DESTINAZIONE
CASA BIANCA
di Giorgio De Giorgio
Una rassegna cinematografica alla vigilia dell'elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti
il prossimo 4 novembre. Sette film per riflettere sulle ossessioni ricorrenti del potere
americano. Sette capolavori del cinema per tornare a pensare in grande alla politica.
settembre-ottobre 2008
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
viale Monza, 140 - 20127 Milano
www.cineforumdelcircolo.it
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INTRODUZIONE
Q
uando si dice il fascino del Potere. Probabilmente ne siamo abbastanza consapevoli, ma forse non è facile immaginare quanto ne sia influenzato il cinema
americano. Vogliamo vedere? Proviamo a dire quanti film hanno tra i propri personaggi, come protagonista o comunque presente, un Presidente degli Stati Uniti? E’forse
difficile crederci, ma sono circa un migliaio! E tra questi tutte le possibili combinazioni:
film su Presidenti veri (Nixon, Kennedy, Lincoln, ecc.), su Presidenti di fantasia, Presidenti
neri, Presidenti donna, Presidenti per ogni occasione. E’certo un dato “spiazzante”, e
neanche definitivo, visto che ogni quattro anni si apre un nuovo capitolo che Hollywood
sicuramente utilizzerà da par suo.
Prestissimo infatti la Casa Bianca avrà un nuovo inquilino. Siamo tutti in attesa di
conoscere chi vincerà la competizione elettorale per la presidenza degli Stati Uniti. E’ un
evento che coinvolgerà per quattro (o otto) anni il destino di quasi tutta l’umanità. E non è
un’esagerazione. Se solo guardiamo i fatti che si sono succeduti nell’ultimo secolo, possiamo osservare che essi sono stati determinati quasi sempre da scelte compiute dal
Presidente in carica che il resto del mondo ha dovuto accettare e non sempre ha condiviso.
Il ruolo di sentinella della civiltà occidentale che gli Usa hanno rivestito e continuano ancora a interpretare fa sì che le scelte degli Stati Uniti diventino scelte per tutto il resto del
mondo. Sarà dunque per questa centralità “imperiale” che anche Hollywood ne risente in
maniera forte. Naturalmente non solo per la capillare penetrazione commerciale dei suoi
film in tutto il mondo, ma anche per la consuetudine a rappresentare spesso e disinvoltamente i Presidenti, veri o immaginari che siano, nei film che sforna con regolari cadenze.
Che sia questo un fenomeno prettamente americano è testimoniato indirettamente dalle
altre cinematografie rilevanti. In Europa i film relativi a Presidenti o Primi Ministri sono
delle vere eccezioni - a parte due casi limite come Hitler e Mussolini, che sono stati rappresentati spesso per la portata degli effetti che hanno determinato. Da noi, fatta eccezione
per il caso Moro che dopo trent’anni dagli eventi ancora suscita interesse cinematografico,
il solo De Gasperi (Anno uno, 1974, Roberto Rossellini) è stato rappresentato in piena
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maniera biografica. E solamente in effigie si sono visti i Presidenti della Repubblica in carica in uffici statali, commissariati, scuole, come artificio per connotare il tempo dello
svolgimento delle storie narrate dai film. E non capita certo che nei dialoghi di film di pura
fiction vengano citati uomini politici con la normalità e la disinvoltura dei film americani.
Qualche esempio per capirci. In “Die Hard – Duri a morire “ (Die Hard: With a Vengeance,
1995) un Bruce Willis scatenato in piena azione cita il Presidente Chester Arthur (18811885). Così Walter Matthau in “Il colpo della metropolitana” (The Taking of Pelham One
Two Three, 1974) alle prese con una spettacolare rapina nomina il Presidente Roosevelt
(1933-1945). Se questo non accade, per esempio, nel nostro cinema (non si ricordano battute su Giolitti o Cavour nelle commedie all’italiana) è forse perché la storia da noi non ha
la stessa valenza che nella scuola americana? Forse perché gli allievi americani all’inizio
delle lezioni cantano l’inno nazionale rivolgendosi alla bandiera come in “Peggy Sue si è
sposata” (Peggy Sue Got Married, 1986, Francis Coppola), e da noi no? In quale delle due
culture il Potere dimostra più “sacralità”? Quando viene esibito o quando viene sottaciuto?
Forse nelle nazioni che hanno avuto lunghi periodi di continuità politica risulta più naturale citare il Re, il Presidente, l’Imperatore o addirittura il Papa del momento storico a cui
ci si vuole riferire. Ed è così più facile imparare una determinata sequenza di nomi. O quali
altre ragioni di ordine superiore confluiscono nelle scelte di chi pensa, realizza e ci presenta
tanti film con il potere come protagonista?
HOLLYWOOD, POLITICA E POTERE
E
’ anche vero che il cinema hollywoodiano si è subito mostrato affascinato dal potere,
ben comprendendo di essere esso stesso potere. “La nascita di una nazione” (The
Birth of a Nation), opera diretta da David Griffith già nel 1915, è un film in tal senso
anticipatore e fondante. Infatti, non solo è importante nella storia del cinema per le tecniche
innovative che apportava alla settima arte, ma anche per avere incominciato a mostrare
potere e contropotere in piena azione dialettica.
Il film è una apologia della segregazione razziale, di cui tenta di fornire radici e giustificazioni storiche. Si inserisce nel movimento culturale che portò all’ascesa del Ku Klux
Klan, arrivando a dipingere in modo positivo il linciaggio di un nero da parte di una folla
di bianchi. Nel titolo venne rispecchiata la tesi del regista secondo cui, prima della guerra
civile americana, gli Stati Uniti erano solo un gruppo di piccoli stati antagonisti tra loro, e
che alla vittoria nordista va dato il merito di aver consolidato la nazione come la conosciamo oggi. Il punto più critico del film è nella tesi secondo cui il Ku Klux Klan sarebbe
nato per imporre l’ordine al Sud scosso dagli effetti della guerra, “messo in pericolo” dai
suoi “incontrollabili” cittadini neri e dai loro alleati abolizionisti, mulatti e politici repubblicani traditori. E parte del film ha già come argomento la competizione politica per eccellenza, le elezioni, per lo stato del South Caroline.
Da allora ad oggi, per decenni, sono state rappresentate le vicende che si andavano svolgendo presentando al pubblico americano e poi a quello di tutto il mondo “verità” cinematografiche con un fortissimo potere di suggestione a cui è sempre stato difficile, gene4
razione dopo generazione, sottrarsi.
JOSEPH McCARTHY
D
’altra parte, come non subire le suggestioni che ci arrivano dalla presunta attività
nascosta che la United States Information Agency svolgerebbe fin dal 1953, come
da anni sostiene un polemico libellista che si cela sotto lo pseudonimo di John
Kleeves? E come si fa a non avere presente la buia parabola della HUAC (House UnAmerican Activities Committee - Comitato d’inchiesta contro le attività anti-americane )
presieduta dal senatore Joseph McCarthy, questa, sì, interamente pubblica e ormai fatto
storico acquisito? Vogliamo ricordarlo un momento?
Il “maccartismo” affonda le sue radici nella reazione della destra americana al Work Project
Administration (WPA), che rientrava nella più vasta rete d’interventi sociali grazie ai quali
gli Stati Uniti uscirono dal periodo della Grande Depressione, il new deal roosveltiano
degli anni Trenta. L’affermarsi dei fascismi in Europa e l’invasione hitleriana all’Europa
centrale fecero prendere coscienza agli Stati Uniti del pericolo totalitario fino ad allora
ignorato, con il conseguente impegno nella seconda guerra mondiale.
Tuttavia, subito dopo l’affermazione delle forze alleate, il pericolo rosso tornò ad essere la
principale preoccupazione della politica nazionale americana, tanto che la HUAC raggiunse l’apice della sua opera negli anni che vanno dal 1947 al 1954, soprattutto grazie
all’appoggio del suo più fervido sostenitore, il senatore repubblicano del Wisconsin Joseph
McCarthy.
Con McCarthy la commissione scatenò la sua
offensiva contro l’industria hollywoodiana.
Proprio agli inizi del 1947 l’associazione dei produttori Motion Picture Association of America
(MPAA) decise di denunciare dieci suoi associati
tra sceneggiatori e registi, diventati tristemente
noti come “i dieci di Hollywood”: Edward
Dmytryk (che in seguito rinnegherà la propria
partecipazione ai movimenti liberali di quegli
anni), Dalton Trumbo, Samuel Ornitz, Herbert
Biberman, Lester Cole, Alvah Bestie, Ring
Lardner, Adrian Scott, Albert Maltz, John Howard
Lawson. Quest’ultimo fu il primo ad appellarsi al
primo emendamento della costituzione americana,
che garantisce a ogni cittadino la libertà delle proprie opinioni politiche, religiose e filosofiche.
Nonostante anche gli altri nove si rifacessero al
primo emendamento, l’affermarsi di un atteggiaIl senatore Joseph McCarthy, presiden- mento sempre più prudente da parte dei capitani
te del Comitato di inchiesta contro le
della maggiore industria cinematografica del
attività antiamericane.
5
A sinistra: il regista Edward Dmytrick; al centro: lo sceneggiatore e regista Dalton Trumbo;
a destra l’attore Zero Mostel.
Tutti finirono nelle Black List, ma, mentre Dmytrick rinnegò le proprie idee pur di poter tornare
a lavorare a Hollywood, gli altri due pagarono pesanti conseguenze per la coerenza alle loro
idee.
mondo fu inevitabile, tanto che la stessa MPPA istituì una blacklist con i nomi dei sospettati di comunismo, soprattutto dopo le condanne penali a danno dei “dieci”, alcuni dei quali
si diedero alla fuga proprio per evitare la galera.
Edward Dmytryk non fu di certo l’unico personaggio dello spettacolo a rinnegare le proprie idee pur di tornare a lavorare a Hollywood, ma fu il primo a fare mea culpa di fronte
alla HUAC. E lo fece nel momento peggiore per la democrazia degli Stati Uniti, quando i
coniugi Rosenberg vennero condannati per attività spionistiche e antiamericane, sospettati
di aver consegnato all’URSS, sette anni prima, ricerche sulla bomba atomica.
Nel 1951 la HUAC ebbe un peso determinante nella condanna a morte di Julius e Ethel
Rosenberg. Fu sempre nel 1951 che un altro giovane senatore repubblicano della
California, Richard Nixon, venne alla ribalta come suo sostenitore. Alcuni registi
preferirono nel frattempo emigrare all’estero: Losey in Inghilterra, Welles in diverse parti
d’Europa, in Svizzera Charles Chaplin, a cui venne cancellato il visto di rientro quando lasciò gli USA per un soggiorno in Europa nel 1952 (di fatto la sua carriera cinematografica
negli USA finì nonostante non venisse riconosciuto colpevole di alcun reato). Altri, invece,
subirono processi che sfiancarono le loro famiglie, i loro figli, le loro amicizie e soprattutto le loro identità. Molte delle personalità inquisite furono costrette a lavorare sottopagate,
sceneggiando film o dirigendoli sotto pseudonimi.
BLACKLIST
C
hi pagò più di tutti furono gli attori: Zero Mostel deve probabilmente gran parte
della sua fama al fatto di essere stato inserito nelle blacklist negli anni ‘50, prima di
essere chiamato da Mel Brooks per “Per favore non toccate le vecchiette” (The
Producers, 1968). Mostel non era un divo e la sua vita fu rovinata da un giorno all’altro.
Il cinema ci mise tempo ad affrontare questo periodo nero della democrazia americana.
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Kirk Douglas in una scena di Spartacus, il film diretto da Stanley Kubrick e sceneggiato da
Dalton Trumbo, leggibile, con gli occhi di oggi, come reazione al periodo del maccartismo
Tuttavia, oggi è possibile leggere alcuni film hollywoodiani dagli anni Sessanta in poi
come reazione al maccartismo: per esempio Spartacus (1960), sceneggiato da Dalton
Trumbo e diretto da Stanley Kubrick.
Fino al 1976 tuttavia il tema del maccartismo non fu mai al centro di un film. In quell’anno , l’ex blacklisted Martin Ritt realizzò con Woody Allen protagonista “Il prestanome”
(The Front), un film che affronta la vicenda dal punto di vista di coloro che furono costret-
Scena da Il prestanome, di Martin Ritt,
con Woody Allen.
Nel film, ambientato
ai tempi delle Black
List, compare come
protagonista l’attore
Zero Mostel, perseguitato dal maccartismo.
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Scena tratta da Good
Night and Good
Lucke, di e con
George Clooney
ti a lavorare sotto falso nome, sfruttati e sottopagati, come Dashiell Hammett, Abraham
Polonsky, Robert Rossen, Walter Bernstein (che fu anche lo sceneggiatore del film di Ritt).
Tra i partecipanti anche Zero Mostel, che ha così potuto rappresentare la sua personale
vicenda.
Nel 1991 invece, in “Indiziato di reato “(Guilty by Suspicion), Irwin Winkler affronta il
tema dal punto di vista delle ripercussioni sulla vita quotidiana, sugli affetti più cari, sulle
amicizie, concentrando la vicenda su un regista accusato di essere comunista, interpretato
da Robert De Niro.
Nel suo recente Good Night and Good Luck (2005) George Clooney ha ripreso la tematica
del maccartismo . “Edward Murrow, insieme con suo producer Alfred Friendley interpretato dallo stesso Clooney, si battè contro il maccartismo, cioè l’ideologismo dogmatico, la
demonizzazione dei nemici politici presentati e perseguiti come pericolosi sovversivi. Il
film si concentra su quel periodo della lunga vita giornalistica del protagonista, che in realtà
era celeberrimo in America per i suoi intrepidi reportage radiofonici durante i bombardamenti nazisti su Londra. La trama diventa così un po’ troppo ermetica per chi non conosce
gli antefatti, fino quasi a risultare incomprensibile. Ma nell’America di Bush, della destra
religiosa, del dogmatismo neoconservatore, è stato un film pieno di significati e coraggioso”. (Paolo Galimberti)
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SENATORI, GOVERNATORI E SINDACI
É
comunque sorprendente constatare che prima e dopo la bufera della “caccia alle
streghe” di McCarthy sono veramente numerosi i film che hanno come personaggio
rilevante, se non addirittura protagonista, figure tipiche del potere americano, principalmente il Senatore. L’elenco sarebbe davvero lungo. Si può calcolare che questo personaggio sia presente in quasi seicento film! Limitiamoci, naturalmente, a qualche esempio.
Nel 1939, Frank Capra con “Mr. Smith va a Washington” (Mr. Smith Goes to
Washington) porta Gary Cooper nel Congresso come giovane neo-eletto alle prese con gli
esperti senatori che credono, sbagliando, di poter fare un boccone del candore e dell’onestà
del rappresentante dei boy-scout appena eletto.
Nel 1948, con “Scandalo internazionale” (Foreign Affair) è Billy Wilder a mostrarci la
senatrice Jean Arthur inviata dal Congresso a Berlino per un’inchiesta sulla fraternizzazione fra americani vincitori e tedeschi sconfitti.
Un’altra senatrice, Christine Scott Thomas ne “Destini incrociati” (Random Hearts, 1999,
Sydney Pollack) vorrebbe non sapere come e perché il marito deceduto la tradisse, preoccupata per l’impatto della notizia sulla campagna elettorale.
Ancora una senatrice: Anne Bancroft in “Soldato Jane” (G.I. Jane, 1997, Ridley Scott) in
nome della parità dei diritti civili fa addestrare una donna, il soldato Jane, (Demi Moore),
nel reparto più rischioso dei corpi speciali.
Michael Ritchie nel 1972 ci fa vedere Robert Redford “teleguidato” per tutto l’iter della sua
campagna elettorale senatoriale in California ne “Il candidato” (The Candidate).
Anche Eddie Murphy accede al Congresso grazie ad una campagna elettorale truffaldina.
Ma trova senatori molto più esperti di lui in ogni ramo della disonestà ne “Il distinto gentiluomo” (The Distinguished Gentlemen, 1992, Jonathan Lynn).
Il senatore Warren Beatty, stanco dei compromessi della politica, anziché limitarsi a dare le
dimissioni ingaggia un killer per farsi uccidere. Nell’attesa spiattella tutte le verità che i
politici tengono ben nascoste, in “Bulsworth - il senatore” (Bulsworth, 1998, Warren
Beatty).
Tom Hanks, senatore texano, riesce a far moltiplicare gli stanziamenti militari segreti in
Afghanistan dopo l’invasione sovietica del ’79, con il risultato che una ventina d’anni dopo
i guerriglieri rivolgeranno le armi contro chi gliele ha fornite. “La guerra di Charlie
Wilson” (Charlie Wilson War, 2007, Mike Nichols).
Anche Wes Craven mette in scena un senatore, Jack Scalia, alle prese con un mortale complotto su un aereo in “Red Eye” (Red Eye. 2005).
Non sono mancati tuttavia film sulle figure di Governatori e Sindaci. Un sindaco è stato
inaspettatamente il comico Bob Hope in “Giacomo il bello” (Beau James, 1957, Melville
Shavelson). Incarnò il sindaco di New York James Walker realmente esistito, che senza
essere egli stesso esente da possibili critiche fu preda della corruzione dell’ambiente politi9
co da cui proveniva.
Vediamo ora almeno un paio di film con Governatori. In “Minuti contati” (Nick of Time,
1995, John Badham) a Johnny Depp viene rapita la figlioletta per ricattarlo e indurlo ad
assassinare la Governatrice della California.
In “Tutti gli uomini del re” (All the King’s Men, 1949, Robert Rossen) il governatore
Broderick Crafword viene ucciso per vendetta da una vittima del suo malvagio comportamento. Lo stesso film è stato rifatto nel 2006 con Sean Penn protagonista diretto da Steven
Zaillian.
Ma cercheremo ora di seguire insieme le tracce che Hollywood ha disseminato qua e là alla
ricerca di una migliore comprensione del fenomeno. Una prima analisi della produzione
cinematografica americana ci suggerisce una schematizzazione di comodo. Cinque sono i
principali temi ricorrenti nei film politici made in Usa, cinque vere e proprie ossessioni, e
cinque sono i capitoli che ora seguono nel tentativo di rappresentarle.
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LA PRESA DEL POTERE
H
ollywood, da Griffith in poi, ha disseminato in migliaia
di film, da un genere all’altro, anche solo un fuggevole
accenno all’ambizione politica di altrettanti personaggi
rappresentati nelle sue storie. John Ford, per esempio, maestro
impareggiabile di western ariosi ed emozionanti, in “L’uomo che
uccise Liberty Valence” (The Man who Shot Liberty Valence) del
1962 ci mostra James Stewart nei panni di un avvocato eletto
senatore che torna al suo paese d’origine per partecipare al
funerale dell’amico di un tempo John Wayne. E in tale occasione rivela che non fu lui - pur
accettando di attribuirsene il merito - ad uccidere il bandito Liberty Valence (Lee Marvin).
