INTRODUZIONE ---------------------------------------------------------------------------------------------------- 4 Il sovraccarico istituzionale nella riflessione di S.P.Huntington -------------------------------------------- 4 L’istituzionalizzazione della modernizzazione: società civile e società pretoriana----------------------11 Disfunzione multipla e crisi di trasformazione potenziale --------------------------------------------------17 Logica di conservazione e spontaneità programmata --------------------------------------------------------20 1. MODERNIZZAZIONE SOCIO-ECONOMICA E ORDINAMENTO POLITICO ---------------- 30 1.1 L’analisi della modernizzazione socio-economica nella teorizzazione di Samuel P. Huntington --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------30 1.1.1 Modernizzazione socio-economica e modernizzazione politica -------------------------------------33 1.1.2 Gli effetti della modernizzazione socio-economica sulla cultura politica --------------------------37 1.1.3 La centralità delle istituzioni politiche nell’analisi delle trasformazioni indotte dalla modernizzazione socio-economica -----------------------------------------------------------------------------42 1.2 La crescita della partecipazione politica come conseguenza della modernizzazione socioeconomica -------------------------------------------------------------------------------------------------------------46 1.2.1 La crescita della partecipazione politica nel passaggio dalla società industriale alla società postindustriale -----------------------------------------------------------------------------------------------------50 2. SOVRACCARICO E “PROCESSI DI ISTITUZIONALIZZAZIONE POLITICA” -------------- 58 2.1 Modernizzazione e sovraccarico istituzionale ------------------------------------------------------------58 2.1.1 Mobilitazione sociale e partecipazione politica come fonti di sovraccarico istituzionale -------61 2.1.2 Le conseguenze dello sviluppo economico sull’aumento dell’instabilità politica ----------------63 2.1.3 Diseguaglianza economica e sovraccarico istituzionale ----------------------------------------------64 2.2 “Istituzionalizzazione” e modernizzazione del sistema politico --------------------------------------65 2.2.1 I “criteri di istituzionalizzazione politica” --------------------------------------------------------------69 2.2.2 Il Partito politico come “strumento di istituzionalizzazione” ----------------------------------------74 3. LA CRISI DA SOVRACCARICO DEL SISTEMA POLITICO E LE SUE POSSIBILI CONSEGUENZE -------------------------------------------------------------------------------------------------- 78 3.1 La coincidenza fra interesse istituzionale e interesse pubblico ---------------------------------------78 3.2 Lo Stato keynesiano come paradigma della riflessione politica di Samuel P. Huntington -----81 3.3 La rivoluzione come possibile conseguenza della crisi da sovraccarico istituzionale ------------88 3.3.1 Rivoluzione e sistema politico occidentale -------------------------------------------------------------90 3.3.2 Gruppi urbani e alleanza rivoluzionaria -----------------------------------------------------------------96 3.3.3 Egemonia, legittimità ed efficacia nei processi rivoluzionari ----------------------------------------99 3.4 Strategia e tattica delle riforme politiche --------------------------------------------------------------- 102 3.4.1 “Strategia fabiana” e “blitzkrieg” ---------------------------------------------------------------------- 105 3.5 La “corruzione politica” come strumento di “assimilazione irregolare di nuovi gruppi nel sistema politico” --------------------------------------------------------------------------------------------------- 108 3.5.1 Funzioni e cause della corruzione politica ------------------------------------------------------------ 110 3.6 Crisi da sovraccarico e istanza dominativa sovrana -------------------------------------------------- 112 4. COLPO DI STATO E “PERFORMANCE” MILITARE ---------------------------------------------115 4.1 Sovraccarico e sbocco nelle “società pretoriane”: il possibile ruolo di “legislatore” delle forze armate --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 115 4.1.1 Il colpo di stato militare come strumento d’intervento --------------------------------------------- 118 4.1.2 Le possibili conseguenze del colpo di stato militare ------------------------------------------------ 120 4.1.3 L’intervento dei militari come strumento di istituzionalizzazione -------------------------------- 122 4.1.4 “Performance” e legittimità del colpo di stato militare --------------------------------------------- 125 4.1.5 Il “dilemma della performance” e la riconsegna del potere ai civili: la “terza ondata di democratizzazione” --------------------------------------------------------------------------------------------- 131 5. IL “LIMITE” ALL’ESPANSIONE DELLA DEMOCRAZIA E LE RISPOSTE ALLA POTENZIALE DERIVA VERSO UNA “CRISI DI TRASFORMAZIONE POTENZIALE” -----140 5.1 L’“ingovernabilità” della democrazia nella riflessione politica di S.P.Huntington: il rapporto alla Commissione Trilaterale del 1975 ----------------------------------------------------------------------- 140 5.2 Il “gruppo di privati cittadini” della Commissione Trilaterale ------------------------------------ 141 5.2.1 Il Rapporto del 1975 sulla crisi della democrazia --------------------------------------------------- 145 5.3 La teoria dell’“ingovernabilità” delle democrazie occidentali ------------------------------------- 150 5.3.1 La teoria del sovraccarico nell’interpretazione di C.Offe ------------------------------------------ 151 5.3.2 Contraddizioni e crisi di razionalità del capitalismo nell’analisi di D.Bell e J.Habermas ----- 155 5.3.3 “Meccanica paradossale” e Welfare come fattore di sovraccarico istituzionale delle società industriali: la riflessione di G.Marramao e N.Luhmann --------------------------------------------------- 158 Il governo sovraccarico. Un punto di vista conservatore ----------- Errore. Il segnalibro non è definito. Il governo sovraccarico. Un punto di vista marxista ---------------- Errore. Il segnalibro non è definito. 