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ONDAROCK
http://www.ondarock.it/recensioni/2008_wovenhand.htm
Pur essendo un disco di ottime canzoni, “Mosaic” lasciava intravedere qualche segno di stanchezza nella
musica di Woven Hand. E’ come se Dave Eugene Edwards, trovato il giusto formato, avesse innestato il
pilota automatico senza tener conto delle coordinate originarie del progetto, votato a far coesistere
tradizione e modernità, sperimentazione sui suoni e songwriting, scenari southern gothic e cupi immaginari
est -europei. Insomma Woven Hand è principalmente un narratore di immagini attraverso suoni più che un
semplice cantautore, nonostante testi di una spiazzante visionarietà, bastanti di per se a raccontare storie.
Ora, questo “Ten Stones” certamente non marcherà uno step importante nella ricerca sonora di Edwards,
come il primo omonimo o, soprattutto, come “Blush Music”, ma segna comunque un cambiamento
abbastanza netto rispetto a “Mosaic”. Chiamati alla produzione Daniel Smith dei Danielson e Emil Nikolaisen
dei Serena Maneesh, il disco scorre con una certa linearità, ed è molto più roccioso - o rock se volete - dei
predecessori tanto da ricordare in più di un frangente i 16 Horsepower, quelli di “Secret South” soprattutto.
Le chitarre per dire, suonano sature di distorsioni, più che avvolgenti come in passato mentre, fatta
eccezione per “Iron Feather” e per la bellissima cover del classicone “Quiet Night Of Quiet Stars” di Antonio
Carlos Jobim, mancano quasi del tutto quei rintocchi atmosferici che avevano reso così peculiare la musica di
Woven Hand finora.
E poi ogni volta si ascolta un disco di Dave Eugene Edwards sembra che la fine del mondo sia di lì a un
passo dal realizzarsi. Così l’iniziale “The Beautiful Axe”, “Not One Stone” e “White Knuckle Grip” sono i
classici midtempo furibondi alla 16 Horsepower, talmente sferzanti e declamatori che paiono schiodare Cristo
dalla croce.
Tuttavia è sempre il suo songwriting indemoniato a fare la differenza - diciamoci la verità, superiore di
almeno due spanne alla media dei cantautori attuali - soprattutto nei prezzi più lenti e meditabondi
(“Cohawkin Road”, “Horsetail), mentre a chiudere il cerchio pensano gli incubi sudisti alla Erskine Caldwell di
“Kingdom Of Ice” e “His Loyal Love”. Una nota di merito particolare va alla tenuta complessiva del disco. Se
gli album precedenti, infatti, presentavano qualche caduta di tono, “Ten Stones” mostra una qualità
uniforme per l’intera durata. E che il signore sia con noi. (7/10)
LIVEROCK
http://www.liverock.it/tuttarec.php?chiave=939&chiave2=Wovenhand
Il nuovo album di David Eugene Edwards a nome Wovenhand –monicker con cui Edwards firma la sua
musica dallo scioglimento dei 16 Horsepower- comincia con un pezzo poderoso, muscoloso e fortemente
elettrico: The beautiful axe, un brano solenne, con un ritornello ampissimo dove il vocione di Edwards sale e
scende lungo chitarre potenti e graffianti. Frastornati, si prosegue per tutta la durata del disco seguendo
l’alternanza di momenti di vigore pari a questo (come l’eccellente Not one stone) ed altri più sommessi e più
vicini alla precedente produzione a nome Wovenhand, più pacati, più classicamente folk, per quanto sempre
disturbati da inserimenti ombrosi di rumori di fondo, polveri di feedback ed altre oscurità. A garantire
compattezza interviene la scrittura del nostro a suo perfetto agio e marchiata da una istintività imbarazzante,
per quanto riesce ad esprimersi agilmente in territori di certo non semplicissimi come quelli del cantautorato
più ombroso e cupo, ad altissimo rischio maniera. Edwards con “Ten stones” giunge ad una perfetta sintesi
tra i suoi background musicali: i più classici motivi arcaici della frontiera statunitense, che riecheggiano in
primo piano in una His loyal love, e la modernità più spinta di autori del calibro di Nick Cave e Jeffry Lee
Pierce -un altro che con i Gun Club ha avuto qualcosa da dire nel medesimo settore-, si incontrano in un
album che dura poco più di quaranta minuti, ma contiene così tanta ispirazione da acquisire ben altro peso
specifico. “Ten stones” è un disco che colpisce per la sua coesione di toni, temi e tratti, la scrittura
perennemente ricettiva e dieci brani perfetti, in eccellente equilibrio l’uno con l’altro, senza eccessi di
tensione in alcuni e momenti di distensione in altri. L’impressione che “Ten stones” veleggi leggero dalle
parti del capolavoro si fa più marcata ad ogni ascolto e i punti deboli dell’album si fanno sempre più difficili
da svelare. A svelarsi, al contrario, è un disco vigoroso e vitale, che ha il carisma di un classico: una musica,
quella di Wovenhand, pesante, di quella pesantezza sofferente che non è mai opprimente, ma naturale e che
ha fatto grandi i maggiori cantori del continente nordamericano, da Faulkner ai 16 Horsepower.