Questo film è stato iscritto nel 2007 nel National Film Registry della Biblioteca del
Congresso. Ma già nel 1959, in “Soldati a cavallo” (The Horse Soldiers), Ford aveva messo
al fianco del colonnello di cavalleria John Wayne un ufficiale che nella spericolata missione
che il reparto andava a compiere in territorio sudista vedeva solo l’occasione per brillare
nelle elezioni cui si era candidato.
Cambiando genere e autori, Martin Scorsese, per meglio rappresentare il degrado morale
che circonda il disadattato reduce del Viet Nam Robert De Niro in “Taxi Driver” (id, 1976),
lo fa imbattere nella campagna delle primarie presidenziali di un senatore che rappresenta
per lui tutta l’ipocrisia della società americana, fino a fargli desiderare di ucciderlo. Film
iscritto dal 1994 nel National Film Registry. Nel 1992 invece venne iscritto “Nashville” (id,
1975) di Robert Altman. Film corale alla maniera dello scomodo regista che sullo sfondo
di un festival canoro di Country Music intreccia le vicende di 24 personaggi senza un vero
protagonista. Festival che non sfugge alle mire di un senatore che conduce la sua campagna
per le primarie presidenziali e vuole appropriarsi della manifestazione musicale per la sua
propaganda qualunquista e demagogica.
L’elezione del 2008 è per così dire una competizione “aperta”. Infatti i entrambi i principali partiti hanno candidato due esponenti mai stati prima Presidenti o Vice-Presidenti. E’
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solo la seconda volta dal 1928 e non succedeva dal 1952, dalla vittoria di Eisenhover.
Siamo dunque davanti ad una circostanza assai rara.
Di norma, per diventare Presidente degli Stati Uniti vi sono passaggi obbligati, anche se relativamente pochi. La scalata al potere inizia con una candidatura al Senato o alla carica di
Governatore di uno stato federale. Una volta raggiunto questo o quel risultato si può
puntare direttamente alla Casa Bianca. Da Senatore è più difficile: John Kennedy e prima
di lui Warren Harding furono i soli a riuscire nel gran balzo. Erano invece tutti Governatori
gli ultimi presidenti da Reagan in poi, eccetto Bush senior. Questi, dapprima eletto nella
camera dei rappresentanti, vinse le presidenziali dalla carica di Vice-Presidente di Ronald
Reagan.
ABRAMO LINCOLN
(Abe Lincoln in Illinois, 1940, John Cromwell)
Raymond Massey (Abe Lincoln), Ruth Gordon (Mary Todd Lincoln), Gene Lockhart
(Stephen Douglas), Mary Howard (Ann Rutledge).
Come un avvocato di provincia divenne il 16° presidente degli USA. Il suo amore
infelice per Ann Rutledge e il suo matrimonio con Mary Todd. Tratto dal dramma
Abe Lincoln in Illinois (1938) di R.E. Sherwood è uno dei migliori film sul grande presidente (1809-1865), ispirato, solenne ma non agiografico né tendenzioso. Ottimo Massey
come protagonista, suggestiva la fotografia di James Wong Howe. (***)
(Laura, Luisa, Morando Morandini: Il Dizionario dei film 2004)
Abramo Lincoln,16° presidente degli Stati
uniti. Venne assassinato la sera del 14 aprile
1865 da John Wilkes Booth.
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IL DISTINTO GENTILUOMO
(The Distinguished Gentleman, 1992, Jonathan Lynn)
Eddy Murphy (Thomas Jefferson Johnson), Sheryl Lee Ralph (Loretta Hicks), Kevin
McCarthy (Terry Corrigan), Joe Don Baker (Olaf Andersen)
Piccolo truffatore prende il posto di un senatore morto al quale assomiglia come
una goccia d’acqua. Lo staff del politico lo appoggia, ma una bambinetta gli fa
capire in quali imbrogli stanno per coinvolgerlo. Modesta commedia che si serve di irriverenti frizzi e lazzi per mettere alla berlina lo sporco mondo della politica. Con moderazione. Sempre bravo Murphy. (**)
(Laura, Luisa, Morando Morandini: Il Dizionario dei film 2004)
Sfruttando l’omonimia con un defunto senatore, il piccolo truffatore Thomas
Jefferson Johnson (Murphy) riesce a entrare in Campidoglio; ma di fronte ai suoi
colleghi corrotti, capisce di essere un dilettante, e passa dalla parte della giustizia.
Prevedibile e poco credibile, anche se congegnato in modo meno grossolano della media
dei film con Murphy, che comunque non rinuncia a nulla del suo repertorio. (*½)
(Paolo Mereghetti: Dizionario dei Film 2000)
IL CANDIDATO
(The Candidate, 1972, Michael Ritchie)
Robert Redford (Bill McKey), Peter Boyle (Lucas), Melvyn Douglas (John J. McKey),
Karen Carlson (Nancy).
Giovane avvocato californiano, aggressivo uomo politico, si ripresenta candidato
per il Senato, ma nello stesso tempo è ansioso di raggiungere la Casa Bianca. La
carriera politica lo corrompe. Nel proporre il ritratto di questo uomo politico lo sceneggiatore Jeremy Larner, ex capo ufficio stampa di Eugene McCarthy, aveva in mente Ralph
Nader e Jerry Brown, ma R.Redford si rifà completamente a Bob Kennedy. Oscar per la
sceneggiatura. (***)
(Laura, Luisa, Morando Morandini: Il Dizionario dei film 2004)
L’ULTIMO URRA’
(The Last Hurrah, 1958, John Ford)
Spencer Tarcy (Frank Skeffington), Jeffrey Hunter (Adam Caulfield), Dianne Foster (Mave
Caulfield), Pat O’Brien (John Gorman).
Tratto da un best seller di Ewin O’Connor. Un boss politico, un po’ corrotto ma simpatico, cattolico e irlandese, combatte la sua ultima campagna elettorale come sindaco di una città del New England. Ford rimpiange il passato attraverso un personaggio
carismatico che gli somiglia. Melodramma e commedia, il film conta, tra gli altri meriti su
una bella galleria di caratteristi intorno al gigione Tracy. (***)
(Laura, Luisa, Morando Morandini: Il Dizionario dei film 2004)
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L’ultimo urrà rappresenta un nuovo contributo al dossier della revisione di John
Ford. Nel nuovo film sono evidenti al massimo grado i pregi e i limiti del vecchio
regista. Non si è cimentato qui nell’ambiente, che forse gli è più abituale, del western, ma
si muove pur sempre nel mondo che è il più sicuramente e costantemente suo: quello dell’irlandese emigrato. Alla folle cavalcata dei pionieri nei deserti del West ha sostituito la
disperata lotta elettorale d’un uomo che sta per soccombere alle nuove tecniche, alla nuova
macchina elettorale dominata dalla grande finanza e dalla televisione. L’eroe di Ford è
questa volta Spencer Tracy, a volte efficace, a volte un po’la caricatura di se stesso. Nella
campagna elettorale mette tutta la sua ricchezza di simpatia umana, porta alla sua massima
espressione ed efficacia il sistema della “stretta di mano”. Ma il suo rivale, insignificante e
quasi ignoto, spalleggiato dai banchieri, mettendo in azione i più moderni mezzi di propaganda, lo sconfigge. Pur battuto, lo spirito del vecchio sindaco non si arrende e sogna già
una nuova battaglia per la nomina a senatore, ma il corpo non regge ed egli muore tra il
compianto generale di amici e nemici.
Nella scena finale dell’agonia, Ford ha voluto fare un pezzo di bravura, impegnando al
massimo le sue qualità di narratore commovente e un po’retorico, di campione dell’individualismo; ben secondato in questo dall’istrionismo contenuto di Spencer Tracy. In tutto
il film ritroviamo quel sentimentalismo irlandese che già fu la caratteristica di parecchi suoi
film precedenti. Qui, in una città immaginaria, nella quale non è però difficile riconoscere
Boston, si sente il cattolicesimo accomodante di Ford partire, lancia in resta, contro il puritanesimo dei discendenti del Mayflower. E tutto questo finisce per mescolare le carte in
tavola e impedire un’autentica rappresentazione della vita politica americana. Comunque,
il vecchio regista non dice assolutamente nulla di nuovo, e conferma le sue eccezionali
qualità di artigiano nel tradurre in immagini popolari, con la massima fedeltà, il romanzo
di O’Connor. È evidente però che perde di vista il ritratto della vita d’una cittadina americana per seguire soprattutto le reazioni del suo protagonista. È indubbiamente anche alla
luce di questo e degli altri suoi ultimi film, che tutta l’opera di Ford andrebbe riesaminata,
per cercare di stabilire nel loro limite reale i valori delle sue opere migliori: Ombre rosse,
Furore, Sfida infernale.
(Paolo Gobetti: Cinema Nuovo, 1958)
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UN COMPLOTTO DOPO L’ALTRO
Q
uesto capitolo confina e si sovrappone in parte con quello
successivo per forza di cose. E’ quasi “naturale” che un
intrigo politico possa sfociare in attentato vero e proprio.
Ma cosa vuol dire complotto? Qualche volta il termine “complottismo” viene usato per designare in modo negativo il punto di
vista di chi crede ad una teoria del complotto per etichettarlo come
maniacale o paranoico. Tuttavia è sempre possibile tentare una
distinzione. Vogliamo provare?
Una teoria del complotto è una teoria che attribuisce la causa ultima di un evento o di una catena di eventi (in genere eventi politici, sociali o storici) ad un
complotto. Il termine include un’ampia classe di teorie che vanno dalle più condivisibili e
comprovate a quelle più estreme ed improbabili che vedono i principali eventi nella storia
diretti da cospiratori che manipolano gli accadimenti politici rimanendo nel retroscena.
A volte è la stessa verità ufficiale ad assumere la forma di una teoria del complotto. Le persecuzioni ai danni dei Cavalieri Templari, ad esempio, furono precedute da accuse non solo
di sodomia, eresia ed idolatria, ma anche di connivenza con il nemico musulmano. Alla
base della politica razziale nella Germania nazista, analogamente, vi era l’accusa che gli
ebrei fossero la causa di tutti i problemi della Germania: la povertà, la disoccupazione, la
sconfitta nel primo conflitto mondiale. Negli ultimi anni l’amministrazione USA si è
dichiarata in guerra contro un “complotto islamico mondiale”, ed alcuni sono giunti ad
accusare Al Qaida anche dei black out in California, prima che emergessero le prove delle
responsabilità di aziende private, tra cui la Enron, che tagliavano le forniture per aumentare
i prezzi.
Inoltre, la seconda Guerra del Golfo è scaturita dalla teoria secondo la quale il regime di
Saddam Hussein rappresentava una concreta minaccia per gli Stati Uniti a causa del possesso di armi di distruzione di massa, armi che in realtà non esistevano.
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Venendo ai complotti “cinematografici” più
significativi attorno alla figura del
Presidente incominciamo ad anticipare i due
seguenti film.
L’opera di Oliver Stone, “JFK - Un caso
ancora aperto” (JFK, 1991) – basato principalmente sui libri del procuratore distrettuale
Jim Garrison — suggerisce che il presidente
John F. Kennedy non sia stato ucciso dal
solo Lee Harvey Oswald, ma piuttosto da un
gruppo che si opponeva alla politica di
Kennedy, in particolare alla sua presunta
riluttanza ad invadere Cuba per rovesciare
Fidel Castro e al presunto desiderio di ritirare le forze armate USA dalla Guerra del
Vietnam. Membri della CIA, dell’apparato
industriale-militare, e il vice presidente
Lyndon Johnson vengono implicati come
responsabili dell’assassinio di Kennedy.
Stone è in evidente disaccordo con le conclusioni della Commissione Warren.
Dave - Presidente per un giorno, di Ivan
Nel film “Sesso e potere” (Wag the Dog, Reitman. La locandina.
1997) si narra di un tentativo compiuto in
periodo pre-elettorale, da parte di un produttore di Hollywood, per fabbricare una guerra in Albania, allo scopo di coprire uno scandalo sessuale che coinvolgeva il Presidente Clinton. Curiosamente, il film venne girato prima
dello scandalo Lewinsky e della guerra del Kosovo.
DAVE – PRESIDENTE PER UN GIORNO
(Dave, 1993, Ivan Reitman)
Kevin Kline (Dave – Bill Mitchell), Sigourney Weaver (Ellen Mitchell), Ben Kingsley
(Vice-Presidente Vance)
E’ assunto per fare da controfigura al 44° presidente degli USA. Quando costui è
colto da infarto ed entra in coma deve continuare a sostituirlo per settimane e si
comporta molto meglio. Commedia divertente, garbata, scritta con competenza (da Gary
Ross che ha un passato di “negro” o ghost-writer, cioè estensore di discorsi presidenziali),
diretta con soffice brio e attenta cura dei particolari, recitata bene da tutti, benissimo da
Kline. (***)
(Laura, Luisa, Morando Morandini: Il Dizionario dei film 2004)
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MURDER AT 1600 – DELITTO ALLA CASA BIANCA
(Murder at 1600, 1997, Dwight Little)
Ronny Cox (Presidente), Wesley Snipes (Halan Regis), Diane Lane (Nina Chance), Daniel
Benzali (Nick Sikings).
Accurato nella ricostruzione degli ambienti, fedele alle leggende che raccontano dell’esistenza di interminabili gallerie sotterranee che unirebbero i palazzi del potere,
Murder At 1600 - Delitto Alla Casa Bianca è un buon thriller che riesce a mantenere alta
la tensione per gran parte del film, al tempo stesso ironico e satirico grazie anche alla presenza di Dennis Miller, attore comico che interpreta l’investigatore Stengel, collega di
Regis, dove la componente politica ha un ruolo di primissimo piano. Ma se la scena iniziale
della donna in pieno amplesso che volge il proprio sguardo soddisfatto ed ambizioso alle
pareti della stanza, dalle quali i ritratti dei potenti del passato, i vecchi presidenti americani,
sembrano vegliare sul suo orgasmo, non può che fare sorridere stancamente, le cose vanno
ben peggio sul finire del film, quando l’ultimo quarto d’ora rischia di trascinarlo in caduta
libera verso la sua stessa rovina, con uno scontro a distanza, ridicolo a dir poco, fra il consigliere per la sicurezza nazionale (Alan Alda) ed un presidente da barzelletta ai limiti del
patetico. Ed è un vero peccato perché, lo ripetiamo, fino a quel momento il ritmo reggeva
alla perfezione ed il film, pur non brillando di certo per originalità, si lasciava vedere con
piacere.
(Carlo Cimmino: reVision, 1997)
SESSO E POTERE
(Wag the Dog, 1997, Barry Levinson)
Michael Belson (il Presidente), Robert De Niro (Conrad Brean), Dustin Hoffman (Stanley
Motss), Anne Heche ( Winifred Ames).
(…) La satira sceglie come bersagli non tanto gli impulsi sessuali incontrollati del
presidente, quanto le falsificazioni rischiose e ridicole d’una politica e d’una informazione americane: l’uso strumentale di azioni belliche a fini elettorali e di politica interna o personale, il disprezzo per i piccoli Paesi, l’informazione passiva, manipolata e facilmente manipolabile, la retorica nazional-patriottica, lo sfruttamento della fiducia e del sentimento popolare. Ancora una volta, risultano notevoli la capacità critica del cinema americano, la spregiudicatezza e l’audacia nell’attaccare le istituzioni nazionali (anche le più
sacre come la tv e Hollywood) e le loro degenerazioni. Peccato che il film non sia all’altezza di tante buone intenzioni. (…)
(Lietta Tornabuoni: ’98 al Cinema)
JFK- UN CASO ANCORA APERTO
(JFK, 1991, Oliver Stone)
Kevin Costner (Jim Garrison), Tommy Lee Jones (Clay Shaw), Kevin Bacon (Willie
O’Keefe), Gary Oldman (Lee Harvey Oswald), Jack Lemmon (Jack Martin), Sissy Spacek
(Liz Garrison).
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(…) L’impatto spettacolare di JFK è irresistibile e ci sembra dovuto a quattro ordini principali di motivi. Primo: la persistente fascinazione popolare del mito insanguinato e misterioso di John Kennedy, il 46enne leader della “nuova frontiera”. Secondo:
l’impostazione dello spettacolo. La scena orribile dell’assassinio è l’avvio di una solida
linea di forza narrativa travolgente il cui crescendo emozionale viene sistematicamente
pungolato dal leit motiv visivo del delitto. Terzo: Jim Garrison è la presenza nel senso pieno
della parola, pilota il vortice di immagini, personaggi e vicende, in uno spettacolo maiuscolo per vigore appassionato e limpidità logica. Il magistrato, anima di JFK, non è certo
il ritratto del vero Garrison nei panni di Warren. Al dire del regista, quel signore alto un
metro e novanta era un giudice di provincia “paranoico e arrogante” a caccia di notorietà,
abilissimo a manovrare i media promettendo senza tanti scrupoli rivelazioni sensazionali e
prove decisive che mai vennero. Kevin Costner è l’interprete ideale del Jim Garrison di cui
questo film-processo e un po’ anche crociata aveva bisogno. L’uomo comune, con l’ombrello e la borsa, fa pensare al James Stewart dei film di Frank Capra, quando incarna, candido e convinto, l’americano idealista propugnatore dei valori della democrazia, della giustizia e della famiglia. Lo sentiamo però anche proiezione di Oliver Stone, il quarantaseienne viet-vet sdegnato, nel vederlo battersi intrepido, e solo, nella ricerca della verità con
le armi della professionalità e del diritto. Quarto: il mixing tra storia e fiction è sagacemente
amministrato. Il più delle volte il regista punta sull’affabulazione per scioccare la platea e
indurla a seguirlo nell’analisi delle responsabilità e dei meccanismi che reggono le articolazioni del complotto (…)
(Luigi Bini: Attualità Cinematografiche 1992)
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POTENTI NEL MIRINO
D
al complotto all’omicidio il passo può essere breve. Tra
i tanti primati che detengono, gli Stati Uniti d’America
ne possono annoverare uno alquanto discutibile: nessun
altra democrazia occidentale ha infatti avuto nella Storia tanti
capi di stato assassinati e/o oggetto di attentati alla loro vita.
La lunga sequenza di assassinii presidenziali negli USA ha
infatti inizio il 14 aprile del 1865, quando l’attore sudista John
Wilkes Booth sparò ad Abramo Lincoln durante una rappresentazione di Our American Cousin al Ford Theatre di Washington.
Il 2 luglio del 1881 fu invece la volta di James A. Garfield, colpito due volte alla schiena
dalle pallottole sparate da Charles J. Guiteau, che si era visto rifiutare dal presidente un
incarico diplomatico.
Il Presidente William McKinley fu ucciso il 6 settembre del 1901 per mano di dell’anarchico Leon Czolgosz,
Nota pressoché a tutti è la data della morte di John Fitzgerald Kennedy, ucciso a Dallas il
22 novembre del 1963. Noto è anche il nome dell’assassino “ufficiale” di Kennedy, Lee
Harvey Oswald, ma altrettanto risaputo è che intorno alla morte di Kennedy c’è tutt’ora un
grande mistero che potrebbe nascondere complesse cospirazioni.
