LA VOCE
DEL POPOLO
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Tolazzi Pagine 2-3 / RECENSIONI L’apparenza inganna / I Glembay / Oblivion Show 2.0
/ Zuppa di canarino Pagine 4-5 / IL GIRO DEL MONDO IN 80 TEATRI Praga, fascino boemo Pagina 6 / TEATRODANZA
1980 Pagina 7 / CARNET PALCOSCENICO Il cartellone del mese Pagina 8
UN CAFFÈ CON...
Mercoledì, 2 maggio 2012
Carlo Tolazzi
2 palcoscenico
Carlo Tolazzi
N
ato a Malborghetto nel 1954, si è laureato in lettere a Trieste nel 1989 con una tesi
sui Testi friulani della Val Pesarina. Per un
decennio, dal 1983 al 1993, è stato collaboratore
de “Il Gazzettino” di Venezia. Nel 1992 ha vinto
il Premio di narrativa italiana” Carnia-Savorgnan”
e il Premio di narrativa friulana “La torate”, nel
‘94 e nel ‘95 il Premio “San Simòn” di Codroipo.
Carlo Tolazzi, dopo aver lavorato come scrittore e
giornalista per alcuni anni, scrive per il teatro dal
2000. Con il monologo in carnico “Resurequie”
vince il premio “Candoni-Arta Terme” per la nuova drammaturgia. Seguono diversi altri drammi:
“Chi di spada”, “a+b>c”, “Tunnel” scritto con Fabio Alessandrini nel 2009, “Qui tollis peccata mundi” nel 2010, fra i quali anche alcuni lavori specifi-
ci inerenti la storia e la tradizione popolare carnica,
“Cercivento” nel 2003, “Indemoniate”, scritto con
Giuliana Musso, nel 2006 e “Portare” nel 2008.
“Cercivento” e “Indemoniate” sono storie
vere. La prima accadde sui monti della Carnia il
23 giugno 1916. Un’accusa, ingiusta, di insubordinazione per 80 alpini, molti dei quali scontarono una dura detenzione e quattro furono fucilati.
Le indemoniate di Verzegnis, piccolo paese della Carnia, racconta di una fatto accaduto a partire dalla primavera del 1878, che vide coinvolte una ventina di donne. Possedute dal demonio
o semplicemente esauste per la fame e il troppo
lavoro? Si scatenò un conflitto tra potere civile e
chiesa e la diatriba si trascinò anche sulle pagine
dei giornali.
di Rossana Poletti
L’appartenenza alla comunità friulana o meglio carnica è
molto forte nella sua scrittura,
in particolare mi riferisco ai
due lavori teatrali “Cercivento” e “Indemoniate”. Quanto
ha contato questo fatto nelle
motivazioni che l’hanno condotta a scrivere di teatro.
L’appartenenza e tutto ciò che
riguarda le origini sono implicite, per il fatto che per me la scrittura teatrale è una necessità. Nasce da cose che possono toccarmi ed evidentemente mi toccano
moltissimo le cose che in qual-
che modo ripercorrono le mie
origini e le mie radici.
Le radici poi, raggiunta
una certa età, rappresentano
un’esigenza ancor più forte, se
così si può dire.
Forse anche perché il patrimonio che si riesce a costruire in
un periodo lungo della vita ci indirizza verso determinate corde,
che sono le corde che ci fanno
vibrare più facilmente. Non credo che sia una questione di temere la perdita, credo piuttosto che
sia una questione di incontri più
facili man mano che si va avanti
con l’età.
Nelle nostre personali memorie ci sono le malinconie dei
ricordi, ed è vero invece che nei
suoi testi, e parliamo sempre di
“Cercivento” e delle “Indemoniate”, c’è più semplicemente
una rigorosa memoria storica
e la denuncia dei fatti.
Nel mio modo di intendere
la proposta teatrale bisogna tener presente che, se il racconto
non è accompagnato da un forte legame con il presente, se cioè
quello che vado raccontando non
è metafora dei rischi che corriamo oggi, non mi sento di scrivere cose che sarebbero pura archeologia.
Gli artisti che hanno messo
in scena “Cercivento” sono stati veramente straordinari (ndr
Riccardo Maranzana e Massimo Somaglino raccontano l’ultima notte di vita di due soldati
condannati a morte).
È fondamentale un lavoro di
sinergia. Dal punto di vista del
testo tutto parte dalla necessità,
se c’è la necessità dal testo esce
l’anima.
Qual è stata la sua necessità, di quando intendo ha cominciato a scrivere.
È stata una scintilla che è
scoccata dentro ad un certo punto della mia vita. Ha a che fare
con l’impegno. Io faccio teatro
civile, che è un modo per trasmettere dei messaggi. Il caso di
“Cercivento” nella fattispecie è
l’ingiustizia, il fatto che si possa passare sopra una strage perché ci sono molti morti, quando
è invece la vita di ogni singola
persona che, nel momento in cui
viene cassata, diventa una tragedia. È questo che mi fa rabbrividire al giorno d’oggi, il fatto che
si possa morire perché un altro
decide che tu devi morire.
E poi quanta stupidità ammanta il potere, condizione
oggi molto evidente, ma che
probabilmente è di sempre.
Infatti il lavoro si riferisce
a cent’anni fa, ma ha attualità
molto stringenti. Dobbiamo essere grati a questo mondo che va
in questa maniera così balenga,
mantenendo così vive le nostre
opere teatrali, ma è ovviamente una battuta. “Tunnel” che ho
scritto con Alessandrini parla di
droga che ammazza i calciatori e
partite comperate. Apra il giornale, guardi quanto c’è di attuale. Ma la storia che raccontiamo
noi si riferisce a un lavoro degli
anni settanta; e non è cambiato
niente da quella volta.
Veniamo a “Buone vacanze”,
lo spettacolo che lei ha scritto
e che Maurizio Zacchigna interpreta per la Contrada. Qui
la Storia non c’entra, le radici sono marginali, qui c’è una
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Mercoledì, 2 maggio 2012
visione intima di un rapporto
bambino - adulto. Quanto c’è
di autobiografico nei tre episodi che lo compongono.
C’è molto di autobiografico
per quanto riguarda la realtà di
queste tre storie. Sono sostanzialmente vere perché le ho incontrate tutte e tre in diverse fasi
della mia vita. C’è molto di autobiografico nella figura della madre del primo quadro. Non c’è
autobiografia nella denuncia che
lo spettacolo si propone e cioè la
denuncia dell’assenza di una figura paterna nell’ambito familiare, che è il trait d’union di tutti e tre i quadri e che può provocare veramente dei disastri nella
vita delle persone che crescono
senza questa presenza.
