LA VOCE DEL POPOLO ce vo /la .hr dit w.e ww palcoscenico An no VIII • n. Sipario UN CAFFÈ CON... Carlo 64 • Mercoledì, 2 201 o i g 2 mag Tolazzi Pagine 2-3 / RECENSIONI L’apparenza inganna / I Glembay / Oblivion Show 2.0 / Zuppa di canarino Pagine 4-5 / IL GIRO DEL MONDO IN 80 TEATRI Praga, fascino boemo Pagina 6 / TEATRODANZA 1980 Pagina 7 / CARNET PALCOSCENICO Il cartellone del mese Pagina 8 UN CAFFÈ CON... Mercoledì, 2 maggio 2012 Carlo Tolazzi 2 palcoscenico Carlo Tolazzi N ato a Malborghetto nel 1954, si è laureato in lettere a Trieste nel 1989 con una tesi sui Testi friulani della Val Pesarina. Per un decennio, dal 1983 al 1993, è stato collaboratore de “Il Gazzettino” di Venezia. Nel 1992 ha vinto il Premio di narrativa italiana” Carnia-Savorgnan” e il Premio di narrativa friulana “La torate”, nel ‘94 e nel ‘95 il Premio “San Simòn” di Codroipo. Carlo Tolazzi, dopo aver lavorato come scrittore e giornalista per alcuni anni, scrive per il teatro dal 2000. Con il monologo in carnico “Resurequie” vince il premio “Candoni-Arta Terme” per la nuova drammaturgia. Seguono diversi altri drammi: “Chi di spada”, “a+b>c”, “Tunnel” scritto con Fabio Alessandrini nel 2009, “Qui tollis peccata mundi” nel 2010, fra i quali anche alcuni lavori specifi- ci inerenti la storia e la tradizione popolare carnica, “Cercivento” nel 2003, “Indemoniate”, scritto con Giuliana Musso, nel 2006 e “Portare” nel 2008. “Cercivento” e “Indemoniate” sono storie vere. La prima accadde sui monti della Carnia il 23 giugno 1916. Un’accusa, ingiusta, di insubordinazione per 80 alpini, molti dei quali scontarono una dura detenzione e quattro furono fucilati. Le indemoniate di Verzegnis, piccolo paese della Carnia, racconta di una fatto accaduto a partire dalla primavera del 1878, che vide coinvolte una ventina di donne. Possedute dal demonio o semplicemente esauste per la fame e il troppo lavoro? Si scatenò un conflitto tra potere civile e chiesa e la diatriba si trascinò anche sulle pagine dei giornali. di Rossana Poletti L’appartenenza alla comunità friulana o meglio carnica è molto forte nella sua scrittura, in particolare mi riferisco ai due lavori teatrali “Cercivento” e “Indemoniate”. Quanto ha contato questo fatto nelle motivazioni che l’hanno condotta a scrivere di teatro. L’appartenenza e tutto ciò che riguarda le origini sono implicite, per il fatto che per me la scrittura teatrale è una necessità. Nasce da cose che possono toccarmi ed evidentemente mi toccano moltissimo le cose che in qual- che modo ripercorrono le mie origini e le mie radici. Le radici poi, raggiunta una certa età, rappresentano un’esigenza ancor più forte, se così si può dire. Forse anche perché il patrimonio che si riesce a costruire in un periodo lungo della vita ci indirizza verso determinate corde, che sono le corde che ci fanno vibrare più facilmente. Non credo che sia una questione di temere la perdita, credo piuttosto che sia una questione di incontri più facili man mano che si va avanti con l’età. Nelle nostre personali memorie ci sono le malinconie dei ricordi, ed è vero invece che nei suoi testi, e parliamo sempre di “Cercivento” e delle “Indemoniate”, c’è più semplicemente una rigorosa memoria storica e la denuncia dei fatti. Nel mio modo di intendere la proposta teatrale bisogna tener presente che, se il racconto non è accompagnato da un forte legame con il presente, se cioè quello che vado raccontando non è metafora dei rischi che corriamo oggi, non mi sento di scrivere cose che sarebbero pura archeologia. Gli artisti che hanno messo in scena “Cercivento” sono stati veramente straordinari (ndr Riccardo Maranzana e Massimo Somaglino raccontano l’ultima notte di vita di due soldati condannati a morte). È fondamentale un lavoro di sinergia. Dal punto di vista del testo tutto parte dalla necessità, se c’è la necessità dal testo esce l’anima. Qual è stata la sua necessità, di quando intendo ha cominciato a scrivere. È stata una scintilla che è scoccata dentro ad un certo punto della mia vita. Ha a che fare con l’impegno. Io faccio teatro civile, che è un modo per trasmettere dei messaggi. Il caso di “Cercivento” nella fattispecie è l’ingiustizia, il fatto che si possa passare sopra una strage perché ci sono molti morti, quando è invece la vita di ogni singola persona che, nel momento in cui viene cassata, diventa una tragedia. È questo che mi fa rabbrividire al giorno d’oggi, il fatto che si possa morire perché un altro decide che tu devi morire. E poi quanta stupidità ammanta il potere, condizione oggi molto evidente, ma che probabilmente è di sempre. Infatti il lavoro si riferisce a cent’anni fa, ma ha attualità molto stringenti. Dobbiamo essere grati a questo mondo che va in questa maniera così balenga, mantenendo così vive le nostre opere teatrali, ma è ovviamente una battuta. “Tunnel” che ho scritto con Alessandrini parla di droga che ammazza i calciatori e partite comperate. Apra il giornale, guardi quanto c’è di attuale. Ma la storia che raccontiamo noi si riferisce a un lavoro degli anni settanta; e non è cambiato niente da quella volta. Veniamo a “Buone vacanze”, lo spettacolo che lei ha scritto e che Maurizio Zacchigna interpreta per la Contrada. Qui la Storia non c’entra, le radici sono marginali, qui c’è una palcoscenico 3 Mercoledì, 2 maggio 2012 visione intima di un rapporto bambino - adulto. Quanto c’è di autobiografico nei tre episodi che lo compongono. C’è molto di autobiografico per quanto riguarda la realtà di queste tre storie. Sono sostanzialmente vere perché le ho incontrate tutte e tre in diverse fasi della mia vita. C’è molto di autobiografico nella figura della madre del primo quadro. Non c’è autobiografia nella denuncia che lo spettacolo si propone e cioè la denuncia dell’assenza di una