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte. La violazione di tali principi dà origine a responsabilità contrattuale. Come detto, la violazione delle regole sulla competenza con riferimento agli atti di gestione del rapporto di lavoro non rileva come vizi dell’atto (che amministrativo non è), quanto come causa di nullità dell’atto (di natura privatistica) per violazione di norma imperative ex art 1418, primo comma cc. Così Sez. lav. sent. 05/02/2004, n. 2168: In tema di rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ai sensi dell'art. 59, quarto comma, del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, trasfuso nell'art. 55 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, tutte le fasi del procedimento disciplinare sono svolte esclusivamente dall'ufficio 3 competente per i procedimenti disciplinari (u.c.p.d.), il quale è anche l'organo competente alla irrogazione delle sanzioni disciplinari, ad eccezione del rimprovero verbale e della censura. Ne consegue che il procedimento instaurato da un soggetto o organo diverso dal predetto ufficio, anche se questo non sia ancora stato istituito, è illegittimo e la sanzione irrogata è, in tale caso, affetta da nullità, risolvendosi in un provvedimento adottato in violazione di norme di legge inderogabili sulla competenza; ne' la previsione legislativa è suscettibile di deroga ad opera della contrattazione collettiva, sia per l'operatività del principio gerarchico delle fonti, sia perché il terzo comma dell'art. 59 cit. attribuisce alla contrattazione collettiva solo la possibilità di definire la tipologia e l'entità delle sanzioni e non anche quella di individuare il soggetto competente alla gestione di ogni fase del procedimento disciplinare (Fattispecie relativa a procedimento disciplinare nei confronti di un medico-chirurgo dell’area della dirigenza sanitaria). 2. Codice disciplinare e obbligo di pubblicità mediante affissione Uno dei primo effetti pratici della “contrattualizzazione” del pubblico impiego, in relazione alle vicende giurisdizionali in tema di sanzioni disciplinari, è stata la frequenza dell’eccezione di nullità della sanzione irrogata in assenza di previa affissione del codice disciplinare, per asserita violazione dell’art. 7 dellaL. N 300/1970. Dispone infatti tale norma che “Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano”. Il rigore di tale conseguenza è stato temperato dalla giurisprudenza sia in tema di impiego pubblico, che quindi, in tema di impiego alle dipendenza della PA, sulla base di una sorta di principio sostanzialistico di effettività. Sul presupposto che la previsione richiamata abbia lo scopo di fare previamente conoscere al lavoratore le condotte, specifiche e peculiari all’impresa, che il datore di lavoro non tolleri in ambito lavorativo, si è ritenuto che ogni condotta che l’ordinamento generale consideri illecita in sé (si pensi all’illecito penale) possa essere ritenuta astrattamente rilevante anche nel rapporto di lavoro, a prescindere dalla sua inclusione o meno in un codice disciplinare. Il principio è stato affermato dapprima con riferimento a condotte illeciti così gravi da comportare la sanzione del licenziamento e quindi anche il relazione a condotte illecite meno gravi e comportanti sanzioni disciplinari conservative, in relazione a comportamenti vietati da disposizioni contenute in fonte normativa legislativa. 4 E così: Cass. sez. lav. sent. 07/04/2003 n. 5434: Ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione (nella specie la suprema corte ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto irrilevante la mancata affissione con riferimento alla contestazione mossa ad una dipendente di una casa di cura di avere sottratto generi alimentari dalla mensa della stessa, cui era addetta). Cass. sez. lav. sent. 01/09/2003 n. 12735: Il principio secondo cui l’onere di redazione ed affissione del codice disciplinare non può estendersi a quei fatti il cui divieto risiede, non già nelle fonti collettive, o nelle determinazioni del datore di lavoro, bensì nella coscienza sociale quale minimo etico, è applicabile solo alle sanzioni disciplinari espulsive, per le quali il potere di recesso dell’imprenditore, in presenza di una giusta causa o un giustificato motivo, è tipizzato e previsto direttamente dalla legge, e non anche per le sanzioni c.d. conservative, per le quali il potere disciplinare del datore di lavoro, solo genericamente previsto dall’art. 2106 c.c., esige necessariamente, per il suo concreto esercizio, la predisposizione di una normativa secondaria, cui corrisponde l’onere della pubblicità, a norma dell’art. 7 l. n. 300 del 1970, che ha inteso conferire effettività, anche con riferimento alla comunità d’impresa, al principio nullum crimen, nulla poena sine lege. Cass. sez. lav. Sent. 09/09/2003 n. 13194: Ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione; ne consegue che i comportamenti del lavoratore che costituiscano gravi violazioni dei doveri fondamentali del lavoratore - come quelli della fedeltà e del rispetto del patrimonio e della reputazione del datore di lavoro - sono sanzionabili con il licenziamento disciplinare a prescindere dalla loro inclusione o meno all’interno del codice disciplinare, ed anche in difetto di affissione dello stesso, purché siano osservate le garanzie previste dall’art. 7, 2º e 3º comma, l. n. 300 del 1970. Cass. sez. lav. sent. 09/03/2004 n. 4778: La garanzia, prevista dall’art. 7, 1º comma, l. 20 maggio 1970 n. 300, di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti, si