Recentemente Stefano Zecchi ha scritto “Quando ci batteva forte il cuore”, romanzo
sull’esodo ma che egli presenta ricordando l’esigenza di un
recupero della figura del padre al giorno d’oggi. C’è quindi l’emergere di una questione sociale abbastanza sentita
in questo senso, che però nel
primo dei tre racconti sembra
echeggiare l’assenza della figura paterna come una questione
vecchia come il mondo.
Non so se sia possibile allargare a tanto la metafora, la similitudine. Io vedo che la condizione che alla madre sia affidata la
cura dei figli nei primi anni di
vita e che il padre, dopo la donazione dello sperma, possa tranquillamente fregarsene di tutto
e continuare la sua vita normalmente, è ancora molto radicata.
A un bambino mancano così
metà delle istruzioni per l’uso
della vita.
Si affidano le tappe della vita
ad enti che non sono la famiglia, salvo poi pretendere di correggere l’opera che questi enti
fanno. Mi riferisco alla scuola
che è l’esempio più eclatante.
In quanto a quello che lei o gli
altri spettatori poi leggono nello spettacolo, vorrei citare Roland Barthes il quale affermava
che “un’opera d’arte si modifica man mano che c’è la sua fruizione”. Sono convinto che alcune cose, che c’erano nella penna ma non nella consapevolezza
della scrittura, vengano lette dagli spettatori quando vedono il
lavoro teatrale.
È questa è la grande magia
del teatro. Cosa c’è tra i progetti per il futuro?
Adesso sto facendo un lavoro per il Comune di Reana del
Rojale, nella provincia di Udine,
che tratta del paesaggio, di quello che sono le rogge: captazioni d’acqua, che attraverso canali
viene portata dove non c’è, allo
scopo di irrigare i campi. Ai lati
di queste rogge fiorisce un certo
tipo di ambiente culturale e professionale. E poi sto preparando
qualcosa per il Mittelefest di luglio a Cividale, un progetto che
la Farie Teatrâl furlane (ndr. centro stabile di produzione teatrale e di studio nell’ambito della
lingua e della cultura friulane) e
il Teatro Nuovo di Udine stanno
allestendo.
Un occhio sempre al territorio, le rogge sono un patrimonio ambientale “in via di estinzione”, causa il degrado e l’inquinamento.
Adesso c’è l’acquedotto e le
rogge hanno perso un po’ la loro
funzione, ma il mio lavoro vuole
andare proprio nella direzione di
che cosa ci riserva il futuro.
Il futuro è nelle mani di ciò
che si è fatto nel passato.
Ad esempio il silenzio con
cui scorre quell’acqua è il silenzio dell’erba che cresce, come
similitudine, cioè è il silenzio di
qualche cosa che c’è. Ma la cosa
più importante è se noi siamo capaci di ascoltare e poi di utilizzare quella cosa.
Carlo Tolazzi
Buone vacanze. Trilogia con muro, b
Al Fabbri con Maurizio Zacchigna
Buone vacanze. Trilogia con muro, borsa e bambino
Trieste. Teatro dei Fabbri. La Contrada produce “Buone vacanze. Trilogia con
muro, borsa e bambino” di Carlo Tolazzi,
affidandolo all’interpretazione di Maurizio Zacchigna. Perché questo titolo e cosa
c’entrano il muro e la borsa con un bambino. In realtà lo spettacolo consta di tre episodi distinti, tutti legati a fatti realmente.
Sono tre storie che raccontano di una società che dedica sempre meno tempo all’educazione, alla crescita e semplicemente ad
amare i propri figli. Le parole in questione sono la chiave di collegamento tra le tre
vicende.
Un muro è nel primo caso come un telo
bianco sul quale far scorrere i pensieri, i sogni, le idee, sul quale proiettare le proprie
speranze, facendo finta che il mondo non
esista, con tutte le sue brutture, le sue ingiustizie. È il muro che la madre di Carlo,
protagonista del primo episodio, ha affrontato già da piccola a scuola in castigo per
tre mesi proprio contro quello stesso muro,
senza aver compiuto nulla per cui essere punita. E proprio quel muro le ha insegnato ad
affrontare le avversità, come essere abbandonata dal marito quando ancora il figlio
era piccolo. È una madre fantasiosa che per
lui, per il suo bene, suggerisce espedienti
stravaganti, come leggere tutto con la erre
moscia, ma parlare invece comunemente in
modo corretto, gettando nello sconcerto gli
altri ignari del trucchetto. Una madre che
cerca di vivere assieme a questo bambino
cresciuto senza un padre “con la leggerezza di cui sapeva avvolgere anche le spine”,
dirà di lei il bambino divenuto adulto ricordandola; che del terremoto aveva avuto da
dire al prete che i campanili rimasti in piedi
erano dita puntate al cielo contro Dio, asserendo che “Lui o è malvagio o non è onni-
potente”, ma guai ad affermare che Dio non
esiste. Ornella Vanoni in sottofondo canta
“Stiamo bene io e te” a sottolineare il particolare rapporto che lega una madre sola al
suo bambino, alla particolare cura con cui
lo cresce, alla fusione di spirito che tra i due
si crea. È il più bello dei tre racconti questo, e Maurizio Zacchigna sembra proprio
essere il figlio di quella donna strana, che in
qualche modo tutti ci sentiamo di amare per
le sofferenze che ha vissuto, ma anche per il
sogno che ha realizzato attorno a sé.
Nel secondo episodio Carlo è un bravo
ragazzo che ha conosciuto Andrea, il classico bulletto di periferia. Assieme meditano uno scherzo ai danni di Giacomo, ragazzo di colore adottato da una famiglia molto
benestante. Lo scherzo finirà con gli schizzi di sangue rosso contro il muro bianco di
una cantina, dove lo scherzo andrà oltre le
intenzioni di Andrea, mentre Carlo rimarrà
a guardare incapace di porre un freno alla
stupidità del giovane. Trenta anni ad Andrea e sette a Carlo, che in carcere imparerà il mestiere dell’infermiere e sulle note di
“Emozioni” di Battisti urlerà la sua volontà
di non avere figli. Ragazzi lasciati soli, senza regole e soprattutto senza esempi di vita,
se non quella bruciata dall’assenza e dalla
noia. Zacchigna si immedesima nei tre ruoli
e li cambia freneticamente, ben rappresenta
i momenti della paura e dell’incapacità di
giustificare il gesto alle autorità.