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BAND: WOVENHAND
TITLE: TEN STONES
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CRAKWEB
http://www.crakweb.it/wovenhand_tenstories,2,618.html
Ci sono artisti che hanno una predisposizione innata per il successo e lo star system ed altri, ugualmente
validi se non di più, che hanno dalla loro la predestinazione ad essere considerati “di culto”, per pochi ma
adoranti fans.
Robert Browning è un vero e proprio testimone di questa religione in cui è lui il venerato, un pò come quei
santoni che hanno costruito intorno a sè un seguito devoto e appassionato.
Il personaggio in questione ha iniziato a celebrare il proprio personale vangelo negli anni ’90 con i 16
Horsepower, combo in bilico tra blues folk maledetto e post punk con richiami al cristianesimo che si celebra
nella sua più spirituale e tomentata essenza tenendo ben lontani i dettami e le sozzure della Chiesa.
La band ha una vita quasi decennale che va a concludersi agli albori del nuovo millennio e da quelle ceneri
nascono i Lilium (guidati dal bassista Pascal Humbert) e per l’appunto Wovenhand, l’avventura solista di
Browning.
La sua arte scura, evocatica e perché no cinematografica, trova ulteriore e libero sfogo nei primi dischi dove
ad imperversare è una vena folk blues cara alla scuola di Nick Cave, ossia quella che poi alla fine si va a
chiudere in qualche fumoso pub espandendo i propri pensieri e fantasmi con numerose tirate di sigarette ed
abbondanti bevute di wisky o birra.
I suoni di quei lavori avevano però perso l’impatto elettrico per un maggior utilizzo di elementi acustici tra
cui l’immancabile banjo che ben ritorna in questo nuovo “Ten Stones”.
Il cd piace proprio perché il musicista del Colorado crea atmosfere decadenti non solo con strumenti
unplugged ma utilizzando di nuovo la distorsione che regala al tutto atmosfere ancor più plumbee.
Ascoltando i vari episodi non ci si può non emozionare con le sequenze che citano un cantato affine a Peter
Murphy dei Bauhaus accompagnato dalle orchestrazioni dei Tindersticks o dei Gallon Drunk ma privi di fiati.
Qui non c’è alcuna apertura verso anche un minimo raggio di luce e se questa deve proprio brillare allora
può farcela dopo aver attraversato un sofferto e dannato percorso tra i dubbi ed i tormenti interiori con i
dettami di Dio che, in queste mani meno apatiche e più analitiche, diventano oggetto di ulteriore martirio
dell’anima alla ricerca di una salvezza possibile. (8/10)
DISCOCLUB65
http://www.discoclub65.it/index.php?option=com_content&task=view&id=2349&Itemid=1
WH è la creatura post 16 Horsepower di David Eugene Edwards. Di quel gruppo (glorioso) restano
saldamente al proprio posto l’impronta antica e polverosa (banjo, bibbia, America) e la voce ipnotica di
David. Le novità, di album in album, sono l’incrocio con ambiti diversi: qualche sperimentazione, qualche
tensione rock, perfino il balletto. “Ten Stones” sposa la formula di sempre allo spessore dissonante
dell’elettricità, a certi ricordi giovanili new wave del capomastro. Il risultato è un disco denso e corposo,
difficile da penetrare sulle prime, certo lontano dai tradizionalismi light di oggi, ma alla fine affascinante
come pochi dischi nel già onorevole percorso di Mr. Edwards. Le canzoni formano un unico corpo sonoro,
coerente e spesso, in cui affogare i malumori del ritorno da (eventuali) vacanze.