5.4 Fattori di sovraccarico nel rapporto di S.P.Huntington sugli Stati Uniti ------------------------ 163 5.4.1 Crescita e radicalizzazione della partecipazione politica americana durante gli “anni delle due S” ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ 171 5.4.2 Mass-media e “politica di denuncia degli abusi d’autorità” durante gli “anni delle due S” --- 175 5.4.3 I limiti auspicabili all’ampliamento indefinito della democrazia ---------------------------------- 183 5.5 “Nuove istituzioni per la promozione cooperativa della democrazia”: le “conclusioni generali” del Rapporto della Commissione Trilaterale --------------------------------------------------------------- 187 5.6 Dagli “anni delle due S” agli anni ottanta: l’uscita dalla crisi da sovraccarico della democrazia americana ------------------------------------------------------------------------------------------- 193 2 6. LO “SCONTRO DELLE CIVILTÀ” ----------------------------------------------------------------------197 6.1 Lo scontro delle civiltà nella recente opera di S.P. Huntington ------------------------------------ 198 6.1.1 Il ruolo della modernizzazione nello scontro delle civiltà ------------------------------------------ 201 6.1.2 Dalla Civiltà al singolare alla civiltà al plurale ------------------------------------------------------ 203 6.1.3 La civiltà occidentale in rapporto alle altre civiltà del pianeta ------------------------------------- 211 6.1.4 Ordine delle civiltà e rinascita di una cultura antioccidentale ------------------------------------- 217 6.1.5 Lo scontro delle civiltà: i conflitti di faglia ----------------------------------------------------------- 222 6.1.6 La “guerra strisciante” tra Islam e Occidente e la variabile asiatica ------------------------------ 228 6.1.7 Lo scontro delle civiltà: il conflitto globale e le “regole” per impedirlo ------------------------- 233 BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------237 3 Introduzione Il sovraccarico istituzionale nella riflessione di S.P.Huntington Dopo l’attentato terroristico alle “Torri gemelle” di New York dell’11 settembre 2001, il libro The Clash of Civilizations (1996) di Samuel Paul Huntington, scritto già cinque anni prima, è tornato agli onori delle cronache e del dibattito politico internazionale, e la sua opera è divenuta quasi una sorta di paradigma di ogni discussione sulla situazione geo-politica contemporanea. La maggior parte dei commentatori ha peraltro tralasciato di rilevare come l’opera di Huntington non si concluda soltanto con questo ultimo lavoro, ma si articoli in una serie di altri scritti che hanno attraversato, con grande continuità tematica, gli ultimi trent’anni, pur rimanendo, almeno in Italia, sostanzialmente al di fuori del raggio d’attenzione sia nella stampa, sia anche nella letteratura scientifica1. 1 La Rivista Italiana di Scienza Politica dedicò invece al tema della crisi della democrazia, dietro cui si celava una forte critica alle teorie del sovraccarico istituzionale, un intero anno (1975) della sua produzione. A tal proposito possono essere citati i saggi: P.Farneti, La crisi della democrazia italiana e l'avvento del fascismo: 1919-1922, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 1, Il Mulino, Bologna 1975; D.Fisichella, La società postindustriale tra sviluppo e crisi, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 2, Il Mulino, Bologna 1975; J.J. Linz, La caduta dei regimi democratici, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 1, Il Mulino, Bologna 1975; L.Morlino, Misure di democrazia e di libertà: discussione di alcune analisi empiriche, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 1, Il Mulino, Bologna 1975; L.Morlino, Categorie e dimensioni del mutamento politico, “Rivista Italiana di Scienza politica”, 4 Per il passato, questa riluttanza a prendere in esame la riflessione politica di Huntington, poteva essere imputata, a detta del professor Leonardo Morlino2, al concetto di “sovraccarico istituzionale” delle democrazie, proposto negli anni Settanta come cruciale oggetto di indagine da parte del politologo americano, in parallelo, sia pur con approcci diversi, con altri studiosi, quali Habermas3, Offe4 e O’Connor5. Una delle conclusioni cui approda la presente tesi di laurea appare caratterizzata, proprio in connessione al concetto richiamato da Morlino, da una linea tematica che attraversa tutta l’opera, sino a giungere alla sua più recente produzione: The Third Wave (1991) e The Clash of Civilizations. Il sovraccarico, sotto la spinta delle dinamiche socioeconomiche e della crescita della partecipazione politica che ne vol. V, n. 2, Il Mulino, Bologna 1975; L.Morlino, Crisi