figura paterna nell’ambito familiare, che è il trait d’union di tutti e tre i quadri e che può provocare veramente dei disastri nella vita delle persone che crescono senza questa presenza. Recentemente Stefano Zecchi ha scritto “Quando ci batteva forte il cuore”, romanzo sull’esodo ma che egli presenta ricordando l’esigenza di un recupero della figura del padre al giorno d’oggi. C’è quindi l’emergere di una questione sociale abbastanza sentita in questo senso, che però nel primo dei tre racconti sembra echeggiare l’assenza della figura paterna come una questione vecchia come il mondo. Non so se sia possibile allargare a tanto la metafora, la similitudine. Io vedo che la condizione che alla madre sia affidata la cura dei figli nei primi anni di vita e che il padre, dopo la donazione dello sperma, possa tranquillamente fregarsene di tutto e continuare la sua vita normalmente, è ancora molto radicata. A un bambino mancano così metà delle istruzioni per l’uso della vita. Si affidano le tappe della vita ad enti che non sono la famiglia, salvo poi pretendere di correggere l’opera che questi enti fanno. Mi riferisco alla scuola che è l’esempio più eclatante. In quanto a quello che lei o gli altri spettatori poi leggono nello spettacolo, vorrei citare Roland Barthes il quale affermava che “un’opera d’arte si modifica man mano che c’è la sua fruizione”. Sono convinto che alcune cose, che c’erano nella penna ma non nella consapevolezza della scrittura, vengano lette dagli spettatori quando vedono il lavoro teatrale. È questa è la grande magia del teatro. Cosa c’è tra i progetti per il futuro? Adesso sto facendo un lavoro per il Comune di Reana del Rojale, nella provincia di Udine, che tratta del paesaggio, di quello che sono le rogge: captazioni d’acqua, che attraverso canali viene portata dove non c’è, allo scopo di irrigare i campi. Ai lati di queste rogge fiorisce un certo tipo di ambiente culturale e professionale. E poi sto preparando qualcosa per il Mittelefest di luglio a Cividale, un progetto che la Farie Teatrâl furlane (ndr. centro stabile di produzione teatrale e di studio nell’ambito della lingua e della cultura friulane) e il Teatro Nuovo di Udine stanno allestendo. Un occhio sempre al territorio, le rogge sono un patrimonio ambientale “in via di estinzione”, causa il degrado e l’inquinamento. Adesso c’è l’acquedotto e le rogge hanno perso un po’ la loro funzione, ma il mio lavoro vuole andare proprio nella direzione di che cosa ci riserva il futuro. Il futuro è nelle mani di ciò che si è fatto nel passato. Ad esempio il silenzio con cui scorre quell’acqua è il silenzio dell’erba che cresce, come similitudine, cioè è il silenzio di qualche cosa che c’è. Ma la cosa più importante è se noi siamo capaci di ascoltare e poi di utilizzare quella cosa. Carlo Tolazzi Buone vacanze. Trilogia con muro, b Al Fabbri con Maurizio Zacchigna Buone vacanze. Trilogia con muro, borsa e bambino Trieste. Teatro dei Fabbri. La Contrada produce “Buone vacanze. Trilogia con muro, borsa e bambino” di Carlo Tolazzi, affidandolo all’interpretazione di Maurizio Zacchigna. Perché questo titolo e cosa c’entrano il muro e la borsa con un bambino. In realtà lo spettacolo consta di tre episodi distinti, tutti legati a fatti realmente. Sono tre storie che raccontano di una società che dedica sempre meno tempo all’educazione, alla crescita e semplicemente ad amare i propri figli. Le parole in questione sono la chiave di collegamento tra le tre vicende. Un muro è nel primo caso come un telo bianco sul quale far scorrere i pensieri, i sogni, le idee, sul quale proiettare le proprie speranze, facendo finta che il mondo non esista, con tutte le sue brutture, le sue ingiustizie. È il muro che la madre di Carlo, protagonista del primo episodio, ha affrontato già da piccola a scuola in castigo per tre mesi proprio contro quello stesso muro, senza aver compiuto nulla per cui essere punita. E proprio quel muro le ha insegnato ad affrontare le avversità, come essere abbandonata dal marito quando ancora il figlio era piccolo. È una madre fantasiosa che per lui, per il suo bene, suggerisce espedienti stravaganti, come leggere tutto con la erre moscia, ma parlare invece comunemente in modo corretto, gettando nello sconcerto gli altri ignari del trucchetto. Una madre che cerca di vivere assieme a questo bambino cresciuto senza un padre “con la leggerezza di cui sapeva avvolgere anche le spine”, dirà di lei il bambino divenuto adulto ricordandola; che del terremoto aveva avuto da dire al prete che i campanili rimasti in piedi erano dita puntate al cielo contro Dio, asserendo che “Lui o è malvagio o non è onni- potente”, ma guai ad affermare che Dio non esiste. Ornella Vanoni in sottofondo canta “Stiamo bene io e te” a sottolineare il particolare rapporto che lega una madre sola al suo bambino, alla particolare cura con cui lo cresce, alla fusione di spirito che tra i due si crea. È il più bello dei tre racconti questo, e Maurizio Zacchigna sembra proprio essere il figlio di quella donna strana, che in qualche modo tutti ci sentiamo di amare per le sofferenze che ha vissuto, ma anche per il sogno che ha realizzato attorno a sé. Nel secondo episodio Carlo è un bravo ragazzo che ha conosciuto Andrea, il classico bulletto di periferia. Assieme meditano uno scherzo ai danni di Giacomo, ragazzo di colore adottato da una famiglia molto benestante. Lo scherzo finirà con gli schizzi di sangue rosso contro il muro bianco di una cantina, dove lo scherzo andrà oltre le intenzioni di Andrea, mentre Carlo rimarrà a guardare incapace di porre un freno alla stupidità del giovane. Trenta anni ad Andrea e sette a Carlo, che in carcere imparerà il mestiere dell’infermiere e sulle note di “Emozioni” di Battisti urlerà la sua volontà