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BAND: WOVENHAND
TITLE: TEN STONES
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AUDIODROME
http://www.audiodrome.it/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=3848
Mentre nei negozi è da pochi mesi disponibile uno splendido live dei 16Horsepower, il suo ex leader
aggiunge un tassello importante alla sua carriera solista, ormai superiore in numero di dischi realizzati a
quella del gruppo citato poco su. Anche se idealmente Ten Stones è come una terza incarnazione dell’arte
musicale di Dave Eugene Edwards. Pur rimanendo negli argini di una cifra artistica ormai solida e ben
definita, non è un caso che abbia preso la decisione di unificare le parole della propria ragione sociale. Con
questo cd, infatti, si ha la netta sensazione che le anime sonore dei due progetti del predicatore americano si
siano congiunte, dando vita ad un’altra creatura, sempre intrisa della forza devastante del folk rurale,
febbrile e duro dei 16HP (fondamentali per la scena neo-folk attuale più vicina a certe asperità metalliche),
ma anche del fervore spirituale folk a largo spettro dei primi Woven Hand. In tal modo, è riuscito a creare un
concentrato di potenza e “passione” ridistribuite in dieci “canzoni” senza troppi fronzoli e fondamentalmente
rock. Tra rimandi a certi Giant Sand e la solita vena testuale vergata dalla forte (quasi fondamentalista) fede
cristiana di David, riemerge quella febbre dispensatrice di esaltanti cavalcate che con il precedente Mosaic si
era affievolita. Misurate, eppure imponenti, le composizioni di Ten Stones a un primo sentire appaiono
monolitiche. Forse troppo. Lasciandole libere di scorrere nella propria anima, rivelano sfumature finora
impensabili per un disco del predicatore Edwards, come il pianoforte malato della splendida danza gotica di
“Iron Feather”, contrastante fin dal titolo, o il Lee Hazlewood spedito in meditazione trascendentale di “Quiet
Nights Of Quiet Stars”. Il fuoco di sbarramento è tutto per le cannonate stoner delle iniziali “The Beautiful
Axe”, “Horsetail” e “Not One Stone”, dirette e stordenti. Il quadro si completa con la splendida ballata tra
folk e psichedelia lercia di “Cohawkin Road”, il bluesaccio ricolmo di effluvi maligni di “White Knuckle Grip” e
il “su gli scudi” arrembante di “Kicking Bird”, che si spegne improvviso nelle trame acustiche violentate da un
basso stordente di “Kingdom Of Ice”. Meravigliosa ultima gemma,“His Loyal Love” è groviglio malinconico di
chitarre acustiche e feedback elettrici da brividi, nonostante la chiusura vera e propria sia affidata ad
un’undicesima pietra, posta come ghost track (anche l'unico brano strumentale, a differenza che in passato)
soffusa, come una sinistra nebbia che cala su ogni cosa. Maestoso, lacerante e carico di quella tensione
latente più dolorosa di quella rilasciata, Ten Stones è il simbolo di una ritrovata giovinezza musicale per
Edwards e uno dei dischi più interessanti di quest’annata.