applica al licenziamento disciplinare soltanto quando questo sia intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo 5 previste dalla normativa collettiva o validamente poste dal datore di lavoro, e non anche quando faccia riferimento a situazioni giustificative del recesso previste direttamente dalla legge o manifestamente contrarie all’etica comune o concretanti violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro (nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla suprema corte, aveva ritenuto che la condotta del lavoratore, il quale, in relazione ad un incidente stradale occorso nello svolgimento delle proprie mansioni di autista alla guida di un autoveicolo aziendale, aveva attestato nel verbale di constatazione amichevole modalità del sinistro diverse da quelle reali, rivestisse carattere indiscutibilmente antigiuridico, a prescindere dalla sua gravità o rilevanza penale, donde l’irrilevanza della inclusione di tale condotta nel codice disciplinare e della stessa affissione del codice). Cass. sez. lav. sent. 02/09/2004 n. 17763: Anche relativamente alle sanzioni disciplinari conservative (e non per le sole sanzioni espulsive) deve ritenersi che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta, dovendosi d'altro canto considerare che sarebbe contraddittorio affermare la sussistenza di un interesse del lavoratore ad essere previamente edotto della possibilità di essere destinatario di una sanzione conservativa per i detti comportamenti e negarla in presenza di sanzioni di carattere espulsivo, le quali sono ben più afflittive. Cass. sez. lav. sent. 07/11/2006 n. 23726: Il carattere ontologicamente disciplinare del licenziamento non comporta che il potere di recesso del datore di lavoro per giusta causa o giustificato motivo (già previsto dagli articolo 1 e 3 della legge 604/66) debba essere esercitato in ogni caso previa inclusione dei fatti contestati in un codice disciplinare e affissione del medesima: tali ultimi adempimenti non sono, infatti, necessari in relazione a quei fatti il cui divieto (sia o no penalmente sanzionato) risiede nella coscienza sociale quale minimo etico e non già nelle disposizioni collettive o nelle determinazioni dell’imprenditore. E' legittimo il licenziamento comminato ad un docente per avere espresso pubblicamente, e in forma polemica, aspre critiche alla struttura formativa suo datore di lavoro (Centro di formazione professionale), comportando tale comportamento violazione delle regole di convivenza civile, che impongono il reciproco rispetto e che sono radicate nella coscienza sociale. La successiva divulgazione dei fatti alla stampa messa in atto dal docente costituisce un indice della volontà dello stesso di denigrare 6 la struttura, valendo perciò ad escludere che i fatti addebitati costituiscano soltanto un esercizio, di per se legittimo, del diritto di critica. (Fattispecie relativa a scuola non statale, ma con affermazione di principi di carattere generale applicabili ad ogni contesto lavorativo) Cass. sez. lav. sent. 27/11/2006 n. 25099: In tema di affissione del codice disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, la previsione delle sanzioni e delle relative conseguenze in norme aventi forza di legge - in particolare, per l'amministrazione scolastica, il capo IV, sezione V, del d.lgs. n.297 del 1994 recante le sanzioni disciplinari, le diverse fattispecie di illecito, pur con clausole generali, e il relativo procedimento - garantisce, attraverso la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, la conoscenza da parte della generalità, rendendo inutile la previsione nel codice disciplinare e la relativa affissione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva fatto corretta applicazione del principio esposto in massima in controversia in cui un insegnante, lamentando la mancata affissione del codice disciplinare, aveva dedotto la nullità del richiamo scritto irrogato dall'amministrazione scolastica per aver abbandonato la sorveglianza di una classe senza tempestiva espressione dell'adesione alla partecipazione ad un'assemblea sindacale. La S.C. ha, peraltro, rilevato che il ricorrente non aveva invocato alcuna utile disposizione collettiva capace di derogare alle disposizioni di legge, e che anzi la disposizione collettiva da questi richiamata, l'art. 56 CCNL 5 agosto 1995, rinviava espressamente al citato decreto legislativo). Cass. sez. lav. sent. 08/01/2007 n. 56: Nel rapporto di lavoro degli insegnati della scuola pubblica, ai fini dell'osservanza dell'art. 7 dello statuto dei lavoratori - che prescrive l'affissione delle norme disciplinari vigenti all'interno dell'impresa per rendere conoscibili a tutti i lavoratori le fattispecie di illecito e le relative sanzioni, applicabile anche al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti per il combinato disposto degli artt. 55 e 59 del d.lgs. n. 29 del 1993 - deve ritenersi che, tanto per i comportamenti per i quali è prevista la sanzione espulsiva, quanto per quelli per i quali è prevista la sanzione conservativa, l'affissione non sia necessaria ove il comportamento vietato e la sanzione applicabile siano previsti da disposizioni contenute in fonte normativa avente forza di legge, come tale ufficialmente pubblicata e conosciuta dalla generalità. (Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che correttamente il giudice di merito avesse negato l'obbligo di affissione, in quanto il capo IV, sez. V, t.u. sulla scuola approvato con d.lgs. 16 aprile 1994 n. 297 enumera le sanzioni disciplinari, distingue le diverse fattispecie di illecito e disciplina il relativo procedimento di irrogazione della sanzione). 