Significato degli autoanticorpi non organo specifici nell`epatite

Oggi
Vol. 96, N. 12, Dicembre 2005
Pagg. 589-593
Significato degli autoanticorpi non organo specifici
nell’epatite cronica correlata ad HCV
Marcello Guidi, Paolo Muratori, Alessandro Granito, Luigi Muratori,
Georgios Pappas, Francesco B. Bianchi
Riassunto. La domanda preliminare ad ogni considerazione riguardo al problema clinico del trattamento dei soggetti positivi per HCV e autoanticorpi è la seguente: è necessario ricercare autoreattività anticorpali nei soggetti in cui il trattamento con antivirali
è ritenuto necessario? Il razionale della domanda sta nelle varie osservazioni della comparsa di esacerbazioni importanti delle transaminasi, in particolare nei soggetti LKM1
positivi, in corso di trattamento con interferone. I dati presenti in letteratura sui rapporti
tra positività autoanticorpale ed esito del trattamento antivirale sono pochi e discordanti, in particolare se si considerano quelli che si riferiscono ai farmaci ed ai protocolli più
recenti (interferone pegilato, terapia combinata interferone + ribavirina). Per valutare
appieno l’impatto che la presenza di reattività autoanticorpali possono avere sull’esito
della terapia combinata si rendono necessari studi specifici prospettici. Al momento attuale va ribadito che, se non esistono controindicazioni tassative al trattamento, deve essere raccomandato in tali pazienti uno stretto monitoraggio dei parametri epatici durante tutto il periodo di trattamento. Questo alla luce della ricordata possibilità della comparsa di esacerbazioni importanti delle transaminasi, in particolare nei soggetti LKM1
positivi, in corso di trattamento con interferone.
Parole chiave. Anticorpi LKM e virus C, autoanticorpi non organo specifici, epatite cronica correlata ad HCV.
Summary. Significance of non organ specific autoantibodies in HCV related chronic
hepatitis.
The preliminary question regarding the clinical issue of the antiviral therapy in the
HCV related chronic hepatitis patients is: is it mandatory the research for the autoantibodies in the elegible patients for the antiviral treatment? This issue is of particular interest at the light of the the reported cases of HCV positive patients with positivity for
liver kydney microsome type 1 antibody who developed a hepatitic flare during the antiviral treatment. The data from literature about the efficacy and safety on the antiviral
treatment in patients with autoantibodies are few and controversial, particularly if the
ones regarding antiviral drugs and more recent treatment regimens are taking into account (peg-interferon, combined therapy of interferon and ribavirin). Large and prospective studies are needed for a thorough evaluation about the potential impact of autoantibodies reactivity on the therapeutic outcome. To date, it must be confirmed that a strict
monitoring of hepatic parameters is to recommend during the whole treatment phase.
This in the light of a potential appearance of significant flares of aminotransferases, particularly in subjects with anti LKM1 autoantibodies, during interferon therapy.
Key words. Hepatitis C, liver kidney microsomal antibody, non organ specific autoantibodies.
Dipartimento di Medicina Interna, Cardioangiologia, Epatologia, Università Alma Mater Studiorum, Policlinico
Sant’Orsola-Malpighi, Bologna.
Pervenuto il 13 luglio 2005.
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Recenti Progressi in Medicina, 96, 12, 2005
L’epatite cronica correlata a HCV, a differenza
Recenti acquisizioni hanno permesso di indidelle epatiti sostenute dagli altri virus epatotropi
viduare nell’interazione tra il complesso di costi(HBV con o senza HDV), è frequentemente caratmolazione del linfocito B (la tetraspannina
terizzata dalla presenza di autoreattività non orCD81, CD19 e CD21) e la regione E2 dell’envelogano specifiche.
pe del virus C uno stimolo capace di indurre
Vi è ormai omogeneità nei dati presenti in letespansione clonale degli stessi linfociti, la loro
teratura nel valutare complessivamente attorno al
attivazione policlonale e il conseguente possibile
25-30%1,3 la prevalenza complessiva degli autoansviluppo di disordini autoimmuni clinicamente
ticorpi in corso di tale patologia.
rilevanti5.