di non avere figli. Ragazzi lasciati soli, senza regole e soprattutto senza esempi di vita, se non quella bruciata dall’assenza e dalla noia. Zacchigna si immedesima nei tre ruoli e li cambia freneticamente, ben rappresenta i momenti della paura e dell’incapacità di giustificare il gesto alle autorità. Carlo è un infermiere, i suoi pazienti sono bambini. C’è n’è uno che non parla, fisso contro un muro, non comunica. Non ha nessuno, solo una zia ogni tanto viene per il cambio della biancheria. Dopo alcuni tentativi Carlo riesce ad entrare in sintonia con lui, complici le ombre cinesi proiettate su quel muro e alcune cassette di film che gli fa vedere. Fra poco il bambino verrà dimesso e tornerà purtroppo a quella dimensione di solitudine e mutismo che è fin troppo evidente appartenergli anche fuori dalle mura dell’ospedale. Carlo vorrebbe trattenerlo, magari mettendolo in un borsone nel quale porta le tute della squadra di calcio che allena. Ecco la borsa, quella stessa che è servita per attirare nello scherzo il povero Giacomo, facendogli credere che contenesse un tesoro rubato, la stessa che nel primo episodio conteneva lui, quando sua madre presentandosi al matrimonio di suo padre, ovviamente con un’altra donna, gli disse “congratulazioni, questo è il mio regalo di nozze”. Marcela Serli è la regista dello spettacolo. Accanto ad una selezione di brani scelti da lei, arricchiscono l’atmosfera di “Buone vacanze. Trilogia con muro, borsa e bambino” le musiche originali di Edy Meola. (Poscaro) 4 palcos Mercoledì, 2 maggio 2012 Da un’idea assurda una vita nuova L’APPARENZA INGANNA Da un’idea assurda una vita nuova T rieste. La Contrada. Mi piacerebbe dire bene de “L’apparenza inganna” perché a me personalmente Maurizio Micheli piace molto. Qualche anno fa a Trieste si propose nel monologo de “Il contrabbasso” e la sua fu un’esibizione straordinaria. Poi però lo ritrovo qui in questo allestimento, che è purtroppo la fiera delle banalità. Nelle intenzioni del suo autore, Francis Veber, dovrebbe aprire uno squarcio sui luoghi comuni e sulle stupidità che aleggiano attorno alla condizione degli omosessuali. Resta il fatto che in questo allestimento l’ironia si perde e allo spettatore resta il gusto di uno spettacolo, che avrebbe potuto essere e che invece non c’è. In realtà non è la capacità dei singoli ad essere messa a mio parere in discussione, è la scelta registica ad essere errata. In particolare Tullio Solenghi si attarda in un’interpretazione sguaiata e fuori misura, sia quando denigra la condizione gay, sia quando ne tesse gli elogi. Maurizio Micheli sembra spento e le due donne, Sandra Cavallini e Fulvia Lorenzetti, l’una moglie del protagonista, l’altra avvenente segretaria del presidente, sono sempre troppo sopra le righe. “L’apparenza inganna” nasce in Francia sotto forma di film nel 2000, diretto dallo stesso Francis Veber, con la partecipazione di Gerard Depardieu. La storia, che in questa trasposizione teatrale gioca con personaggi italiani, è origi- nale: il protagonista Pino Tricarico (Maurizio Micheli) si trova non visto ad ascoltare una conversazione del suo capo del personale Ercole Spadoni, Nomen omen (Tullio Solenghi), che annuncia il suo licenziamento, per contenimento delle spese. Già depresso, perché la moglie lo ha lasciato e il figlio adolescente lo ignora, vorrebbe togliersi la vita. Casualmente suona alla porta il suo nuovo vicino di casa che gli propone la soluzione a tutti i suoi problemi: fingersi omosessuale. In azienda, quando la notizia viene opportunamente veicolata, ci sono nello stupore generale, le reazioni dubbiose del proprietario che si vede costretto a non poterlo licenziare, poiché essendo un produttore di profilattici, rischia di farsi una pessima pubblicità. Una serie di equivoci saranno ovviamente protagonisti di una commedia, non senza qualche lieto fine: il figlio, ad esempio, che si riavvicina al padre trovandolo in qualche modo finalmente originale, diverso dall’idea di “ometto” che si era fatta di lui; il capo del personale che da “macho” sfegatato, diventa difensore della causa degli omosessuali, a tal punto da concepire la sua apparizione in una campagna promozionale del prodotto profilattico, assieme all’icona gay che Tricarico è finalmente diventato. Questi è ormai un altro uomo, la nuova condizione gli dà sicurezza e personalità, contrariamente alle premesse in cui l’imbarazzo imperava ovunque. Da gay riconosciuto e dichiarato conquisterà senza alcuna difficoltà la giovane segretaria alla quale prima aveva fatto un’inutile e ridico- la corte serrata. In scena, assieme ai già citati artisti, ci sono Massimiliano Borghesi, Paolo Gattini, Adriano Giraldi, Matteo Micheli e Enzo Saturni. (rp) Oggi, ovvero ieri allo specchio I GLEMBAY Oggi, ovvero ieri allo specchio P ola, Teatro Popolare Istriano. Siamo nel salotto della famiglia Glembay. Il dramma scritto da Miroslav Krleža e messo in scena dal teatro Nazionale di Zagabria ha la regia di Vito Taufer. Siamo nel salotto, dunque, dove Leone Glembay (Danko Pleština) dialoga con suor Angelica Glembay (Olga Pakalović). Entrano in scena Fabriczy Glembay (Zvonimir Zoričić), il dr. Altmann (Žarko Potočnjak), padre Alojzije Silberbrandt (Goran Grgić), l’avvocato Puba Fabriczy-Glembay (Bojan Navojec) e Naci Glembay (Ljubomir Kerekeš), il capostipite. Manca lei, la baronessa Castelli-Glembay (Alma Prica), e il tracollo può iniziare. La ricca e intellettuale famiglia è allo sfacelo già prima che i personaggi prendano il loro posto, prima che la baronessa apra le porte alla fine. I Glembay forse hanno appena un lontano sentore che la famiglia è ormai caduta e decaduta, ma certo non lo danno ad intendere. Il salotto buono è quello di sempre, i discorsi sono quelli di sempre, solo che... sul