Se quattro sono stati i Presidenti degli Stati Uniti assassinati, molti di più sono quelli che
sono stati oggetto di attentati: da Andrew Jackson nel 1835 fino a George W. Bush (contro
il quale il 10 maggio del 2005 a Tblisi, in Georgia, fu gettata una granata che però non
esplose), passando per i due Roosevelt, Truman, Nixon, Ford, Carter, Reagan, Bush padre
e Bill Clinton – molti dei quali vittime di più di un attentato. E come se tutto questo non
bastasse, intorno alla morte apparentemente per cause naturali di altri due presidenti, Taylor
e Harding, ci sono ipotesi di complotto che parlano di omicidi attentamente mascherati.
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Ma non solo i Presidenti si sono trovati nel centro del mirino. Per limitarsi ai casi più eclatanti si pensi a Bob Kennedy e a Matin Luther King, entrambi assassinati nel 1968.
JFK- UN CASO ANCORA APERTO
(JFK, 1991, Oliver Stone)
Kevin Costner (Jim Garrison), Tommy Lee Jones (Clay Shaw), Kevin Bacon (Willie
O’Keefe), Gary Oldman (Lee Harvey Oswald), Jack Lemmon (Jack Martin), Sissy Spacek
(Liz Garrison).
(…) JFK – Un caso ancora aperto non solleva infatti nuovi dubbi rispetto a quelli già provocati nel ’64 dalla Commissione Warren secondo cui il presidente
Kennedy fu ucciso, il 22 novembre 1963, da un unico cecchino, ma riorganizza i dati,
riesamina le prove, denuncia le lacune, lamenta le contraddizioni, accusa e sospetta con un
impeto tribunizio e predicatorio che se non rende del tutto persuasiva l’ipotesi di un complotto voluto da guerrafondai, mafiosi, CIA e FBI giustifica un severissimo ripensamento
del dramma. Regista d’assalto, liberal nutrito di ideali pacifisti, Stone conduce dall’alto dei
suoi Oscar una requisitoria molto violenta contro l’establishment, compresi i governi e la
stampa. I suoi modelli, confessati, sono Francesco Rosi, Costa-Gravas (…)
(Giovanni Grazzini: Il Corriere della Sera, 8 febbraio 1992)
BOBBY
(Bobby, 2006, Emilio Estevez)
Emilio Estevez (Tim Fallon), William H. Macy (Paul Ebbers), Sharon Stone (Miriam
Ebbers), Demi Moore (Virgina Fallon), Anthony Hopkins (John Casey).
(…) Estevez non è Altman, e il film non è un capolavoro. Ma è un film alto,
degno, civile, appassionato, retorico, a tratti, per la buona causa, illuminato da una
John Fitzgerald Kennedy, 35° presidente degli Stati
uniti, venen ucciso a Dallas il 22 novembre 1963.
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serie di attori molto bravi e molto in parte, dall’uomo qualunque William H. Macy alle
duellanti (tra loro) Sharon Stone - quasi irriconoscibile sotto la parrucca anni ‘60 - e Demi
Moore. Il successo di Estevez – figlio d’arte, ex-giovane attore e star giovanile (I ragazzi
della 56° strada), scomparso dagli schermi da almeno dieci anni – sta nell’usare nella
maniera migliore dei materiali documentari che basterebbero da soli a fare il film (ma in
realtà l’impaginazione “drammatica” li rende ancora più interessanti), componendo un
quadro affascinante dell’utopia e delle passioni bobkennediane, e restituendo il senso di
un’epoca che viveva, se non di valori, dell’aspirazione ai valori.
(Irene Bignardi: Il Venerdì 17 agosto 2007)
DEATH OF A PRESIDENT
(Death of a President, 2006, Gabriel Range)
Hend Ayoub (Zahra Abi Kikri), Robert Mangiardi (Greg Turner), Brian Boland (Larry
Stafford), Becky Ann Baker (Eleonor Drake), Jey Patterson (Sam McCarthy).
Un vero documentario finto. O, se volete, un finto documentario vero. Death of a
President, di Gabriel Range, getta lo spettatore al tappeto con un’ipotesi shock: il
presidente degli Stati Uniti, Gorge W. Bush, viene ucciso il 19 ottobre 2007, durante una
visita a Chicago. Il film inizia quando tutto è compiuto: le immagini sono in corso, vengono interrogati i sospetti, mentre le donne e gli uomini più vicini al Presidente rilasciano
commosse interviste ricordando il suo operato, il suo calore umano, le sue ultime parole.
Tutto come se fosse vero, tutto come se si stesse guardando alla tv la ricostruzione di un
fatto entrato nella storia. Ma chi ha premuto il grilletto? L’attentatore, questo si intuisce
entro pochi minuti dall’attentato, ha agito dalla finestra di un grattacielo vicino, con un
fucile di precisione. Poi, approfittando dell’enorme, comprensibile confusione, si è dileguato. In città erano in corso violente manifestazioni anti-Bush, i pacifisti erano mobilitati in
massa, qualcuno è anche riuscito a saltare i cordoni della polizia, come dimostrano vari filmati. Ma i sospetti cadono soprattutto su un arabo, che si è recato anni prima in
Afghanistan. E’ lui, non può essere che lui. O forse no…
(Luigi Paini: Il Sole-24 Ore, 25 marzo 2007)
PROSPETTIVE DI UN DELITTO
(Vantage Point, 2008, Pete Travis)
William Hurt (Presidente), Dennis Queid (Thomas Barnes), Matthew Fox (Kent Taylor),
Sigourney Weaver (Rex Brooks), Forest Whitaker (Howard Lewis).
Ancora un presidente Usa (stavolta è William Hurt) che viene assassinato, nella
bella piazza di Salamanca affollata per un summit sul terrorismo. Per convincerci
che Rashomon è sempre un capolavoro, Pete Travis spezza il suo film in 8 spicchi, 8 punti
di vista diversi sulla stessa scena dove si esibisce anche una controfigura. Prendendo alla
lettera sir Hitchcock (sappiamo che scoppierà una bomba), il film riparte troppe volte daccapo ma muta le prospettive di chi racconta, otto uomini in un giorno storico. Due agenti
(il Matthew Fox di Lost e l’ingualcibile Dennis Queid che esce in ordine da 20’ minuti d’inseguimento d’auto), un turista e la solita bambina col gelato. Molti replay prima della verità: la struttura pericolosa e a volte divertente lascia spazio nel secondo tempo a una esca21
lation di ridicolo che non salva nessuno, giocando con spazio e tempo sotto gli occhi severi
della producer comparsa Sigourney Weaver. (voto 5)
(Maurizio Porro: Il Corriere della Sera, 29 febbraio 2008)
THE JACKAL
(The Jackal, 1997, Michael Caton-Jones)
Bruce Willis (The Jackal), Richard Gere (Declan Mulqueen), Sidney Poitier (Carter
Preston), Diane Venora (Valentina Koslova), Mathilda May (Isabella Zanconia), Tess
Harper (The First Lady).
Se esistesse un premio da assegnare al remake che somiglia di meno alla prima
versione di un film The Jackal avrebbe ottime probabilità di aggiudicarselo. Per
esplicita dichiarazione, il soggetto di The Jackal di Michael Caton-Jones rimanda al Giorno
dello sciacallo, il film di Fred Zinnemann (’75) a sua volta tratto dal romanzo di Frederich
Forsyth. I produttori della seconda versione, Jacks e Daniel, hanno avuto l’illuminata idea
di “conferire un maggiore spessore ai personaggi del nuovo film, aggiungendo alla storia
un pizzico di umanità in più”. Già che c’erano, hanno modificato anche l’epoca, il contesto
politico, lo scenario geografico e tutto il resto, fino a rendere l’originale irriconoscibile.
Non è una colpa? Invece sì: perché quello di Zinnemann era un bel thriller scabro con pochi
personaggi, mentre il rifacimento è un costoso filmone brulicante di gente e fitto di morti
ammazzati, che perde in suspense a forza di esagerazione. Là un killer di ghiaccio deve
compiere un attentato contro De Gaulle e la polizia francese corre contro il tempo; qui un
esecutore senza volto detto lo Sciacallo (Willis) accetta dalla mafia russa l’incarico di
uccidere per 70 milioni di dollari la first lady americana. (…)
(Roberto Nepoti: La Repubblica, 1 febbraio 1998)
22
L’OSSESSIONE ANTICOMUNISTA
I
n concreto vi sono vari tipi di anticomunismo.
L’anticomunismo conservatore, di chi rifiuta l’ideologia
comunista per la sua negazione dei valori religiosi, civili e di
libertà, nonché spesso per il timore di modifiche radicali dello
status quo. L’anticomunismo antitotalitario, specie liberaldemocratico ma anche socialdemocratico e anarchico, di chi è allo stesso tempo contro il comunismo, il fascismo e ogni altra dottrina
politica che si è storicamente concretizzata in una forma di dittatura. L’anticomunismo reazionario, per esempio di tipo fascista. L’anticomunismo religioso, ossia di credenti delle varie religioni ostili ad un’ideologia che si definisce atea.
L’anticomunismo del pessimismo o della disillusione, di chi avendo aderito alla ideologia
marxista si è successivamente convinto della sua inattuabilità pratica a causa dell’evoluzione dittatoriale dei regimi proclamatisi comunisti nel corso del XX secolo.
Il termine è talvolta considerato improprio dagli anticomunisti. Il dissidente russo
Aleksandr Solženicyn, in un discorso pubblico tenuto a Washington il 30 giugno 1975,
dopo aver parlato delle violenze perpetrate dal comunismo dalla rivoluzione russa in poi,
affermò:
« C’è una parola che si usa molto oggi: “anticomunismo”. È una parola molto stupida e mal
composta perché dà l’impressione che il comunismo sia qualche cosa di primitivo, di basico, di fondamentale. E così, prendendolo come punto di partenza, anticomunismo è definito in relazione a comunismo. Per questo affermo che la parola è stata mal scelta e fu composta da gente che non conosceva l’etimologia: il concetto primario, eterno, è Umanità. Ed
il comunismo è anti-Umanità. Chi dice “anti-comunismo”, in realtà sta dicendo anti-antiUmanità. Un costrutto molto misero. Sarebbe come dire: ciò che è contro il comunismo è
a favore dell’Umanità. Non accettare, rifiutare questa ideologia comunista, inumana, è
semplicemente essere un essere umano. Non è essere membro di un partito »
L’ anticomunismo, al cinema, sposa di preferenza il melodramma. Tuttavia non disdegna
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affatto le avventure con la commedia. Si veda Ninotchka (1939) di Ernst Lubitsch, dove
l’ispettrice sovietica Greta Garbo, inviata in missione a Parigi, scopre le delizie del capitalismo e si innamora di un aristocratico.
E’ con la fine del secondo conflitto mondiale che il cinema dichiara “guerra fredda” senza
quartiere ai comunisti. Sostituendo rapidamente i cattivi di ieri, i nazisti, con i “rossi”.
Ogni tanto qualcuno, sull’esempio di Ninotchka, si converte: si veda Il sipario di ferro
(1948) di William Wellman, dove un ufficiale russo smaschera una rete di spie sovietiche
in America. Quando c’e in ballo la libertà, non si può guardare tanto per il sottile nella
scelta dei difensori. Cosi, in Mano pericolosa (1953) di Samuel Fuller è il ladro
newyorkese Richard Widmark, venuto in possesso di un importante microfilm tramite
borseggio, a lacerare un’altra rete di spie. Di sfuggita ricordiamo che neppure il mondo dei
fumetti è immune da questa tendenza: anche Capitan America infatti è nel frattempo arruolato nella caccia ai comunisti.
Al clima della caccia alle streghe si uniforma anche sir Alfred Hitchcock con Il sipario
strappato (1966), mandando lo scienziato americano Paul Newman oltre la cortina di ferro.
Torna alla commedia Billy Wilder con Uno, due, tre (1961), dove James Cagney ha grattacapi al di là del muro di Berlino per risolvere affari di famiglia del suo principale e, contemporaneamente, distribuire Coca-Cola nell’Est (ma Wilder, da par suo, ne approfitta per
menare equamente colpi a comunisti e capitalisti).
A partire dal 1962 il più attivo anticomunista dello schermo è James Bond che, in Agente
007 dalla Russia con amore (1963) di Terence Young, riconosce ( e fa fuori) un agente sovietico dal fatto che costui ordina vino rosso col pesce.
A parte Bond, destinato a entrare in crisi d’identità dopo la caduta del muro, il filone antisovietico declina con l’allentarsi della guerra fredda. Salvo una curiosa recrudescenza scoppiata negli anni ‘80, come Alba rossa (1984) di John Milius (i sovietici invadono gli Stati
Uniti) e il paranoico Invasion U.S.A. (1985) di Joseph Zito (i sovietici cercano di destabilizzare l’America con attentati ai civili).
Decisamente più realistico il dolente Una giornata di Ivan Denisovich (1971) di Caspar
Wrede, storia di un soldato condannato a dieci anni di prigionia in un gulag siberiano, tratta dal romanzo di Solženicyn.
ULTIMI BAGLIORI DI UN CREPUSCOLO
(Twilight’s Last Gleaming, 1977, Robert Aldrich)
Charles Durning (Presidente ), Burt Lancaster (gen. Dell), Richard Widmark (gen.
MacKenzie), Joseph Cotton (Arthur Renfrew).
Usa 1981, le ombre del tramonto coprono la statua della Libertà. Scaduto il mandato di Carter, il nuovo presidente degli Stati Uniti, David Stevens, si trova in bruttissime acque. Evaso da un carcere del Montana dove scontava un’ingiusta condanna, l’ex
colonnello dell’aeronautica Lawrence Dell si è impossessato d’una base militare segreta, e
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ora minaccia di lanciare nove missili con testata atomica sull’Unione Sovietica scatenando
così un’altra guerra mondiale. Se il presidente vuole evitarlo deve regalare dieci milioni di
dollari agli uomini evasi con Dell, e rendere noto al popolo americano un documento conservato alla Casa Bianca nel quale c’è la prova della politica aggressiva condotta in passato
dagli Stati Uniti. Lawrence Dell si considera un amico della verità. Mandato in galera perché inviso agli alti comandi, ora intende vendicarsi denunciandoli come una costante
minaccia alla pace del mondo e alla credibilità del paese.
Riuniti d’urgenza ministri e generali, il presidente tentenna, anche perché Dell lo ha chiesto
in ostaggio, e non dice di no al capo di stato maggiore che propone di usare una minibomba atomica per sterminare i terroristi. Quando però questi si avvedono della trappola, e per
rivalsa stanno per far partire i missili, il presidente capitola: avuta la promessa che, se cade
sul campo, il ministro della difesa farà conoscere all’opinione pubblica il documento, va a
consegnarsi a Dell. Che dunque avrebbe partita vinta se invece il capo di stato maggiore
non mobilitasse dei tiratori scelti dalla mira infallibile. Infatti muoiono tutti, e crolla persino la speranza che il ministro della difesa mantenga la sua parola d’onore. Resta una sola
probabilità: che il film vinca un premio al prossimo festival di Mosca.
Tratto dal romanzo Viper Three di Walter Wager, edito in Italia da Longanesi col titolo
Ultimi bagliori di un crepuscolo, il film è più irritante che sensazionale. I suoi sceneggiatori Ronald M. Cohen e Edward Huebsch, e il veterano regista Bob Aldrich, giocano infatti ai progressisti mettendo le loro mille ambiguità ideologiche al servizio d’un thrilling di
architettura convenzionale che né lega le scarpe a Sette giorni a maggio (il più diretto modello), al Dottor Stranamore, a A prova d’errore, né si raccomanda per particolari virtù
drammatiche. Costruito venerando il logoro mito delle tecnologie militari, col solito spreco di “top secret”, e il rito del fiato sospeso, e spolverando il piatto di psicologismo e di
sparatorie, il film propone una fantapolitica da strapazzo, portavoce d’un moralismo radicale che per vendere meglio la sua merce cerca l’effetto e predica la necessità di governi
più aperti alle attese del popolo. Fra gli altri mezzucci cui ricorre, c’è lo schermo diviso in
due o tre parti, ma la sua struttura resta sostanzialmente televisiva. E la firma del regista
non aumenta il prezzo. Benché torni a muoversi in un universo tutto maschile, l’antica
polemica di Aldrich contro le degenerazioni del potere non ha echi tragici, e le note
ironiche sono spaesate quanto Burt Lancaster, un poco probabile «giustiziere del pomeriggio». Richard Widmark è il cattivo di turno, che in chiesa segue i sermoni e poi progetta
stragi, e Charles Durning, in cui dovremmo trovare i tratti dell’eroe con la cacarella, un
presidente degli Stati Uniti che non riesce nemmeno a fare compassione. E poi, non c’è un
barbiere alla Casa Bianca?
(Giovanni Grazzini: Il Corriere della Sera, 8 aprile 1977)
SETTE GIORNI A MAGGIO
(Seven Days in May, 1964, John Frankenheimer)
Fredric March (Presidente Lyman), Burt Lancaster (gen. James Scott), Kirk Douglas (col.
Martin Casey), Ava Gardner (Eleonor Holbrook).
Nel ’35 Sinclair Lewis scisse un romanzo, It can’t happen here, come dire “da noi
non può succedere”, che fece molto scalpore. Sinclair Lewis si proponeva di
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dimostrare come, in
contrasto con la diffusa
credenza che gli Stati
Uniti fossero costituzionalmente immunizzati contro ogni pericolo di totalitarismo,
un’organizzazione occulta che disponesse di
potenti mezzi e applicasse scrupolosamente i
metodi tattici del nazismo poteva in breve
tempo riuscire a stravolgere
completamente
l’opinione
pubblica
americana e ad instaurare sul Paese la sua ditPeter Sellers (a sinistra) in una scena del film di Stanley Kubrick Il dottor tatura. In Sette giorni a
maggio
il
regista
Stranamore
Frankenheimer, d’accordo col suo produttore-attore Kirk Douglas, riprende l’ipotesi con una notevole variante.
Il tentativo totalitario stavolta non si immagina più condotto ad opera di formazioni illegali
manovrate da un movimento nazista, ma dalle alte sfere dell’esercito degli Stati Uniti,
addirittura dal Capo di Stato Maggioregenerale in persona, James Scott, con la complicità
di tutti i più alti ufficiali del Pentagono. Fieramente avversi alla politica di un immaginario
Presidente Layman, il quale ha concluso un patto per la distruzione di tutti gli stock
nucleari, essi decidono il colpo di Stato: un certo 18 Maggio, a una certa ora X, scatterà un
certo dispositivo per cui, occupate di sorpresa tutte le centrali di comunicazione del Paese,
e sequestrato il Presidente che si troverà in quel momento presso il Quartiere Generale per
assistere a una manovra, il generale Scott, popolarissimo eroe di guerra e idolo di tutto
l’oltranzismo yankee, apparirà sugli schermi televisivi per comunicare che il Presidente è
deposto e il trattato ignominiosamente cancellato. (…)
(Filippo Sacchi: Epoca, 12 aprile 1964)
IL DOTTOR STRANAMORE, OVVERO COME IMPARAI A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA BOMBA
(Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964, Stanley
Kubrick)
Peter Sellers (cap. Lionel Mandrake – Presidente Merkin Muffley – dr. Stranamore),
George C. Scott (gen. Turgidson), Sterling Hayden (gen. Ripper), James Earl Jones
(ten.Zogg).