Il concetto di “molecuSotto il profilo qualitativo, le reattività che poslar mimicry”, l’idea cioè
che la condivisione di sesono manifestarsi in corso
L’evidenza che la presenza di autoanticorpi
quenze aminoacidiche
di infezione da HCV ricaldetermina un quadro di malattia maggioromologhe fra “non self”
cano quelli che sono i marmente attiva e severa sia sotto il profilo
(come virus, batteri, farcatori diagnostici sierolobioumorale sia sotto quello istologico non
maci) e “self” in soggetti
gici delle differenti forme
dirime i dubbi circa il loro significato; essi
geneticamente predispodi epatite autoimmune
partecipano alla genesi e/o alla perpetua(EAI): anticorpi antinucleo
sti comporti lo sviluppo di
zione del danno epatico e quindi hanno una
una azione immunitaria
= ANA, anticorpo anti muvalenza patogenetica? Oppure altro non soche, indotta e scatenata
scolo liscio = SMA, antino che l’espressione di una peculiare (abdal “non self”, venga poi
corpo anti liver kidney minorme?) reattività immunologica (geneticamantenuta e perpetuata
crosomal = LKM1; per
mente determinata ?) di fronte ad uno sticontro il “self” (che col
quanto sia necessario sotmolo virus-indotto?
“non self” condivide omotolineare come la loro prelogie di sequenza), rapsenza possa essere esprespresenta un’ulteriore iposione solo in casi sporadici
tesi che potrebbe giustificare l’elevata prevalenza
di una concomitante patologia autoimmune sottodi autoanticorpi in corso di epatite C.
stante che impone variazioni nella gestione del paTale meccanismo, reiteratamente chiamato in
ziente ed indirizza la scelta terapeutica.
causa per spiegare la comparsa dell’LKM1 sulla
Vi sono elementi propri degli autoanticorpi che
base di omologie di sequenza interessanti la polipermettono di ipotizzare il loro eventuale signifiproteina del virus C e il citocromo 450IID6 (target
cato clinico.
antigenico dell’LKM1)6, è stato di recente proposto
Il titolo dell’autoanticorpo e il suo pattern imanche per le reattività ANA e SMA.
munomorfologico di positività sono sicuramente
elementi di aiuto nella discriminazione fra un autoanticorpo di poca rilevanza diagnostica ed uno le
cui implicazioni cliniche possono essere importanti per la gestione del paziente. In generale, le difFra le reattività autoanticorpali che possono
ferenze fra EAI ed infezione da HCV sono sostancaratterizzare l’epatopatia cronica correlata
zialmente di natura quantitativa; infatti i titoli
ad HCV, l’LKM1 rappresenta quella che sicudelle reattività presenti in corso di EAI sono signiramente ha la prevalenza minore (1-5% dei
ficativamente più elevati; meno rilevanti le diffepazienti HCV positivi) rispetto all’ANA e allo
renze di tipo qualitativo, anche se va sottolineato
SMA1,2, ma maggiormente conosciuta sia sotcome vi siano pattern immunomorfologici (per
to il profilo della struttura antigenica che delesempio lo SMA con pattern peritubulare, denola caratterizzazione immunologica; rappreminato SMA-T, e l’ANA omogeneo) che associano
senta inoltre l’autoanticorpo la cui presenza
strettamente con l’EAI2,4.
comporta le maggiori implicazioni cliniche soIl fatto che la metodica di riferimento per il riprattutto per quanto riguarda l’approccio televamento degli autoanticorpi continui ad essere
rapeutico.
l’immunofluorescenza indiretta porta in sé il bias
legato all’esperienza ed alla soggettività dell’operatore. Questo è uno dei motivi per cui è stato di reRispetto all’ubiquitarietà delle altre reattivicente proposto un Consensus statement da un
tà, l’LKM presenta una distribuzione geografica
gruppo di esperti facente parte dell’International
che lo rende maggiormente frequente in Europa
Autoimmune Hepatitis Group (IAHG) per cercare
rispetto al Nord America, dove il suo riscontro è
di unificare i vari aspetti metodologici e promuovesporadico o pressoché inesistente; un aspetto
re uno scambio di sieri di riferimento fra i differenquesto in cui un ruolo non secondario potrebbe
ti laboratori al fine di ottimizzare la standardizzaessere svolto dalla predisposizione genetica in
zione del test.