7 3. Il procedimento disciplinare 3 a) Contestazione degli addebiti (forma e contenuto) La contestazione di addebiti deve avere un contenuto riferito ai fatti (nel loro accadimento materiale e fenomenico) che il datore di lavoro considera rilevanti sul piano disciplinare, con precisione necessaria e sufficiente al fine di consentire il diritto di difesa dal dipendente. Non è elemento necessario della contestazione nè la valutazione del concreto rilievo di tali fatti per il datore di lavoro (essendo questo oggetto della sanzione) né l’indicazione delle norme violate. Cass. sez. unite, sent del 22/08/2007 n. 17827: In tema di giudizio disciplinare nei confronti di professionista, la formale incolpazione non richiede una minuta, completa e particolareggiata esposizione delle modalità dei fatti che integrano l'illecito e l'indagine volta ad accertare la correlazione tra addebito contestato e decisione disciplinare non va fatta alla stregua di un confronto meramente formale, dovendosi piuttosto dare rilievo all'iter del procedimento e alla possibilità che l'incolpato abbia avuto di avere conoscenza dell'addebito e di discolparsi. Tuttavia, anche se sono valorizzabili elementi non desumibili direttamente dal testo della formale incolpazione, è necessaria una adeguata ricognizione dei medesimi e una valutazione della loro idoneità ad esplicitare ed integrare il capo di incolpazione, ipotesi che non sussiste nel caso in cui nei confronti di un avvocato, incolpato dei fatti di cui al capo di imputazione formulato in sede penale dai quali sia stato assolto, oltre che della condotta tenuta in relazione e in dipendenza dei fatti medesimi, connessi e consequenziali, sia applicata la sanzione disciplinare per i fatti accessori contestati. (La S.C. ha ritenuto che detta formula di chiusura era generica ed avrebbe dovuto essere vagliata ed eventualmente giustificata sulla base dell'esame del contesto delle circostanze in cui era avvenuta la promozione del procedimento disciplinare e attraverso cui si era sviluppata la contestazione disciplinare ed altresì della concreta portata della decisione di condanna disciplinare). Cass. sez. lav. sent. del 20/07/2007, n 16132: In materia di provvedimenti disciplinari a carico del lavoratore, l'art. 7 della legge n. 300 del 1970 stabilisce che nessuno di tali provvedimenti può essere assunto senza previa contestazione dell'addebito; ne consegue che, in caso di licenziamento disciplinare intimato per assenza ingiustificata dal lavoro che superi il numero di giorni di assenza previsto dal CCNL (tre nel caso di specie,), il datore di lavoro ha l'onere di indicare specificamente nell'atto di contestazione tutti i giorni di assenza, non potendo essere computate, qualora la contestazione sia relativa ad un solo giorno, le ulteriori assenze del lavoratore intercorse tra la data di invio e quella di ricezione della contestazione medesima. 8 Cass. sez. lav., sent. del 27/03/2009, n. 7523: Il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere, ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva, nonché dei fatti non tempestivamente contestati o contestati ma non sanzionati - ove siano stati unificati con quelli ritualmente contestati - ai fini della globale valutazione, anche sotto il profilo psicologico, del comportamento del lavoratore e della gravità degli specifici episodi addebitati. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva annullato il licenziamento disciplinare e dichiarato l'inidoneità a sorreggere la sanzione espulsiva, per contrasto col divieto del "ne bis in idem", delle ulteriori contestazioni di addebito per fatti pregressi, recapitate al lavoratore ma non seguite da sanzione, neppure dedotte come circostanze aggravanti). Cass. sez. lav., sent. del 02/02/2009 n. 2579: In tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l'esistenza della "causa" idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice - nell'ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall'art. 2119 cod. civ.. (Nella specie, relativa a due condotte di appropriazione indebita, contestate ad un cassiere di banca, e posta in essere mediante doppia contabilizzazione di addebiti sul conto corrente dei clienti, la S.C., nell'affermare il principio di cui alla massima, ha ritenuto la correttezza della decisione della corte territoriale che, pur avendo escluso la riferibilità del primo episodio al lavoratore licenziato, ha valutato il secondo episodio sufficiente a minare definitivamente il vincolo fiduciario nei confronti del dipendente). E sulle contestazioni plurime: Cass. sez. lav. sent. del 18/09/2007, n 19343: Ove venga intimato licenziamento disciplinare per una pluralità di addebiti, la nullità della contestazione di alcuni di questi per mancato rispetto del 9 termine a difesa del lavoratore si estende all'atto di recesso nel suo complesso solo ove risulti provato, ed accertato, che gli addebiti ritualmente contestati, siano di per sé insufficienti a giustificare il licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto nullo il licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di addebiti, a causa dell'anticipazione del licenziamento a momento anteriore alla scadenza del termine a difesa del lavoratore relativo ad alcuni solamente degli addebiti, invitando il giudice del rinvio a riesaminare il fatto e a determinare se, sulla base degli altri addebiti ritualmente contestati, il datore di lavoro avrebbe ugualmente