e mutamento politico: il nuovo contributo politico di Almond, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 3, Il Mulino, Bologna 1975; G.Pasquino, Crisi della DC e evoluzione del sistema politico, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 3, Il Mulino, Bologna 1975; S.Rokkan, I voti contano le risorse decidono, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 1, Il Mulino, Bologna 1975; R.Rose, Risorse del governo e sovraccarico di domande, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 2, Il Mulino, Bologna 1975; A.Valenzuela, Il controllo della democrazia in Cile, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 1, Il Mulino, Bologna 1975. Ad essi possono aggiungersi, sempre sulla stessa rivista, i contributi di G. Pasquino, L'opposizione difficile, in “Rivista Italiana di Scienza politica, vol. IV, n. 2, Il Mulino, Bologna 1974; G.Pasquino, Interpretazioni del sistema politico italiano, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. IV, n. 3, Il Mulino, Bologna 1974; L.Pellicani, Verso il superamento del pluralismo polarizzato?, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. IV, n. 3, Il Mulino, Bologna 1974; G.Sartori, Il caso italiano: salvare il pluralismo e superare la polarizzazione, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. IV, n. 3, Il Mulino, Bologna 1974 2 “Mentre nella Rivista Italiana di Scienza politica un’eco di Huntington c’è, perché è ripreso da Rose, nelle altre pubblicazioni sulla crisi non c’é. Al livello poi politico, di commento politico e di commenti nell’ambiente di studiosi – quindi niente di pubblicato – la ricezione di Huntington è stata vista negativamente, perché era una ricezione di destra. La critica maggiore che veniva fatta ad Huntington era di essere di destra, cioè era di non riconoscere che il discorso non era tanto un discorso di sovraccarico, ma di diversa distribuzione delle risorse. Quindi metterla in termini di sovraccarico era una visione ideologica”. Il Professor Leonardo Morlino, intervistato nell’aprile del 2001, è Docente di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Firenze 3 Cfr. J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Bari 1975 4 Cfr. C. Offe, Ingovernabilità e mutamento nella democrazia, Il Mulino, Bologna 1982 5 Cfr. J.O’Connor, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi, Torino 1977 5 consegue, trasforma il sistema istituzionale in un oggetto del contendere politico, ponendo in crisi non solo la forma di governo, ma gli stessi rapporti di dominio che la sottintendono, suggerendo percorsi fino ad allora imprevisti, e a volte imprevedibili, per l’intero sistema politico. Huntington non elabora una personale definizione del concetto di sovraccarico. Quella che, comunque, le si avvicina più di tutte ci è fornita da Richard Rose in un articolo apparso nel 1975 sulla Rivista Italiana di Scienza politica: “Siamo in presenza di sovraccarichi quando le aspettative popolari sono superiori alle risorse nazionali, alle capacità di elaborazione del governo, all’impatto che gli outputs governativi possono realizzare. Un tale sovraccarico deriva dalla decisione dei cittadini di chiedere al governo più di quanto esso, nel suo insieme, possa dare”6. È possibile individuare nell’opera di Huntington due diversi aspetti del sovraccarico: uno quantitativo, dovuto alla distanza intercorrente tra domande e risorse nazionali, e l’altro qualitativo, che chiama in causa le capacità di elaborazione del governo, cioè tutti quei mezzi necessari per neutralizzare le aspettative alle quali il sistema non può dare un’adeguata risposta senza dover mettere in discussione le sue stesse fondamenta. La crisi da sovraccarico si verifica pertanto all’incrocio fra una crescita qualitativa e quantitativa della domanda e alla sua disposizione a ridosso delle articolazioni del sistema politico. Maggiore é il quantitativo di domanda politica, nonché il livello qualitativo che l’accompagna, più elevata la probabilità che esso coinvolga i punti nevralgici del sistema, avviando, in presenza di circostanze particolari, quella che 6 R.Rose, Risorse del governo e sovraccarico di domande, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 2, Il Mulino, Bologna 1975, p. 189 6 David Held ha definito “crisi di trasformazione potenziale” 7, i cui contenuti possono addirittura sovvertire l’insieme dei rapporti di dominio di un ordinamento politico. Come impedire che la modernizzazione conduca al sovraccarico istituzionale? Qualora questo si realizzasse, come ostacolarne il possibile decorso in una crisi di trasformazione potenziale? L’obiettivo di Huntington sembra dunque quello di fornire al sistema politico gli strumenti per gestire e istituzionalizzare la modernizzazione, impedendole di innescare dinamiche di potenziale trasformazione dell’intero ordinamento socio-politico. L’elaborazione teorica dello studioso americano è inoltre strettamente legata al problema della sovranità politica e al ruolo che il sovrano è chiamato a giocare all’interno dei singoli contesti istituzionali. Huntington tematizza a fondo il nesso intercorrente tra mutamento socio-economico e sovranità politica. La sovranità costituisce infatti per Huntington il centro simbolico di uno specifico contratto sociale, in base al quale gli uomini hanno concentrato il proprio diritto d’agire, vale a dire il monopolio della violenza legittima, in un unico punto: lo Stato. È oltretutto presente, nell’interpretazione