grado di influenzare la sua espressione (HLA
Sotto il profilo epidemiologico, come in tutte le
DR7); infatti è stata di recente descritta una sipatologie autoimmuni, anche la prevalenza degli
gnificativa associazione fra l’allele HLA DR7 e
autoanticorpi in corso di epatite C è più elevata nel
pazienti italiani con epatite C e positività per
sesso femminile, senza una specifica distribuzione
l’LKM17.
per fascia di età.
M. Guidi et al.: Significato degli autoanticorpi non organo specifici nell’epatite cronica correlata ad HCV
Il target antigenico dell’LKM1 è rappresentato
dall’isoforma IID6 del citocromo P450
(CYP450IID6), ed in particolare da alcune sequenze aminoacidiche ben caratterizzate che fungono da autoepitopi sia nella loro struttura conformazionale che in quella lineare.
Come noto, in assenza di infezione da HCV,
l’LKM1 caratterizza l’EAI di tipo 2. È ovvio che
dalla scoperta del virus C dell’epatite e dal riscontro della sua associazione con l’LKM1, l’attenzione
è stata volta a verificare se al pattern immunomorfologico dell’LKM1, assolutamente identico sia
in corso di infezione da HCV sia in caso di EAI di
tipo 2, sottendesse una diversa reattività a livello
molecolare. La conclusione di questi studi è che sono più d’una le sequenze aminoacidiche che determinano la reattività contro il CYPIID6 e i vari studi in proposito hanno evidenziato una certa eterogeneità immunologica, distribuita comunque su
un quadro di ampia condivisione antigenica8.
La rilevanza della reattività LKM1 risiede, oltre alla sua specificità per patologie epatiche (specificità che manca all’ANA e allo SMA), nell’ipotesi che il suo ruolo oltrepassi quello di semplice
marcatore immunologico e che esso possa avere
un ruolo attivo nella patogenesi del danno epatico; la recente dimostrazione dell’espressione del
CYPIID6 sulla membrana di epatociti integri giustifica la possibilità che gli effettori del sistema
immunitario possano raggiungere ed aggredire le
cellule bersaglio e indurre/perpetuare il danno
epatico9.
Ulteriore supporto al coinvolgimento diretto
dell’LKM1 nello sviluppo del danno epatico deriva
dall’evidenza di una più bassa viremia nei casi
HCV/LKM1 rispetto ai pazienti HCV positivi ma
LKM1 negativi, per cui in modo indiretto è verosimile ipotizzare che in tali casi il danno epatico possa essere sostenuto anche dalla componente autoimmunitaria e non solo virus-mediato10. In parziale disaccordo con quanto soprariportato circa il
suo potenziale coinvolgimento in ambito patogenetico, si segnala che il titolo dell’LKM1 non varia
sotto il profilo quantitativo in corso di terapia immunosoppressiva attuata nei casi di EAI di tipo 2,
come invece sarebbe plausibile ipotizzare11.
L’importanza clinica dell’LKM1 risiede soprattutto nel fatto che sono stati descritti casi in cui –
in corso di terapia interferonica in pazienti
HCV/LKM1 positivi – si è verificata una esacerbazione epatitica importante (con valori di transaminasi anche superiori a 1000 UI) che ha richiesto la
sospensione del farmaco e in taluni casi l’introduzione di terapia immunosoppressiva per “spegnere“ la flogosi12,15. La stessa terapia era senza effetti collaterali nella maggior parte dei casi. La spiegazione più plausibile al riguardo è che nei casi che
hanno presentato esacerbazione epatitica l’azione
immunostimolante/immunomodulatoria dell’IFN
abbia svelato una condizione di autoimmunità fino
ad allora latente, di cui la presenza di LKM1 era
spia. La possibilità che in tali pazienti possa svi-
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lupparsi un “flare” epatitico di per sé non controindica comunque l’istituzione di terapia con
IFN, anche alla luce di risultati sull’esito della terapia complessivamente analoghi a quelli dei pazienti LKM1 negativi, ma rende mandatoria in
tutti i pazienti con epatite C in cui è indicato il
trattamento con IFN la ricerca degli autoanticorpi
non organo specifici, e nei casi positivi per l’LKM1,
uno stretto monitoraggio laboratoristico.