disposto il licenziamento, ovvero se le altre mancanze fossero di per sé insufficienti per giustificare la sanzione espulsiva). Cass. sez. lav, sent. del 14/09/2007, n 19232: In tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, allorquando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice di merito deve esaminarli non partitamente, ma globalmente al fine di verificare se la loro rilevanza complessiva sia tale da minare la fiducia riposta dal datore di lavoro nel dipendente, atteso che la molteplicità degli episodi, oltre ad esprimere un'intensità complessiva maggiore dei singoli fatti, delinea una persistenza che costituisce ulteriore negazione degli obblighi del dipendente ed una potenzialità negativa sul futuro adempimento degli obblighi stessi. Inoltre, ai fini della valutazione della permanenza del rapporto fiduciario tra datore e dipendente va considerato che la fiducia richiesta è di differente intensità a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito per non aver considerato complessivamente la condotta della dipendente infermiera professionale in un ospedale, addetta al blocco operatorio , nella molteplicità delle contestazioni e dei fatti interni alle singole contestazioni, fra le quali medicinali scaduti, attrezzature e supporti medico chirurgici scaduti, mancata sterilizzazione di mobili e suppellettili, ingiustificata presenza di creme per mani di uso personale, nonché cibi e bevande; per non aver valutato i fatti addebitati nell'ambito della peculiare delicatezza della funzione svolta, della conseguente elevata responsabilità e della fiducia che esigeva; per l'inadeguata valutazione della ritenuta assenza di danno all'immagine di una struttura ospedaliera che la divulgazione della notizia propalata dalla lavoratrice - presenza di medicinali, attrezzature e supporti medico chirurgici scaduti - comportava nei confronti del personale dell'azienda e per la diffusiva potenzialità verso l'esterno). 10 3 b) Diritto di difesa Il procedimento disciplinare vero e proprio è oggetto di minuziosa disciplina nei CCNL dei Comparti del pubblico impiego: la contrattazione ha in parte ricalcato la disciplina originariamente contenuta nel D.P.R. n 3/1957, in parte modificandola (così, ad es., è con riferimento al momento di inizio dell’azione disciplinare, ingabbiata in un termine a giorni fissi dalla conoscenza del fatto in luogo dell’impreciso “subito” dell’art. 103 del citato D.P.R. o con riferimento all’anticipazione del momento di obbligatoria sospensione del procedimento disciplinare per la contestuale pendenza di procedimento penale, stabilità nel momento della presentazione della denuncia in luogo dell’effettivo esercizio dell’azione penale di cui all’art 117 del D.P.R. 3/1957). Con riferimento alla “forma” del contraddittorio (orale o scritta), va sottolineata una qualche differenza terminologica tra la disposizione di cui all’art 7 della L. n 300/1970 e quella dell’art 55 del D.Lgs. n 165/2001: se l’art 7 dispone che “Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa. Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. [...] In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa”, l’art 55, quinto comma, del D.Lgs. n 165/2001 ad un primo precetto simile: “Il “[...] dipendente, ... viene sentito a sua difesa con l'eventuale assistenza di un procuratore ovvero di un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato” aggiunge: “Trascorsi inutilmente quindici giorni dalla convocazione per la difesa del dipendente, la sanzione viene applicata nei successivi quindici giorni”). Da tale differenza sembra desumersi la scelta del legislatore, salve diverse disposizioni contrattuali, per un contraddittorio orale (difficile immaginare una “convocazione” che attivi un contraddittorio non sincrono) e dunque la non estensibilità in ambito pubblico del principio espresso da Cass. lav. n. 1661/2008. Cass. sez. lav., sent. del 25/01/2008 n. 1661: L'art. 7 della legge n. 300 del 1970 - il quale subordina la legittimità del procedimento di irrogazione delle sanzioni disciplinari alla previa contestazione degli addebiti, al fine di consentire al lavoratore di esporre le proprie difese in relazione al comportamento ascrittogli - non comporta in ogni caso l'obbligo per il datore di lavoro di convocare il lavoratore stesso per consentirgli di discolparsi oralmente, atteso che è in facoltà di quest'ultimo di esercitare il suo diritto di difesa nella più completa libertà di forme e, dunque, anche per iscritto o mediante l'assistenza di un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisca o conferisca mandato. 11 3 c) Tempestività e rispetto dei termini del procedimento La previsione di termini perentori di conclusione del procedimento disciplinare ed il rigido “ancoraggio” temporale del suo inizio introdotto dalla contrattazione collettiva, pongono prepotentemente la questione della precisa identificazione del dies a quo (termine iniziale) e del dies ad quem (termine finale) del procedimento disciplinare. Sull’immediatezza della contestazione, in assenza di previsioni che pongano un termine rigido. Cass. sez. lav, sent. n. 29480 del 17/12/2008, n. 29480: Nel licenziamento per motivi disciplinari, il principio dell'immediatezza della contestazione dell'addebito e della tempestività del recesso datoriale, che si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso; in ogni caso, la valutazione relativa alla tempestività costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto essere stato rispettato il principio dell'immediatezza in