del politologo americano, un’impostazione analitica che sembra avere come punto di riferimento la riflessione politica di Hobbes. Traendo infatti spunto dal Cristallo di Hobbes di 7 “Che cosa è una crisi? È necessario distinguere tra una crisi parziale (o fase di limitata instabilità) e una crisi che potrebbe condurre alla trasformazione della società. La prima si riferisce a fenomeni quali il ciclo politico-economico, che implica fasi di boom e recessioni nell’attività economica, che sono state una caratteristica cronica nelle moderne economie capitalistiche (e socialiste). La seconda si riferisce all’indebolimento del nucleo o principio di organizzazione di una società; cioè all’erosione o distruzione di quelle relazioni societarie che determinano l’ambito e i limiti di cambiamento delle attività politiche ed economiche, e non solo di queste. Questo secondo tipo di crisi, che chiameremo ‘crisi di trasformazione potenziale’, significa che è attaccato il cuore dell’ordinamento politico e sociale” (D. Held, Modelli di Democrazia, Il Mulino, Bologna 1997, p. 337) 7 Carl Schmitt8, possiamo sostenere che lo Stato per Huntington si é sviluppato in una serie di istituzioni, chiamate a loro volta a preservare i patti nell’ambito di preesistenti rapporti di interazione sociale in cui il dominio politico é assicurato soltanto a chi ha quella potestas in grado di garantire l’obbedienza dei consociati in cambio della sola protezione, e di impedire al corpo sociale di precipitare nel precedente stato di natura, da cui aveva tratto origine. La potestas, permettendo al gruppo dominante di costituirsi in Stato, cioè auctoritas, garantisce anche l’appropriazione del monopolio della violenza legittima, legittimata a sua volta dal rapporto protectio-oboedientia, oltre che dal diritto di interpretare i fondamenti di valore posti alla base del contratto. L’azione della potestas non si limita poi alla sola fase di costituzione dello Stato, ma continua a giocare un ruolo determinante nel mantenimento dei rapporti di dominio, garantendo a tal fine l’efficacia del diritto d’agire dell’auctoritas, in vista della loro riproduzione all’interno del sistema politico e dell’insieme dei rapporti di interazione sociale. Huntington presenta un’esplicita concezione della causalità interna ai rapporti di potere, i quali possono a loro volta incamerare, col trascorrere del tempo, elementi di novità capaci sia di indurne il passaggio da una forma di governo all’altra sia, in presenza di soggetti politici che il sovraccarico istituzionale può porre in evidenza, di provocare una pressione tale sull’insieme del sistema politico, fino a minacciarne l’esistenza stessa, lasciando così scoperti e privi di protezione gli assetti dominanti. Le preoccupazioni dello studioso di Harvard si concentrano poi sul sistema democratico, dato che esso si basa su un contratto che, 8 cfr. C.Schmitt, Il Cristallo di Hobbes, in Scritti su Hobbes. Giuffré Editore, Milano 8 facendo della piena partecipazione politica uno dei suoi aspetti principali, può accelerare il decorso della causalità interna ai rapporti di potere, innescando processi di trasformazione degli assetti istituzionali. La democrazia appare infatti a Huntington come un sistema alimentato da un forte coinvolgimento dei suoi membri nella vita dello Stato e ispirato a una logica che oltre all’obbedienza, implica pure una presenza attiva e partecipe dei cittadini. Questa si realizza, per un verso, nell’ampia diffusione di procedure di selezione della classe dirigente, legate all’idea di rappresentanza e basate sull’assioma dell’eguaglianza dei soggetti; per un altro verso, nel diffuso impegno civico, assunto da una larga parte della cittadinanza, in funzione del bene comune. La partecipazione politica democratica si presenta dunque come la “partecipazione di tutti”, senza che quest’ultima sia poi differenziata o gerarchizzata in alcun modo. Contrariamente alle altre forme di governo, la democrazia non é avvertita soltanto come il luogo del conflitto, in cui la lotta politica delle forze in campo può generare una mutazione istituzionale, assicurando al tempo stesso la stabilità dei rapporti di dominio precedenti, ma diviene anche l’oggetto del conflitto e la lotta che ne scaturisce può evidenziare di fatto uno scavo in profondità nelle ragioni stesse del contratto che, una volta svelate, possono correre il rischio di essere rovesciate. L’invisibilità della potestas nella democrazia può pertanto trasformarsi improvvisamente, dinanzi a circostanze favorevoli che il sovraccarico istituzionale può produrre, in potestas democratica, cioè sovranità diffusa a tutto il corpo politico che avrebbe in tal 1986, pp. 153-158 9 modo la possibilità di imporre il suo “sommo diritto naturale su tutto”9, non ultimo quello di sovvertire i precedenti assetti dominanti. Per impedire questa evoluzione, che la modernizzazione può sviluppare, se accompagnata da una crescita della partecipazione politica, tale da determinare un sovraccarico istituzionale, Huntington suggerisce di reintrodurre una gerarchizzazione interna al sistema politico secondo relazioni di dominio e obbedienza, assicurando così l’unità istituzionale dell’auctoritas. La concordia sembra essere dunque l’espressione del vivere civile, al di là della quale c’é solo il caos della società pretoriana. Evitare questa deriva, significa per Huntington racchiudere il giuoco democratico all’interno di una sfera esclusivamente procedurale, in cui la democrazia sia solo un modo per selezionare l’autorità. Ragione per cui quelle istituzioni, in cui la violenza legittima dell’auctoritas è visibile, hanno un potere-dovere di intervento e soccorso nei riguardi del sistema politico e del sovrano, qualora la crescita della partecipazione politica sviluppasse una dinamica democratica che si ponesse al di là dei suoi limiti procedurali. 