La reattività ANA è reperibile nell’8-10% dei
casi di epatite C, una frequenza analoga a quella
osservata nelle popolazioni di controllo generale
(3-7%, nella nostra esperienza)1,3; le differenze relative alle percentuali riportate dalle diverse casistiche sono probabilmente da ascriversi alle caratteristiche delle popolazioni studiate (popolazioni
selezionate o popolazioni aperte, sesso ed età delle
stesse) e ad aspetti metodologici legati all’esecuzione dei test immunomorfologici.
La completezza di uno studio sulle reattività
ANA non può prescindere dalla loro caratterizzazione immunomorfologica mediante un particolare
substrato, proveniente da una linea cellulare neoplastica umana definita HEp-2, che permette di
differenziare i differenti pattern di positività; in
corso di epatite C, il pattern nucleare più comunemente riscontrato è lo “speckled”1,2, mentre si può
definire sporadica la presenza di altri pattern, tra
cui il pattern “diffuso” o “omogeneo” il quale in ambito epatologico associa all’EAI di tipo 116; un ulteriore elemento che caratterizza l’autoimmunità
“primaria” tra le reattività presenti in corso di patologia virale è costituito dal titolo, significativamente più elevato nei casi di EAI rispetto alle forme virali2; risulta comunque chiaro che i tentativi
di caratterizzare le reattività in funzione di differenze qualitative (pattern immunomorfologico di
positività) e quantitative (titolo anticorpale) esprimono l’attuale ignoranza circa la conoscenza molecolare dei diversi target antigenici.
Le considerazioni circa la presenza e il tipo di
reattività ANA riferite agli adulti sono totalmente
trasferibili all’età pediatrica17,18, in cui peraltro il
cut-off di positività degli autoanticorpi è più basso
(1:20 invece di 1:40) e dove permane l’eterogeneità
dei pattern rinvenuti e la rarità del pattern “diffuso”; quest’ultimo, se presente ad alto titolo, deve richiamare la possibile coesistenza di una epatite
autoimmune, da valutare attraverso l’analisi dei
parametri clinici, bioumorali, immunologici ed
istologici che compongono lo score cumulativo dell’EAI proposto dall’IAHG19, che consente di confermare una diagnosi di EAI “definita”o “probabile”, ovvero di escluderla.
Tale approccio, applicabile anche alle altre autoreattività riscontrate in corso di epatite C (SMA
e, soprattutto, LKM1), trova poi la sua ragione
pratica in quanto può contribuire ad orientare l’approccio terapeutico, di un tipo (interferone più ribavirina) in caso di patologia epatica virale, diametralmente opposto (steroidi con o senza azatioprina) in caso di epatite autoimmune.
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Recenti Progressi in Medicina, 96, 12, 2005
L’autoreattività SMA riconosce come target antigenici una vasta gamma di molecole nell’ambito
dei costituenti del citoscheletro, dai microfilamenti ai filamenti intermedi e ai microtubuli; sotto il profilo più strettamente molecolare, l’actina,
la vimentina, la tubulina e le citocheratine costituiscono le strutture proteiche più note e studiate
nell’ambito del network citoscheletrico. Se si
esclude la specificità anti-actina, proteina maggioritaria dei microfilamenti, sostanzialmente di
pertinenza dell’EAI di tipo 1, tutte le altre strutture proteiche possono essere interessate nell’induzione e nell’espressione della reattività SMA in
corso di epatite C.