relazione alla contestazione disciplinare intimata dopo quattro mesi dall'ultimo episodio di utilizzo, da parte del dipendente, del telefono di ufficio con il quale erano stati inviati, anche fuori dall'orario di lavoro e nell'arco di un anno, oltre tredicimila brevi messaggi, attesa la necessità di controllare l'estraneità dei messaggi ai motivi di servizio). Cass. sez. lav, sent. del 02/02/2009, n. 2580 : L'intervallo temporale fra l'intimazione del licenziamento disciplinare e il fatto contestato al lavoratore assume rilievo in quanto rivelatore di una mancanza di interesse del datore di lavoro all'esercizio della facoltà di recesso; con la conseguenza che, nonostante il differimento di questo, la ritenuta incompatibilità degli addebiti con la prosecuzione del rapporto può essere desunta da misure cautelari (come la sospensione) adottate in detto intervallo dal datore di lavoro, giacché tali misure - specialmente se l'adozione di esse sia prevista dalla disciplina collettiva del rapporto - dimostrano la permanente volontà datoriale di irrogare (eventualmente) la sanzione del licenziamento, con la precisazione che il requisito dell'immediatezza della contestazione deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando 12 l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo. (Nella specie la S.C. ha ritenuto corretto il ragionamento effettuato dal giudice di merito in ordine all'insussistenza della violazione del principio di immediatezza in presenza di una sospensione cautelare di un cassiere di istituto di credito intervenuta dodici giorni dopo il fatto illecito, della formulazione della contestazione di addebito verificatasi dopo altri ventitré giorni ed, infine, di un provvedimento disciplinare irrogato a due mesi dal fatto). Ma qual è la conoscenza dei fatti necessaria e sufficiente ad integrare in capo all’amministrazione l’onere di attivazione del procedimento disciplinare? Anche laddove sia previsto un termine espresso a giorni di inizio del procedimento disciplinare, da quando comincia a decorrere questo termine? Qual è l’evento determinante a tal fine? Una conoscenza dei fatti che possa definirsi piena. Cass. sez. lav, sent. del 02/10/2007, n 20654: In tema di procedimento disciplinare nei confronti di dipendente pubblico, il termine di venti giorni tra conoscenza del fatto e contestazione dell'addebito previsto dall'art. 24 del contratto collettivo del comparto ministeri ha natura ordinatoria, avendo le parti indicato un parametro di tempestività consentendone tuttavia un'elastica dilatazione per accertamenti necessari al fine di una compiuta conoscenza del fatto. (Nella specie, la P.A. aveva contestato il fatto dopo quasi quattro mesi dalla comunicazione della sentenza penale pronunciata per gli stessi fatti -avvenuti circa sette anni prima - nei confronti del dipendente, il quale in precedenza era stato sospeso cautelarmente dal servizio ma non aveva ricevuto contestazione di addebito; la S.C., ritenendo che il "dies a quo" del termine andasse fissato alla data di acquisizione dei verbali del giudizio penale -non essendo invece sufficiente la conoscenza della sentenza che proscioglieva per prescrizione - ha confermato la sentenza di merito che, con motivazione ritenuta adeguata e conforme ai criteri di ermeneutica contrattuale, aveva qualificato il termine ordinatorio). Cass. sez. lav, sent. del 02/03/2007, n 4932 In tema di procedimento disciplinare a carico dei pubblici dipendenti, nel caso di fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 97 del 2001, che all'art. 10 comma terzo, dopo la sentenza n. 186 del 2004 della Corte costituzionale, stabilisce che i suddetti procedimenti devono 13 essere instaurati entro 90 giorni dalla comunicazione all'amministrazione o all'ente competente per il procedimento disciplinare della sentenza di condanna penale del dipendente, il termine per l'avvio del procedimento decorre dalla sentenza di condanna solo qualora i fatti siano stati conosciuti dall'amministrazione a seguito della comunicazione di tale sentenza e non anche ove anteriormente a tale data l'amministrazione ne avesse già avuto conoscenza, atteso che altrimenti il principio di immediatezza della contestazione, che è elemento costitutivo della potere di recesso disciplinare del datore di lavoro, subirebbe una deroga ingiustificabile dopo l'assoggettamento alle regole proprie dei rapporti di lavoro privati, consentendone l'indiscriminato differimento, contrariamente a quanto si desume dall'art. 5 della legge citata, che nel prevedere la sospensione del procedimento disciplinare in relazione alla pendenza del procedimento penale, presuppone che delle vicende disciplinarmente rilevanti l'amministrazione sia venuta a conoscenza già prima dell'avvio del procedimento penale. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto sussistente la tempestività del procedimento disciplinare, perché avviato nel rispetto dei termini di cui all'art. 10, benché anteriormente al procedimento penale risultasse la piena conoscenza dei fatti da parte dell'amministrazione, che li aveva denunziati penalmente, costituendosi P.C. e disponendo la sospensione dal servizio del dipendente). Cass. sez. lav., sent. del 10/05/2007, n. 10668: In tema di procedimento disciplinare a carico dei pubblici dipendenti, nel caso di fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 97 del 2001 e del contratto collettivo nazionale del comparto ministeri 16 maggio 1995, con riguardo all'ipotesi del rilievo penale dei fatti addebitati, ai fini della sussistenza del requisito della tempestività, l'avvio del procedimento disciplinare con la contestazione può essere differito all'esito dello stesso procedimento penale, senza che si possa applicare, attribuendogli natura perentoria, il termine di venti giorni previsto dall'art. 24, comma secondo del suddetto contratto. Non avendo le parti regolato il regime del procedimento disciplinare applicabile in relazione a procedimenti penali iniziati prima della stipulazione del contratto, ma solo il caso di quelli sospesi, il requisito della tempestività deve essere valutato, seguendo il criterio di ragionevolezza, assumendo il parametro costituito dal termine di centottanta giorni fissato dalla norma contrattuale per riattivare il procedimento sospeso, termine che consente la ponderazione dell'interesse del dipendente pubblico a una sollecita definizione della propria situazione disciplinare con l'esigenza dell'amministrazione di instaurare tale procedimento. (Nella specie - relativa a dipendente sospeso dal servizio nel 1993, riammesso nel 1998 per scadenza del 14 termine, condannato con sentenza di primo grado cui aveva fatto seguito sentenza di appello in data 5 luglio 1999, pronunciata in sede di richiesta di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen., di non doversi procedere per prescrizione, comunicata all'amministrazione il 23 febbraio 2000 - la S.C. ha confermato, correggendone la motivazione, la sentenza di merito che aveva affermato la tempestività dell'azione disciplinare avviata con contestazione notificata il 12 giugno 2000). Sugli effetti della natura recettizia riconosciuta agli atti del procedimento disciplinare, si può affermare che con riferimento alla contestazione degli addebiti possa ritenersi come dies a quo quello della sua conoscenza da parte del dipendente e con riferimento alla sanzione, come dies ad quem , quello della sua emanazione. Tale soluzione del resto è l’unica in linea con la considerazione del momento partecipativo dell’atto come momento autonomo e distinto rispetto all’atto da partecipare. Momento che, come nella notificazione vera e propria, consta almeno di due momenti: quello dell’azione del soggetto mittente che vuole portare a conoscenza del destinatario un atto e che, eventualmente, si avvale dell’intermediazione di altri, e quello dell’azione del soggetto destinatario, che lo riceve, la cui collaborazione è talvolta necessaria in relazione al mezzo utilizzato (si pensi alla racc. a.r.). Ma è anche l’unica in linea con i principi espressi dalla Corte Costituzionale in tema di notifica degli atti giudiziari (Corte Costituzionale - Sent. 26/11/2002 n. 477; Corte Costituzionale - Sent. 23/01/2004 n. 28; Corte Costituzionale - Ord. 12/03/2004 n. 97) ove si afferma che “risulta ormai presente nell'ordinamento processuale civile, fra le norme generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale relativamente alla funzione che sul piano processuale, cioè come atto della sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il notificante - il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario. Conseguentemente, alla luce di tale principio, le norme in tema di notificazioni di atti processuali vanno ora interpretate, senza necessità di ulteriori interventi da parte del giudice delle leggi, nel senso che "la notificazione si perfeziona nei confronti del notificante, al momento della consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario", con salvezza dei relativi termini processuali. Cass. sez. lav, sent. del 21/07/2008, n 20074: In tema di sanzioni disciplinari nei rapporti di lavoro pubblico privatizzato, la contestazione degli addebiti al lavoratore ha natura recettizia e determina, ai sensi dell'art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001, l'avvio della procedura; conseguentemente, il procedimento disciplinare si estingue, ex art. 120, primo comma, del d.P.R. n. 3 del 1957, ove non sia stato compiuto alcun atto nei novanta giorni successivi, decorrenti dalla contestazione al dipendente e non dal momento di emanazione del relativo atto, la cui rilevanza resta meramente interna e prodromica all'avvio del procedimento. 15 Cass.sez. lav., sent. del 09/03/2009, n. 5637 : In tema di procedimento disciplinare nei confronti di dipendente in rapporto di lavoro pubblico privatizzato, l'art. 24, comma 7, del c.c.n.l. comparto Ministeri del 16 maggio 1995 si interpreta nel senso che il procedimento disciplinare si conclude con una declaratoria di chiusura del procedimento per non luogo a procedere disciplinarmente ovvero con irrogazione di una sanzione entro il termine decadenziale di centoventi giorni dalla contestazione dell'addebito (comma 6 del citato art. 24), trattandosi di atti con cui il datore di lavoro esprime la propria valutazione ed esaurisce il proprio potere disciplinare. Ne consegue che la comunicazione all'interessato dell'atto sanzionatorio, per sua natura recettizio, si colloca al di fuori del procedimento disciplinare, riguardando esclusivamente la fase, successiva, di perfezionamento e di efficacia nei confronti del destinatario della sanzione medesima, e non assume rilievo ai fini del rispetto dell'anzidetto termine di decadenza. Che succede se, in occasione della comunicazione “a mani” di un atto al dipendente (contestazione di addebiti, come altro), questi si rifiuti di riceverlo? L’interpretazione giurisprudenziale è rigorosa. Cass. sez. lav. sent. 05/11/2007 n. 23061: Tra soggetti privati, può sussistere, in relazione alle circostanze e purché non sia prescritto per legge o per