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(…) immagina che un generale al comando di una di quelle basi avanzate dove
bombardieri atomici incrociano in permanenza a poche ore di volo dai confini
dell’Unione Sovietica, ottimo ufficiale ma affetto da quell’ anticomunismo furioso che
tanto contribuisce alla statistica degli infarti in America, un brutto giorno, anche sotto la
spinta di ruminazioni fantascientifiche e di sessuale astenia, dà fuori di matto e ordina ai
suoi trentaquattro apparecchi, che imbottiti di megatoni stanno in quel momento pattugliando il cielo, di dirigersi immediatamente a gettare il loro carico sugli obbiettivi a loro
assegnati in territorio russo. E’ la guerra atomica! (…) Automaticamente allora, com’era
previsto, entra in azione in Russia un infernale dispositivo “fine del mondo” così congeniato da scatenare una serie di esplosioni al cobalto tali che la superficie della terra diventerà inabitabile per un secolo. Ora Presidente e generali si consulteranno sui provvedimenti da prendere per preservare almeno un piccolo quoziente della popolazione degli Stati
Uniti, affidandosi al piano già elaborato di un biologo della razza, uno scienziato ex-nazista
passato al servizio degli Stati Uniti, sinistro tecnocrate mutilato e meccanizzato come un
robot. Per cento anni un campionario eugenicamente scelto di sopravvissuti prenderà
abitazione nel fondo delle miniere riproducendosi secondo un ritmo elettronicamente
dosato. Così ricomincerà l’umanità, sino a una nuova futura bomba atomica. (…).
(Filippo Sacchi: Epoca 19, aprile 1964)
THE MANCHURIAN CANDIDATE
(The Manchurian Candidate. 2004, Jonathan Demme)
Denzel Washington (Bennett Marco), Live Shreiber (Raymond Shaw), Meryl Streep
(Eleonor Shaw), Jon Voght (sen. Thomas Jordan), Vera Farmiga (Jocelyn Jordan).
Reduce dalla Guerra del Golfo (1991), il capitano Ben Marco scopre che cosa si
nasconde dietro la candidatura alla vicepresidenza dell’ex sergente Shaw, suo
commilitone, figlio di una potente senatrice legata alla multinazionale Manchurian Global.
È il remake di Va’ e uccidi (1962) di J. Frankenheimer, basato sul romanzo (1959) di
Richard Condon le cui premesse fantapolitiche, nella sceneggiatura di Daniel Pyne e Dean
Georgaris e nella regia di J. Demme, si trasformano in una parafrasi di Realpolitik del 2004.
Si prescinde dall’esistenza dei partiti Democratico e Repubblicano per suggerire come il
primato dell’economia abbia cancellato le differenze ideologiche e si sottintende che creare
in laboratorio un candidato controllato dal potere delle multinazionali non sia più fantapolitica. Sbrigare il film di Demme dicendo che funziona come pamphlet politico, ma non
come thriller (prolisso, confuso) è facile, ma molto riduttivo. Ben Marco è il nero D.
Washington, non il bianco Frank Sinatra dell’originale (la cui figlia Tina è qui produttore).
E nera è anche Rosie, agente dell’FBI che aiuta Marco nella parziale risoluzione dell’enigma, mentre acquista maggiore importanza l’ambiziosa e incestuosa senatrice (una grande
M. Streep) che, non potendo aspirare alla Casa Bianca perché donna, sceglie di insediare
sul trono il figlio.
(Laura, Luisa, Morando Morandini: Il Dizionario dei film 2004)
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CONCORDE 909 – PERICOLO NEL VUOTO
(Mach 2, 2000, Fred Olen Ray)
Brian Bosworth (Jack Tyree), Cliff Robertson (vice Presidente Pike), Shannon Whirry
(Shannon Carpenter), David Hedison (sen. Stuart Davis).
Washington DC, volo 909, il candidato alle presidenziali Stuart Davis deve raggiungere l’Europa per smascherare un traffico d’armi nella guerra dei Balcani. Ma
alla Casa Bianca qualcuno non vuole che il Concorde arrivi a destinazione e così l’aereo
diventa bersaglio di un tiro incrociato tra il fuoco nemico e quello “amico”. Jack Tyree
(Brian Bosworth), capitano dell’aeronautica militare, è l’unica speranza per i passeggeri
del volo.
(FilmUP.com: 2000)
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PRESIDENTI SUPERMAN
U
n altro modo tipicamente di Hollywood di riferirsi alla
figura del Presidente, incarnazione del super-potere assoluto, è quello di raffigurarlo così eccezionale e così “perfetto” che può apparire di stretta derivazione dal mondo dei
supereroi dei comics. Certe rappresentazioni del Presidente sembrano derivare direttamente dall’universo immaginario dove
prende luogo la maggior parte delle storie dei fumetti pubblicate
dalla DC Comics . Personaggi quali Superman, Batman e Wonder
Woman sono supereroi ben noti appartenenti a questo universo.
Senza dimenticare Capitan America, già ricordato per la sua attività anti-comunista.
Ciò accade in quei film dove i presidenti sono immaginari e protagonisti di imprese o decisioni talmente“eroiche” che dovrebbero apparire ben dissonanti con la realtà, mentre nella
rappresentazione immaginaria appaiono credibili, quasi rispondessero ai sogni più fantastici della gente comune.
Cosa c’è di verosimile nell’impresa del Presidente Marshall (Harrison Ford) che lotta e
vince contro i terroristi a bordo dell’ Air Force One? Quanto può apparire realistica la
romantica storia d’amore del Presidente Shepherd (Michael Douglas) a confronto delle
reali vicende di sesso che sono clamorosamente emerse più volte dalla Casa Bianca? Quale
reale politico saprebbe condividere l’impossibile decisione del Presidente (Henry Fonda) di
bombardare New York per rimediare all’errore di aver bombardato per sbaglio Mosca?
Quale candidato alla presidenza rinuncerebbe all’avvenuta elezione come fa il Presidente
Dobbs (Robin Williams) quando viene a sapere che c’è stato un malfunzionamento nel conteggio dei voti?
Non sono questi Presidenti tutti Superman?
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AIR FORCE ONE
(Air Force One, 1997, Wolfgang Petersen)
Harrison Ford (Presidente James Marshall), Glenn Close (vice Presidente Kathryn
Bennett), Gary Oldman (Ivan Korshunov), Liesel Metthews (Alice Marshall), Dean
Stockwell (segretario difesa Walter Dean).
(…) Marshall affronta una situazione impossibile e la porta a buon fine da vero
personaggio di Harrison Ford. Chi può mettere in dubbio la plausibilità di un presidente che assesta pugni, imbraccia il mitra, uccide, resta sospeso a una carlinga
a 13 mila metri di altezza, se a incarnarlo è l’ex Indiana Jones, ormai splendido
cinquantenne? E un altro elemento di forza è la confezione: scene acrobatiche e spettacolari all’uso di Hollywood, un bel cast di contorno in cui spicca la vice-presidente Glenn
Close, un direttore di fotografia della qualità di Michael Ballhaus; e soprattutto un regista,
il tedesco Petersen di U-Boot 96, abilissimo a contrarre l’azione nell’interno minuziosamente ricostruito dell’Air Force One, conciliando visionarietà e realismo.
(Alessandra Levatesi: Il Corriere della Sera, 2 settembre 1997, da Venezia)
IL PRESIDENTE. UNA STORIA D’AMORE
(The American President, 1995, Rob Reiner)
Michael Douglas (il Presidente Andrew Shepherd), Annette Bening (Sydney Ellen Wade),
Shawna Waldron (Lucy Shepherd), Richard Dreyfuss (sen. Bob Rumson).
Ancora una volta sono una perfetta confezione e la grande verosimiglianza della
cornice a salvare il film dalla fondamentale frivolezza del suo quesito. E’ come se
fossimo invitati a una visita informale della Casa Bianca, compresa qualche cena
elegante, dove Bening, sfoggiando un francese scolastico, ma sottraendo l’ambasciatore di Francia a un annoiato silenzio, fa la sua figurona e si conquista il diritto a
diventare la First Lady. E sono benissimo raccontati gli intrighi e i meccanismi della politica: anche se a ben vedere, l’anima di favola del film, più che nella sua parte sentimentale,
sta nel trionfo della causa ambientalista.”
(Irene Bignardi: La Repubblica, 28 gennaio 1996)
A PROVA DI ERRORE
(Fail Safe, 2000, Stephen Frears)
Richard Dreyfuss (Presidente), George Clooney (col. Grady), Harvey Keitel (gen. Black).
Nel periodo più critico della guerra fredda, un tragico errore tecnico manda in tilt
il sistema difensivo americano inviando ad un bombardiere nucleare l’ordine irreversibile di sferrare l’attacco su Mosca. La Casa Bianca lotta contro il tempo per
evitare l’incidente che segnerebbe l’inizio di un devastante conflitto atomico, ma
ogni tentativo di bloccare l’aereo risulta vano. Il telefono rosso squilla ininterrottamente tra
Washington e il Kremlino: la situazione peggiora e non offre via d’uscita. Il presidente
30
americano si dichiara disposto a subire senza reagire una rappresaglia atomica su New York
qualora Mosca venga bombardata.
Robusto remake del film di Sidney Lumet A prova di errore del 1964, realizzato in presa
diretta per il piccolo schermo. Fotografato in un austero bianco e nero e sostenuto da un
ottimo cast, il racconto si sviluppa senza sbavature sul filo della tensione, ma l’impatto
emotivo e l’originalità della proposta appaiono - per le mutate condizioni dello scenario
politico internazionale - piuttosto datate e certamente inferiori all’originale che rimane tuttora un caposaldo della fantapolitica cinematografica. George Clooney partecipa al film
come interprete e come produttore esecutivo.
(mymovies.it: 2001)
L’UOMO DELL’ANNO
(Man of the Year, 2006, Barry Levinson)
Robin Williams (Tom Dobbs), Walken Christopher (Jack Menken), Laura Linney (Eleonor
Green), Jeff Goldbum (Stewart).
Robin Williams è Todd Dobbs, il conduttore di un tg satirico che fa sbellicare gli
States: un po’ Ezio Greggio, molto David Letterman. Su imbeccata di una spettatrice, si candida per provocazione alla presidenza di un Paese “…che ai suoi
anziani paga il Viagra ma non gli occhiali e dove i politici sono ricattati dalle
lobby che li finanziano”. Spalleggiato dal fido manager Christopher Walken, si inserisce
come terzo incomodo tra Democratici e Repubblicani, si mangia i rivali al dibattito tv,
martella gli elettori con sagge facezie irresistibili (con citazione per Ilona Staller). Vince,
entra alla Casa Bianca (“Bell’edificio, ma troppo vicino alla strada”), si presenta al
Congresso imparruccato come Gorge Washington (o come Barbara Bush). Ma c’è stato uno
sbaglio telematico. E Laura Linney, che l’ha scoperto e ne parla in giro, viene drogata e
fatta passare per pazza dalla potente azienda incaricata dello spoglio elettronico (ci pensa
Jeff Goldblum, mentre noi pensiamo a Bush e alla Florida). La donna avvicina il clown, gli
rivela che il suo trono è fittizio, si innamorano… Barry Levinson muove il suo ottimo protagonista/giocattolo tra troppi generi: comico, thriller, romantico. Si ridacchia, ci si stiracchia, non ci si appassiona.
(Alessio Guzzano: City, 11 maggio 2008)
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I FILM DELLA
RASSEGNA
TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE
TEMPESTA SU WASHINGTON
TUTTI GLI UOMINI DEL RE
VA’ E UCCIDI
NEL CENTRO DEL MIRINO
A PROVA DI ERRORE
BULWORTH – IL SENATORE
TUTTI GLI UOMINI
DEL PRESIDENTE
(All the President’s Men, 1976)
Regia di Alan J. Pakula, con Robert Redford (Bob
Woodward), Dustin Hoffman (Carl Bernstein), Jason
Robards (Ben Bradlee), Jane Alexander (Judy Hoback).
Alan Pakula
RECENSIONI
Come due giovani cronisti del quotidiano Washington Post - Carl Bernstein e
Bob Woodward (autori del libro sul quale si basa la sceneggiatura di William
Goldman) – scoprirono il collegamento tra la Casa Bianca e il caso Watergate,
provocando nel 1974 le dimissioni del presidente Nixon. Piatto come un tavolo
di biliardo (ma esiste anche un fascino dell’orizzontalità) nello scrupolo quasi
maniacale della ricostruzione dei fatti senza invenzioni romanzesche né indugi psicologici,
racconta un’altra volta la vecchia storia di Davide che sconfigge Golia, ed è un eccellente
rapporto sul giornalismo americano e, forse, l’omaggio più esplicito che il cinema abbia
mai reso al “quarto potere”. Incassò negli USA 30 milioni di dollari. Quattro Oscar:
sceneggiatura, scenografia, suono e J.Robards, attore non protagonista. (***)
(Laura, Luisa, Morando Morandini: Il Dizionario dei film 2004)
(…) Pakula riesce a rinvigorire una storia ampiamente nota al pubblico (e raccontata in un volume dai due protagonisti) rielaborando la cronaca in senso spettacolare, senza però lasciarsi sfuggire per un solo momento la sostanza politica
del discorso. Intreccio compatto, ritmo incalzante, messinscena ricercata (bellissima la panoramica dall’alto della biblioteca del Congresso) per un film che si
gioca da subito sulla contrapposizione visiva tra le sale illuminate della redazione e i bui
corridoi del Potere. Come dire, il cinema americano nella sua forma migliore. (…) (****)
(Paolo Mereghetti: Dizionario dei Film 2000)
(…) Questa ci sembra allora la lezione di Pakula e del suo Tutti gli uomini del
Presidente. Costretto a lavorare su un film a suspence hollywoodiano che glissava sul fatto politico, Pakula ha saputo far rientrare la politica togliendola del
tutto, facendone sentire la mancanza, dimostrando che senza una visione politica delle cose non si risolve nulla. E naturalmente mantenendo il ritmo, l’attrattiva spettacolare. (…)
(Paolo Mereghetti: L’Uno, novembre 1976)
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“Ci giochiamo il culo”, dicono i redattori del The Washington Post quando si
accorgono, nel pieno della loro inchiesta sul caso Watergate, che la pista può
condurre molto in alto. E qualcuno aggiunge inconsapevolmente parafrasando
una famosa battuta di Mario Missiroli: “Dovremo andare tutti a lavorare per
vivere”. Tipico segno che il mondo è un paese, anche per quanto riguarda la professione giornalistica e il relativo gergo: solo che negli Usa una campagna stampa può magari far cadere un Presidente, mentre da noi si riesce al massimo ad alzare un polverone
(…).
(Tullio Kezich: Panorama, 9 settembre 1976)
(…) Infine gli eroi, per la storia Bob Woodward e Carl Bernstein, per il film folletti impasticcati e eccitati, un po’ ingenui, un po’ maldestri, un po’stravaganti.
Anime candide che in fondo non sanno quello che fanno (“Odio la stampa, dirà
a Redford chi la sa più lunga di tutti, perchè odio la superficialità e l’inesattezza”). Un po’ naif, saltellando da un luogo all’altro, segnano le tracce di una verità che non appartiene a loro e che alla fine contemplano sgomenti, come i bimbi di
Lourdes e di Fatima davanti alle Madonne. (…)
(Roberto Silvestri: Il Manifesto, 23 novembre 1976)
(…) Questo film superbo mescola i migliori elementi della cronaca, del
poliziesco e del thriller con un ritmo incalzante e una fotografia spettacolare,
senza perdere la sostanza politica della storia. (****)
(Leonard Maltin: Guida Film 2007)
Il giornalismo. E’ il vero “eroe” del film come tecnica di inchiesta, etica professionale e potere. La macchina per scrivere e il telefono assurgono a motivi
emblematici di una lotta: la prima ne è il mezzo espressivo, il secondo l’arma
inquisitoria. L’intervista è invece la formula del rapporto umano (finto, psicologicamente spesso ricattatorio e oppressivo) “messo di scena” da Bob e Carl
(egregiamente sostenuti dalle qualità interpretative di Redford e Hoffman) per “far parlare”
i testimoni. La tenacia della ricerca, la volontà di prove, la scelta di chiarezza (nell’interpellare gli interessati come nel proporre ai colpevoli i fatti) e il coraggio onesto del direttore Ben Bradlee (Jason Robards) prima nel controllare la notizia eppoi nel rischiarne il lancio sono altrettanti dati etici di un giornalismo di classe.
A muovere Bob e Carl – per Pakula – non sono affatto motivi ideali civili e politici. Fanno
soltanto il loro mestiere di giornalisti americani: vogliono veder chiaro e, se possibile,
arrivare primi a dire come sono capitate le cose. Ce la fanno, ed è una reazione a catena la
cui vittoria sarà lo stesso Presidente degli Stati Uniti. Ma la loro è proprio la vittoria del
potere della verità proclamata da una stampa libera in un Paese autenticamente democratico, capace quindi di colpire a qualsiasi livello si collochi chiunque attenta ai valori fondamentali della Costituzione? Tutti gli uomini del Presidente evoca l’affare Watergate in
modo da gettare una pesante ipoteca su questa tesi: “Gola Profonda”. Tale l’azzeccato
pseudonimo (preso a prestito da uno dei film pornografici di maggior successo negli States)
designa un misterioso informatore. Questi, “uomo dell’esecutivo che aveva accesso a infor36
mazioni riservatissime nel comitato per la rielezione del Presidente” di fatto pilota, stando
nell’ombra, la guerra del “Washington Post” a Nixon. Là, nel buio del garage di Arlington,
convoca Bob a rapporto e, fantasma “minaccioso”, calcolatore, sicuro della sua potenza,
tira le fila delle sue operazioni… Il “Washington Post” e il duo “Woodstein” (così venne
chiamata la coppia terribile Woodward-Bernstein) non potrebbero essere stati in realtà
soltanto gli strumenti consapevoli di una sorda lotta intestina tra potenti per il potere? Non
sappiamo se effettivamente la verità del Watergate sia questa. Diciamo solo che Pakula ha
tutta l’aria di pensarlo.