LOUDVISION
http://www.loudvision.it/musica_recensioni-wovenhand-ten-stones--2242.html
Wovenhand, AKA David Eugene Edwards, AKA il frontman dei 16 Horsepower, AKA cantautore oscuro e
spesso apocalittico che gli ascoltatori più superficiali potrebbero quasi stentare a riconoscere in questo nuovo
"Ten Stones". Stento derivato da una considerazione semplice semplice: "Ten Stones" suona rock (duro)
come nessun altro disco a nome Wovenhand. La chitarra di Emil Nikolaisen, già nei Serena Maneesh,
ingrassa e indurisce il classico suono di Edwards, quello fatto di contrabbasso, banjo e sconfinate praterie
americane, aumentando drammaticamente l'impatto frontale di pezzi come "The Beautiful Axe" o "While
Knuckle Grip".
Una volta spogliato dei nuovi abiti da macho, comunque, "Ten Stones" risulta essere "solo" un altro tassello
nella discografia di Wovenhand. Edwards è versatile ed espressivo come suo solito, muovendosi tra
croonerismo à-la-Nick Cave ("Quiet Night Of Quiet Stars") e una dolcezza che ricorda alla lontana David
Sylvian ("Cohawkin Road"). Anche l'immaginario è sempre quello, solo più selvaggio, violento e
incontrollabile.
Ecco, è il controllo che manca. E non lo diciamo in senso negativo: "Mosaic", disco precedente a nome
Wovenhand, peccava soprattutto in freno a mano tirato, mentre "Ten Stones" è più libero, come strutture,
come suoni, come approccio soprattutto. Difficile non farsi travolgere.
Difficile e sbagliato.
Finora tra i dischi dell'anno, nel suo genere e oltre.
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BAND: WOVENHAND
TITLE: TEN STONES
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PAG. 23
INDIE-ROCK
http://www.indie-rock.it/recensioni_look.php?id=505
GENERE: southern gothic folk-rock.
PROTAGONISTI: David Eugene Edwards (voce, chitarra), Peter van Laerhoven (chitarra), Pascal Humbert
(basso), Ordy Garrison (batteria). David era il frontman della band dei 16 Horsepower, di cui era membro
anche Pascal.
SEGNI PARTICOLARI: è una carriera nascosta nelle pieghe del molle ventre dell’America profonda, placida e
sorniona, quella di David Eugene Edwards. Si parla di lui, perché lui è l’anima di questo progetto, tanto che
questo è il primo disco inciso come band vera e propria. Entrambe le sue band sono nate a Denver,
Colorado: siamo nella prossimità della 'Bible Belt', la striscia (in realtà larga centinaia di chilometri) di terra
che rappresenta l’America rurale, cristiana (più o meno integralista che sia). Quella che tutti bollerebbero a
prima vista con un piccolo gioco di parole quale "hic sunt bifolchi". E' però anche una terra dalle vaste
praterie immobili, una terra piena di solitudine e poesia, che Kerouac ci ha raccontato in modo così
struggente. Dall'unione di questi temi nasce la figura di Edwards, nipote di un predicatore 'di piazza', che
spesso seguiva nel suo peregrinare. Ricordiamo in primo luogo i 16 Horsepower, band che ha in repertorio
album indimenticabili quali 'Secret South' e 'Sackcloth'n Ashes'. I Woven Hand sono invece al settimo album:
della loro discografia consigliamo 'Consider The Birds', del 2004.
INGREDIENTI: il vangelo di David Eugene è un miscuglio di tinte fosche, di visioni apocalittiche, di notti folli
e infuocate: il gotico americano al suo meglio. Un folk oscuro e teatrale si interseca con sfuriate sciamaniche
che sembrano avvampare di alte fiamme le grandi praterie americane. Musicalmente, la forza e la debolezza
di questo disco è la compattezza delle sue soluzioni musicali (nella melodia, a volte, oppure nella scelta degli
strumenti), una specie di ascetismo che ben si attaglia alla sostanza della band. Forse, nel sentire qualche
brano, avrete già pensato a Nick Cave. Lo stile a volte è il suo, istrionico e profetico, allucinato e
malinconico. C’è però una forza, una carica particolare che fa sembrare l’approccio alla musica di Edwards
qualcosa di corporeo, viscerale, non solo un bisogno impellente ma anche l’espressione musicale come
estensione di sé. Con l’andare degli ascolti, è qualcosa che attira l’ascoltatore, lo spinge verso la musica dei
Woven Hand in modo quasi fideistico.