contratto l'utilizzo di un mezzo specifico (ad esempio con lettera raccomandata, per telegramma, tramite fax, ecc.), un obbligo di ricevere comunicazioni a mano da altri soggetti privati, quando i due soggetti privati siano già uniti da uno stretto vincolo contrattuale, che comporti, o possa comportare, una serie di comunicazioni reciproche, ed anche quella comunicazione specifica si inserisca all'interno del rapporto negoziale. In particolare, quest'obbligo si deve ritenere esistente, quando non sia previsto altrimenti, nell'ambito del lavoro subordinato in forza del vincolo che lega il prestatore al datore, e che comporta perciò, sia pure per ragioni funzionali al rapporto di lavoro e limitatamente ad esse, una soggezione del dipendente al datore di lavoro. Quindi, in un caso di consegna a mano di lettera di licenziamento ad un lavoratore, il rifiuto del destinatario di ricevere tale atto unilaterale recettizio, non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta. (Nella specie, la S.C. ha confermato sul punto la sentenza di merito che aveva ritenuto illegittimo il rifiuto opposto dal lavoratore a ricevere la lettera di licenziamento che il datore intendeva consegnargli a mano all'interno della struttura nella quale lavorava e durante l'orario di lavoro). 16 Cass. sez. lav., sent. n. 26390 del 03/11/2008, n. 26390 : Nel rapporto di lavoro subordinato è configurabile, in linea di massima (giacché non esiste un obbligo o un onere generale ed incondizionato di ricevere comunicazioni scritte da chicchessia e in qualunque situazione), l'obbligo del lavoratore di ricevere sul posto di lavoro e durante l'orario lavorativo comunicazioni, anche formali, da parte del datore di lavoro o di suoi delegati, in considerazione dello stretto vincolo contrattuale che lega le parti di detto rapporto, sicché il rifiuto del lavoratore destinatario di un atto unilaterale recettizio di riceverlo comporta che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta, in quanto giunta ritualmente, ai sensi dell'art. 1335 cod. civ., a quello che, in quel momento, era l'indirizzo del destinatario stesso. (Nella specie, la S.C., enunciando l'anzidetto principio, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto tardiva l'irrogazione del licenziamento disciplinare, giacché intervenuta oltre il termine previsto dalla contrattazione collettiva secondo una scansione procedimentale che muoveva dalla comunicazione degli addebiti, da reputarsi, quest'ultima comunicazione, avvenuta a seguito del rifiuto del lavoratore di ricevere personalmente sul posto di lavoro l'atto di contestazione degli addebiti medesimi). Se tale giurisprudenza, di stampo sostanzialista, aiuta l’amministrazione nelle operazioni di comunicazione degli atti disciplinari al destinatario, consentendo di mettere nel nulla eventuali atteggiamenti ostruzionistici del dipendente, non legittimerà comunque un’azione dell’amministrazione che non sia rigorosa: qualche dubbio di legittimità ad es. potrebbe porsi in relazione alla prassi in essere presso molti uffici scolastici di trasmettere l’atto disciplinare (contestazione o sanzione che sia) alla istituzione scolastica sede di servizio del dipendente destinatario dell’atto per la comunicazione a quest’ultimo. Se tra il momento della trasmissione da un organo all’altro e la consegna (ad es. a mani) dell’atto passassero dei giorni per l’assenza del dipendente o per festività o altro), una tale “procedura” di notificazione potrebbe prestare il fianco ad un evenuale eccezione di tardività, che sarebbe meglio evitare, pur tenendo conto della giurisprudenza sopra richiamata. Sempre con riferimento al termine finale, in una fattispecie particolare: Cass. sez. lav., sent. del 28/09/2006, n. 21032: Il disposto del quinto comma (ultimo periodo) dell'art. 55 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, - secondo cui, con riferimento al procedimento disciplinare, "trascorsi inutilmente quindici giorni dalla convocazione per la difesa del dipendente, la sanzione viene applicata nei successivi quindici giorni" - si riferisce univocamente alla sola evenienza che il dipendente non si avvalga della facoltà di difendersi e, in tal caso, prescrive di applicare la sanzione nel termine di quindici giorni dalla scadenza del primo termine, non essendo necessarie ulteriori valutazioni dell'Amministrazione; tale disposizione non può essere, invece, estesa 17 alla diversa ipotesi (verificatasi nel caso di specie sottoposto al vaglio della S.C.) di audizione del dipendente, in forza del principio secondo cui le norme sulla decadenza, per il loro carattere eccezionale, non sono applicabili oltre i casi espressamente previsti, ai sensi dell'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale. 4. Illecito penale ed illecito disciplinare Si è già accennato delle differenti disposizioni (art 117 D.P.R. n 3/1957 e CCNL) che regolano l’influenza del procedimento/processo penale sul procedimento disciplinare. Come noto, l’art. 117 del D.P.R. 3/57, nel fare riferimento all’”inizio dell’azione penale” allude, come affermato da pacifica giurisprudenza (fra le tante, Cons. Stato, A.P. n. 4/2000 cit; Cons. Stato, comm. Spec. 5.2.2000, n. 479; Cons Stato, sez. VI 29.10.1999, n. 1635; Cons. Stato, sez. IV, 7.5.1998, n. 780) all’evento tecnico-processuale della comunicazione di garanzia ai sensi dell’art. 416 c.p.p. (e cioè il rinvio a giudizio ovvero agli atti ad essa equiparati: richiesta di pena ex art. 444 c.p.p., richiesta di giudizio immediato ex art. 453 c.p.p., richiesta di decreto penale di