(Luigi Bini: Attualità Cinematografiche, 1977)
(…) Teniamo a mente le date: giugno 1972, arresto dei cinque scassinatori;
novembre 1972, rielezione trionfale di Richard Nixon; gennaio 1974, messaggio
di Nixon: “Voglio che sappiate che non ho nessuna intenzione di abbandonare la
missione che gli americani, eleggendomi, mi hanno affidato nell’interesse degli
Stati Uniti”. Eppoi, fissiamo la data fatale: il 9 agosto 1974, Richard Nixon si
dimette. A questo proposito Alberto Ronchey ha notato: “La demolizione dell’ immagine di
Nixon è quotidiana, pubblica e corale, celebrata al cospetto dell’accusato al potere, non
postuma come quella di Stalin per opera dei successori”. Dunque, attorno a quelle date si
svolge il processo a Nixon, anche se il libro, e di conseguenza il film, s’arresta al gennaio
1974. Ed ecco la prima delusione: alla fine, Bernstein e Woodward si mettono alla macchina per scrivere e con secchi flash ci avvisano di quello che accadrà dopo: la valanga si
ingrossa a tal punto che sloggia Nixon dalla Casa Bianca e lo sospinge verso l’esilio californiano di San Clemente (le dimissioni per evitare la ghigliottina dell’impeachment). Ma
da questo finale usciamo frustrati: è come se a un pranzo ci interrompiamo all’antipasto.
Per esempio, ci sono sottratte le ghiottonerie delle intercettazioni e tutti sappiamo che
Nixon rimase impigliato nei nastri magnetici. (…)
(Angelo Falvo: Il Corriere d’Informazione, 22 ottobre 1976)
(…) Il pubblico romano che alla prima affollava il Metropolitan, alla fine della
proiezione non ha potuto nascondere delusione e imbarazzo. Tutto qui?
Quel “Tutto qui?” ci sembra che nasconda un grande significato: ci può dire tutto
sul successo condizionato dalla pubblicità, e sul successo reale che un film può
riscuotere nella coscienza del pubblico (ed è quello che più conta e che a noi
interessa). Ed è comprensibile che gli operatori dell’industria culturale, per giustificare la
loro opera di condizionamento e diseducazione del “loro” pubblico che avrebbe un “suo”
gusto, non fanno altro che ostentare i dati e le statistiche del successo apparente. E’ davvero
incredibile come Tutti gli uomini del Presidente possano tacere su un “affare” che certamente non è iniziato e finito sul volto equino e sorridente di Nixon, (…)
(Roberto Alemanno: Quotidiano dei Lavoratori, 5 novembre 1976)
(…) Un esempio del tipo di reazione di cui è capace il sistema americano si è
avuto con il caso del giornalista televisivo Daniel Schorr, uno dei più anziani e
più rispettati reporters della Cbs, fino a quando commise l’errore di far pubblicare il rapporto segreto Pike che il presidente Ford non voleva che fosse reso
pubblico. La reazione fu allora immediata: il Senato aprì immediatamente
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un’inchiesta nei suoi confronti e la Cbs lo sospese definitivamente dalla sua carica. E
furono ben pochi allora che ebbero il coraggio di esprimere la loro solidarietà, e quei pochi
soltanto dopo alcuni giorni, quasi che avessero avuto il bisogno di calcolare il rischio che
un simile gesto avrebbe comportato. Perché tanta differenza di trattamento per Daniel
Schorr rispetto ai Woodward e Bernstein? Appunto perché il rapporto sulla Cia affrontava
il discorso delle responsabilità politiche non solo di Nixon ma di tutta Washington nella
politica estera degli Stati Uniti negli ultimi anni, nel Vietnam, in Portogallo, in Cile, in
Italia, solo per nominare alcuni paesi a cui questa politica viene indirizzata. Non è quindi
per mancanza di intuito politico che il film All the President’s Men non affronta un discorso più generale. Anzi quasi per assurdo si può dire che il film, più che un tentativo di scoprire tutto quello che c’era dietro la politica degli anni del Watergate, è parte integrante di
quello che si può chiamare la seconda fase del “cover-up”, cioè del tentativo di fare
accettare al pubblico americano la versione più superficiale, se non falsa, della sua storia
più recente. (…)
(Oliviero Spinelli: La Repubblica, New York 16 aprile 1976)
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TEMPESTA SU WASHINGTON
(Advise & Consent, 1962, Otto Preminger)
Henry Fonda (Robert Leffingwell), Charles Laughton
(Seabright Cooley),
Walter Pidgeon (leader maggioranza), Gene Tierney
(Dolly Harrison), Franchot Tone (Presidente),
Lew Ayres (Vice Presidente).
Otto Preminger
RECENSIONI
(…) É la prima volta nella storia del cinema che un produttore può permettersi
questa audacia e, cosa ancora più straordinaria, è la prima volta che da parte del
potere pubblico gli è permessa questa audacia. Giustamente fu rilevato questo
fatto come prova dell’estrema libertà e spregiudicatezza di critica che la
democrazia americana arriva a permettere al cittadino. Sì, ma fate attenzione. Il
Senato americano non ha che due partiti, i quali non sono veri e propri partiti, ma piuttosto
le due ali politiche e tattiche di un’ opinione pubblica ideologicamente concorde. E’ così che
Preminger può riuscire a girare il suo film senza mai nominare un partito, soltanto parlando
di “maggioranza” e di “opposizione”. Ed è vero che, poiché questa volta l’opposizione
muove battaglia per impedire che la maggioranza nomini segretario di Stato un senatore che
ha fama di essere un professorino, cioè il fautore di una politica estera di distensione e di
intesa, e poiché notoriamente i professorini sono una specialità del partito democratico, si
può anche arguire che, per maggioranza, si intenda il partito democratico. Però l’oppositore
più acerrimo è un autorevole rappresentante del Sud, e notoriamente i democratici del Sud
sono proprio gli oltranzisti più fieri, per cui potrebbe benissimo trattasi di una opposizione
nel seno dello stesso partito.
Ebbene se si fosse trattato di un nostro Parlamento all’europea, un Parlamento pluripartitico,
avrebbe potuto Preminger usare lo stesso riserbo e la stessa imprecisione? Nemmeno per
sogno: avrebbe dovuto per forza parlare di socialisti, di liberali, di cattolici, di comunisti e
così via, insomma sollevare un putiferio d’inferno, perché tutti, per un verso o per l’altro si
sentirebbero svisati e traditi. (…)
(Filippo Sacchi: Epoca, 4 novembre 1962)
Quando il presidente degli Stati Uniti sceglie un Segretario di Stato impopolare, si
scatena nel Senato un’accesa lotta politica senza esclusione di colpi. Manovre di
corridoio, complotti, ricatti e un suicidio. Dal romanzo di Allen Drury Advise and
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Consent, questo film all stars (61 ruoli parlanti) è un coinvolgente melodramma politico
che analizza con sagacia drammatica e lucidità critica (arrivismo, intolleranza, cinismo) il
meccanismo della democrazia parlamentare degli U.S.A. Ultimo film di C. Laughton
(1899-1962): un “exit” memorabile. (*** ½)
(Laura, Luisa, Morando Morandini: Il Dizionario dei film 2004)
(…) il film è una radiografia amara del mondo politico americano di cui affronta
i molti tabù e in cui alla fine tutti risultano sconfitti: Preminger firma una
descrizione senza veli della politica rivendicando il diritto alla libertà di coscienza e, alternando la vita ufficiale a quella privata, fa emergere tutto il peso delle
loro responsabilità e grazie a un’arte insuperabile della caratterizzazione mostra
tutte le possibilità del comportamento politico. Sontuosamente recitato (Laughton, il senatore di destra Coley sempre vestito di bianco, era al suo ultimo film, Tierney, nella parte di
Dolly Harrison, tornava sugli schermi dopo una lunga assenza) è il film che, con Quelle due
di Wyler, ha scardinato i rigidi divieti del Codice Hays verso le “perversioni sessuali”: per
la prima volta nella storia di Hollywood, una scena si svolge in un bar ufficialmente gay.
(***)
(Paolo Mereghetti: Dizionario dei Film 2000)
Lungo ma avvincente racconto drammatico ambientato nei palazzi del potere di
Washington, tratto dal romanzo di Allen Drury. Il cast è ottimo, e le sobrie interpretazioni di Ayres e Tone prevalgono su quelle più gigioneggianti di Laughton
e Grizzard. (***)
(Leonard Maltin: Guida Film 2007)
(…) Ma il guaio dei profeti, e lo si è visto anche con questo Advise and Consent
(tradotto “Tempesta su Washinghton”), è che il gusto della predica toglie spesso
il mordente ai loro discorsi, trasformandoli in un carosello di immagini e di
parole, dietro al quale appena si intravede un’ideuzza. Ottimi come agitatori di
problemi, registi quali Preminger s’innamorano della propria funzione di coraggiosi lanciatori di sassi nello stagno, e spesso riescono a scuotere le zone più addormentate
dell’opinione pubblica. (Gli accadde, ricordate, con Anatomia di un omicidio e Corte
marziale, nei quali prese di petto due tabù: la giustizia e l’esercito). Ma altre volte si arrovellano a dimostrare cose che tutti sanno. Ad esempio, questa volta, che la carriera dell’uomo politico è rischiosa. Ne siamo assolutamente convinti. Il sasso di Preminger era diretto
a colpire uno dei momento più oscuri della recente storia americana: quello al quale è affidata la fama, assai contestata, del senatore McCarthy. Siamo negli anni in cui una lettera
anonima che accusasse un cittadino di simpatie per la sinistra bastava a tradurlo dinanzi a
una commissione destinata a difendere il Paese dalle attività antiamericane. Si lascia
immaginare cosa potesse accadere quando tale accusa fosse rivolta per telegramma, e poi
da un testimone. Contro un uomo politico che il Presidente degli Stati Uniti proponesse al
Senato come segretario di Stato. (…)
(Giovanni Grazzini: Il Corriere della Sera, 9 maggio 1962, da Cannes )
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Sulla scorta di un libro di Allen Drury, che è del buon fantagiornalismo politico
sceneggiato, il film racconta i complicati intrighi intorno alla nomina di un segretario di stato. Un presidente moribondo (che per alcuni aspetti ricorda
Eisenhower) designa un candidato di origini sinistrorse: intorno a lui si scatena
la lotta delle ambizioni e degli appetiti, senza esclusione di colpi. È interessante
notare che la mischia più spietata si svolge all’interno del partito democratico, con sconfinamenti nell’amoralità più cinica e addirittura nella criminalità. Il giovane presidente di una
commissione, al quale è stata rinfacciata un’antica amicizia particolare, si uccide: cosi
questa guerra sotterranea ha anche la sua vittima. Tutto si conclude con un nulla di fatto
perché muore anche il presidente: e il vicepresidente chiamato a succedergli è una specie
di Truman, considerato fino a un certo punto un mediocre e capace invece di elaborare una
politica personale. Preminger tiene i fili del complesso ingranaggio senza sbagliare un
colpo, approfittando dell’occasione per illustrare agli ignari il funzionamento dei Senato
americano. Da questa cronaca non si tirano conclusioni qualunquistiche o antiparlamentari:
il moralismo era a portata di mano, ma il regista vi ha saputo rinunciare con fermezza. Il
film espone un caso tutt’altro che anomalo o inconsueto, a parte la conclusione tragica, e si
propone come l’anatomia di un’azione politica. Appartiene cioè al genere di spettacoli che
contribuiscono alla conoscenza delle strutture più importanti del mondo d’oggi, aprono al
pubblico prospettive poco note e non hanno aspirazioni propagandistiche. Ammirevole per
la serietà d’intenti che lo anima, Tempesta su Washington è condotto con magistrale sobrietà. Gli interpreti principali, da Laughton a Fonda, da Don Murray a Walter Pidgeon, sono
bravissimi; ed è significativa l’apparizione di volti semidimenticati come Lew Ayres e
Franchot Tone. Per rispondere a chi considera Otto Preminger un regista teatrale o addirittura radiofonico, poco interessato ai mezzi specifici del cinema, indichiamo fra tante bellissime cose sparse nel film una sequenza indimenticabile: la visita di Pidgeon e Ayres al
presidente Franchot Tone sulla tolda della nave da guerra. C’è un’aria livida da giudizio
universale, un mare nero, un cielo di pioggia che in un film di Bergman farebbero gridare
d’entusiasmo.
(Tullio Kezich, Il cinema degli anni sessanta, 1967)
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TUTTI GLI UOMINI
DEL RE
(All The King’s Men, 1949, Robert Rossen)
Broderick Crawford (Willie Stark), John Ireland (Jack
Burden), Mercedes McCambridge (Sadie Burden),
Joanne Dru (Anne Stanton)
Robert Rossen
RECENSIONI
(…) Rossen pervenuto alla regia nel 1946 dopo una lunga carriera di sceneggiatore che lo aveva visto impegnato nella collaborazione a film vigorosamente
realistici – narrò quella che potrebbe definirsi una parabola sull’arte di instaurare
una dittatura. Willie Stark, un figlio del popolo dai modi rudi e dall’aspetto
bonario, esordisce nella lotta politica combattendo con apparente sincerità la corruzione di certi ambienti. Dopo aver subito una iniziale sconfitta riesce, denunciando al
popolo come mestatori quegli stessi politicanti che lo hanno appoggiato nella campagna
elettorale a farsi eleggere governatore di uno Stato. Ma a questo momento Willie subisce
una radicale trasformazione (o getta la maschera: su tale punto il film è ambiguo) e comincia ad attuare su scala gigantesca quegli stessi metodi contro i quali si era battuto, servendosi della sopraffazione, del ricatto e della corruzione per abbattere gli avversari e
tenere legati a sé i propri uomini, anche quelli che lo avevano servito con onestà di propositi. La smodata ambizione di Stark travolge tutti quelli che lo circondano, a cominciare dai
suoi stessi familiari: abbandona la moglie, seduce una ragazza dell’alta società, spinge uno
zio di lei al suicidio, infine cagiona involontariamente una paralisi al proprio stesso figlio.
A poco a poco tutti quelli che hanno imparato a conoscerlo lo abbandonano: ma le folle
sono ancora affascinate dalla sua istrionesca personalità. Ed è proprio il giorno del suo massimo trionfo politico, quando egli gusta l’ovazione oceanica della folla, che il fratello della
ragazza da lui rovinata gli scarica addosso una pistola uccidendolo.
Il film voleva polemicamente ritrarre un deteriore costume politico ed elettorale americano,
e partiva forse da ambizioni sincere (non dimentichiamo che in quegli anni si andava manifestando e sviluppando in forme anche fanatiche il fenomeno di McCarthy); ma la sua
efficacia polemica apparve indebolita da un difetto di impostazione consistente nell’aver
fatto di Willie Stark un caso limite, troppo patologicamente esasperato per risultare davvero
esemplare. (…)
(Guido Cincotti: Radiocorriere)
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(…) I discorsi esplosivi di Willie fanno presa sul popolo con la massima rapidità. I popoli sono sempre scontenti del governo, pronti ad applaudire chiunque ne
dica male e disposti a darsene uno peggiore pur di cambiare. Tutti seguono Willie
che promette giustizia e libertà (la formula non è originale), grandiose opere pubbliche e benefiche, benessere e prosperità per tutti. (…) Dir male del governo è tanto facile
quanto è difficile governare bene. Willie passa dai compromessi alle corruzioni, ai ricatti,
ai crimini; diviene sempre più crudele, feroce, pur di non perdere il potere. Anche gli
ingenui, gli affascinati che lo seguirono ciecamente, aprono gli occhi, gli si volgono contro: gli uomini del Re non potranno né faranno nulla per lui quando nel palazzo del Senato
verrà preso a revolverate, nel medesimopalazzoche in seguito a raggiri sotterranei avrà
vinto per l’ennesima volta l’opposizione. (…)
(Aldo Palazzeschi: Epoca, 25 novembre 1950)
Willie Stark si dà alla politica e diventa governatore di uno stato del Sud. Scopre
che la corruzione è l’arma più potente per il consolidamento del potere.
Distrugge la famiglia, perde gli amici e muore per mano di una sua vittima. Tre
Oscar. Miglior film, B. Crawford, M. McCambridge. R.Rossen, maestro del noir,
ha reso ambienti e atmosfere in modo mirabile, dopo aver sceneggiato egli stesso il romanzo di Robert Penn Warren. (***½)
(Laura, Luisa, Morando Morandini: Il Dizionario dei film, 2004)
(…) Tratto dal romanzo premio Pulitzer di Robert Penn Warren (che si ispirava
alla carriera del senatore Huey Long) e sceneggiato dal regista, questo film scava
nelle radici psicologiche dell’ansia del potere, con una sensibilità estetica vicino
a quella del neorealismo. Montato e rimontato più volte fino a trovare (grazie
all’intervento di Robert Parrish) la sua forma definitiva, questo film non
nasconde una certa confusione narrativa, ma racconta con indubbia vitalità il clima politico che viveva l’America subito dopo la guerra, costretta ad uscire dal suo isolamento e –
sotto l’incubo del comunismo – facile preda della demagogia (…) (***)
(Paolo Mereghetti: Dizionario dei Film 2000)
Brillante adattamento (scritto dallo stesso Rossen) del romanzo di Robert Penn
Warren, vincitore del Pulitzer. La storia ruota intorno all’ascesa e caduta di un
senatore, interpretato magistralmente da Crawford. Il personaggio è ispirato alla
figura di Huey Long, uomo politico democratico radicale degli anni Trenta. Tre
oscar: per il film, per Crawford e per la McCambridge (qui all’esordio).
Montaggio di Don Siegel. (****)
(Leonard Maltin: Guida Film 2007)
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VA’ E UCCIDI
(The Manchurian Candidate, 1962, John Frankenheimer)
Frank Sinatra (Bennett Marco), Laurence Harvey
(Raymond Shaw), Janet Leigh (Eugenie Rose Chaney),
Angela Lansbury (Mrs. Iselin), James Gregory (John
Yerkes Iselin).
John Frankenheimer
RECENSIONI
Il sergente Raymond Shaw (Harvey), dopo aver subito il lavaggio del cervello da
parte dei comunisti coreani continua ad essere vittima di raptus omicidi, dei quali
intendono servirsi la madre (Lansbury) e il patrigno per disfarsi di un avversario
politico di sinistra. Uno dei film di fantapolitica più originali e preoccupantemente chiaroveggenti (l’assassinio dell’uomo politico anticipa l’omicidio
Kennedy), capace di restituire allo spettatore l’insicurezza politica che si respirava in quegli anni (e non a caso il film venne attaccato dalla destra, perché parlava di una
congiura filofascista, e da sinistra , per il suo anticomunismo da guerra fredda).