DENSITA’ DI QUALITA’: laddove 'Consider The Birds' poteva essere considerato un album crepuscolare, nel
senso che avrebbe potuto rappresentare, musicalmente, un tramonto, di quelli caldi e vermigli, da western,
'Ten Stones' è indubbiamente un album notturno. E' una notte di meditazione, di cavalcate furibonde, di
straziante venerazione e di ultraterreno amore. Solo ad individui dai grandi mezzi letterari e lirici come
Edwards è possibile scrivere di religione senza scadere nello stucchevole. O semplicemente, c’è bisogno di
una robusta dose di sincerità. Tutte queste cose si possono trovare nella iniziale 'The Beautiful Axe', una
sorta di predicazione allucinata sorretta da pestate rock che convogliano al meglio il trasporto di Edwards nel
grido: "Joy has come / It rises with the sun / He the highest on the horizon". Seguiamo la linea rossa che
congiunge il tema religioso che pervade il disco fino ad arrivare a 'Not One Stone', canzone stupenda che
evoca immagini di distruzione divina ("Not one stone / Atop another will stand"). E' impossibile reprimere
brividi ed eccitazioni epidermiche nell'esplodere dell’annuncio "Behold the lamb", quando si avverte
fisicamente lo “squarcio nel cielo” e la luce che preannuncia l’apocalisse imminente. Fin qui il 'perno' del
disco: intorno ad esso ruotano virtualmente tutti gli altri. Parabole intrise di disperazione e di compassione
per la piccolezza delle vicende umane si alternano in 'Horsetail' e 'Kingdom Of Ice'. Quest'ultima in
particolare rende al meglio l'approccio fisico e 'urgente' di Edwards alla musica. Episodi più carichi si
alternano tra il blues-rock di 'White Knuckle Grip' (quanto Cave in questo pezzo!) e il rock tribale di 'Kicking
Bird' (il testo fra l'altro è un canto dei nativi americani delle pianure). Un'immaginazione feconda fa nascere
un pezzo esotico e vagamente disturbante come 'Iron Feather', accompagnato dal piano e da sonorità vaste
e immortali come pianure immaginarie che si stendono ai piedi del brano. Ballate notturne, colonna sonora
di scampagnate nel buio, appaiono in 'Cohawkin Road' e 'Quiet Nights Of Quiet Stars', quest'ultima una
delicata riproposizione del brano del cantante bossa nova Antonio Carlos Jobim. Si chiude mirabilmente con
'His Loyal Love', in cui l'effetto di rarefazione del cantato impregna di misticismo questo brano dall'effetto
mesmerizzante. Ancora una volta sorprende la capacità della band di fondere al meglio e in maniera non
banale la scrittura di Edwards e gli arrangiamenti. (8/10)
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BAND: WOVENHAND
TITLE: TEN STONES
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PAG. 24
LOSING TODAY
http://www.losingtoday.com/it/reviews.php?review_id=4835
Disco dopo disco Woven Hand ci sembra sempre più ispirato sui suoi testi, ma anche sempre più barocco per
quel che riguarda gli arrangiamenti. Il suo folk-rock polveroso, creato nel cuore degli USA, non distante da
certi passaggi di un Nick Cave (ascoltate "White knuckle grip" e sarete d'accordo), guadagna densità e perde
immediatezza. In questo suo Ten Stones trovano posto canzoni che si rovesciano su stesse formando un
groviglio facendo perdere ogni punto di riferimento all'ascoltatore. Lavorando sempre a cavallo di una forte
dicotomia - passione e cervello - David Eugene Edwards (già leader dei 13 Horsepower) in questa occasione
sembra spostare il suo asse e arrivare forse un po' troppo sbilanciato verso uno dei due estremi, e in
maniera un po' casuale. Scudisciate alla chitarra sempre presenti, ma meno folk in senso stretto.