divano, in poltrona, dietro la scrivania, la catastrofe si è accomodata. La famiglia si sgretola su tutti i fronti: i ritratti dei notabili sono la dimostrazione di un passato splendore, di una potenza ormai corrosa. Il capofamiglia non può tenere assie- me una famiglia che i sentimenti, i segreti, le cattiverie e quant’altro dividono. Un’esplosione. Ed ogni piccolo pezzettino di quella che è stata una solida colonna della società va per percorsi diversi. Non suoi. Ognuno avrà forse la fine che giorno dopo giorno, errore dopo errore si è costruito. I Glembay sono sui giornali: non già per successi negli affari quanto per il suicidio di una povera donna. Le colpe ricadono sulla baronessa, che in carrozza ha investito e ucciso la suocera della sarta suicida. Ed allora su di lei dovrebbe gravare anche il suicidio. La discesa morale è accompagnata dal tracollo finanziario, o forse le due cadute sono anime gemelle. La morte si paga con la morte. Il riscatto deve essere uguale alla colpa. Morirà nel sangue anche la baronessa. “Signor dottore, hanno ammazzato la baronessa.” Ma prima di arrivare all’epilogo, ci sono dolorosi scheletri da togliere dall’armadio, altarini ben coperti anche di polvere da scoprire. Una catarsi dolorosa, che trasforma l’uomo in animale.Non è facile Krleža. Certo “I Glembay” non li si va a seguire per divertimento. È il classico dei classici. Eppure, quanta modernità, quanta attualità, per meglio dire nei personaggi e nella trama. Perché la messinscena non è moderna: forse è tra le rappresentazioni la più classica. L’attualità sta nel vedere i personaggi svestiti dagli abiti del tempo e con addosso la moda di oggi. Perché anche oggi c’è una fine finanziaria figlia della spregiudicatezza e del rischio; ancor oggi si è in bilico tra l’essere e l’essere contro, tra coscienza e calcolo. Chissà, forse l’oggi altro non è che quello che di ieri ci rimanda lo specchio. Cierre cenico Mercoledì, 2 maggio 2012 5 Tutte le manie della nostra società OBLIVION SHOW 2.0 Tutte le manie della nostra società T rieste. Politeama Rossetti. Tutto cominciò qualche anno fa. Gli Oblivion erano cinque ragazzi che si divertivano a cercare negli archivi della Rai tanto materiale del varietà vecchio stile, anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, quando il prodotto era di qualità, gli artisti erano preparatissimi, le reti televisive erano una, al massimo due, e tutti stavamo lì incollati, soprattutto il sabato sera, per quell’appuntamento che unificava il sentire nazionale. Poi questi novelli Cetra spararono su “youtube” un loro video che riproduceva una parodia dei “Promessi Sposi in 10 minuti”. In poco tempo si sparse la notizia, migliaia di persone andarono a guardarsi questo breve divertentissimo filmato, provate anche voi. Nel giro di un anno, complice il Teatro Stabile del FVG, che ne produceva gli spettacoli, e la regia di un tale di nome Gioele Dix, il successo esplose in maniera così fragorosa da riempire i teatri di tutta Italia. Non gli si rende giustizia a chiamarli novelli Cetra, ma del popolare quartetto di un’epoca che non c’è più hanno raccolto alcune caratteristiche: sanno canta- re bene, sanno recitare, uno suona la chitarra, ballano egregiamente, hanno un senso del ritmo e dei tempi teatrali che pochi possono vantare di questi tempi. Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda, Fabio Vagnarelli, questi i loro nomi, hanno sfornato l’altra sera al Rossetti una valanga di nuove parodie e di invenzioni musicali. Danno libero sfogo alla fantasia poetica con “L’infinito” di Leopardi (Silvia gli dice “o me o la siepe”) e “La cavallina storna” di Pascoli, un ritorno sui banchi di scuola per i tanti ragazzi che riempiono fisicamente la platea del teatro, ma non certo noioso come ci è sembrato ai nostri tempi il mandare a memoria le strofe di quelle liriche, bensì un percorso musicale stile Hollywood, con una digressione nella Bollywood e nella mania dell’antistress, del benessere a tutti i costi e dello yoga risolutore di tutti i mali dell’umanità. Sono divertenti, ironici, fanno ridere tutto il teatro a crepapelle, ma non gli si può dire che siano banali. Le loro gag osservano e fotografano tutte le manie, le ossessioni, le furberie della nostra società e ce le sbattono in faccia, facendoci sì divertire, ma non senza un messaggio: speriamo che arrivi. Lo spettacolo prosegue spedito, senza pause, senza intoppi, passando per una radiografia dello studente tipo, un po’ deficiente, magari di un istituto techno, si arriva al nuovo grande kolossal: Pinocchio, con le sue bugie sulle note delle “tagliatelle di nonna Pina”, il grillo parlante che canta Cri, cri (Chi, Chi di Zucchero) e il gatto e la volpe falsi invalidi, la fata turchina che intona Mina in Blu le mille “balle” blu. A Mangiafuoco Pinocchio ricorda “non son legno di tec” (sulla musica di “non sono degno di te”) e, diventato asino, si becca un bel “pacco”, ricordate quello di Jannacci? E non finisce qui, affianco a Benigni e Gassman a leggere Dante viene chiamato Rex; un bel abbaiare del famoso cane detective ci introduce con una “guida” satellitare, il “Caronte dimonio dagli occhi di bragia”, in un inferno popolato dai sodomiti, in versione Cugini di campagna, e ancora Ulisse, il conte Ugolino e Paolo e Francesca, la coppia trasgressiva per eccellenza. A proposito di trasgressioni, gli Oblivion non potevano non mettere in campo le marachelle di Berlusconi che per tanto tempo hanno devastato i tg di tutta Italia e non solo. Lo fanno con un esilarante Burlesque, pieno di “deliziose” donnine pronte a vendersi per un posto in parlamento o da ministro. Il modo è quello della tradizione del Caffè Chantant, “non è uno spogliarello, chiamalo Burlesque. È la tradizione della buona