9 Cfr. B.Spinoza, Trattato Teologico-Politico, Einaudi, Torino 1992, p. 383 10 L’istituzionalizzazione della modernizzazione: società civile e società pretoriana La democrazia huntingtoniana mostra così i caratteri di una relazione di comando e obbedienza, da cui viene espunta una partecipazione politica in grado di interrompere il circuito di legittimazione dell’auctoritas. Essa deve sì valorizzare e utilizzare le diversità esistenti nel tessuto sociale, ma le deve saper anche trasformare, per mezzo di processi di istituzionalizzazione, in un elemento d’ordine rispondente a una superiore istanza dominativa, definita appunto dai rapporti di dominio vigenti. È perciò che lo studioso americano fa coincidere lo sviluppo politico con la creazione di istituzioni adattabili, complesse, autonome e coerenti che permettano di concepire la riforma della struttura politica come se si trattasse di un processo relativamente indipendente da ogni forma di conflittualità sociale che possa porla al di fuori di una logica prettamente istituzionale. I concetti di governabilità e ordine vengono così a imporsi su qualsiasi altro, dipendendo a loro volta dalla presenza di istituzioni politiche capaci di riflettere il consenso e il mutuo interesse delle persone chiamate a legittimarle. L’alternativa all’ordine é difatti soltanto il disordine che porta alla disgregazione della comunità e alla guerra di tutti contro tutti. Il nucleo dell’analisi di Huntington si fonda pertanto sulla nozione di istituzione e sul concetto di istituzionalizzazione. L’istituzione è così una forma di comportamento stabile, condiviso e ricorrente; mentre l’istituzionalizzazione un processo tramite il quale le organizzazioni assumono validità e stabilità, 11 disponendo un “dominio istituzionalizzato” in grado di regolare “l’interazione tra i vari gruppi in una società in direzione del vantaggio sistematico del gruppo dominante”10. Il termine istituzionalizzazione acquista due significati: il primo fa riferimento alla crescita del grado di istituzionalità da un dato momento a un altro, il secondo è invece connesso all’ampiezza e all’efficacia di regolazione dei comportamenti. Le istituzioni sono la manifestazione comportamentale del consenso morale e del mutuo interesse che regnano tra i membri di una collettività e, da un punto di vista storico, scaturiscono dall’interazione e dalla conflittualità delle forze sociali, rappresentando il graduale sviluppo di procedure e strumenti organizzativi atti alla soluzione dei conflitti. Tanto più i gruppi sociali sono forti, tanto più le istituzioni saranno deboli e viceversa. Le istituzioni sono inoltre legittime “non in quanto rappresentano gli interessi del popolo o di un certo gruppo, ma in quanto esse hanno propri interessi, distinte da quelli di tutti gli altri gruppi”. Di conseguenza il potere di un governo non deriverebbe “dal fatto che rappresenti gli interessi di una classe, di un gruppo, di una regione o del popolo ma piuttosto dal fatto che non rappresenta nessuno di questi interessi11…la sua autorità ha le radici nella sua unicità”12. 10 S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political Development, in “Handbook of political science”, Reading, Mass., vol. 3., 1975, p. 88, corsivo mio) 11 “L’esistenza di istituzioni politiche (come la presidenza o il comitato centrale) capaci di incarnare l’interesse pubblico rappresenta l’elemento distintivo tra le società politicamente sviluppate e quelle non sviluppate, e anche tra le comunità morali e le società amorali. Un governo con un basso livello di istituzionalizzazione non è solo un governo debole ma anche un cattivo governo. Se la funzione del governo è quella di governare un governo debole, un governo che manca di autorità e non è in grado di ottemperare alle proprie funzioni è tanto immorale quanto un giudice corrotto, un soldato codardo o un insegnate ignorante. Nelle società complesse la base morale delle istituzioni politiche si fonda sui bisogni degli uomini” (S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 40) 12 ibidem 12 La forza delle istituzioni dipende poi da due fattori: 1) dall’ampiezza del sostegno, cioè dal grado in cui le istituzioni riescono a regolare efficacemente il comportamento dei consociati, 2) dal loro livello di istituzionalizzazione, derivante da alcune modalità di organizzazione e funzionamento delle procedure. Il livello di istituzionalizzazione di un intero sistema politico è connesso infine alla combinazione dei fattori dell’Adattabilità, della Complessità, dell’Autonomia e della Coerenza. Il concetto di adattabilità esplica la capacità di un’istituzione di automodificarsi nei confronti di un cambiamento dell’ambiente, rimodellandosi rispetto al passato. L’adattabilità è spesso funzionale all’età dell’organizzazione stessa che può essere misurata in tre diversi modi: in modo cronologico, richiamando il flusso delle generazioni che si sono avvicendate al suo interno oppure analizzando i mutamenti sociali avvenuti nel tempo. La complessità può indicare sia la moltiplicazione di