La rabbia che pervade il disco prende una piccola pausa su "Quiet Nights of Quiet Stars", una bossa nova
rumorosa cantata col piglio di un crooner. Woven Hand non ha mai fatto mistero della sua fede cristiana,
come provano i suoi testi; ed anche in questo nuovo lavoro infatti resiste quel caratteristico cantare che
sembra un più un predicare anatemi da un altare. Dopo dischi come Consider the Birds o Blush Music,
quest'ultimo non può che restare nell'ombra ed essere annoverato come disco di passaggio, in attesa di ben
altre, più folgoranti ed elevate illuminazioni di cui lo sappiamo capace. Del resto è banale dirlo ma dieci
pietre sono difficili da digerire un po' per tutti.
SOUND CONTEST
http://www.soundcontest.com/recensione.php?id=233&categoria=
Un unico lemma, Wovehand, quasi a marcare in modo simbolico il significato delle mani congiunte in
preghiera. Ritorna con Ten Stones il rock biblico e tenebroso dei Woven Hand di David Eugene Edwards,
dopo i grandissimimi e compianti 16 Horsepower, leader ormai di un progetto personale divenuto mano a
mano, album dopo album, solida e compatta compagine. Una vera e propria resurrezione artistica, quella di
Edwards, che seppur ai margini del culto svetta in modo indiscutibile nel panorama odierno del cantautorato
e del rock indipendente americano. La sua visionaria poetica gospel-folk legata alle radici appalacchiane e
sudiste si tinge con questo nuovo, quarto capitolo, di ardente elettricita' rock, equilibrando il registro della
ballata con pezzi dal ritmo serrato, segnati da mesmerici intrecci di chitarra elettrica ed acustica dal timbro
immancabilmente febbrile, gotico e trascendentale. Con la partecipazione di Daniel Smith (membro dei
Danielson e patron della Sounds Familyre) in sede di produzione, il superbo apporto di due splendidi
chitarristi (Emil Nikolaisen dei Serena Maneesh e Peter Van Laerhoven) e dell’incisiva sezione ritmica formata
da Ordy Garrisson e Pascal Humbert (anch’egli ex dei 16 Horsepower), la musica di Edwards e soci incarna e
commenta lo scenario di un’America rurale e provinciale morbosamente afflitta da peccati originali come
pure illuminata da salvifiche redenzioni. Sono parabole pubbliche e private quelle predicate da Mr. Edwards,
sermoni snocciolati con tono magnetico e ascetico, un canto avvinto da un profondo senso di mistero che si
muta in isterico ammonimento. La santita' del gospel, l’identita' storica della canzone popolare, la selvaggia
modernita' del rock e del punk, questi i tre cardini che legano i 16 Horsepower di ieri ai Woven Hand di oggi,
portavoci di una classicita' musicale, cinematografica e letteraria tutta americana ambientata tra laghi, fiumi,
praterie, foreste, montagne, distese di granturco, tabacco e cotone, ghost town western e di frontiera, una
vasta serie di temi, soggetti e scenografie cari a scrittori, musicisti e registi quali Jack London, William
Faulkner, Thomas Pynchon, Cormac McCarthy, John Steinbeck, Johnny Cash, Nick Cave, Bob Dylan, Jeffrey
Lee Pierce, John Ford, Arthur Penn, i fratelli Coen. Ma andando a bomba, la scaletta dell’album e' un
carosello di autentiche gemme: dal tribale pow-wow in mise post-punk di Kicking Bird al gospel distorto e
salmodiante di White Knuckle Grip, dal clima epico e pioneristico delle rockeggianti The Beautiful Axe e Not
One Stone alla bossanova tinta di noir dell’originale rendition di Quiet Nights Of Quiet Stars (Carlos Antonio
Jobim), passando per scure ballad folk-rock, religiosamente sofferte e invasate, quali Horsetail, Cohawkin
Road e Kingdom Of Ice fino al catartico motivo liturgico di His Loyal Love (marcato dalle armonie vocali in
chiave gregoriana di Edwards e Elin. K. Smith), anticamera della dronica e ambientale enfasi strumentale di
Ten Stone Drone, epilogo perfetto di un disco incredibilmente avvincente e solenne, evangelico nella sua
allegoria rock di purgatorio, inferno e paradiso.