società, l’uomo vuole distrazione e c’è chi gliela dà” – cantano -, salta fuori una Ruby rubacuor in versione Nini Tirabusciò e tutti insieme concludono in coro “meno male che ora c’è il BERLUSQUE”. Ironia della sorte, il giorno dopo il debutto degli Oblivion al Rossetti su tutti i tg appaiono le dichiarazioni del vero Berlusconi che, a proposito dei festini ad Arcore, afferma che erano solo delle gare di Burlesque. Sono preveggenti i nostri eroi, o suggeritori! Concluso lo spettacolo i bis sono d’obbligo, il pubblico non se ne andrà senza quelle due o tre uscite in più, che sappiamo essere in scaletta. Senza la chiusura con i Promessi sposi, il pezzo che li ha resi famosi, non sarebbe possibile finire. Rossana Poletti Quando le stelle si spengono ZUPPA DI CANARINO Quando le stelle si spengono I mpietoso, Miloš Radović, nel delineare il rapporto uomo-donna. Al microscopio, ma forse sarebbe più giusto dire “sotto i ferri” Lui (Rade Radolović) e Lei (Dora Lipovčan), dieci anni di differenza che sulla bilancia della vita pesano dalla parte di lei. Innamorati, vedono l’innamoramento diventare prima amore poi quotidianità ed infine allontanamento totale. Con non poco rancore e non poche colpe, vere o presunte che siano. L’indifferenza li rende due perfetti sconosciuti, che dopo aver diviso tanto non hanno più da dirsi niente. “Zuppa di canarino” ha, accanto alla firma di Miloš Radović, la regia di Mario Kovač. Storie di tutti i giorni. Con qualche dettaglio, peraltro irrilevante quando il totalizzatore somma la vita. Lei e Lui. I dieci anni di differenza non vogliono dire niente. Non è la differenza d’età che li porta all’allontanamento. Semplicemente l’amore è finito. Il sacro fuoco si è spento. La fiamma ha trasformato i due in cenere. Succede. Capita di risvegliarsi accanto ad una persona con la quale non si vuole dividere il domani. Ed allora ognuno affronta il domani di suo. Ma di che cosa è fatto il passato? È fatto di incontri, della conoscen- za, dell’innamoramento, dell’amore, della vita a due, di figli, di notti insonni a cullare i figli, dei giorni ad accudirli. A respirare per loro. A vivere per loro. A dare loro cuore e parole. Spesso togliendoli all’altro. Finché un giorno i figli cresceranno ed andranno per la loro strada. Resteranno Lei e Lui, con mille piccole accuse, cose da rinfacciare, un dialogo interrotto e rotto al punto da non poter essere più ricucito. Sostanzialmente perché manca la materia prima, quel filo che viene dal cuore, ormai vuoto. Fine di un amore? No. Solo il campanello d’allarme, un sogno che non deve essere premonitore: solo un sogno che vuole essere un invito a non cadere nel tranello dell’ovvietà, nel non mettersi in seconda fila lasciando spazio sempre e solo agli altri (anche se sono figli), a non scegliere la panchina in una partita che ci vuole titolari. Un invito a tenere il cuore sempre pieno del sentimento che ci ha messi insieme: se si dovesse vuotare, si riempirà di amarezza, rancore, delusione. “Zuppa di canarino” è un sogno. Fatto ad un soffio dal matrimonio, quando i preparativi, se non sono finiti è solo perché non è ancora giorno. (Ro) 6 palcoscenico Mercoledì, 2 maggio 2012 IL GIRO DEL MONDO IN 80 TEATRI Praga, fascino boemo del Nazionale e del teatro degli Stati Praga, fascino boemo del Nazionale e del teatro degli Stati I l Teatro Nazionale di Praga (Národní Divadlo) è il più famoso teatro d’Opera boemo ed è considerato monumento nazionale della Repubblica Ceca. L’Opera di Praga fa parte del patrimonio storico e culturale ceco ed è simbolo di una ricca tradizione artistica e musicale sostenuta da sempre dalle più importanti personalità della società boema. Il progetto fu proposto fin dall’inizio del Risorgimento e cominciò ad essere avviato verso la seconda metà dell’Ottocento, quando il Comitato per la costruzione del Teatro Nazionale organizzò le prime raccolte di fondi. Nel 1862 fu costruito sul terreno vicino alla Moldava il cosiddetto “Teatro provvisorio”, che più tardi divenne parte integrante dell’edificio. Il 16 maggio 1868 fu posta la prima pietra della struttura e il cantiere fu affidato all’architetto Josef von Zítek. Il teatro venne inaugurato l’11 giugno 1881: due mesi dopo, probabilmente per colpa di alcuni lattonieri imprudenti, prese fuoco e andò distrutto il tetto. Per fortuna, in un solo mese, i cittadini di Praga raccolsero un milione di corone d’oro per la sua ricostruzione e, dopo altri due anni, la “cappella d’oro” fu riparata secondo i progetti di Josef Schulz. La riapertura al pubblico si ebbe il 18 novembre 1883 con l’opera “Libuše” di Bedřich Smetana. Oggi il Teatro Nazionale consta di tre complessi artistici - opera, balletto e teatro - che alternano le esibizioni nello storico edificio del Teatro Nazionale, nel Teatro di Stato ed al Teatro Kolowrat. Il Teatro degli Stati di Praga (Stavovské Divadlo) è uno storico teatro in stile rococò, tra i più antichi e famosi di tutta l’Europa. Il nome richiama gli “Stati” che costituivano la Corona Teatro Nazionale di Boemia. Venne progettato da Anton Haffenecker e costruito in poco meno di due anni. Venne inaugurato nel 1783 con la rappresentazione del dramma “Emilia Galotti” di Lessing e in esso si tennero le prime di due celeberrime opere di Mozart: il “Don Giovanni” il 29 ottobre 1787 e “La clemenza di Tito” il 6 settembre 1791. Nel 1798 acquisì il nome di Teatro Reale degli Stati, nel 1892 venne intitolato in Teatro Reale Provinciale Tedesco; dal 1920 al 1948 si riprese il nome di Teatro degli Stati. Nel 1948 venne unito al nuovo Teatro Nazionale. Nello stesso anno0 cambiò nome e divenne Teatro Tyl (in onore del drammaturgo drammaturgo J.K Tyl) e tale rimase fino al 1990 quando, dopo una ricostruzione durata otto anni, divenne noto come Nuovo Teatro