Carlo è un infermiere, i suoi pazienti
sono bambini. C’è n’è uno che non parla,
fisso contro un muro, non comunica. Non
ha nessuno, solo una zia ogni tanto viene
per il cambio della biancheria. Dopo alcuni
tentativi Carlo riesce ad entrare in sintonia
con lui, complici le ombre cinesi proiettate
su quel muro e alcune cassette di film che
gli fa vedere. Fra poco il bambino verrà dimesso e tornerà purtroppo a quella dimensione di solitudine e mutismo che è fin troppo evidente appartenergli anche fuori dalle
mura dell’ospedale. Carlo vorrebbe trattenerlo, magari mettendolo in un borsone nel
quale porta le tute della squadra di calcio
che allena. Ecco la borsa, quella stessa che
è servita per attirare nello scherzo il povero Giacomo, facendogli credere che contenesse un tesoro rubato, la stessa che nel
primo episodio conteneva lui, quando sua
madre presentandosi al matrimonio di suo
padre, ovviamente con un’altra donna, gli
disse “congratulazioni, questo è il mio regalo di nozze”.
Marcela Serli è la regista dello spettacolo. Accanto ad una selezione di brani scelti
da lei, arricchiscono l’atmosfera di “Buone
vacanze. Trilogia con muro, borsa e bambino” le musiche originali di Edy Meola.
(Poscaro)
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Da un’idea assurda una vita nuova
L’APPARENZA INGANNA
Da un’idea assurda una vita nuova
T
rieste. La Contrada. Mi piacerebbe dire
bene de “L’apparenza inganna” perché
a me personalmente Maurizio Micheli
piace molto. Qualche anno fa a Trieste si propose nel monologo de “Il contrabbasso” e la
sua fu un’esibizione straordinaria. Poi però lo
ritrovo qui in questo allestimento, che è purtroppo la fiera delle banalità. Nelle intenzioni
del suo autore, Francis Veber, dovrebbe aprire
uno squarcio sui luoghi comuni e sulle stupidità che aleggiano attorno alla condizione degli
omosessuali. Resta il fatto che in questo allestimento l’ironia si perde e allo spettatore resta il gusto di uno spettacolo, che avrebbe potuto essere e che invece non c’è. In realtà non
è la capacità dei singoli ad essere messa a mio
parere in discussione, è la scelta registica ad
essere errata. In particolare Tullio Solenghi si
attarda in un’interpretazione sguaiata e fuori
misura, sia quando denigra la condizione gay,
sia quando ne tesse gli elogi. Maurizio Micheli
sembra spento e le due donne, Sandra Cavallini e Fulvia Lorenzetti, l’una moglie del protagonista, l’altra avvenente segretaria del presidente, sono sempre troppo sopra le righe.
“L’apparenza inganna” nasce in Francia
sotto forma di film nel 2000, diretto dallo
stesso Francis Veber, con la partecipazione
di Gerard Depardieu.
La storia, che in questa trasposizione teatrale gioca con personaggi italiani, è origi-
nale: il protagonista Pino Tricarico (Maurizio Micheli) si trova non visto ad ascoltare
una conversazione del suo capo del personale Ercole Spadoni, Nomen omen (Tullio Solenghi), che annuncia il suo licenziamento,
per contenimento delle spese. Già depresso,
perché la moglie lo ha lasciato e il figlio adolescente lo ignora, vorrebbe togliersi la vita.
Casualmente suona alla porta il suo nuovo
vicino di casa che gli propone la soluzione
a tutti i suoi problemi: fingersi omosessuale.
In azienda, quando la notizia viene opportunamente veicolata, ci sono nello stupore generale, le reazioni dubbiose del proprietario
che si vede costretto a non poterlo licenziare, poiché essendo un produttore di profilattici, rischia di farsi una pessima pubblicità.
Una serie di equivoci saranno ovviamente protagonisti di una commedia, non senza
qualche lieto fine: il figlio, ad esempio, che
si riavvicina al padre trovandolo in qualche
modo finalmente originale, diverso dall’idea
di “ometto” che si era fatta di lui; il capo del
personale che da “macho” sfegatato, diventa
difensore della causa degli omosessuali, a tal
punto da concepire la sua apparizione in una
campagna promozionale del prodotto profilattico, assieme all’icona gay che Tricarico è
finalmente diventato. Questi è ormai un altro
uomo, la nuova condizione gli dà sicurezza e
personalità, contrariamente alle premesse in
cui l’imbarazzo imperava ovunque. Da gay
riconosciuto e dichiarato conquisterà senza
alcuna difficoltà la giovane segretaria alla
quale prima aveva fatto un’inutile e ridico-
la corte serrata. In scena, assieme ai già citati
artisti, ci sono Massimiliano Borghesi, Paolo Gattini, Adriano Giraldi, Matteo Micheli e
Enzo Saturni. (rp)
Oggi, ovvero ieri allo specchio
I GLEMBAY
Oggi, ovvero ieri allo specchio
P
ola, Teatro Popolare Istriano. Siamo
nel salotto della famiglia Glembay. Il
dramma scritto da Miroslav Krleža e
messo in scena dal teatro Nazionale di Zagabria ha la regia di Vito Taufer.
Siamo nel salotto, dunque, dove Leone
Glembay (Danko Pleština) dialoga con suor
Angelica Glembay (Olga Pakalović). Entrano in scena Fabriczy Glembay (Zvonimir
Zoričić), il dr. Altmann (Žarko Potočnjak),
padre Alojzije Silberbrandt (Goran Grgić),
l’avvocato Puba Fabriczy-Glembay (Bojan
Navojec) e Naci Glembay (Ljubomir
Kerekeš), il capostipite. Manca lei, la baronessa Castelli-Glembay (Alma Prica), e il
tracollo può iniziare.
La ricca e intellettuale famiglia è allo sfacelo già prima che i personaggi prendano il
loro posto, prima che la baronessa apra le
porte alla fine. I Glembay forse hanno appena un lontano sentore che la famiglia è ormai caduta e decaduta, ma certo non lo danno ad intendere. Il salotto buono è quello di
sempre, i discorsi sono quelli di sempre, solo
che... sul divano, in poltrona, dietro la scrivania, la catastrofe si è accomodata.
La famiglia si sgretola su tutti i fronti: i ritratti dei notabili sono la dimostrazione di un
passato splendore, di una potenza ormai corrosa. Il capofamiglia non può tenere assie-
me una famiglia che i sentimenti, i segreti, le
cattiverie e quant’altro dividono. Un’esplosione. Ed ogni piccolo pezzettino di quella
che è stata una solida colonna della società
va per percorsi diversi. Non suoi. Ognuno
avrà forse la fine che giorno dopo giorno, errore dopo errore si è costruito.