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BAND: WOVENHAND
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PAG. 25
INDIEFORBUNNIES
http://www.indieforbunnies.com/2008/10/07/wovenhand-ten-stories/
Tra tante giovani gemme scintillanti, che poi invece si rivelano inutile bigiotteria da quattro spicci, c’è una
pietra misteriosa ricoperta dalla polvere, in verità scuro diamante grezzo che rifiuta di essere benedetto dai
potenti raggi del Sole del deserto. Nessun riflesso luminoso sulle sue facce scolpite rozzamente da Madre
Natura. La luce è dentro…va scovata dentro al diamante. Dentro di noi, verso la redenzione. Ma priva di
arrivarci (se mai ci si possa arrivare), il viaggio sarà periglioso e doloroso.
Il diamante scuro è Woven Hand, creatura del peso massimo David Eugene Edwards (già leader dei 16
Horsepower, per quegli sciagurati che non lo sapessero), uno dei songwriters più incorruttibili e intensi che
l’America abbia mai avuto. “Ten Stones” è la nuova, ennesima testimonianza del fervore artistico/mistico che
anima la voce, le carni e lo spirito del devoto Edwards. L’elemento religioso è sempre lì, a impregnare le
declamazioni del biondo artista, a costituire la spina dorsale del suo pensiero e delle sue visioni, mentre la
musica guarda come al solito al folk americano delle origini rivisitandolo con un tocco personalissimo, senza
dimenticare qualche rimando al post-punk più plumbeo: una miscela esplosiva.
L’opera appare più “catramosa” e cupa del suo predecessore. Più rockeggiante e aggressiva. Si passa dalle
interpretazioni sospese tra estasi e sofferenza delle sferzanti “The Beautiful Axe” e “Not One Stone” alle
fuliggini che sanno d’antico di “Horsetail” e “Cohawkin Road”, alle atmosfere pre e post-apocalisse
rispettivamente di “Kingdom of Ice” e “Iron Feather”, fino ad arrivare al sobrio crooning da piacione
(pensate un po’…) di “Quiet Nights Of Quiet Stars”, per citare alcuni episodi.
Non fatevi scappare le dieci pietre nere del deserto ivi contenute (che in realtà sarebbero undici, se contiamo
l’ambientale ghost track conclusiva), redimetevi, continuate a peccare, fate quello che volete, ma insomma
date una chance a questo eccellente nuovo lavoro targato Woven Hand.
Andate in pace. Andate all’inferno. Ma prima passate di qui.
ROCKLAB
http://www.rocklab.it/recensioni.php?id=2286
Oltre ad una fantasia di copertina che ricorda la carta da parati di nonna Abelarda, c’è un altro aspetto in
'Ten Stones' che trasgredisce il decalogo di asciuttezza e semplicità per il Disco Rock Perfetto: il “lirismo” è
qualcosa in grado di stringere nella propria stretta mortale e pietrificare anche il migliore dei dischi elettrici,
da cui ogni rock band che si rispetti dovrebbe guardarsi come da una peste bubbonica, Per David Eugene
Edwards, però, questo è anche un “dono maledetto”, ricevuto in eredità dal babbo predicatore metodista
che negli anni dei Sixteen Horsepower e che l’ha reso di fatto uno tra i più talentuosi songwriter “cristiani”
che l’America conosca dalla stessa scuola di altri illustrissimi, come il Cave o il Cash di turno.
Ma se la vocazione di papà veniva direttamente dai Piani Alti, la propria Edwards junior se l’è dovuta sudare,
anzi, ne è tuttora alla ricerca. Nessun rischio di pistolotti da oratorio, quindi: il suo è un cristianesimo
estetico lontanissimo dalle canzonette da premio-bontà per parrocchiani (leggi “christian rock”) e
decisamente più simile a quello proletario di un P.P.Pasolini, una fede combattuta che sale dal di sotto e non
ha paura di rovistare nelle porcherie dei bassifondi prima di tentare l’ascesa: come fiori di baudleriana
memoria, i suoi testi guardano all’alto ma restando ben radicati a terra. E’ per tutte queste ragioni che
l’oratoria non riesce ad imbalsamare la musica dei Wovenhand, ma al contrario, la rivitalizza dall’interno, le
fa da motore e da traino emotivo.