Nazionale. Posa della prima pietra per il Teatro Nazionale Teatro degli Stati Il Teatro Nazionale all’inaugurazione nel 1881 Teatro degli Stati palcoscenico 7 Mercoledì, 2 maggio 2012 1980, attraverso il prato che è la vita TEATRODANZA 1980, attraverso il prato che è la vita L a Schwebebahn (ferrovia teleferica) corre sospesa sul letto tortuoso del fiume Wupper; le ruote scivolano silenziosamente sulla grossa piattaforma di ferro sostenuta da imponenti tralicci saldamente ancorati alla riva. Wuppertal è una città in bilico fra terra e cielo, fra le colline su cui sorgono palazzi signorili e l’acqua che gorgoglia nel fondovalle, fra il cielo costellato dalle arcate chiarissime degli aeroplani ad alta quota e i boschi intrisi di umidità e di umori vegetali. La Schwebebahn fu costruita a fine ‘800, all’epoca d’oro dell’ingegneria. Nel luglio del 1950 Tuffi, un cucciolo di elefante, dopo aver pagato il biglietto con i marchi che teneva stretti nella proboscide, salì su un vagone insieme al personale del circo accampato alla periferia della città. Dopo poche centinaia di metri, impaurito probabilmente dalle oscillazioni, si gettò nel fiume proprio di fronte al Teatro dell’Opera. Nonostante iI Wupper sia profondo solo una cinquantina di centimetri, l’elefantino se la cavò con poche escoriazioni e una fotografia in bianco e nero lo immortala mentre esce dall’acqua accompagnato da un domatore; Tuffi è anche ritratto su un grande murales che si trova lungo la Schwebebahn a pochi metri dal luogo dove avvenne lo storico tuffo; nel disegno ha le zampe divaricate e un muso allegro e preoccupato allo stesso tempo. In primavera, la pioggia che cade fina e insistente trasforma le aree verdi di Wuppertal in un immenso prato: l’erba cresce rigogliosa ovunque, ai piedi dei tralicci della Schwebebahn e nelle aiuole che si trovano di fronte al Teatro dell’Opera. Passeggiata nella solitudine Anche la scenografia di “1980”, lo spettacolo che prende il nome dall’anno in cui Pina Bausch lo ideò e che è andato di nuovo in scena proprio al Teatro dell’Opera all’inizio dello scorso aprile, non è altro che un grande, immenso prato all’inglese che occupa l’intero palco. Sullo sfondo si trova un cervo finto e ai lati sono disposti, appoggiati su cavalletti di ferro, dei grandi riflettori. L’odore di erba appena bagnata avvolge gli spettatori anche nei palchi più alti del teatro. Le luci in sala si spengono e un uomo, vestito in maniera elegante, entra in scena e si siede su una sedia di legno: con fare infan- tile, infila faticosamente, proprio se come fosse un bambino, un cucchiaio nella zuppiera che tiene sulle gambe; a ogni boccone, guarda il pubblico e scandisce: “Pour maman, pour papa, pour la tante Marguerite…”. Si sposta continuamente lungo il palco, portando con sé la zuppiera e la sedia. Una donna appare in scena con una torta fra le mani: canta “Happy birthday to me” e al posto delle candeline spegne in maniera ossessiva la fiamma di un accendino che un ballerino le porge. Un’altra ragazza si rivolge al pubblico per informarlo che quella a cui assiste è una piéce costituita da sette baci: lo dice mentre bacia per sette volte il manto erboso su cui appoggia le mani e le ginocchia. Sulle note di una canzone per bambini, i ballerini scendono dal palco, attraversano la platea e ammiccano al pubblico in una danza sensuale che impegna solo le mani e le braccia. “1980” è un ricordo dell’infanzia, ma è anche un viaggio nel tempo che fonde insieme passato, presente e futuro; è la rappresentazione della solitudine, della continua ricerca d’amore da parte degli esseri umani e nello stesso tempo dell’insufficienza delle parole nel descrivere la realtà contemporanea e la complessità dei rapporti amorosi e interpersonali. “1980” è uno spettacolo assurdo, fastidioso, dolce, sensuale, comico e tragico nello stesso tempo. Una perfetta allegoria della vita, messa in scena attraverso un susseguirsi continuo di gesti, di corpi i cui movimenti smascherano la menzogna del linguaggio. Walter Pedullà, critico letterario e teatrale, sostiene che la caratteristica tipica del ‘900 – il secolo della scoperta dell’inconscio – è che quando si dice “patata” in realtà si pensa “carota”. È esattamente quello che accade sull’erba del Teatro dell’Opera di Wuppertal: gli attori-ballerini raccontano e si raccontano, snocciolano episodi della propria infanzia, parlano della paura del buio che avevano da bambini, spesso i loro monologhi si sovrappongono, ciascuno vuole che il pubblico ascolti la propria storia e non quella degli altri. Le parole però non sono sincere. C’è il sospetto che dietro si nasconda qualcos’altro: il terrore della solitudine, l’angoscia di invecchiare, la semplice voglia di primeggiare sugli altri. Il pubblico, con cui i ballerini continuamente interagiscono, è attivo, accetta il tè che un attore sceso in platea offre ai fortunati delle prime file, si immede- sima nelle storie che ascolta, nelle scene che vede. Tutti, attori e spettatori, scoprono di essere solo esseri umani, con le stesse angosce, le stesse paure; le chiacchiere vuote degli spettatori nel foyer durante la pausa dello spettacolo valgono quanto quelle degli attori sul palco. Il lessico e le strutture sintattiche che utilizziamo sono per lo più significanti senza significato, che non danno un quadro reale e completo di ciò che siamo, a livello personale e a livello esistenziale. In “1980”, a restituire al linguaggio la funzione comunicativa è il corpo, o meglio, la danza. Per Pina Bausch danza non significa soltanto ballo, ma tutto ciò che tramite il movimento smaschera la finzione linguistica in cui siamo immersi. Per questo motivo in “1980” di danza vera a propria ce n’è poca. Le scene sono spesso senza musica: una donna trucca un uomo