condanna ex art. 459 c.p.p.). Come noto infatti l’azione penale inizia solo con il compimento di detti atti in base al quale l’indagato assume la posizione di imputato, a ciò non essendo equipollenti la mera presentazione di un esposto o di una denuncia e nemmeno l’iscrizione nel registro degli indagati. Ne consegue che con riferimento al personale al quale si applichi tale disposizione (personale docente) la piena legittimità dell’inizio dell’azione disciplinare nei confronti del dipendente che non abbia (e fino a che non abbia) assunto la qualità di imputato. Con la conseguenza che l’azione disciplinare potrà anche concludersi prima di tale momento. Assolutamente anticipato è invece l’obbligo di sospensione del procedimento disciplinare nelle disposizioni della contrattazione collettiva, come detto anticipato sin dalla presentazione della denuncia (o della conoscenza della pendenza del procedimento penale): la semplice iscrizione del dipendente nel registro degli indagati determina l’effetto sospensivo. 5. Regime delle incompatibilità e azione disciplinare Per espressa previsione dell’art 53 del D.Lgs. n 165/2001 la violazione delle regole sull’esclusività dell’impiego pubblico rileva quale illecito disciplinare. Il problema giuridico che si pone è, con riferimento alle ipotesi che costituiscono cause di incompatibilità assoluta con il rapporto di lavoro (cioè non autorizzabili in astratto) quali quelle indicate nell’art. 60 del D.P.R. n 3/1957 (la cui vigenza è confermata dal primo comma dell’art 53 e quindi con riferimento all’esercizio del commercio, dell'industria, all’esercizio di professione o all’assunzione di impieghi alle dipendenze di privati o all’assunzione di cariche in società costituite a fine di lucro), se la contestazione di tale divieto debba avvenire nella forma ed attraverso il 18 procedimento disciplinare ovvero attraverso il procedimento di decadenza di cui all’art. 63 del D.P.R. n 3/1957, pure esso “salvato” dall’art. 53 D.Lgs. n 165/2001. Cass. sez. lav. sent. del 19/01/2006 n. 967 L'istituto della decadenza dal rapporto di impiego, come disciplinato dagli articoli 60 e seguenti del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, è applicabile ai dipendenti di cui all'art. 2, commi secondo e terzo, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in forza dell'espressa previsione contenuta nell'art. 53, comma primo, dello stesso decreto, e, siccome attiene alla materia delle incompatibilità, è estraneo all'ambito delle sanzioni e della responsabilità disciplinare di cui all'art. 55 dello stesso testo normativo. Il recesso dell’amministrazione potrà avvenire dunque previa semplice diffida al dipendente a fronte della perdurante omessa cessazione della causa di incompatibilità da parte del dipendete. Laddove invece il dipendete facesse cessare la causa di incompatibilità nel termine di cui all’art. 63 D.P.R. n 3/1957, allora gli effetti ulteriori del comportamento del dipendente potrebbero essere fatti valere quale illecito disciplinare. 6. Azione disciplinare e personale docente non di ruolo Come noto, il D.Lgs. n 297/1994 contiene alcune disposizioni (gli artt. da 535 a 549) aventi ad oggetto l’azione disciplinare nei confronti del personale docente non di ruolo. La legittimità di una disciplina diversificata tra personale di ruolo e non di ruolo è stata spesso affermata dalla Corte Costituzionale: con ordinanza 137 del 02/02/1988 ad es. la Corte ha affermato che non è ingiustificata la disciplina diversificata, quanto al regime delle assenze, degli insegnanti non di ruolo rispetto alla disciplina relativa al restante personale statale - attesa la peculiarità della loro posizione (così in particolare, nelle modalità di reclutamento, di assegnazione delle sedi e di conservazione del posto); ne`, d'altro canto, l'identità di regime (nei congedi e nelle aspettative) del personale docente di ruolo e non di ruolo, può essere assunta a riferimento di un'assimilazione, non consentita, attesa la diversità delle situazioni considerate. Non è tanto il principio di uguaglianza che deve fare riflettere circa la sopravvivenza di queste disposizioni quanto piuttosto il combinato disposto degli artt. 55 e 69 del D.Lgs. n 165/2001. Se da un lato, infatti, l’art. 55 del D.Lgs. n 165/2001 compie un operazione di salvataggio “chirurgico” di alcune disposizioni in materia disciplinare del D.Lgs. n 267/1995 (“Fino al riordinamento degli organi collegiali della scuola nei 19 confronti del personale ispettivo tecnico, direttivo, docente ed educativo delle scuole di ogni ordine e grado e delle istituzioni educative statali si applicano le norme di cui agli articoli da 502 a 507 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297”) ampliate al Capo dalla contrattazione collettiva (così l’art. 91 del CCNL 2007: “Per il personale docente ed educativo delle scuole di ogni ordine e grado, continuano ad applicarsile norme di cui al Titolo I, Capo IV della Parte III”), in generale il primo comma dell’art 69 rende inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997, in relazione ai soggetti e alle materie dagli stessi contemplati “le norme generali e speciali del pubblico impiego”, vigenti alla data del 13 gennaio 1994 che cessano in ogni caso di produrre effetti dal momento della sottoscrizione, per ciascun ambito di riferimento, dei contratti collettivi del quadriennio 1998-2001. In tale situazione normativa, le norme disciplinari del personale docente non di ruolo sono le stesse del personale di ruolo, così come il relativo procedimento. 20