Frenkenheimer e il suo sceneggiatore George Axelrod trovano soluzioni “tanto audaci
quanto efficaci ai problemi posti dalla riduzione del romanzo di Richard Condon” senza
risparmiare nessun effetto, ora barocco ora retorico ora illusionistico, per trasformarlo in
un’opera surreale, affascinante e folle allo stesso tempo. La sequenza del lavaggio del
cervello è di quelle che non si dimenticano, così come i ricordi subliminali che conservano
alcuni soldati (come quello interpretato da Frank Sinatra). (***)
(Paolo Mereghetti: Dizionario dei Film 2000)
Un plotone di soldati americani è catturato e confinato in un campo d’internamento in Manchuria. Sottoposti a un trattamento durissimo, i militari finiscono
quasi per impazzire e uno di loro uccide due commilitoni. Per il comandante del
plotone, tornato in patria, il ricordo di quei giorni diventa un’ossessione. Da un
romanzo di Richard Condon, un thriller visionario inquietante e violento, uno dei
migliori a sfondo politico mai realizzati negli Stati Uniti. (***½)
(Leonard Maltin: Guida Film 2007)
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(…) L’aspetto curioso del film, che si chiarisce progressivamente nel corso del
racconto, è che Frankenheimer non ce l’ha tanto con i sovietici quanto con il
maccarthysmo; e che alla fine i più solidi e sicuri amici dell’Urss risultano essere
per l’appunto i fanatici del patriottismo a buon mercato e della caccia alle
streghe. Il raccontino, insomma, è mosso da lieviti democratici e ha più di una
sfumatura paradossale. L’ha sceneggiato abilmente George Axelrod (Quando la moglie è in
vacanza), che ha il gusto dell’invenzione surreale e dell’ironia tagliente (…)
(Tullio Kezich: Il Film Sessanta, 1979)
(…) Da quanto detto si capisce che il film Va’ e uccidi, diretto da John
Frenkenheimer, pullula di salme e colpi di scena; ai morti si aggiunge alla fine
anche il protagonista, Laurence Harvey, non senza essere riuscito prima a
sventare i piani dei suoi mefistofelici padroni. Peccato che nella lunga e sconclusionata vicenda siano coinvolti altri attori di buon nome, quali Frank Sinatra, Janet
Leigh, Henry Silva, James Gregory e, nel ruolo sgradevole dell’odiosa madre, Angela
Lansbury.
(Il Corriere della Sera: marzo 1964)
Come spesso succede con i DVD quando esce un remake di un vecchio film si
torna a rivederlo, a riscoprirlo. “The Manchurian Candidate” nasce come un
romanzo di Richard Condon, pubblicato nel 1958 (e ora in uscita per la Fanucci)
facendo riferimento diretto alla esplosiva situazione politica americana e mondiale. Il romanzo divenne un film sotto Kennedy. Sinatra, amico di Kennedy, diede
al film la necessaria copertura politica. Il film uscì ma poco dopo Kennedy fu assassinato.
La similarità delle conclusioni, l’indiretto suggerimento che l’assassino di Kennedy potesse
essere stato frutto di un complotto, portò al ritiro del film. “The Manchurian Candidate”
tornò sugli schermi americani solo nel 1988, con grande successo di critica. Il film nasce
da un periodo politicamente molto vivace, almeno sullo schermo. Contemporanei al film di
Frankenheimer sono “Dr. Stranamore” di Kubrick e “Fail safe” di Lumet, entrambi sulla
minaccia nucleare. Tutti in un bianco e nero molto contrastato, tutti con una attenzione alla
satira, tutti con grandi interpretazioni.
The Manchurian Candidate è un film sulla follia del potere politico portato alle estreme
conseguenze. I temi sono datati, ma non il film che rimane integro nella sua tensione
grottesca. I due poli sono il personaggio della madre, interpretato da una straordinaria
Angela Lansbury sopra le righe, e quello del capitano Marco, con un Sinatra diretto, interiore. I due personaggi si incontrano una sola volta ma nella tensione che esiste fra loro si
muove tutto il film, girato in modo impeccabile da Frankenheimer, sicuramente il suo film
migliore.
(Federico Passi: iCine.it, 5 novembre 2004)
46
NEL CENTRO DEL MIRINO
(In the Line of Fire, 1993, Wolfgang Petersen)
Clint Eastwood (Frank Horrigan), John Malkovich
(Mitch Leary), Rene Russo (Lilly Raines),
Jim Curley (Presidente), Sally Hughes (First Lady).
Wolfgang Petersen
RECENSIONI
Frank Horrigan (Eastwood), veterano dei servizi segreti col rimorso di non aver
salvato JFK, deve difendere il nuovo presidente dal furbissimo maniaco Mitch
Laery (Malkovich). Un thriller che si sforza di dare spessore ai personaggi, e ci
riesce soprattutto per merito dei due interpreti: Eastwood, disilluso e pieno di
rimpianti, e Malkovich, ambiguo, glaciale e accattivante. Il gioco del gatto e del
topo che Leary conduce ai danni di Horrigan, chiamandolo continuamente al telefono, è la
parte migliore del film, e si colora di una sotterranea ambiguità. Ben girate le scene
d’azione e di suspense, anche se manca un pizzico di coraggio per spingersi un po’ oltre la
prevedibilità del genere. (…) (**½)
(Paolo Mereghetti: Dizionario dei Film 2000)
Scoppiettante thriller, ben costruito, su un presunto assassino del presidente che
trascina l’agente segreto Eastwood, che aveva fallito la sua protezione al presidente Kennedy nel 1963, in un crudele gioco del gatto con il topo quando questi
progetta di assassinare l’attuale presidente. Eastwood, un più anziano, vulnerabile pianista solitario, e Malkovich fa coppia con lui come superintelligente
pazzerello. (***½)
(Leonard Maltin: Guida Film 2007)
(…) Spettacolare, eccitantissimo poliziesco del tedesco Wolfgang Petersen che
riesce a provocare continui brividi in una vicenda pancia a terra anche se tutto
sommato prevedibile: o qualcuno forse pensa che l’indistruttibile Clint Eastwood
possa lasciarsi la ghirba? A proposito, il vecchio cowboy con la faccia ridotta a
una mappa di rughe è ancora un campione si simpatia. (Voto 7)
(Massimo Bertarelli: Il Giornale 2 dicembre 2001)
47
La gara cacciatore-cacciato è condotta con perizia da un regista tedesco, che pur
inserito per la prima volta in un set hollywoodiano dopo i trionfi europei di UBoot 9 e La storia infinita supera in scaltrezza spettacolare i colleghi americani.
Wolfgang Petersen non inventa. Dal supermarket dell’immaginario cinematografico prende quel che gli occorre e lo manipola con tale prontezza da far
sembrare la singolar tenzone fra Eastwood e Malkovich tutt’altro che risaputa. Il gioco,
insomma, funziona che è un piacere e ci dà anche l’illusione di percorrere le segrete stanze
del potere. In contemporanea assistiamo allo show del presidente americano, che ubbidisce
a una sceneggiatura già scritta nelle parate e negli incontri con i “supporter”. Intorno a lui,
i burattinai. Palesi come i consiglieri o occulti al modo del cacciatore che proprio nel finale
sarà beffato dal cacciato.
(Francesco Bolzoni: Avvenire, 29 settembre 1993)
Non manca nulla al film diretto dal regista Wolfgang Pertersen: il grande spettacolo, la personalità degli interpreti, scavata man mano nei risvolti più privati, una
bella collega (Rene Russo) che prova della simpatia per il protagonista, e persino una certa aria romantica, da film anni Quaranta, nella gara a distanza tra il
poliziotto e l’assassino per un premio molto alto: la vita del Presidente degli Stati
Uniti. Eastwood è una leggenda, un gigante forte e alto: era indispensabile mettergli di
fronte un cattivo di pari importanza, e John Malkovich si conferma a sua volta un gigante,
anche se d’altro tipo.
(Alfio Contelli: Il Giornale, 28 settembre 1993)
Nel centro del mirino offre tutto quello che ci si aspetta di trovare in un ottimo
film d’azione, con delle scene sorprendenti, un finale acrobatico e pseudo-hitchcockiano e qualche battuta crepuscolare perfetta per Eastwood con quelle sue
belle rughe da antico americano. In coppia con Malkovich, attore diverso e altrettanto straordinario nell’impersonare in chiave di disincantata ironia il suo personaggio di maniaco pericoloso, Eastwood è il punto di forza di quest’avventura spettacolare dal risvolto amaro. Basta vederlo mentre, seduto sotto la statua di Lincoln, mangia un
gelato rimpiangendo di non essere al suo servizio.
(Alessandra Levantesi: La Stampa, 26 settembre 1993)
In the Line of Fire è narrativamente più omogeneo. Anche qui c’è un duello a distanza che, però, scava più a fondo nei personaggi e ha un malinconico retrogusto etico politico. Qual è il dubbio che il torvo e sagace Mitch Leary che progetta un attentato all’attuale “viaggiatore” della Casa Bianca insinua in Frank
Horrigan, anziano agente dei servizi, tormentato dal senso di colpa per non
essere riuscito, trent’anni prima, a proteggere John F. Kennedy a Dallas? E’ una domanda:
ne vale ancora la pena? C’è tutta una realtà dietro quella domanda: il disincanto verso la
politica, la caduta degli ideali, la cresciuta sfiducia sulla mediocrità dei potenti. E’ una partita a distanza, dove il proteiforme Malkovich, classe 1953, gioca all’attacco e il monocorde
Eastwood, classe 1930, in difesa. Sulla scia della dinosauromania un critico americano ha
trovato per Eastwood una definizione che avrei voluto inventare io: Clintosaurus Rex.
Attraverso la contrapposizione di due personaggi il film diventa un confronto tra due stili
48
di recitazione: l’attore e la star, il giovane e il vecchio, il moderno e il classico.
(Morando Morandini: Il Giorno, 28 settembre 1993)
Ma che bei film sanno ancora fare a Hollywood, quando vogliono (magari con
l’aiuto di un regista straniero). Ma come sono bravi questi sceneggiatori a imbottire di sottotrame e di sottotesti i loro copioni che a prima vista sembrano solo
oliatissime macchine spettacolari. Prendiamo questo Nel centro del mirino, il
thriller scritto da Jeff Maguire e diretto da Wolfgang Petersen, il regista tedesco
di U-Boot 96 e La storia infinita.
(Fabio Ferzetti: Il Messaggero, 6 ottobre 1993)
Le rughe che gli solcano il viso sono erosioni geologiche, la battuta è un getto di
sarcasmo e grinta, il passo quello di un cavaliere pallido a metà strada tra pensione e mitologia. Da Venezia, dove Nel centro del mirino ha beneficato il fuori
concorso, scrivevano che Clint Eastwood è ormai scolpito nel monte Rushmore
dell’immaginario Usa: l’antica gagliardia si staglia con la stessa imponenza dei
profili dei presidenti (ricordate il finale con vertigini di Intrigo internazionale?) sul prosaico panorama della nuova Hollywood. Proprio come nei classici dell’età d’oro, l’onnipresenza del divo diventa carne e sangue del testo, accelera le alchimie romanzesche e
rivaluta la suspense. Nel centro del mirino, scritto da Jeff Maguire e diretto dal tedesco
Wolfgang Petersen (U-Boot 96 e La storia infinita), è un thriller politico di buon ritmo e
piena fedeltà alle auree regole del genere: come spesso accade - con buona pace di certi
critici smaniosi di sentirsi superiori al testo - lo stereotipo narrativo non penalizza lo stile e
la progressione spettacolare non disperde le sfumature psicologiche.
(Valerio Caprara: Il Mattino, 3 ottobre 1993)
49
A PROVA DI ERRORE
(Fail-Safe, 1964, Sidney Lumet)
Henry Fonda (Presidente), Walter Matthau (Prof.
Greoteschele), Ed Binns (Jack Grady), Fritz Weaver
(col. Cascio), Louise Larabee (Mrs. Cascio), Harry
Hagman (Buck).
Alan Pakula
RECENSIONI
Per un “errore tecnico” alcuni bombardieri atomici americani si dirigono
sull’Urss: nonostante i contatti tra i due presidenti, le bombe distruggeranno
Mosca e così il premier Usa (Fonda) si vede costretto per equilibrare la catastrofe
a fare lo stesso con New York. Dal romanzo di Burdicke Wheeler, un drammatico e tesissimo thriller di fantapolitica sull’eventualità di guerre scatenate “per
sbaglio”. Fonda è perfetto nella parte del Presidente degli Stati Uniti. Il traduttore che gli è
sempre vicino è Larry Hagman, il futuro J.R. di Dallas. (***)
(Paolo Mereghetti: Dizionario dei Film 2000)
Per errore, a un bombardiere Usa viene ordinato di colpire Mosca con un’atomica, spingendo i capi di governo americani e russi a prendere decisioni critiche
mentre il tempo stringe. Dramma ad alta tensione realizzato con gusto e intelligenza. Walter Bernstein ha adattato il best seller di Eugene Burdick e Harwy
Wheeler. Rifatto per la tv nel 2000. (***½)
(Leonard Maltin: Guida Film 2007)
Nel suo libro Può l’uomo prevalere? Erich Fromm cita il rapporto di due studiosi, H. Brown e I. Real, che hanno analizzato le possibilità di una guerra futura: “Anche se al mondo esistessero soltanto due potenze nucleari e quattro
nazioni armate in questo modo, vi sarebbe ugualmente la possibilità che scoppi
accidentalmente una guerra atomica. Ciò potrebbe verificarsi in conseguenza di
un errore meccanico o umano. Nessuna macchina è perfetta. Nessun essere umano va
esente dalla possibilità di commettere errori di valutazione. Per esempio, si sono già verificati diversi incidenti con aerei americani che trasportavano bombe atomiche”. Sulla possibilità di una guerra accidentale sono tutti d’accordo: pacifisti e fautori del disarmo totale
come Bertrand Russell, o teorici di un conflitto termonucleare “sopportabile” come
51
Herman Kahn. Quest’ultimo è lo scienziato che è stato preso a modello per il personaggio
del Dottor Stranamore di Stanley Kubrick; è lui che ha dichiarato a un giornalista, chiarendo i motivi per cui ritiene di equiparare all’orrore della guerra “l’orrore della pace”:
“Intendo dire che la vita, dopo un attacco nucleare, non sarebbe molto diversa da quella
odierna. E chi mai oggi è felice e perfettamente normale? Dopo la guerra saremo proprio
gli stessi e ancora utili da un punto di vista economico”. Non è una battuta tratta da un film
di fantapolitica, è l’opinione di un uomo di scienza che ritiene suo dovere mettere gli Stati
Uniti nella condizione di “vincere la guerra nucleare”. Niente di assurdo, come si vede, nel
film A prova di errore: dove un guasto ai controlli radar del Pentagono precipita l’umanità
in un’inutile strage. Il copione è tratto da un romanzo di Eugene Burdick e Harvey Wheeler,
pubblicato anche in Italia da Longanesi. È davvero ammirevole il profondo senso democratico con cui gli intellettuali americani affrontano problemi di vita e di morte connessi
alle storture della loro civiltà. In A prova di errore è sotto accusa la fede cieca nello strumento meccanico, nelle macchine pensanti che non a caso il maggior cibernetico italiano,
Silvio Ceccato, definisce “stupide”. Basta uno stupido errore di una macchina stupida e due
metropoli, Mosca e New York, sono rase al suolo. C’è da farsi venire i brividi soprattutto
perché il regista Sidney Lumet ha raccontato questo allucinante apologo puntando sulla
ricerca del verosimile. A parte qualche notazione psicologistica sui vari personaggi che
risulta stonata e fuori posto, il film è girato come una registrazione di eventi: si rimane con
il fiato sospeso per due ore e si esce sbirciando allarmati i titoli delle ultime edizioni. Di
uno spettacolo come questo non riusciamo a dare un giudizio: bello e brutto sono parole
senza senso di fronte al problema della guerra totale. Per conto nostro, se ne avessimo
facoltà, renderemmo la visione di A prova di errore obbligatoria per tutti.
(Tullio Kezich: Il cinema degli anni sessanta, 1966 )
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BULWORTH – IL SENATORE
(Bulworth, 1998, Warren Beatty)
Warren Beatty (Jay Billington Bulworth), Halle Berry
(Nina), Jack Warden (Eddie Davers),
Paul Sorvino (Graham Crochett).
Warren Beatty
RECENSIONI
Un politico devastato dall’esaurimento nervoso tanto da non voler più vivere,
pensando di non avere più nulla da perdere dice finalmente alla gente, per la
prima volta, la verità: in Bulworth (il titolo è il nome del personaggio) Warren
Beatty dirige e interpreta una parabola politica satirica, non del tutto riuscita.
Marzo 1996. La campagna per le elezioni primarie in California è alla fine,
Clinton è in testa nel partito democratico e Dole in quello repubblicano. Il senatore
Bulworth concorre per il rinnovo del proprio mandato al Senato, e non ce la fa più: non
mangia, non dorme, piange seduto alla scrivania, sottoscrive una forte assicurazione sulla
vita a favore della famiglia e incarica un killer di ucciderlo, di liberarlo dalla vita politica
ormai insopportabile. E nei discorsi, nei comportamenti, si sfrena: dice quello che pensa, fa
quello che gli piace. Alla comunità nera o ebrea dice quanto l’attenzione dei politici verso
di loro sia solo elettoral-strumentale, ammette la subordinazione dei politici ai poteri industriali, economici e assicurativi, s’invaghisce d’una bellissima ragazzina nera che è Halle
Berry e con lei balla in discoteca, si tuffa vestito in piscina, attacca a parlare alla gente in
forma di rap: “Se non nasci ricco/ nella vita sono cazzi”, “Ciò che chiamiamo America/ si
disfa poco a poco”. Non vuole più morire, cerca di sfuggire al suo killer, si traveste, si
nasconde, mentre la sua nuova schiettezza e le sue nuove idee (che sono poi quelle del programma d’epoca di Clinton) fanno crescere moltissimo i suoi indici di gradimento: è quando riappare e bacia davanti alle telecamere la ragazza nera che gli sparano (e a sparare non
è il killer incaricato da lui), ma forse sopravviverà. Il film, scritto e sceneggiato dallo stesso Warren Beatty, è ingenuo e primario come una favola più che aspro come una satira, mal
congegnato nel meccanismo narrativo: ma è divertente, benintenzionato e a suo modo coraggioso, anche se la critica severa alla politica americana rappresenta ormai un esercizio
collettivo quotidiano mondiale, e se al cinema è stata espressa con più spirito, più esattezza e maggiore aggressività da film come La seconda guerra civile americana o Sesso e
potere).
(Lietta Tornabuoni: La Stampa, 13 Settembre 1998)
53
Audace satira politica su un senatore della California che, nel tentativo di farsi
rieleggere alle amministrative del 1996, si libera la coscienza dicendo la verità,
venendo incontro alla comunità nera. Volutamente inquietante in alcuni momenti, uno sguardo acuto sui processi della politica e sulla condizione delle classi
subalterne. Uno dei film migliori di Beatty, che qui recita, dirige ed è co-autore
della sceneggiatura (…) (***½)
(Leonard Maltin: Guida Film 2007)
Stanco della politica, il senatore democratico Jay Billington Bulworth (Beatty)
assolda un killer perchè lo uccida e comincia a dire ciò che pensa realmente
dell’America a ritmo di rap. L’incontro con una giovane attivista nera (Berry) gli
farà riscoprire l’amore e il gusto per la vita, ma forse è troppo tardi. Il bluff dell’anno, una commedia fintamente radicale che spaccia luoghi comuni per verità
rivoluzionarie. Sembra il Celentano di Yuppi Du ma senza la spontanea ingenuità del
Molleggiato, visto anche lo stuolo di collaboratori usati per tirare a lucido la confezione
(Storaro alla fotografia, Canonaro ai costumi, Morricone alla colonna sonora, contrappuntata - per coerenza con l’intreccio – da numerosissimi brani rap). (*)
(Paolo Mereghetti: Dizionario dei Film 2000)
(…) In questa versione moderna di “i vestiti nuovi dell’Imperatore”, dove è l’imperatore stesso a dire l’impronunciabile verità, succede (siamo ai tempi delle primarie del 1996) che Jay Billington Bulworth, senatore democratico, non ne
possa più di mentire, di mediare, di fare gli interessi delle grandi lobbies.