I Glembay sono sui giornali: non già per
successi negli affari quanto per il suicidio di
una povera donna. Le colpe ricadono sulla
baronessa, che in carrozza ha investito e ucciso la suocera della sarta suicida. Ed allora su di lei dovrebbe gravare anche il suicidio. La discesa morale è accompagnata dal
tracollo finanziario, o forse le due cadute
sono anime gemelle. La morte si paga con
la morte. Il riscatto deve essere uguale alla
colpa. Morirà nel sangue anche la baronessa. “Signor dottore, hanno ammazzato la baronessa.” Ma prima di arrivare all’epilogo,
ci sono dolorosi scheletri da togliere dall’armadio, altarini ben coperti anche di polvere
da scoprire.
Una catarsi dolorosa, che trasforma l’uomo in animale.Non è facile Krleža. Certo “I
Glembay” non li si va a seguire per divertimento. È il classico dei classici. Eppure,
quanta modernità, quanta attualità, per meglio dire nei personaggi e nella trama. Perché la messinscena non è moderna: forse è
tra le rappresentazioni la più classica. L’attualità sta nel vedere i personaggi svestiti dagli abiti del tempo e con addosso la moda di
oggi. Perché anche oggi c’è una fine finanziaria figlia della spregiudicatezza e del rischio; ancor oggi si è in bilico tra l’essere e
l’essere contro, tra coscienza e calcolo. Chissà, forse l’oggi altro non è che quello che di
ieri ci rimanda lo specchio.
Cierre
cenico
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Tutte le manie della nostra società
OBLIVION SHOW 2.0
Tutte le manie della nostra società
T
rieste. Politeama Rossetti. Tutto cominciò qualche anno fa. Gli Oblivion erano cinque ragazzi che si divertivano a
cercare negli archivi della Rai tanto materiale del varietà vecchio stile, anni Cinquanta,
Sessanta e Settanta, quando il prodotto era di
qualità, gli artisti erano preparatissimi, le reti
televisive erano una, al massimo due, e tutti
stavamo lì incollati, soprattutto il sabato sera,
per quell’appuntamento che unificava il sentire nazionale. Poi questi novelli Cetra spararono su “youtube” un loro video che riproduceva
una parodia dei “Promessi Sposi in 10 minuti”. In poco tempo si sparse la notizia, migliaia di persone andarono a guardarsi questo breve divertentissimo filmato, provate anche voi.
Nel giro di un anno, complice il Teatro Stabile
del FVG, che ne produceva gli spettacoli, e la
regia di un tale di nome Gioele Dix, il successo esplose in maniera così fragorosa da riempire i teatri di tutta Italia. Non gli si rende giustizia a chiamarli novelli Cetra, ma del popolare quartetto di un’epoca che non c’è più hanno
raccolto alcune caratteristiche: sanno canta-
re bene, sanno recitare, uno suona la chitarra,
ballano egregiamente, hanno un senso del ritmo e dei tempi teatrali che pochi possono vantare di questi tempi. Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda, Fabio Vagnarelli, questi i loro nomi, hanno
sfornato l’altra sera al Rossetti una valanga di
nuove parodie e di invenzioni musicali. Danno libero sfogo alla fantasia poetica con “L’infinito” di Leopardi (Silvia gli dice “o me o la
siepe”) e “La cavallina storna” di Pascoli, un
ritorno sui banchi di scuola per i tanti ragazzi che riempiono fisicamente la platea del teatro, ma non certo noioso come ci è sembrato ai
nostri tempi il mandare a memoria le strofe di
quelle liriche, bensì un percorso musicale stile Hollywood, con una digressione nella Bollywood e nella mania dell’antistress, del benessere a tutti i costi e dello yoga risolutore di
tutti i mali dell’umanità.
Sono divertenti, ironici, fanno ridere tutto il teatro a crepapelle, ma non gli si può
dire che siano banali. Le loro gag osservano
e fotografano tutte le manie, le ossessioni, le
furberie della nostra società e ce le sbattono in faccia, facendoci sì divertire, ma non
senza un messaggio: speriamo che arrivi. Lo
spettacolo prosegue spedito, senza pause,
senza intoppi, passando per una radiografia
dello studente tipo, un po’ deficiente, magari
di un istituto techno, si arriva al nuovo grande kolossal: Pinocchio, con le sue bugie sulle note delle “tagliatelle di nonna Pina”, il
grillo parlante che canta Cri, cri (Chi, Chi di
Zucchero) e il gatto e la volpe falsi invalidi, la fata turchina che intona Mina in Blu le
mille “balle” blu. A Mangiafuoco Pinocchio
ricorda “non son legno di tec” (sulla musica
di “non sono degno di te”) e, diventato asino, si becca un bel “pacco”, ricordate quello
di Jannacci? E non finisce qui, affianco a Benigni e Gassman a leggere Dante viene chiamato Rex; un bel abbaiare del famoso cane
detective ci introduce con una “guida” satellitare, il “Caronte dimonio dagli occhi di bragia”, in un inferno popolato dai sodomiti, in
versione Cugini di campagna, e ancora Ulisse, il conte Ugolino e Paolo e Francesca, la
coppia trasgressiva per eccellenza. A proposito di trasgressioni, gli Oblivion non potevano non mettere in campo le marachelle di
Berlusconi che per tanto tempo hanno devastato i tg di tutta Italia e non solo.
Lo fanno con un esilarante Burlesque,
pieno di “deliziose” donnine pronte a vendersi per un posto in parlamento o da ministro.
Il modo è quello della tradizione del Caffè
Chantant, “non è uno spogliarello, chiamalo
Burlesque. È la tradizione della buona società, l’uomo vuole distrazione e c’è chi gliela
dà” – cantano -, salta fuori una Ruby rubacuor in versione Nini Tirabusciò e tutti insieme concludono in coro “meno male che
ora c’è il BERLUSQUE”. Ironia della sorte, il giorno dopo il debutto degli Oblivion al
Rossetti su tutti i tg appaiono le dichiarazioni
del vero Berlusconi che, a proposito dei festini ad Arcore, afferma che erano solo delle
gare di Burlesque. Sono preveggenti i nostri
eroi, o suggeritori! Concluso lo spettacolo i
bis sono d’obbligo, il pubblico non se ne andrà senza quelle due o tre uscite in più, che
sappiamo essere in scaletta. Senza la chiusura con i Promessi sposi, il pezzo che li ha resi
famosi, non sarebbe possibile finire.
Rossana Poletti
Quando le stelle si spengono
ZUPPA DI CANARINO
Quando le stelle si spengono
I
mpietoso, Miloš Radović, nel delineare il
rapporto uomo-donna. Al microscopio, ma
forse sarebbe più giusto dire “sotto i ferri”
Lui (Rade Radolović) e Lei (Dora Lipovčan),
dieci anni di differenza che sulla bilancia della
vita pesano dalla parte di lei. Innamorati, vedono l’innamoramento diventare prima amore
poi quotidianità ed infine allontanamento totale. Con non poco rancore e non poche colpe, vere o presunte che siano. L’indifferenza li
rende due perfetti sconosciuti, che dopo aver
diviso tanto non hanno più da dirsi niente.