settori organizzativi, sia la differenziazione in tipi diversi di sottounità organizzative. Nel primo caso la differenziazione è funzionale o gerarchica; nel secondo, equivale invece a una proliferazione di unità che hanno autonomia di potere. In entrambe le situazioni, la moltiplicazione delle sottounità assicura e mantiene la fedeltà dei un’organizzazione membri è dell’organizzazione. complessa, tanto più Tanto è più altamente istituzionalizzata. L’autonomia è il grado in cui le organizzazioni e le procedure politiche hanno un’esistenza indipendente dalle forze sociali e dalle altre istituzioni esistenti all’interno dello stesso sistema politico. L’autonomia, rispetto alle forze sociali, implica che organizzazioni e procedure non siano la semplice espressione di 13 interessi particolari, ma tendano ad articolare e aggregare interessi di molteplici componenti della società. Una forma particolare di autonomia è rilevabile anche nei rapporti tra Stati, evidenziando le relazioni che un singolo Stato, o un complesso istituzionale, intrattiene nei confronti dell’ambiente internazionale. Tanto più le organizzazioni sono subordinate, cioè penetrabili da forze sociali provenienti dall’interno della società, tanto più risultano vulnerabili dall’esterno. L’autonomia di un’istituzione è prodotta da meccanismi che limitano, moderandolo, l’impatto di nuove forze sociali, controllandone in tal modo il progressivo inserimento. La coerenza riguarda infine il grado di coesione e compattezza interno ad un’organizzazione o ad una procedura. Dunque, più un’organizzazione è unita e compatta, più il suo livello di istituzionalizzazione è elevato. Il principale strumento di istituzionalizzazione in una società industriale è il partito politico che assume per Huntington un ruolo chiave nei processi di istituzionalizzazione, presentandosi come uno strumento di integrazione sia orizzontale, per quel che concerne i gruppi comunitari, sia verticale, per quanto riguarda invece le classi economiche e sociali, disciplinando in tal modo la partecipazione politica e la sua eventuale crescita13. L’approccio istituzionale consente inoltre ad Huntington di tracciare alcune tipologie di sistemi politici. Una prima tipologia scaturisce dalla combinazione tra livello di istituzionalizzazione e livello di partecipazione politica. Huntington distingue pertanto 13 “I mezzi istituzionali più importanti per l’organizzazione della partecipazione politica sono i partiti politici e in generale il sistema partitico. Una società che sviluppa partiti politici abbastanza ben organizzati fin da quando il livello della partecipazione politica è relativamente basso…ha migliori probabilità di affrontare l’allargamento della partecipazione politica in modo stabile, rispetto a una società dove i partiti si organizzano a processo di modernizzazione già avanzato.” (S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, Franco Angeli, Roma 1975, p. 424) 14 sistemi che hanno raggiunto un grado elevato di istituzionalizzazione e sistemi che si trovano a un livello basso. Per quel che concerne la partecipazione politica, vengono individuati invece tre livelli: un livello più basso in cui essa è circoscritta ad una ristretta élite; un livello intermedio, corrispondente all’ingresso nella politica di ampi strati della popolazione, e un livello più elevato, in cui le masse popolari prendono parte alla vita politica. Lo studioso americano prende poi le mosse da questa riflessione per un’ulteriore suddivisione delle società in società di massa e società a partecipazione totale. Il primo tipo di società è caratterizzata da istituzioni deboli e presenta una partecipazione politica non strutturata e disomogenea, il secondo è al contrario contraddistinto dall’elevato livello di coinvolgimento popolare, organizzato e disciplinato dall’azione di istituzioni politiche forti; in questo contesto la partecipazione risulta continuativa, ampia e solitamente incanalata mediante apposite organizzazioni, la più importante delle quali è il partito politico di massa. Una seconda tipologia consente invece di differenziare i sistemi politici in ordine alla distribuzione e al grado di accumulazione del potere. Il potere di un ordinamento politico può essere misurato, per Huntington, secondo due diversi parametri: dal punto di vista dell’accumulazione, cioè dall’assimilazione di nuovi gruppi sociali o di nuove risorse, e dal punto di vista della quantità del potere, vale a dire dal numero e dall’intensità dei rapporti in grado di vincolare e mobilitare persone e risorse. Sotto il profilo della distribuzione, il potere può essere concentrato o diffuso, mentre rispetto alla quantità può invece essere più o meno ristretto. 