Così come per l’ANA, anche la ricerca delle reattività SMA ha nella immunofluorescenza indiretta
la sua tecnica tuttora elettiva: in funzione del pattern morfologico espresso sul rene di ratto, una
classificazione accettata a livello internazionale
suddivide le specificità in SMA-V (corrispondente
alla positività delle pareti vasali), SMA-G (positività del mesangio glomerulare) e SMA-T (particolare
positività dei microfilamenti tubulari e del brush
border dei tubuli prossimali)20.
In corso di epatite C, la presenza dello SMA è riscontrabile con prevalenze variabili in casistiche
sia pediatriche che di adulti1-3,17,18, con segnalazioni che raggiungono il 60%; nella nostra esperienza
la prevalenza di SMA nella patologia cronica correlata ad HCV è del 20%, del 3-4% nelle popolazioni di controllo.
Nella stragrande maggioranza di casi si tratta
di positività a basso titolo e con pattern SMA-V, di
significato clinico pressoché assente; in casi sporadici è possibile comunque documentare reattività
più rilevanti, quali i pattern SMA-G e SMA-T che,
come accennato in precedenza, associano all’EAI di
tipo 14, ed il cui target antigenico, da identificare
tra i componenti dei microfilamenti, sarebbe rappresentato dalla F-actina; in questi casi è opportuna una attenta valutazione di tutto il contesto clinico ed il calcolo dello score cumulativo dell’IAHG
per la diagnosi di EAI, allo scopo di escludere la
possibile coesistenza di EAI con l’epatite C (non impossibile in regioni ad alta endemia dell’HCV) e di
effettuare la migliore scelta terapeutica.
Oltre alle classiche reattività sopracitate che
da sole coprono in modo pressoché completo la
gamma di autoanticorpi riscontrabili durante l’infezione da HCV, esistono altre reattività di riscontro sicuramente inferiore come frequenza, per
non dire di frequenza quasi aneddotica; è il caso,
per esempio, della reattività anti-liver cytosol
type 1 (LC1); tale autoanticorpo è quasi costantemente associato all’LKM1 ed insieme ad esso costituisce il marcatore dell’EAI di tipo 2; il pattern
dell’LC1 è caratterizzato da una fluorescenza che
interessa il fegato risparmiando caratteristicamente le filiere di epatociti viciniori alla vena centrolobulare, ed è “nascosto”, qualora coesista, dalla positività dell’LKM1; per questo la sua rilevazione necessita di metodiche di secondo livello
quali, ad esempio, il Western Immunoblot; di recente è stato identificato il target antigenico di tale reattività nella proteina del citosol epatocellulare formiminotransferasi-ciclodeaminasi 21. La
sua presenza in corso di epatite C è comunque meno frequente dell’LKM122, anche se di recente vi
sono dati in letteratura che lo evidenzierebbero
con una prevalenza superiore.
Gli anticorpi organo specifici, quali per esempio
gli anticorpi anti-insule pancreatiche, non sembrano presentare una significativa associazione
con l’epatite C.
Un discorso a parte merita forse l’autoimmunità tiroidea in corso di infezione da virus C dell’epatite; fra le inevitabili associazioni proposte
successivamente alla scoperta del virus C dell’epatite, l’associazione epatite C e autoimmunità tiroidea è quella che ha “resistito” maggiormente,
anche se la realtà dei fatti ha poi evidenziato prevalenze analoghe fra soggetti sani e pazienti infetti in studi su popolazioni aperte, smentendo
quindi la possibile associazione. L’associazione
viene invece riproposta su basi sicuramente più
solide per quanto riguarda l’induzione di una patologia tiroidea autoimmune in corso di terapia
con IFN; fra l’altro vi sono evidenze seminali che
suggeriscono che i pazienti con epatite C, positivi
per LKM1, abbiano una maggiore probabilità di
sviluppare una patologia autoimmune tiroidea,
probabilità che aumenta ulteriormente durante la
terapia con interferone, lasciando presupporre
dunque una genesi multifattoriale di tale associazione.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Dott. Paolo Muratori
Policlinico S. Orsola-Malpighi
Dipartimento di Medicina Interna, Cardioangiologia,
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via Massarenti, 9
40138 Bologna
Email: [email protected]
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