seduto su una sedia. Con la matita gli accentua l’arco delle sopracciglia, poi con il rossetto gli marca e ingrandisce i capezzoli. Gli solleva le mani incrociandogliele a coprire il petto, come se fosse davvero una donna. A quel punto gli infila dieci fiammiferi fra le dita dei piedi, li accende e canta “Happy birthday to you”. L’uomo rimane immobile e quando il fuoco brucia completamente il legno dei fiammiferi e raggiunge le dita si alza, va in fondo al palco e ripete l’operazione da solo. Un’altra attrice prende sulle proprie gambe un ballerino e lo culla come fosse un bambino. Lo fa alzare, lo guarda in maniera sensuale e gli sbottona i pantaloni che cadono a terra. La scena è straniante, i ruoli si confondono, la madre diventa amante o viceversa. La donna fa nuovamente accomodare l’uomo sulle proprie ginocchia, a pancia in giù, quasi lo volesse sculacciare. Lo sguardo della donna, fisso sul pubblico, non è certo materno, comunica curiosità morbosa e desiderio impellente. La donna solleva le mutande dell’uomo e dà un piccolo colpo con la mano su ciascuna delle due natiche: una sculacciata o una carezza? A quel punto entra in scena un’altra danzatrice che corre in tondo agitando sopra la propria testa un fazzoletto: “Io sono stanca”, dice con tono cantilenante. Si calma soltanto quando un uomo la solleva per la vita e corre esattamente come lei poco prima, tenendola in braccio. Durante l’intervallo, mentre gli spettatori escono a guardare i vagoni della Schwebebahn sfrecciare sospesi proprio di fronte al teatro, sul palco due giovani ballerini continuano a sfidarsi in corse mozzafiato e in giochi di abilità, ma non riescono a mettersi d’accordo su chi di loro sia il vincitore. Gli assistenti di scena rimettono a posto il manto erboso, qualche spettatore rimane seduto e parla al cellulare; le categorie tipiche del teatro sono già saltate: non esiste l’intervallo, non esistono le pause, esiste solo la vita, viva eternamente. La fine non ha parole La seconda parte dello spettacolo è delirante: un uomo con un bicchiere in mano tira l’acqua sul volto delle ballerine, disposte in fila quasi ad aspettare una punizione. È un atto di violenza gratuito che le donne accettano, anche se malvolentieri. Segue un quiz assurdo, un ballerino dalla platea interroga le donne in fila, a cui si sono aggiunti anche dei maschi. Tutti insieme sollevano il vestito o i pantaloni per mostrare le gambe, come se fossero a un concorso di bellezza. Nel frattempo devono parlare dei “dinosauri” o descrivere con tre parole la propria terra di origine. Le risposte sono infarcite di luoghi comuni: il linguaggio rivela di nuovo la propria natura superficiale e fasulla (le associazioni mentali sono a tal punto automatiche che alcuni ballerini rispondono in rima: la Germania è sintetizzata dalla triade “Adenauer, Beckembauer, Schopenauer” e l’Italia si riduce a “Fellini, Paganini, Tortellini”). Ancora una volta, sono i movimenti del corpo a svelare il carattere reale dei personaggi (i ballerini-attori recitano o rappresentano loro stessi?): alcuni si avvicinano al microfono con fare discreto e sussurrano le tre parole, altri invece corrono e urlano per emergere e farsi così ricordare dal pubblico, che ride, si diverte. Il soggetto dello spettacolo è quello più comico in assoluto, ovvero la vita umana. Una vera e propria tragedia. Che di tragedia si tratti, lo testimonia la ballerina che per ben due volte compare in fondo al palco e che, avulsa dal resto del corpo di ballo, danza da sola, con movenze simili a quelle della stessa Bausch in “Caffè Müller”. La scena finale lascia gli spettatori con l’amaro in bocca: una danzatrice rimane da sola di fronte a tutti gli altri attori, esattamente come era avvenuto nella prima parte dello spettacolo, quando tutto il corpo di ballo, a turno, salutava la donna che sembrava dovesse partire. Anche in questo caso, i dialoghi erano per lo più di circostanza: “Saluti tutti a casa”, “Peccato che tu te ne vada così presto”… Alla fine della piéce, invece, i protagonisti rimangono muti. La donna ha uno sguardo addolorato, gli altri ballerini la fissano con un misto di rabbia e dispiacere. La fine – o la morte – non prevedono parole. C’è solo la danza, una danza però immobile. I riflettori si spengono e gli spettatori si avviano lentamente veso la stazione della Schwebebanh. Il buio ha inghiottito anche il dipinto dell’allegro elefantino che cade con le zampe larghe. Nella mente rimane soltanto il turbinio di immagini gioiose, tragiche, tristi e isteriche che Pina Bausch ha messo in scena e la musica che le ha accompagnate: un concerto per violino e pianoforte di Beethoven, le trine delicate di Debussy, la leggerezza di Chopin e di alcune canzoni per l’infanzia: “Mamatschi schenk mir ein Pferdchen”, “Renate wandert aus” e “Somewhere over the rainbow” (la colonna sonora del film “Il mago di Oz”), cantata in successione da Judy Garland a 16 anni e poi in età più matura, poco prima di morire, quando la sua voce era più roca e ormai spenta. La Schwebebahn lascia la stazione di “Alter Markt-Opernahuas” e agli spettatori non resta che guardare dai finestrini le rare luci della città che il Wupper cattura, scompone e infrange. I passeggeri parlano sommessamente per non rompere l’inganno che il buio nasconde: la vita non è sul vagone che viaggia sospeso nella notte della Ruhr, è rimasta sull’erba del palcoscenico di “1980”. Christian Eccher 8 palcoscenico Mercoledì, 2 maggio 2012 CARNET PALCOSCENICO rubriche a cura di Carla Rotta TEATRO Il cartellone del mese IN CROAZIA IN ITALIA Teatro Nazionale Ivan de Zajc - Fiume Politeama Rossetti - Trieste 5 e 7 maggio ore 19.30 La forza del destino di G. Verdi. Regia Ozren Prohić. Interpreti Davor Lešić, Siniša Hapač, Vedrana Šimić, Olga