“Zuppa di canarino” ha, accanto alla
firma di Miloš Radović, la regia di Mario
Kovač. Storie di tutti i giorni. Con qualche
dettaglio, peraltro irrilevante quando il totalizzatore somma la vita.
Lei e Lui. I dieci anni di differenza non
vogliono dire niente. Non è la differenza
d’età che li porta all’allontanamento. Semplicemente l’amore è finito. Il sacro fuoco si
è spento. La fiamma ha trasformato i due in
cenere. Succede. Capita di risvegliarsi accanto ad una persona con la quale non si vuole
dividere il domani. Ed allora ognuno affronta il domani di suo. Ma di che cosa è fatto il
passato? È fatto di incontri, della conoscen-
za, dell’innamoramento, dell’amore, della
vita a due, di figli, di notti insonni a cullare i
figli, dei giorni ad accudirli. A respirare per
loro. A vivere per loro. A dare loro cuore e
parole. Spesso togliendoli all’altro.
Finché un giorno i figli cresceranno ed
andranno per la loro strada. Resteranno Lei e
Lui, con mille piccole accuse, cose da rinfacciare, un dialogo interrotto e rotto al punto
da non poter essere più ricucito. Sostanzialmente perché manca la materia prima, quel
filo che viene dal cuore, ormai vuoto.
Fine di un amore? No. Solo il campanello
d’allarme, un sogno che non deve essere premonitore: solo un sogno che vuole essere un
invito a non cadere nel tranello dell’ovvietà, nel non mettersi in seconda fila lasciando
spazio sempre e solo agli altri (anche se sono
figli), a non scegliere la panchina in una partita che ci vuole titolari. Un invito a tenere il
cuore sempre pieno del sentimento che ci ha
messi insieme: se si dovesse vuotare, si riempirà di amarezza, rancore, delusione.
“Zuppa di canarino” è un sogno. Fatto ad
un soffio dal matrimonio, quando i preparativi, se non sono finiti è solo perché non è ancora giorno. (Ro)
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IL GIRO DEL MONDO IN 80 TEATRI
Praga, fascino boemo del Nazionale
e del teatro degli Stati
Praga, fascino boemo del Nazionale
e del teatro degli Stati
I
l Teatro Nazionale di Praga (Národní Divadlo) è il
più famoso teatro d’Opera
boemo ed è considerato monumento nazionale della Repubblica Ceca.
L’Opera di Praga fa parte
del patrimonio storico e culturale ceco ed è simbolo di una ricca tradizione artistica e musicale
sostenuta da sempre dalle più importanti personalità della società
boema. Il progetto fu proposto
fin dall’inizio del Risorgimento e
cominciò ad essere avviato verso
la seconda metà dell’Ottocento,
quando il Comitato per la costruzione del Teatro Nazionale organizzò le prime raccolte di fondi.
Nel 1862 fu costruito sul terreno
vicino alla Moldava il cosiddetto “Teatro provvisorio”, che più
tardi divenne parte integrante
dell’edificio. Il 16 maggio 1868
fu posta la prima pietra della
struttura e il cantiere fu affidato
all’architetto Josef von Zítek. Il
teatro venne inaugurato l’11 giugno 1881: due mesi dopo, probabilmente per colpa di alcuni lattonieri imprudenti, prese fuoco e
andò distrutto il tetto. Per fortuna, in un solo mese, i cittadini di
Praga raccolsero un milione di
corone d’oro per la sua ricostruzione e, dopo altri due anni, la
“cappella d’oro” fu riparata secondo i progetti di Josef Schulz.
La riapertura al pubblico si ebbe
il 18 novembre 1883 con l’opera “Libuše” di Bedřich Smetana.
Oggi il Teatro Nazionale consta
di tre complessi artistici - opera, balletto e teatro - che alternano le esibizioni nello storico edificio del Teatro Nazionale, nel
Teatro di Stato ed al Teatro Kolowrat.
Il Teatro degli Stati di Praga
(Stavovské Divadlo) è uno storico teatro in stile rococò, tra i più
antichi e famosi di tutta l’Europa. Il nome richiama gli “Stati” che costituivano la Corona
Teatro Nazionale
di Boemia. Venne progettato da
Anton Haffenecker e costruito in
poco meno di due anni.
Venne inaugurato nel 1783 con
la rappresentazione del dramma
“Emilia Galotti” di Lessing e in
esso si tennero le prime di due celeberrime opere di Mozart: il “Don
Giovanni” il 29 ottobre 1787 e “La
clemenza di Tito” il 6 settembre
1791.
Nel 1798 acquisì il nome di
Teatro Reale degli Stati, nel 1892
venne intitolato in Teatro Reale
Provinciale Tedesco; dal 1920 al
1948 si riprese il nome di Teatro
degli Stati.
Nel 1948 venne unito al nuovo Teatro Nazionale. Nello stesso anno0 cambiò nome e divenne
Teatro Tyl (in onore del drammaturgo drammaturgo J.K Tyl) e tale
rimase fino al 1990 quando, dopo
una ricostruzione durata otto anni,
divenne noto come Nuovo Teatro
Nazionale.
Posa della prima pietra per il Teatro Nazionale
Teatro degli Stati
Il Teatro Nazionale all’inaugurazione nel 1881
Teatro degli Stati
palcoscenico 7
Mercoledì, 2 maggio 2012
1980, attraverso il prato che è la vita
TEATRODANZA
1980, attraverso il prato che è la vita
L
a Schwebebahn (ferrovia
teleferica) corre sospesa
sul letto tortuoso del fiume
Wupper; le ruote scivolano silenziosamente sulla grossa piattaforma di ferro sostenuta da imponenti tralicci saldamente ancorati alla
riva. Wuppertal è una città in bilico
fra terra e cielo, fra le colline su cui
sorgono palazzi signorili e l’acqua
che gorgoglia nel fondovalle, fra il
cielo costellato dalle arcate chiarissime degli aeroplani ad alta quota e i boschi intrisi di umidità e di
umori vegetali. La Schwebebahn
fu costruita a fine ‘800, all’epoca
d’oro dell’ingegneria. Nel luglio
del 1950 Tuffi, un cucciolo di elefante, dopo aver pagato il biglietto con i marchi che teneva stretti
nella proboscide, salì su un vagone
insieme al personale del circo accampato alla periferia della città.