Eusarito, depresso, decide di sottoscrivere una grossa assicurazione sulla vita a
favore della figlioletta e, tramite un intermediario, assolda un killer che lo faccia fuori. Ma
(come nel film di Kaurismaki con Jean Pierre Léaud) qualcosa cambia. Sarà forse l’euforia dell’autocondanna a morte, o il senso di libertà che ne deriva. Fatto sta che a un incontro pubblico a Los Angeles, legibus solutus, comincia a dire a ritmo di rap tutta la sua verità sulla situazione americana: sullo sfruttamento politico della gente di colore, sulle
manovre delle grandi lobbies, sui brutti film imposti al pubblico, sulla subordinazione dei
politici ai potentati economici… La cosa, secondo un tipico processo made in Usa, prima
semina il panico, poi diventa un successo, soprattutto presso la comunità di colore. Con il
risultato che ora Bulworth - anche perché si è innamorato di una deliziosa ragazzina di colore di quarant’anni più giovane di lui - non vuole più farsi ammazzare; ma non riesce a
contattare il suo killer, e per sfuggirgli si rifugia nei ghetti neri di cui è diventato il paladino (…).
Proibito prendere sul serio la storia di Bulworth: è una favola contemporanea, un wishful
thinking, e cioè qualcosa che sarebbe bello che succedesse e non succederà mai. Ma è anche
una satira serissima e urticante del sistema politico americano, una denuncia delle verità
mai dette in nome degli interessi delle grandi corporations, una commedia brillante che
parla di problemi veri – con qualche caduta. Nel suo impegno a dire la verità-tutta-la-verità Warren Beatty riserva qualcosa anche per se stesso: quando chiede alla sua deliziosa
morosa quanti anni pensa che lui abbia e lei risponde “sessanta” e lui ci resta un po’ male.
Trovate un altro attore che dallo schermo non menta su questo argomento.
(Irene Bignardi: La Repubblica, 20 giugno 1999)
54
California, 1996. Mentre W.J. (Bill) Clinton sta per essere rieletto alla Casa
Bianca, il senatore democratico Jay Bulworth è sull’orlo di un esaurimento nervoso. Accesa un’assicurazione sulla vita per sua figlia, assolda un sicario che
deve ucciderlo nelle ultime 48 ore della sua campagna elettorale. Non avendo più
nulla da perdere, comincia a dire la verità nei comizi, suscitando un putiferio e
alzando gli indici di ascolto in TV. Riscoperta la gioia di vivere, cambia idea, ma non sa
come fermare il sicario. Per la 4ª regia di W. Beatty avrebbe ragione. Prodotta e scritta con
Jeremy Pikster, è una farsa tragica di controinformazione che sembra un saggio di Noam
Chomsky contro la politica interna ed estera degli Stati Uniti, ridotto in pillole e dialogato
a ritmo di rap. Purtroppo è un pamphlet dove quasi nulla funziona, a cominciare dallo stesso Beatty (con la voce di Cesare Barbetti). Serve a poco anche l’alta qualità (europea) dei
collaboratori: Vittorio Storaro, Dean Tavoularis, Milena Canonero, Ennio Morricone.
(Laura, Luisa e Morando Morandini: Il Dizionario dei film, 2004)
55
TUTTI GLI UOMINI PRESIDENTI
1°: George
WASHINGTON
1789-1797
2°: John
ADAMS
1797-1801
3°: Thomas
JEFFERSON
1801-1809
4°: James
MADISON
1809-1817
5°: James
MONROE
1817-1825
6°: John
Quincy ADAMS
1825-1829
7°: Andrew
JACKSON
1829-1837
8°: Martin VAN
BUREN
1837-1841
9°: William H.
HARRISON
1841
10°: John
TYLER
1841-1845
11°: James
Knox POLK
1845-1849
12°: Zachary
TAYLOR
1849-1850
13°: Millard
FILLMORE
1850-1853
14°: Franklin
PIERCE
1853-1857
15°: James
BUCHANAN
1857-1861
57
16°: Abraham
LINCOLN
1861-1865
17°: Andrew
JOHNSON
1865-1869
18°: Ulysses S.
GRANT
1869-1877
19°: Rutherford
B.HAYES
1877-1881
20°: James A.
GARFIELD
1881
21°: Chester
Alan ARTHUR
1881-1885
22°: Grover
CLEVELAND
1885-1889
23°: Benjamin
HARRISON
1889-1893
24°: Grover
CLEVELAND
1893-1897
25°: William
MCKINLEY
1897-1901
26°: Theodore
ROOSEVELT
1901-1909
27°: William
Howard TAFT
1909-1913
28°: Woodrow
WILSON
1913-1921
29°: Warren G.
HARDING
1921-1923
30°: Calvin
COOLIDGE
1923-1929
31°: Herbert
Clark HOOVER
1929-1933
32°: Franklin
D. ROOSEVELT
1933-1945
58
33°: Harry S.
TRUMAN
1945-1953
34°: Dwight D.
EISENHOWER
1953-1961
35°: John F.
KENNEDY
1961-1963
36°: Lyndon B.
JOHNSON
1963-1969
37°: Richard
Milhous NIXON
1969-1974
38°: Gerald
Rudolph FORD
1974-1977
39°: James
Earl CARTER
1977-1981
40°: Ronald W.
REAGAN
1981-1989
?
41°: George
H.W. BUSH
1989-1993
42°: William J.
CLINTON
1993-2001
43°: George
Walker BUSH
2001- 2008
59
44°:
2008 -
TUTTI GLI ATTORI PRESIDENTI
Presidenti storici
Henry Walthall: Abramo Lincoln in "Nascita di una nazione" (The Birth
of a Nation, 1915, David Wark Griffith)
Raymond Massey: Abramo Lincoln in "Abramo Lincoln" (Abe Lincoln
in Illinois, 1940, John Cromwell)
Cliff Robertson: John Kennedy in "PT 109 Posto di combattimento" (PT
109, 1963, Leslie Martinson)
Pat McCormick: Cleveland Grover in "Buffalo Bill e gli indiani"
(Buffalo Bill and the Indians, 1976, Robert Altman)
David Patrick Kelly: Harry Truman in "Flags of Our Fathers" (Flags of
Our Fathers, 2006, Clint Eastwood)
Brian Keith: Theodore Roosevelt in "Il vento e il leone" (The Wind and
the Lion, 1975, John Milius)
Victor Sutherland: Anson Jones in: "Stella solitaria" (Lone Star, 1952,
George Sherman)
61
Nick Nolte: Thomas Jefferson in: "Jefferson in Paris" (Jefferson in Paris,
1995, James Ivory)
Anthony Hopkins: Richard Nixon in "Nixon - Intrighi di potere" (Nixon,
1994, Oliver Stone)
Joseph Crehan: Ulysses Grant in "La storia del generale Custer" (They
Died with their Boots, 1941, Raoul Walsh)
Presidenti immaginari
Henry Fonda: il Presidente in "A prova di errore" (Fail Safe, 1964,
Sidney Lumet).
Harrison Ford: il Presidente in "Air Force One" (Air Force One, 1997,
Wolfgang Petersen)
Michael Keaton: il Presidente in "Una teenager alla Casa Bianca" (First
Daughter, 2004, Forest Whitaker)
Gene Hackman: il Presidente in "Potere assoluto" (Absolute Power,
1997, Clint Eastwood)
62
Michael Douglas: il Presidente in "Il Presidente - Una storia d'amore"
(The American President, 1995, Rob Reiner)
William Hurt: il Presidente in "Prospettive di un delitto" (Vantage Point,
2008, Pete Travis)
Kevin Kline: il Presidente in "Dave. Presidente per un giorno" (Dave,
1993, Ivan Reitner)
Fredric March: il Presidente in "Sette giorni a maggio" (Seven Days in
May, 1964, John Frankenheimer)
E.G. Marshall: il Presidente in "Superman II" (Superman II, 1980,
Richard Lester)
Peter Sellers: il Presidente in "Il Dottor Stranamore (Dr. Strangelove,
1964, Stanley Kubrick)
63
PICCOLO GLOSSARIO
A
IR FORCE ONE
Air Force One è il nominativo radio di qualunque aereo dell’U.S. Air Force con a bordo il
Presidente degli Stati Uniti d’America.
Prima che l’attuale Boeing 747 entrasse in servizio, la flotta presidenziale era composta da
due Boeing 707, in servizio dal 1962. Dal 1990 la flotta presidenziale è composta appunto
da due Boeing 747 modificati. In caso di emergenza, ad esempio attacchi terroristici o
azioni di guerra che minaccino la sicurezza del presidente, questo aereo viene utilizzato
come ufficio mobile: in questo modo si riducono i rischi di un attacco al presidente.
Capace di coprire 12.600 km - e cioè un terzo della distanza totale necessaria per compiere
il giro del mondo - senza mai fare rifornimento, con una capacità di trasporto di 70 passeggeri, l’Air Force One attuale può essere rifornito in volo in modo da prolungarne l’autonomia in casi di estrema necessità.
A
NTICOMUNISMO
La cosiddetta Paura rossa (Red Scare) ha rappresentato un fenomeno socio-politico in due
distinti periodi d’intenso anticomunismo nella storia degli Stati Uniti: dal 1917 al 1920, e
durante i primi anni ‘50. Entrambi i periodi furono caratterizzati da una diffusa paura dell’influenza dei comunisti sulla società statunitense e dell’infiltrazione comunista nel governo USA.
Si ebbe la tendenza a vedere il comunismo come un blocco compatto senza distinzioni e
come un sinonimo di totalitarismo. Vennero bollati come comunisti anche personaggi,
movimenti o regimi che non lo erano, ma che venivano visti come una possibile minaccia
per gli USA. Queste paure generarono investigazioni aggressive, imprigionamenti e condanne a morte di persone che si riteneva fossero motivate dall’ideologia comunista o associate a movimenti politici comunisti o socialisti.
Tra i casi più eclatanti la vicenda di Sacco e Vanzetti, due anarchici italiani emigrati negli
Stati Uniti che vennero condannati a morte con le false accuse di omicidio e rapina a mano
armata, nonostante la totale carenza di prove. Giustiziati il 23 agosto del 1927 nel
Massachusetts, furono successivamente riabilitati nel 1977 da parte della burocrazia statunitense.
Un altro caso degno di nota è quello dei cittadini statunitensi Ethel e Julius Rosenberg, coppia di coniugi accusati di spionaggio a favore dell’URSS, condannati a morte e giustiziati
65
il 19 giugno 1953. Con l’apertura degli archivi sovietici si scoprì che solo il marito, Julius,
era colpevole, e che quindi le accuse e la condanna per Ethel Rosenberg furono ingiuste.
C
ASA BIANCA
La Casa Bianca (White House) è la residenza ufficiale e il principale ufficio del Presidente
degli Stati Uniti d’America e comprende un complesso architettonico il cui centro è un
palazzo bianco di stile vittoriano situato al numero 1600 della Pennsylvania Avenue,
Washington (D.C.).
Quando George Washington fu eletto primo Presidente degli Stati Uniti si trovò a governare
l’Unione in un territorio (il Distretto di Columbia) paludoso e non ben collegato con le altre
importanti città americane, ma che scelse lui stesso (non era molto distante dal suo luogo
di abitazione, Mount Vernon).
Il francese P.C. L’Enfant progettò la città di Washington come una grande scacchiera, il cui
fulcro era l’Executive Mansion (l’attuale Casa Bianca), collegata con un viale di 120 metri
alla sede del Congresso, il Campidoglio. Entrambe le costruzioni furono abbozzate dal
francese, che però venne rimosso dall’incarico. Vincitore del concorso che venne subito
bandito fu James Hoban, che progettò una sontuosa villa il cui tema principale fu la forma
ovale dei due saloni e un ordinato stile neoclassico, di ispirazione inglese. Giudicata
enorme (Thomas Jefferson, che sarà in seguito il suo secondo inquilino, la criticò così: [...]
“non è necessaria una casa grande abbastanza per due Imperatori, un Papa e un Dalai
Lama”) e nonostante i costi più alti del previsto, la costruzione fu comunque realizzata,
seppur privata dei portici e del terzo piano.
George Washington morì durante il completamento del tetto e la casa venne inaugurata nel
1800. Quando venne eletto Thomas Jefferson pochi anni dopo, fu proprio lui a richiedere
ulteriori ingrandimenti e abbellimenti, come i porticati agli ingressi Nord e Sud e le ali Est
ed Ovest, oltre a serre e gabbie per orsi bianchi (doni di esploratori) tutti progettati dall’americano B.H. Latrobe. Internamente la moglie del presidente arredò gli appartamenti
con mobili francesi. Ma tutto fu di breve durata, perché nel 1814 l’Executive Mansion fu
semidistrutta da un incendio, che risparmiò solamente le pareti esterne, anche quelle malandate. Venne richiamato J. Hoban, che restaurò sommariamente la Casa Bianca (termine che
stava diventando di uso comune), giusto in tempo per venire letteralmente demolita negli
interni da migliaia di simpatizzanti del presidente Andrew Jackson nel 1829.
Ristrutturata nel corso degli anni, la Casa Bianca vide l’avvicendarsi di presidenti come
Monroe, Harrison, Abraham Lincoln, Fillmore (la cui moglie iniziò la Biblioteca presidenziale) e finalmente Chester A. Arthur, che, non volendo mettere piede nella “baracca”, ne
comandò una totale ristrutturazione che proseguì anche sotto i suoi successori. Nel XX secolo il presidente Franklin Delano Roosevelt commissionò un’importante ammodernamento di pavimenti, solette e strutture che migliorò l’abitabilità della famiglia presiden66
ziale. Tuttavia dopo l’elezione di Harry S. Truman, nel 1945, la Casa Bianca venne completamente ricostruita (ad eccezione delle mura perimetrali esterne) riportandola ai progetti neoclassici di Latrobe e Hoban.
Costruita in stile palladiano, la villa si presenta come un grande parallelepipedo
appoggiato sulla base lunga, con al centro
due piccoli bracci costituiti dai porticati
degli ingressi nord e sud. Le ali laterali sono
visibili solo dall’ingresso sud. Due ordini di
finestre, al piano terra con cornici di gusto
rinascimentale, quelle del piano nobile semplici ed eleganti al tempo stesso. Tra una
finestra e l’altra dell’intero edificio sono presenti raffinate lesene ioniche. Il tetto è con- Facciata nord della Casa Bianca
tornato da un’elegante balaustra. L’ingresso
nord presenta un alto pronao sorretto da otto
snelle colonne ioniche con frontone triangolare. Il lato sud presenta una forma absidale che segue le forme interne del famoso Studio
Ovale. L’aspetto esterno nel complesso è di un edificio imponente ma leggero, più dimora
da borghese arricchito che dell’uomo più potente del mondo. Gli interni sono tipicamente
americani, nel complesso eleganti ma non ricchi di decorazioni come i contemporanei
palazzi europei: perché, non bisogna dimenticarlo, si tratta di una residenza presidenziale.
C
ONGRESSO
Gli autori della Costituzione crearono un Congresso bicamerale, poiché desideravano che
ci fossero due camere che si controllassero reciprocamente. Una delle due (la Camera dei
Rappresentanti) era intesa come “camera del popolo”, molto sensibile all’opinione pubblica. L’altra (il Senato) avrebbe dovuto essere un’assemblea di saggi più riflessiva e ponderata, che rappresentava i parlamenti degli stati. Rispetto alla Camera dei Rappresentanti, il
Senato è meno numeroso e i suoi membri hanno un mandato più lungo, e questo consente
un’atmosfera più collegiale, meno partigiana e meno influenzata dalla pubblica opinione.
Il Senato e i suoi membri hanno generalmente maggiore prestigio rispetto alla Camera,
poiché il mandato dei senatori è più lungo, l’assemblea è meno numerosa, e i senatori rappresentano collegi che (nella maggior parte dei casi) sono più grandi di quelli dei
Rappresentanti.
67
G
OVERNATORE
Negli stati e nelle regioni che appartengono ad una federazione o ad uno stato regionale il
titolo di governatore è attribuito al capo dell’esecutivo. La denominazione è usata per lo più
quando la forma di governo prescelta è quella presidenziale, per cui il governatore, normalmente eletto dalla popolazione, ha a livello locale un ruolo analogo a quello del presidente a livello nazionale. Hanno ad esempio un governatore gli Stati d’America. Negli Stati
Uniti il governatore è eletto direttamente dal popolo e dura in carica quattro anni (due in
New Hampshire e Vermont). La costituzione della maggior parte degli stati federati (42 su
50) prevede a fianco del governatore un luogotenente governatore, che lo coadiuva e gli
subentra in caso di morte o impedimento; in taluni stati, inoltre, il luogotenente governatore presiede il senato. In 24 stati governatore e luogotenente governatore sono eletti congiuntamente, negli altri 18, invece, sono eletti separatamente e possono quindi appartenere
a partiti diversi.
G
UERRA FREDDA
Fu definita guerra fredda la situazione di conflitto non bellico che venne a crearsi tra due
blocchi internazionali, generalmente indicati come Ovest (gli Stati Uniti d’America, gli
alleati della NATO ed i Paesi amici) ed Est (l’Unione Sovietica, gli alleati del Patto di
Varsavia ed i Paesi amici) tra la fine della seconda guerra mondiale e l’ultimo decennio del
Novecento (circa 1945-1990).
Tale tensione non si concretizzò mai in un conflitto militare vero e proprio, tale da comportare una contrapposizione bellica su vasta scala tra Est e Ovest: la presenza di armi
nucleari nei rispettivi arsenali avrebbe reso irreparabile per il pianeta un’eventuale aggressione e la relativa reazione. Il termine fu introdotto nel 1947 dagli statunitensi Bernard
Baruch e Walter Lippmann per descrivere l’emergere delle tensioni tra due alleati della seconda guerra mondiale.
I
MPEACHMENT
Col termine impeachment si intende la messa in stato d’accusa di titolari di cariche pubbliche che abbiano commesso determinati illeciti nell’esercizio delle loro funzioni. Questo
particolare vocabolo della lingua inglese si allaccia ai termini francesi empecher o
empechement.
68
L’impeachment è un antico istituto del diritto anglosassone; sviluppatosi dapprima in
Inghilterra in un arco di tempo che va dal 1376 - anno in cui il Parlamento mise in stato
d’accusa alcuni ministri di Edoardo III e la sua amante Alice Perrers per corruzione e incapacità - al XVII secolo, fu successivamente previsto e disciplinato dai padri costituenti
degli Stati Uniti d’America nella Costituzione cosiddetta di Filadelfia del 1787 (all’art. 1,
sez. 3) attualmente vigente.