15 I sistemi politici differiscono dunque per la loro capacità di concentrare e diffondere il potere. Da ciò deriva per Huntington un’ulteriore classificazione, quella cioè tra società civili e società pretoriane. Le società civili sono caratterizzate da un elevato grado di partecipazione politica che convive però con un alto livello di istituzionalizzazione, dunque di canalizzazione del conflitto politico. Quindi, disponendo di istituzioni politiche efficaci ed efficienti, le società civili sono capaci di realizzare sia una concentrazione di potere necessaria per attuare le riforme, sia una sua indispensabile diffusione per l’inserimento di nuovi gruppi nel sistema: il potere può perciò essere tanto concentrato, quanto diffuso, e tutto questo per un periodo di tempo piuttosto lungo. Nelle società civili confluiscono, per lo studioso di Harvard, tanto le democrazie costituzionali quanto le dittature totalitarie. Al contrario le società pretoriane presentano bassi valori di istituzionalizzazione, ma elevati livelli di partecipazione politica. Difettano di istituzioni politiche efficaci ed efficienti, cioè in grado di canalizzare e mediare il conflitto sociale e sono incapaci di realizzare una concentrazione del potere necessaria per attuare le riforme, nonché una diffusione dello stesso indispensabile per l’inserimento di nuovi gruppi nel sistema. Il potere può essere concentrato e diffuso solo temporaneamente. La caratteristica distintiva delle società pretoriane è dunque la rapida oscillazione tra concentrazione e diffusione, come pure tra concentrazione ed espansione del potere. La stabilità di un sistema politico dipende pertanto dal rapporto esistente tra il grado di partecipazione e il livello di istituzionalizzazione. Per poterla ottenere è necessario che, via via 16 che aumenta la partecipazione politica, aumentino corrispondentemente la complessità, l’autonomia, la flessibilità e l’unità delle istituzioni politiche, trasformando la modernizzazione socio-economica in una corrispondente modernizzazione politica, capace di esplicarsi in una istituzionalizzazione delle dinamiche prodotte dalla prima in funzione dei rapporti di dominio che sottintendono l’ordinamento politico; prima che quest’ultimi siano posti in discussione dalle conseguenze derivanti da un sovraccarico istituzionale. Disfunzione multipla e crisi di trasformazione potenziale L’espansione della partecipazione politica dipende, per Huntington, dal rapporto tra mobilità sociale e sviluppo economico. La mobilità, accrescendone le aspirazioni, alimenta le aspettative di fasce sempre più ampie della popolazione, laddove lo sviluppo economico fornisce le risorse e le condizioni necessarie a soddisfarle. Se il rapporto tra mobilità e sviluppo evidenzia un divario, anziché essere a saldo positivo, è probabile che da questo scostamento sorgano frustrazioni sociali e insoddisfazione diffusa che finirebbero col riversarsi sul sistema politico. La frustrazione sociale porterebbe a sua volta ad avanzare ulteriori richieste nei confronti del governo, mentre l’espansione della partecipazione politica mirerebbe a rafforzarle. Ragione per cui, qualora le istituzioni politiche esistenti non siano in grado di canalizzarne l’espressione e disciplinarne le modalità, si andrebbe incontro a un sovraccarico istituzionale e a un successivo, probabile, periodo di 17 ingovernabilità politica con il rischio di deistituzionalizzazione dell’ordine costituito. È a questo punto che, sotto la spinta del sovraccarico, si potrebbe aprire per Huntington un vuoto d’autorità da cui potrebbe scaturire una crisi di trasformazione potenziale del sistema politico con inevitabili conseguenze per l’intero tessuto dei rapporti di interazione sociale. Non ultima la possibilità di una rivoluzione, qualora, una volta interrotto il circuito di legittimazione del potere, vi siano gruppi sociali, fino ad allora esclusi dalla sua gestione, in grado di concludere fra loro un’alleanza politica, centrata su una ristrutturazione dei rapporti di dominio e sorretta da nuove fonti di legittimazione, perciò in grado di farsi Stato, disponendo di un’efficacia organizzativa tale da poter imporre il proprio monopolio legale sull’uso della forza legittima. La rivoluzione presenta dunque, agli occhi di Huntington, i caratteri di una vera e propria disfunzione multipla; da un lato l’incapacità del modernizzazione sistema istituzionale socio-economica, di governare traducendola la in modernizzazione politica, dall’altro l’esistenza di gruppi esclusi dalla gestione del potere, ma nelle condizioni di proporre un’elevata capacità di interpretazione dello sviluppo politico, legittimandola con la tendenza a una generale trasformazione dei rapporti di dominio. Infatti, a differenza delle insurrezioni, delle ribellioni, delle rivolte e dei colpi di stato, le rivoluzioni sono caratterizzate, per il politologo americano, dalla creazione di nuove istituzioni politiche “in grado di…promuovere un mutamento economico e sociale all’interno della società”14, rendendo “impossibile la loro 14 op.cit., p. 287 18 assimilazione da parte delle istituzioni politiche esistenti”15, sviluppando anzi una crescita esponenziale della partecipazione politica in grado di suscitare “l’estensione della coscienza politica a nuovi gruppi sociali e la loro mobilitazione nella vita politica”16. Processi che un sistema democratico non farebbe altro che favorire, garantendo un’illimitata partecipazione politica e permettendo quella libertà di pensiero che, in una società moderna, con lo sviluppo delle comunicazioni di massa, comporterebbe l’emergere di pericolose tendenze disgreganti, come più volte posto in evidenza da Huntington sia nel rapporto alla Commissione Trilaterale17 del 1975 che nell’opera American Politics del 1982. La rivoluzione può divenire in tal modo “l’espressione estrema della modernizzazione”18, manifestazione ultima della “convinzione che sia nei poteri dell’uomo di controllare e cambiare il suo ambiente”19, mediante un rapido sviluppo della coscienza e della mobilitazione politica, in prospettiva di “un rapido, radicale e violento cambiamento interno dei valori e dei miti di una società, 15 ibidem ibidem 17 Il rapporto