Dopo poche centinaia di metri, impaurito probabilmente dalle oscillazioni, si gettò nel fiume proprio
di fronte al Teatro dell’Opera. Nonostante iI Wupper sia profondo
solo una cinquantina di centimetri, l’elefantino se la cavò con poche escoriazioni e una fotografia in
bianco e nero lo immortala mentre
esce dall’acqua accompagnato da
un domatore; Tuffi è anche ritratto
su un grande murales che si trova
lungo la Schwebebahn a pochi metri dal luogo dove avvenne lo storico tuffo; nel disegno ha le zampe
divaricate e un muso allegro e preoccupato allo stesso tempo.
In primavera, la pioggia che
cade fina e insistente trasforma le
aree verdi di Wuppertal in un immenso prato: l’erba cresce rigogliosa ovunque, ai piedi dei tralicci
della Schwebebahn e nelle aiuole
che si trovano di fronte al Teatro
dell’Opera.
Passeggiata
nella solitudine
Anche la scenografia di “1980”,
lo spettacolo che prende il nome
dall’anno in cui Pina Bausch lo
ideò e che è andato di nuovo in
scena proprio al Teatro dell’Opera
all’inizio dello scorso aprile, non è
altro che un grande, immenso prato all’inglese che occupa l’intero
palco. Sullo sfondo si trova un cervo finto e ai lati sono disposti, appoggiati su cavalletti di ferro, dei
grandi riflettori. L’odore di erba
appena bagnata avvolge gli spettatori anche nei palchi più alti del
teatro. Le luci in sala si spengono
e un uomo, vestito in maniera elegante, entra in scena e si siede su
una sedia di legno: con fare infan-
tile, infila faticosamente, proprio
se come fosse un bambino, un cucchiaio nella zuppiera che tiene sulle gambe; a ogni boccone, guarda
il pubblico e scandisce: “Pour maman, pour papa, pour la tante Marguerite…”. Si sposta continuamente lungo il palco, portando con
sé la zuppiera e la sedia. Una donna appare in scena con una torta fra
le mani: canta “Happy birthday to
me” e al posto delle candeline spegne in maniera ossessiva la fiamma di un accendino che un ballerino le porge. Un’altra ragazza si
rivolge al pubblico per informarlo
che quella a cui assiste è una piéce costituita da sette baci: lo dice
mentre bacia per sette volte il manto erboso su cui appoggia le mani e
le ginocchia. Sulle note di una canzone per bambini, i ballerini scendono dal palco, attraversano la platea e ammiccano al pubblico in una
danza sensuale che impegna solo
le mani e le braccia.
“1980” è un ricordo dell’infanzia, ma è anche un viaggio nel
tempo che fonde insieme passato,
presente e futuro; è la rappresentazione della solitudine, della continua ricerca d’amore da parte degli
esseri umani e nello stesso tempo
dell’insufficienza delle parole nel
descrivere la realtà contemporanea
e la complessità dei rapporti amorosi e interpersonali. “1980” è uno
spettacolo assurdo, fastidioso, dolce, sensuale, comico e tragico nello stesso tempo. Una perfetta allegoria della vita, messa in scena
attraverso un susseguirsi continuo
di gesti, di corpi i cui movimenti
smascherano la menzogna del linguaggio. Walter Pedullà, critico
letterario e teatrale, sostiene che la
caratteristica tipica del ‘900 – il secolo della scoperta dell’inconscio
– è che quando si dice “patata” in
realtà si pensa “carota”. È esattamente quello che accade sull’erba
del Teatro dell’Opera di Wuppertal: gli attori-ballerini raccontano e
si raccontano, snocciolano episodi
della propria infanzia, parlano della paura del buio che avevano da
bambini, spesso i loro monologhi
si sovrappongono, ciascuno vuole che il pubblico ascolti la propria
storia e non quella degli altri. Le
parole però non sono sincere. C’è
il sospetto che dietro si nasconda
qualcos’altro: il terrore della solitudine, l’angoscia di invecchiare,
la semplice voglia di primeggiare sugli altri. Il pubblico, con cui
i ballerini continuamente interagiscono, è attivo, accetta il tè che un
attore sceso in platea offre ai fortunati delle prime file, si immede-
sima nelle storie che ascolta, nelle
scene che vede. Tutti, attori e spettatori, scoprono di essere solo esseri umani, con le stesse angosce,
le stesse paure; le chiacchiere vuote degli spettatori nel foyer durante
la pausa dello spettacolo valgono
quanto quelle degli attori sul palco. Il lessico e le strutture sintattiche che utilizziamo sono per lo più
significanti senza significato, che
non danno un quadro reale e completo di ciò che siamo, a livello
personale e a livello esistenziale.
In “1980”, a restituire al linguaggio la funzione comunicativa è il corpo, o meglio, la danza.
Per Pina Bausch danza non significa soltanto ballo, ma tutto ciò che
tramite il movimento smaschera
la finzione linguistica in cui siamo immersi. Per questo motivo
in “1980” di danza vera a propria
ce n’è poca. Le scene sono spesso senza musica: una donna trucca
un uomo seduto su una sedia. Con
la matita gli accentua l’arco delle sopracciglia, poi con il rossetto
gli marca e ingrandisce i capezzoli. Gli solleva le mani incrociandogliele a coprire il petto, come se
fosse davvero una donna. A quel
punto gli infila dieci fiammiferi fra
le dita dei piedi, li accende e canta
“Happy birthday to you”. L’uomo
rimane immobile e quando il fuoco brucia completamente il legno
dei fiammiferi e raggiunge le dita
si alza, va in fondo al palco e ripete l’operazione da solo. Un’altra
attrice prende sulle proprie gambe
un ballerino e lo culla come fosse
un bambino. Lo fa alzare, lo guarda in maniera sensuale e gli sbottona i pantaloni che cadono a terra. La scena è straniante, i ruoli
si confondono, la madre diventa
amante o viceversa. La donna fa
nuovamente accomodare l’uomo
sulle proprie ginocchia, a pancia in
giù, quasi lo volesse sculacciare.
Lo sguardo della donna, fisso sul
pubblico, non è certo materno, comunica curiosità morbosa e desiderio impellente. La donna solleva
le mutande dell’uomo e dà un piccolo colpo con la mano su ciascuna
delle due natiche: una sculacciata o
una carezza? A quel punto entra in
scena un’altra danzatrice che corre
in tondo agitando sopra la propria
testa un fazzoletto: “Io sono stanca”, dice con tono cantilenante. Si
calma soltanto quando un uomo la
solleva per la vita e corre esattamente come lei poco prima, tenendola in braccio.