In ‘Not One Stone c’è l’idea di una chiesa che va al di là del concetto di istituzione religiosa. Ogni canzone
rappresenta una pietra di questo simbolico edificio”: e per ricostruire tutto quanto daccapo senza dare retta
a pulpiti, alti prelati o simili tanto vale ripartire dalla linea sottile che divide beatitudine e dannazione, con
qualche concessione a quest’ultima almeno in termini di elettricità: l’armonica urlata di White Knuckle Grip e
i distorsori a mille rimpiazzano gli antichissimi aggeggi pagani che cigolavano in ‘Sackcloth’n’ashes’ dando a
tutto il discorso un tono più heavy. L’unico momento di requie è un sempreverde del cantato confidenziale
scippato alla Bossanova di Carlos Jobim, Quiet Night of quiet stars dove lo sguardo verso il cielo si fa una
volta tanto placido e beato.
Auguriamo di tutto cuore a David Eugene il lieto fine delle sue passioni, quanto a noi, se i risultati dovessero
restare di questa caratura, stiamo benone anche così, grazie.
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TITLE: TEN STONES
LABEL: SOUNDS FAMILYRE
PAG. 26
KRONIC
http://www.kronic.it/artGet.aspx?cID=35312
Ritorna il progetto Woven Hand di Dave Eugene Edwards con un ulteriore saggio del talento dell’ex-frontman
dei 16 Horsepower. Ancora una volta immerso in quel southern gothic folk-rock che è divenuto oramai il suo
marchio di fabbrica, “Ten Stones” predica sonorità oscure e potenti, tracciando percorsi musicali impastati
spesso di polvere e disperazione.
Suoni sciamanici che si rincorrono in maniera più o meno evidente nel corso degli undici episodi presenti,
chitarre cariche di distorsione che donano una densità notevole all’opera, atmosfere minacciose che tengono
sull’ascoltatore perennemente sulla corda (in questo senso “His Loyal Love” è da brividi) grazie alla tensione
accumulata da un’architettura musicale mai semplicistica e marcatamente rock.
Mistico ed evocativo, il nuovo capitolo della discografia Woven Hand non delude le aspettative di chi
attendeva con grossa curiosità Edwards dopo il precedente “Consider The Birds”. Ancora una volta esame
superato brillantemente.
ROCKSHOCK
http://www.rockshock.it/wovenhand-ten-stones/
Il precendente disco dei Wovenhan di Dave Eugene Edwards, era Mosaic, di nome e di fatto. Nel senso che
portava chiari in se tutti i segni di un imminente cambio di pelle,con tutti gli aspetti negativi (un pò di
stanchezza ma anche un ansiogena ricerca di nuove soluzioni) e positivi (fertilità creativa foriera di nuove
svolte compositive).
Anche in Ten Stones, come nel precedente lavoro, il titolo è indicativo dell’andazzo generale del disco.
Stones, pietre. E pesanti come macigni, compatte,organiche appaiono le tracce di questo disco in cui i
Wolvenhand rinunciano speso alle atmosfere dei precendenti lavori per sonorità più dure, grezze, più rock.
Intendiamoci, il disco è bello, decisamente ben scritto e arrangiato. L’osservazione precedente era giusto per
far notare questo cambio di rotta che per fortuna non pare privarci di episodi più riflessivi (Cohawkin Road)
o carichi di atmosfere sospese nel tempo (Iron Feather)
Un’ultima nota sulla splendida Quiet Nights Of Quiet Stars, cover di Antonio Carlos Jobim, tre minuti scarsi di
intensità quasi classic rock da leccarsi i baffi per capacità interpretativa e qualità degli arrangiamenti. Una
chicca, insomma, come per dire “i ragazzi sanno quel che fanno”. Da ascoltare.
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