I soggetti passivi dell’impeachment (sottoposti al procedimento) sono i componenti del
potere esecutivo, dal presidente al vicepresidente fino ai funzionari delle amministrazioni
statali, ed i giudici intesi come membri delle giurisdizioni federali. Soggetti attivi dell’impeachment (promotori del procedimento) sono la camera dei rappresentanti, investita della
funzione di discutere i presupposti dell’accusa ed eventualmente elevarla (con voto a maggioranza semplice dei presenti), ed il senato investito del ruolo di giudice (con voto a maggioranza dei 2/3 dei presenti). Le sanzioni contemplate sono la rimozione o destituzione
dalla carica (Removal from Office) e l’interdizione dai pubblici uffici (Disqualification).
È ormai pacificamente accettato nella giurisprudenza e nella letteratura giuridica americana
che il soggetto passivo possa essere sottoposto parallelamente a procedimento della giustizia ordinaria, anche in contemporanea alla celebrazione dell’Impeachment.
Più ampiamente, oggi si parla di Impeachment anche in altri paesi, quando l’accusato è persona che ricopre importanti cariche istituzionali. In Italia il termine è stato evocato in occasione del tentativo, da parte di alcune forze di opposizione parlamentare, di attivare la procedura prevista dall’art. 90 della Costituzione Italiana contro il Presidente della Repubblica
Francesco Cossiga (1991). Questo adattamento del vocabolo impeachment a realtà
politiche e costituzionali diverse da quella americana spesso è tecnicamente improprio, perché ogni ordinamento ha le sue peculiarità, e va ascritto alle tendenze ed alle mode del linguaggio politico e giornalistico.
M
cCARTHY
Joseph Raymond McCarthy (1908– 1957) fu un senatore Repubblicano per il Wisconsin
dal 1947 al 1957. Durante questi dieci anni, McCarthy divenne famoso per le sue campagne
accusatorie nei confronti di chiunque fosse sospettato di appartenenza al Partito Comunista
o di generiche simpatie comuniste. Queste accuse erano per lo più rivolte a dipendenti del
Governo federale, in particolare a funzionari del Dipartimento di Stato, ma coinvolsero
anche molte altre categorie.
In quegli anni, persone di varia estrazione vennero accusate di essere spie sovietiche o simpatizzanti comunisti, e le loro opinioni e le loro frequentazioni furono oggetto di pesanti
indagini. Tali indagini erano affidate a numerosi comitati a livello federale e statale, ma
anche ad apposite agenzie investigative private. Joseph McCarthy divenne il volto più noto
di questa intensa attività anticomunista, e di conseguenza il termine maccartismo finì per
indicare sia il periodo (all’incirca tra il 1950 e il 1956) sia i metodi attuati dal senatore.
69
P
RESIDENTE
Presidente degli Stati Uniti è il capo di stato degli Stati Uniti d’America . La Costituzione
statunitense stabilisce che il presidente è investito del potere esecutivo a livello federale
(art. II, sez. 1) e che a lui fanno capo le forze armate federali e le milizie dei singoli Stati,
ove chiamate al servizio della Federazione.
Sempre l’art. II, dedicato al potere esecutivo, enumera altri poteri esclusivi del presidente,
come quelli di raccomandare al Congresso le misure che ritiene necessarie ed opportune,
di nominare consiglieri, di accordare la grazia e di sospendere le pene per i reati puniti a
livello federale.
L’esercizio di altri poteri presidenziali è invece coordinato con l’attività del Congresso. È
il caso della promulgazione delle leggi approvate da entrambe le camere, che include la
possibilità di esercitare il diritto di veto (art. I, sez. 7). In molte tipologie di atto la collaborazione con il potere legislativo si sostanzia nell’espressione Advise and Consent del
Senato, vale a dire “sentito il parere e con il consenso” del Senato. Il presidente può così
nominare diversi alti funzionari (inclusi i segretari di dipartimento, corrispondenti grosso
modo ai ministri di un governo parlamentare), gli ambasciatori e i giudici federali, ma tali
nomine devono essere scrutinate ed approvate dal Senato (a maggioranza semplice). I due
terzi dei voti espressi dai senatori sono invece necessari per approvare i trattati firmati dal
presidente.
Il presidente rimane in carica quattro anni. Una convenzione costituzionale, stabilita da
George Washington e Thomas Jefferson, limitava a due il numero di mandati ricopribili
dalla stessa persona. Tale principio non venne rispettato solo da Franklin Delano Roosevelt,
che venne eletto quattro volte. Nel 1951 venne quindi ratificato il ventiduesimo emendamento, che rese norma costituzionale il limite dei due mandati.
L’elezione avviene indirettamente, tramite il Collegio elettorale degli Stati Uniti. Ad ogni
stato viene assegnato un numero di voti elettorali, equivalente alla somma dei rappresentanti e dei senatori che lo stato elegge al Congresso. Il ventitreesimo emendamento (ratificato nel 1961) ha riconosciuto al Distretto di Columbia, privo di una propria rappresentanza congressuale, un numero di voti elettorali equivalenti a quelli che gli spetterebbero se
fosse uno stato, ma comunque non superiori a quelli attribuiti allo stato meno popolato (in
pratica, il Distretto non potrà esprimere più di tre voti elettorali). Quasi tutti gli stati assegnano la totalità dei loro voti elettorali al candidato che ha ottenuto la maggioranza semplice dei voti espressi nello stato stesso. In Maine e Nebraska vengono riconosciuti due voti
elettorali al vincitore a livello statale, più un voto al vincitore in ogni collegio congressuale.
Per diventare presidente basta dunque conquistare la maggioranza nel collegio dei grandi
elettori. Nel caso nessun candidato ottenga la maggioranza, l’incombenza di eleggere il
presidente spetta alla Camera dei Rappresentanti che, nel caso, vota per delegazioni statali.
Sede e residenza del presidente è la Casa Bianca a Washington , D.C. Il presidente dispone
70
di un suo staff e usufruisce di numerosi servizi. Due Boeing VC-25 (versione appositamente modificata dell’aereo di linea Boeing 747-200B) servono per il trasporto a lunga distanza. Con il presidente a bordo, l’aereo viene denominato Air Force One. Lo stipendio
del presidente ammonta a 400.000 dollari, esclusi altri benefici, e gli viene corrisposto una
volta all’anno.
Dalla Costituzione, 42 persone si sono succedute alla carica presidenziale. I mandati conteggiati sono comunque 43, in quanto Grover Cleveland eletto nel 1884, sconfitto nel 1888
ed eletto nuovamente nel 1892 figura aver ricoperto due presidenze (la ventiduesima e la
ventiquattresima, rispettivamente).
P
RIMARIE
Le elezioni primarie sono utilizzate in particolar modo negli Stati Uniti d’America, dove
nascono come sistema locale: la prima elezione primaria fu tenuta dal Partito Democratico
in Pennsylvania il 9 settembre 1842. Dopo la guerra civile americana (1861-1865) si diffusero negli Stati del Sud, dove ovviavano al problema di una rappresentanza politica di
fatto mono-partitica. Alla fine del XIX secolo, grazie alla spinta del movimento progressista, sono divenute una istituzione pressoché generalizzata a livello nazionale.
Nel Paese nordamericano le prime elezioni primarie erano di tipo “chiuso”, ossia alle primarie di un partito potevano votare solo i membri di quel partito. Negli anni 70 del XX secolo si sono diffuse le primarie di tipo “aperto”, che consentono il voto a tutti i cittadini. In
un sistema bipartitico (o bipolare) la primaria aperta tende a selezionare candidati più centristi rispetto all’elettorato (non rispetto ai militanti) e a favorire maggiormente la partecipazione alle elezioni, ma è aperta al rischio di “inquinamento” da parte dei sostenitori del
partito avversario. Per questa ragione si è affermato un tipo intermedio di primarie, che
consente il voto anche ai cittadini non iscritti al partito ma potenzialmente sostenitori dei
suoi candidati. In questo terzo tipo i cittadini, per poter esercitare il diritto di voto, devono
“iscriversi” in un apposito registro presso uno dei partiti in lizza, in qualità di aderente o di
indipendente. Quale che sia la qualifica scelta (aderente o indipendente), l’iscrizione consente di partecipare alle primarie del partito prescelto, senza peraltro essere obbligati a
votarlo successivamente.
S
ENATORE
Ogni Stato degli Stati Uniti è rappresentato da due membri, pertanto il Senato è attualmente
composto da cento senatori. Il Distretto di Columbia e i territori non hanno rappresentanza
in Senato. Dei due senatori eletti in ciascuno stato, quello con la maggiore anzianità di
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servizio è detto senior senator, l’altro junior senator; questa, tuttavia, è una convenzione
che non ha alcun significato ufficiale. Ciascun senatore è eletto per sei anni; le scadenze dei
mandati sono distribuite nel tempo, in modo che un terzo dei senatori siano rinnovati ogni
due anni (così, ad esempio, i senatori eletti nel 2002 scadranno nel 2008; quelli eletti nel
2004 scadranno nel 2010; e quelli eletti nel 2006 scadranno nel 2012).
Le elezioni dei due senatori che rappresentano ciascuno stato hanno luogo in anni diversi
(così, ad esempio, i due senatori della California sono stati eletti nel 2004 e nel 2006), e
ciascun senatore è eletto dall’intero corpo elettorale dello stato. Le elezioni si tengono
nell’Election Day (cioè il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre) degli anni pari;
gli eletti entrano in carica all’inizio di gennaio dell’anno successivo.
In origine i senatori erano eletti dai parlamenti degli stati; a partire dal 1913, come previsto dal XVII emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, essi sono eletti direttamente
dal popolo. Sono eleggibili coloro che hanno compiuto trent’ anni di età, sono cittadini
americani da almeno nove anni, e (alla data di elezione) sono residenti nello stato per il
quale sono eletti.
In quasi tutti gli stati per l’elezione viene utilizzato il sistema maggioritario semplice (ogni
elettore vota per un candidato; viene eletto il candidato che ottiene la maggioranza relativa
dei voti). Quando il seggio di un senatore diviene vacante (per morte, dimissioni o altro)
prima della scadenza normale di sei anni, si tiene un’elezione suppletiva per scegliere un
nuovo senatore, che resta in carica per la parte restante del mandato. Tuttavia in quasi tutti
gli stati il governatore ha il potere di nominare un sostituto, che resta in carica fino a quando si tiene l’elezione suppletiva.
W
ASHINGTON POST
Washington Post è il più diffuso e più antico giornale di Washington. Raggiunse una fama
internazionale nei primi anni Settanta grazie all’indagine sul caso Watergate condotta dai
suoi due giornalisti Bob Woodward e Carl Bernstein, i quali giocarono un ruolo di primo
piano nelle dimissioni del presidente Richard Nixon. Per autorevolezza tra i quotidiani
americani, il Washington Post è generalmente considerato secondo solo al New York Times.
Data la sua locazione nella capitale degli Stati Uniti, il Post mette in completa evidenza i
fatti della politica nazionale, ma a differenza del Times, si considera un quotidiano a carattere locale o regionale, che non stampa un’edizione destinata alla distribuzione dall’altra
parte della costa americana. Si tratta del quinto quotidiano più diffuso negli Stati Uniti per
tiratura, dietro a The New York Times, Los Angeles Times, The Wall Street Journal e a USA
Today. Anche se la maggiore concentrazione di copie vendute non va oltre il territorio del
Maryland e della Virginia, si attesta come il giornale con la più alta penetrazione nelle città
metropolitane.
72
W
ATERGATE
Il caso Watergate fu lo scandalo politico scoppiato negli Stati Uniti nel 1972 che portò alla
richiesta di impeachment e alle dimissioni dell’allora Presidente degli Stati Uniti Richard
Nixon. Il nome deriva dal Watergate Complex, il complesso edilizio di Washington che
ospita il Watergate Hotel, l’albergo in cui furono effettuate le intercettazioni che diedero il
via allo scandalo. Questo si sviluppò nel contesto politico del proseguimento della guerra
del Vietnam, che sin dalla presidenza di Lyndon Johnson era sempre più impopolare fra
l’opinione pubblica americana. Il “Watergate” fu una serie di eventi che durò circa due anni
(1972-1974) e che era iniziato con l’abuso di potere da parte dell’amministrazione Nixon
allo scopo di indebolire l’opposizione politica dei movimenti pacifisti e del Partito democratico.
Importanti atti d’accusa furono le “carte del pentagono”, uno studio top-secret del
Dipartimento della Difesa sul coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam e
su precedenti conflitti politici o militari nel Sud-Est asiatico, alla vigilia della fine dell’occupazione coloniale francese in Indocina. Nixon resse a due anni di montanti difficoltà
politiche, ma la resa pubblica del nastro noto come “la pistola fumante” nell’agosto 1974
portò con sé la prospettiva di un sicuro impeachment per il presidente, che rassegnò le
dimissioni solo quattro giorni dopo, il 9 agosto.
Il 17 giugno 1972 Frank Wills, una guardia di sicurezza che lavorava nel complesso di uffici del Watergate Hotel, notò un pezzo di nastro adesivo applicato alla porta di comunicazione fra il pozzo delle scale e il parcheggio sotterraneo in modo tale da mantenerla socchiusa. Presumendo che ve lo avesse messo l’impresa di pulizie, Wills lo rimosse. Quando
ritornò più tardi scoprì che il nastro era di nuovo al suo posto, e decise di rivolgersi alla
polizia di Washington.
Al suo arrivo la polizia scoprì e arrestò cinque uomini - Bernard Barker, Virgilio González,
Eugenio Martínez, James W. McCord Jr. e Frank Sturgis – che erano penetrati nel quartiere
generale del Comitato nazionale democratico, la principale organizzazione per la campagna
e la raccolta fondi del Partito democratico. I cinque si erano già introdotti nello stesso ufficio anche tre settimane prima, ed erano tornati per riparare le cimici telefoniche che non
funzionavano e forse anche, secondo alcuni, per fare delle fotografie. L’esigenza di tornare
nell’ufficio fu solo il più evidente di una serie di errori commessi dagli scassinatori. Un
altro, il numero di telefono di E. Howard Hunt trovato sul blocco note di McCord, si rivelò costoso per loro (e per la Casa Bianca): Hunt aveva precedentemente lavorato per la
Casa Bianca, e McCord era ufficialmente impiegato come capo della sicurezza al Comitato
per la Rielezione del Presidente (CRP), al quale ci si riferirà comunemente come CREEP
(“avanzare strisciando”). Questo in breve suggeriva che ci fosse una connessione fra gli
scassinatori e qualcuno vicino al presidente. Ad ogni modo, l’addetto stampa di Nixon Ron Ziegler - rigettò l’affare come un “furto di terzo ordine”.
Sebbene lo scasso avvenisse in un momento sensibile, con la campagna elettorale che
73
appariva all’orizzonte, molti americani inizialmente ritennero che nessun presidente col
vantaggio che Nixon aveva nei sondaggi sarebbe stato così sconsiderato o privo di etica da
rischiare la sua associazione in un affare del genere. Una volta accusato, lo scassinatore
McCord si identificò come un’agente della CIA in pensione. L’ufficio del procuratore del
distretto di Washington iniziò un’indagine sui rapporti fra McCord e la CIA e finì per
dimostrare che McCord aveva ricevuto pagamenti dal CRP.
Il reporter del Washington Post Bob Woodward e il suo collega Carl Bernstein iniziarono
un’investigazione sullo scasso. Molto di quello che pubblicavano era noto al Federal
Bureau of Investigation (FBI) e ad altri investigatori governativi - questi erano spesso le
fonti di Woodward e Bernstein - ma in tal modo il Watergate si mantenne sotto la luce dei
riflettori. Il rapporto di Woodward con una fonte segreta di altissimo livello aggiungeva un
mistero in più alla questione. Il nome in codice di questa fonte era “Gola profonda” e la sua
identità fu tenuta nascosta al pubblico. Decenni di speculazioni finirono il 31 maggio 2005,
quando W. Mark Felt, il numero due dell’FBI nei primi anni 70, rivelò di essere lui Gola
profonda, una confessione successivamente confermata da Woodward.
Il 23 giugno fu registrata una conversazione tra il presidente Nixon e il Capo di Staff della
Casa Bianca H.R. Haldeman (una pratica standard, ma segreta, all’epoca di Nixon) mentre
discutevano un piano per ostacolare le indagini, facendo in modo che la CIA facesse
credere all’FBI che si trattava di una questione di sicurezza nazionale. Infatti il crimine e
numerosi altri “giochetti sporchi” erano stati intrapresi a vantaggio del CRP, soprattutto
sotto la direzione di Hunt e G. Gordon Liddy. La coppia aveva anche lavorato alla Casa
Bianca nell’unità speciale di investigazione soprannominata “gli idraulici”. Questo gruppo
investigava sulle fughe di notizie che l’amministrazione non voleva fossero conosciute
pubblicamente e portò avanti varie operazioni contro i Democratici e gli oppositori alla
guerra in Vietnam. La più famosa delle loro operazioni fu l’irruzione nell’ufficio dello
psichiatra Daniel Ellsberg. Questi, un ex impiegato del Pentagono e del Dipartimento di
stato, aveva fatto trapelare le “carte del Pentagono” al New York Times e come risultato fu
perseguito per spionaggio, furto e cospirazione. Hunt e Liddy non trovarono niente di utile
comunque, e devastarono l’ufficio per coprire le proprie tracce. L’irruzione fu collegata con
la Casa Bianca solo molto dopo, ma al momento causò il collasso del processo di Ellsberg
per evidente cattiva amministrazione del governo. L’8 gennaio 1973 gli scassinatori originali, insieme a Liddy e Hunt, subirono il processo. Tutti eccetto McCord e Liddy si
dichiararono colpevoli, e tutti furono condannati per cospirazione, furto con scasso e intercettazioni telefoniche.
74
SOMMARIO
INTRODUZIONE...............................................................................................pag. 3
Hollywood, politica e potere..................................................................... ”
4
Joseph McCarthy....................................................................................... ”
5
Blacklist..................................................................................................... ”
6
Senatori, Governatori e Sindaci................................................................ ”
9
LA PRESA DEL POTERE................................................................................... ”
11
UN COMPLOTTO DOPO L’ALTRO.................................................................. ”
15
POTENTI NEL MIRINO..................................................................................... ”
19
L’OSSESSIONE ANTI-COMUNISTA............................................................... ”
23
PRESIDENTI SUPERMAN............................................................................... ”
29
I FILM DELLA RASSEGNA.............................................................................. ”
33
Tutti gli uomini del Presidente................................................................... ”
35
Tempesta su Washington............................................................................ .”
39
Tutti gli uomini del re................................................................................ ”
43
Va’ e uccidi................................................................................................. ”
45
Nel centro del mirino................................................................................ ”
47
A prova di errore....................................................................................... ”
51
Bulworth – Il senatore.............................................................................. ”
53
TUTTI GLI UOMINI PRESIDENTI................................................................. ”
57
TUTTI GLI ATTORI PRESIDENTI....................................................................”
61
PICCOLO GLOSSARIO.................................................................................... .”
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