Durante l’intervallo, mentre gli
spettatori escono a guardare i vagoni della Schwebebahn sfrecciare
sospesi proprio di fronte al teatro,
sul palco due giovani ballerini continuano a sfidarsi in corse mozzafiato e in giochi di abilità, ma non
riescono a mettersi d’accordo su
chi di loro sia il vincitore. Gli assistenti di scena rimettono a posto
il manto erboso, qualche spettatore
rimane seduto e parla al cellulare;
le categorie tipiche del teatro sono
già saltate: non esiste l’intervallo,
non esistono le pause, esiste solo
la vita, viva eternamente.
La fine
non ha parole
La seconda parte dello spettacolo è delirante: un uomo con un
bicchiere in mano tira l’acqua sul
volto delle ballerine, disposte in
fila quasi ad aspettare una punizione. È un atto di violenza gratuito che le donne accettano, anche
se malvolentieri. Segue un quiz
assurdo, un ballerino dalla platea
interroga le donne in fila, a cui si
sono aggiunti anche dei maschi.
Tutti insieme sollevano il vestito
o i pantaloni per mostrare le gambe, come se fossero a un concorso
di bellezza. Nel frattempo devono
parlare dei “dinosauri” o descrivere con tre parole la propria terra di
origine. Le risposte sono infarcite di luoghi comuni: il linguaggio
rivela di nuovo la propria natura
superficiale e fasulla (le associazioni mentali sono a tal punto automatiche che alcuni ballerini rispondono in rima: la Germania è
sintetizzata dalla triade “Adenauer, Beckembauer, Schopenauer” e
l’Italia si riduce a “Fellini, Paganini, Tortellini”). Ancora una volta, sono i movimenti del corpo a
svelare il carattere reale dei personaggi (i ballerini-attori recitano o rappresentano loro stessi?):
alcuni si avvicinano al microfono con fare discreto e sussurrano
le tre parole, altri invece corrono
e urlano per emergere e farsi così
ricordare dal pubblico, che ride, si
diverte. Il soggetto dello spettacolo è quello più comico in assoluto,
ovvero la vita umana. Una vera e
propria tragedia. Che di tragedia si
tratti, lo testimonia la ballerina che
per ben due volte compare in fondo al palco e che, avulsa dal resto
del corpo di ballo, danza da sola,
con movenze simili a quelle della
stessa Bausch in “Caffè Müller”.
La scena finale lascia gli spettatori
con l’amaro in bocca: una danzatrice rimane da sola di fronte a tutti gli altri attori, esattamente come
era avvenuto nella prima parte dello spettacolo, quando tutto il corpo
di ballo, a turno, salutava la donna
che sembrava dovesse partire. Anche in questo caso, i dialoghi erano per lo più di circostanza: “Saluti
tutti a casa”, “Peccato che tu te ne
vada così presto”… Alla fine della
piéce, invece, i protagonisti rimangono muti. La donna ha uno sguardo addolorato, gli altri ballerini la
fissano con un misto di rabbia e
dispiacere. La fine – o la morte –
non prevedono parole. C’è solo la
danza, una danza però immobile.
I riflettori si spengono e gli spettatori si avviano lentamente veso
la stazione della Schwebebanh. Il
buio ha inghiottito anche il dipinto dell’allegro elefantino che cade
con le zampe larghe. Nella mente
rimane soltanto il turbinio di immagini gioiose, tragiche, tristi e isteriche che Pina Bausch ha messo in
scena e la musica che le ha accompagnate: un concerto per violino e
pianoforte di Beethoven, le trine
delicate di Debussy, la leggerezza
di Chopin e di alcune canzoni per
l’infanzia: “Mamatschi schenk mir
ein Pferdchen”, “Renate wandert
aus” e “Somewhere over the rainbow” (la colonna sonora del film
“Il mago di Oz”), cantata in successione da Judy Garland a 16 anni
e poi in età più matura, poco prima
di morire, quando la sua voce era
più roca e ormai spenta.
La Schwebebahn lascia la
stazione di “Alter Markt-Opernahuas” e agli spettatori non resta
che guardare dai finestrini le rare
luci della città che il Wupper cattura, scompone e infrange. I passeggeri parlano sommessamente per
non rompere l’inganno che il buio
nasconde: la vita non è sul vagone che viaggia sospeso nella notte
della Ruhr, è rimasta sull’erba del
palcoscenico di “1980”.
Christian Eccher
8 palcoscenico
Mercoledì, 2 maggio 2012
CARNET PALCOSCENICO rubriche a cura di Carla Rotta
TEATRO Il cartellone del mese
IN CROAZIA
IN ITALIA
Teatro Nazionale Ivan de Zajc - Fiume
Politeama Rossetti - Trieste
5 e 7 maggio ore 19.30
La forza del destino di G. Verdi. Regia Ozren Prohić. Interpreti Davor Lešić, Siniša Hapač, Vedrana Šimić, Olga Kaminska, Ivica Čikeš, Siniša Štork, Marko
Mimica, Kristina Kolar, Ozren
Bilušić, Sergej Kiselev, Mirko
Čagljević, Marijan Padavić, Anamarija Knego, Milica Marelja,
Ivanica Vunić, Dario Bercich
9, 10 e 11 maggio ore 19.30
I pagliacci di P. Leoncavallo.
Regia Plamen Kartalov. Interpreti
Davor Lešić, Janez Lotrič, Olga
Kaminska, Olga Šober, Siniša
Hapač, Armando Puklavec, Mirko Čagljević, Sergej Kiselev,
Marko Fortunato, Robert Kolar
14 maggio ore 17; 15 maggio
ore 12 e 19.30
La foresta di Stribor da I. B.