Kaminska, Ivica Čikeš, Siniša Štork, Marko Mimica, Kristina Kolar, Ozren Bilušić, Sergej Kiselev, Mirko Čagljević, Marijan Padavić, Anamarija Knego, Milica Marelja, Ivanica Vunić, Dario Bercich 9, 10 e 11 maggio ore 19.30 I pagliacci di P. Leoncavallo. Regia Plamen Kartalov. Interpreti Davor Lešić, Janez Lotrič, Olga Kaminska, Olga Šober, Siniša Hapač, Armando Puklavec, Mirko Čagljević, Sergej Kiselev, Marko Fortunato, Robert Kolar 14 maggio ore 17; 15 maggio ore 12 e 19.30 La foresta di Stribor da I. B. Mažuranić. Libretto e regia Ozren Prohić. Interpreti Siniša Štork, Sergej Kiselev, Mirella Toić, Anđelka Rušin, Davor Lešić, Voljen Grbac, Kristina Kolar, Anamarija Knego Vidović, Marijana Radić, Robert Kolar 17 e 18 maggio ore 19.30 Un bel luogo per morire da Damir Karakaš. Regia Dalibor Matanić. Interpreti Frano Mašković, Denis Brižić, Damir Orlić, Alex Đaković, Anastazija Balaž Lečić, Davor Jureško, Predrag Sikimić, Andreja Blagojević, Adnan Palangić, Biljana Torić, Olivera Baljak, Jasmin Mekić, Tanja Smoje, Sabina Salamon, Jelena Lopatić, Žarko Radić, Nenad Vukelić, Dražen Mikulić, Tanja Tišma, Deana Marčić, Mar- ta Kanazir, Dimitrij Andrejčuk, Dean Rožić 22, 23 e 24 maggio ore 19.30 Possa tua madre... di V. Rudan. Regia Tatjana Mandić Rigonat. Interpreti Edita Karađole, Zoja Odak, Jelena Lopatić, Aleksandra Stojaković, Nenad Šegvić, Marija Geml, Sabina Salamon, Andreja Blagojević, Olivera Baljak, Biljana Torić, Marija Dmejhal, Ruža Marić, Ana Radoja, Meryl 22 maggio ore 19.30 Il trovatore di G. Verdi. Regia Andrej Žagars. Interpreti Vitomir Marof, Melba Ramos, Jeniece Golbourne, Rafael Rojas, Luciano Batinić, Martina Klarić, Mario Bokun, Robert Palić, Neven Mrzlečki 25 e 26 maggio ore 19.30 Camere da letto di Alan Ayckbourn. Regia Paola Galassi. Interpreti Elvia Nacinovich. Bruno Nacinovich, Leonora Surian, Giorgio Amodeo, Rosanna Bubola, Giuseppe Nicodemo, Elena Brumini, Woody Neri, Oscar Genovese 29 e 30 maggio ore 19.30 La vie parisienne di C. Offenbach. Regia Dora Ruždjak Podolski. Interpreti Sergej Kiselev, Robert Kolar, Kristina Kolar, Bojan Šober, Ozren Bilušić, Olga Kaminska, Martina Burger, Voljen Grbac, Saša Matovina, Dario Bercich, Voljen Grbac, Vanja Zelčić, Marija Buzdovačić, Marijana Prohaska, Gorana Biondić, Voljen Grbac, Dario Bercich, Anamarija Knego, Ivanica Vunić, Stanislava Vlajnić, Vivien Galetta, Ljubov Košmerl, Ivana Šarić, Nataša Grbčić, Vendi Pogorelić, Marko Fortunato, Predrag Radanović 31 maggio ore 19.30 Single di Jasna Žmak. Regia Matija Ferlin. Interpreti Csilla Barath Bastaić, Lada Bonacci, Jadranka Đokić, Lana Gojak, ti Ciclo: Musical e grandi even- 2, 3, 4 e 5 maggio ore 20.30; 5 e 6 maggio ore 16 Elisabeth liriche di Michael Kunze. Regia Harry Kupfer. Interpreti Annemieke Van Dam, Mark Seibert, Kurosch Abbasi, Oliver Arno, Mathias Edenborn, Betty Vermeulen, Elissa Huber, Elissa Huber, Dennis Kozeluh, Ann Christin Elverum, Sophie Blümel, Sanne Mieloo, Alice Macura, Angela Hunkeler, Linda Konrad, Kira Primke, Marthe Römer, Thorsten Tinney, Martin Markert, Lars Rindelaub, Martin Pasching, Jan Altenbockum, Sven Fliege, Gernot Romic, Claudia Wendrinsky, Lieselot Meurisse, Martin Planz, Sascha Kurth, Johan Vandamme 15, 16, 17, 18 e 19 maggio ore 20.30; 17, 19 e 20 maggio ore 16 Joseph and the amazing technicolor dreamcoat liriche di Tim Rice. Regia Bill Kenwright. Interpreti: Keith Jack, Jennifer Potts, Henry Metcalfe, Adam Jarrell, Kevin Grogan, Camilla Rowland, Joseph Houston, Richard J Hunt, Ryan Gibb, Michael Ward, Richard J Hunt, Joseph Houston, Nathan Vaughan Harris, Adam Jarrell, Collette Coleman, Charlie Taylor, Camilla Rowland Teatro lirico Giuseppe Verdi - Trieste 17, 22, 23, 25 maggio ore 20.30; 20 maggio ore 16; 26 maggio ore 17 L’amico Fritz di Pietro Mascagni. Regia Daniele Salvo. Interpreti Massimo Giordano, Roberto Iuliano, Alexia Voulgaridou, Patrizia Orciani, Irini Karajanni, Eufenia Tufano, Paolo Rumetz, Piero Terranova La Contrada – Trieste Ivana Krizmanić, Dijana Vidušin, Ana Vilenica, Romina Vitasović, Silvio Vovk, Vedran Živolić, Matija Ferlin 17 maggio ore 21 Niente di importante Marco Masini in concerto La Contrada ai Fabbri 8 - 13 maggio Il contrabbasso di Patrick Suskind. Interpreti Adriano Girali e Giovanni Maier Teatro cittadino - Pola Interpreti Mia Krajcar, Vesna Tominac, Elis Lovrić, Lana Gojak, Damjan Simić, Romina Vitasović, Helena Minić, Rade Radolović 28 maggio ore 10 24, 25 e 26 maggio ore 20 Pietre di Toma Lycosa e SteLo stesso volto (ovvero i pe- fe Nantsoua. Regia Ivica Šimić. sci non parlano) di Tijana Vukić Interpreti Marko Hegedušić e FiStjelja. Regia Ivan Leo Lemo. lip Lozić 11 maggio ore 20 Da vicino di Patrik Marber. Regia Dino Mustafić. Interpreti Eva Kraš, Matevž Biber, Branko Jordan, Nataša Matjašec Rošker IN SLOVENIA Teatro cittadino - Capodistria 6 maggio ore 20 La sedia di Elia di Darko Lukić. Regia Boris Liješević. Interpreti Svetozar Cvetković, Vlastimir - Đuza Stojiljković, Maja Izetbegović, Jelena Trkulja, Renata Ulmanski, Bane Jevtić 9 e 17 maggio ore 20 Filumena Marturano di Eduardo de Filippo. Regia Katja Pegan. Interpreti Saša Pavček, Bine Matoh, Ivo Barišič, Teja Glažar, Lara Jankovič, Ajda Toman, Blaž Popovski, Igor Štamulak, Rok Matek, Blaž Valič 23 maggio ore 20 Test di paternità di Lukas Bärfuss. Regia Nenni Delmestre. Interpreti Igor Štamulak, Pavle Ravnohrib, Rok Matek, Ajda Toman, Lara Jankovič 30 maggio ore 20 Due di Jim Cartwright. Regia Katja Pegan. Interpreti Sandra Boršič, Mikela Veren, Tomaž Boškin, Blaž Popovski, Goran Dokič Anno VIII / n. 64 del 2 maggio 2012 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: PALCOSCENICO Redattore esecutivo: Carla Rotta / Impaginazione: Annamaria Picco Collaboratori:Christian Eccher, Rossana Poletti Foto: Archivio e internet