Mažuranić. Libretto e regia Ozren Prohić. Interpreti Siniša Štork,
Sergej Kiselev, Mirella Toić,
Anđelka Rušin, Davor Lešić, Voljen Grbac, Kristina Kolar, Anamarija Knego Vidović, Marijana
Radić, Robert Kolar
17 e 18 maggio ore 19.30
Un bel luogo per morire da
Damir Karakaš. Regia Dalibor Matanić. Interpreti Frano
Mašković, Denis Brižić, Damir
Orlić, Alex Đaković, Anastazija
Balaž Lečić, Davor Jureško, Predrag Sikimić, Andreja Blagojević,
Adnan Palangić, Biljana Torić,
Olivera Baljak, Jasmin Mekić,
Tanja Smoje, Sabina Salamon,
Jelena Lopatić, Žarko Radić, Nenad Vukelić, Dražen Mikulić,
Tanja Tišma, Deana Marčić, Mar-
ta Kanazir, Dimitrij Andrejčuk,
Dean Rožić
22, 23 e 24 maggio ore 19.30
Possa tua madre... di V. Rudan. Regia Tatjana Mandić Rigonat. Interpreti Edita Karađole,
Zoja Odak, Jelena Lopatić, Aleksandra Stojaković, Nenad Šegvić,
Marija Geml, Sabina Salamon,
Andreja Blagojević, Olivera Baljak, Biljana Torić, Marija
Dmejhal, Ruža Marić, Ana Radoja, Meryl
22 maggio ore 19.30
Il trovatore di G. Verdi. Regia Andrej Žagars. Interpreti Vitomir Marof, Melba Ramos, Jeniece Golbourne, Rafael Rojas,
Luciano Batinić, Martina Klarić,
Mario Bokun, Robert Palić, Neven Mrzlečki
25 e 26 maggio ore 19.30
Camere da letto di Alan Ayckbourn. Regia Paola Galassi. Interpreti Elvia Nacinovich. Bruno Nacinovich, Leonora Surian,
Giorgio Amodeo, Rosanna Bubola, Giuseppe Nicodemo, Elena Brumini, Woody Neri, Oscar
Genovese
29 e 30 maggio ore 19.30
La vie parisienne di C. Offenbach. Regia Dora Ruždjak Podolski. Interpreti Sergej Kiselev, Robert Kolar, Kristina Kolar, Bojan
Šober, Ozren Bilušić, Olga Kaminska, Martina Burger, Voljen
Grbac, Saša Matovina, Dario Bercich, Voljen Grbac, Vanja Zelčić,
Marija Buzdovačić, Marijana
Prohaska, Gorana Biondić, Voljen
Grbac, Dario Bercich, Anamarija
Knego, Ivanica Vunić, Stanislava Vlajnić, Vivien Galetta, Ljubov Košmerl, Ivana Šarić, Nataša
Grbčić, Vendi Pogorelić, Marko
Fortunato, Predrag Radanović
31 maggio ore 19.30
Single di Jasna Žmak. Regia Matija Ferlin. Interpreti Csilla Barath Bastaić, Lada Bonacci, Jadranka Đokić, Lana Gojak,
ti
Ciclo: Musical e grandi even-
2, 3, 4 e 5 maggio ore 20.30;
5 e 6 maggio ore 16
Elisabeth liriche di Michael Kunze. Regia Harry Kupfer.
Interpreti Annemieke Van Dam,
Mark Seibert, Kurosch Abbasi,
Oliver Arno, Mathias Edenborn,
Betty Vermeulen, Elissa Huber,
Elissa Huber, Dennis Kozeluh,
Ann Christin Elverum, Sophie
Blümel, Sanne Mieloo, Alice
Macura, Angela Hunkeler, Linda Konrad, Kira Primke, Marthe
Römer, Thorsten Tinney, Martin
Markert, Lars Rindelaub, Martin Pasching, Jan Altenbockum,
Sven Fliege, Gernot Romic,
Claudia Wendrinsky, Lieselot
Meurisse, Martin Planz, Sascha
Kurth, Johan Vandamme
15, 16, 17, 18 e 19 maggio
ore 20.30; 17, 19 e 20 maggio
ore 16
Joseph and the amazing
technicolor dreamcoat liriche di
Tim Rice. Regia Bill Kenwright.
Interpreti: Keith Jack, Jennifer Potts, Henry Metcalfe, Adam
Jarrell, Kevin Grogan, Camilla
Rowland, Joseph Houston, Richard J Hunt, Ryan Gibb, Michael Ward, Richard J Hunt, Joseph Houston, Nathan Vaughan
Harris, Adam Jarrell, Collette
Coleman, Charlie Taylor, Camilla Rowland
Teatro lirico Giuseppe Verdi - Trieste
17, 22, 23, 25 maggio ore
20.30; 20 maggio ore 16; 26
maggio ore 17
L’amico Fritz di Pietro Mascagni. Regia Daniele Salvo. Interpreti Massimo Giordano,
Roberto Iuliano, Alexia Voulgaridou, Patrizia Orciani, Irini
Karajanni, Eufenia Tufano, Paolo Rumetz, Piero Terranova
La Contrada – Trieste
Ivana Krizmanić, Dijana Vidušin,
Ana Vilenica, Romina Vitasović,
Silvio Vovk, Vedran Živolić, Matija Ferlin
17 maggio ore 21
Niente di importante Marco
Masini in concerto
La Contrada ai Fabbri
8 - 13 maggio
Il contrabbasso di Patrick
Suskind. Interpreti Adriano Girali e Giovanni Maier
Teatro cittadino - Pola
Interpreti Mia Krajcar, Vesna Tominac, Elis Lovrić, Lana
Gojak, Damjan Simić, Romina
Vitasović, Helena Minić, Rade
Radolović
28 maggio ore 10
24, 25 e 26 maggio ore 20
Pietre di Toma Lycosa e SteLo stesso volto (ovvero i pe- fe Nantsoua. Regia Ivica Šimić.
sci non parlano) di Tijana Vukić Interpreti Marko Hegedušić e FiStjelja. Regia Ivan Leo Lemo. lip Lozić
11 maggio ore 20
Da vicino di Patrik Marber.
Regia Dino Mustafić. Interpreti
Eva Kraš, Matevž Biber, Branko
Jordan, Nataša Matjašec Rošker
IN SLOVENIA
Teatro cittadino - Capodistria
6 maggio ore 20
La sedia di Elia di Darko
Lukić. Regia Boris Liješević. Interpreti Svetozar Cvetković, Vlastimir - Đuza Stojiljković, Maja
Izetbegović, Jelena Trkulja, Renata Ulmanski, Bane Jevtić
9 e 17 maggio ore 20
Filumena Marturano di
Eduardo de Filippo. Regia Katja
Pegan. Interpreti Saša Pavček,
Bine Matoh, Ivo Barišič, Teja
Glažar, Lara Jankovič, Ajda
Toman, Blaž Popovski, Igor
Štamulak, Rok Matek, Blaž Valič
23 maggio ore 20
Test di paternità di Lukas
Bärfuss. Regia Nenni Delmestre.
Interpreti Igor Štamulak, Pavle
Ravnohrib, Rok Matek, Ajda Toman, Lara Jankovič
30 maggio ore 20
Due di Jim Cartwright. Regia Katja Pegan. Interpreti Sandra Boršič, Mikela Veren, Tomaž
Boškin, Blaž Popovski, Goran
Dokič
Anno VIII / n. 64 del 2 maggio 2012
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina
Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: PALCOSCENICO
Redattore esecutivo: Carla Rotta / Impaginazione: Annamaria Picco
Collaboratori:Christian Eccher, Rossana Poletti
Foto: Archivio e internet