della Trilaterale del 1975 traeva spunto dalla crisi di governabilità che aveva investito la democrazia dei paesi industrializzati tra la fine degli anni ’60 e l’inzio degli anni ’70. I rapporti presentati da Crozier per l’Europa Occidentale, da Huntington per il Nordamerica e da Watanuki per il Giappone, indicavano alcuni “tipi di minacce a cui era esposto lo stato democratico: minacce contestuali (che derivano dall’ambiente esterno a quello in cui operano le democrazie); minacce dipendenti dalla struttura e dalle tendenze sociali (movimenti fascisti, partiti comunisti, intellettuali antagonisti, mutamenti a livello dei valori sociali); e infine, e aspetto forse più grave,…minacce intrinseche alla stessa vitalità del sistema democratico che sgorgano direttamente dal funzionamento della democrazia”. Infatti, si sosteneva nel rapporto, un “governo democratico non opera necessariamente secondo modi che regolino o mantengano automaticamente l’equilibrio. E’ possibile, invece, che funzioni in modo tale da dare vita a forze e tendenze le quali, se non controllate da qualche intervento esterno, finiscono col condurre all’indebolimento della democrazia” (M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, cit., pp. 24, 110) 18 S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 287 19 op.cit, p. 286 16 19 delle sue istituzioni politiche, della struttura sociale, della leadership, delle attività e delle politiche di governo”20. Peraltro, la rivoluzione non significa ancora, secondo Huntington, inevitabile vittoria della stessa, ma innanzitutto confronto, in tempi e spazi coincidenti, fra differenti fonti di legittimazione, nonché diverse forme di legalità ed efficacia politica, che può a sua volta concludersi con una ristrutturazione dell’insieme dei rapporti di interazione di una società, oppure precipitare la stessa in un sistema di tipo pretoriano dove “i ricchi sono pronti a corrompere, gli studenti tumultuano, i lavoratori scioperano, le folle fanno dimostrazioni e i militari colpi di stato” 21. Con la rivoluzione si aprirebbe pertanto un “periodo di anarchia e di assenza dello stato successivo alla caduta del vecchio regime, in cui i moderati, i controrivoluzionari e i radicali lottano tra di loro per il potere”22, dando inizio ad un “prolungato periodo di dualismo di potere, in cui i rivoluzionari espandono la partecipazione politica, la portata e l’autorità dello loro istituzioni di governo mentre il governo, legittimo in altre aree geografiche, continua ad esercitare il proprio dominio”23. Logica di conservazione e spontaneità programmata Pertanto, dinanzi all’incapacità da parte delle istituzioni esistenti di assorbire i processi di modernizzazione, 20 op.cit., p. 286 op.cit., p. 87 22 op.cit., p.290 21 20 funzionalizzandoli agli assetti dominanti, è opportuno per Huntington interrompere fin dall’inizio ogni possibile sviluppo delegittimante del sistema politico: “quando coloro che intendono sfidare le istituzioni si pongono in contrasto con l’ideologia della società esistente ed intendono affermare un sistema di valori completamente diverso – sostiene il professore di Harvard – l’ambito di discussione comune viene distrutto”. Ciò sta a significare che il rifiuto “dell’ideologia corrente da parte di coloro che intendono sfidare le istituzioni” costringe le stesse classi dirigenti “ad abbandonarla”, dato che “la difesa di ogni sistema di istituzioni di fronte ad una sfida posta alle fondamenta di esso deve essere formulata in termini di logica di conservazione, di inviolabilità e di necessità delle istituzioni a prescindere dal livello di corrispondenza al carattere prescrittivo di una qualunque filosofia ideazionale”24. Perciò, quando la crisi da sovraccarico degli assetti istituzionali vigenti minaccia di evolvere in una delegittimazione degli stessi, aprendo la strada a una potenziale, strutturale trasformazione degli assetti dominanti, è opportuno per Huntington procedere a una separazione “tra legittimità e potere”, ponendo quest’ultimo “al di fuori della ratifica del primo”25, perché “quando le basi della società vengono minacciate l’ideologia conservatrice ricorda agli uomini la necessità di alcune istituzioni e la desiderabilità di quelle esistenti”. Non tutte le ideologie debbono infatti “necessariamente essere dei modelli ideazionali”; appunto per questo la “teoria del conservatorismo propone uno scopo ed un ordine differente rispetto 23 op.cit., p. 292 S.P. Huntington, Il conservatorismo come ideologia, in “American Political Science Review”, vol. 51, 1957, trad.it. in C. Mongardini, Maria L. Maniscalco, Il pensiero conservatore. Interpretazioni, giustificazioni e critiche, Franco Angeli, Roma 1999, p. 175 24 21 alle altre teorie politiche”, sviluppando un’“articolata, sistematica, teoretica resistenza al cambiamento”26. La soluzione prospettata da Huntington punta alla realizzazione di “un modello decisionale di governo più efficace e…vincolante”, in condizione cioè di garantire “una certa dose di autorità, deferenza e gerarchia”, centrata sull’ “apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi”, e “una maggiore autolimitazione di tutti i gruppi”, allontanando così “il pericolo di sovraccaricare il sistema politico con richieste che ne allargano le funzioni e ne scalzano l’autorità”27. Il politologo statunitense non si limita a fare solo dichiarazioni d’intenti, ma propone un percorso mediante cui renderle operative; percorso che attraversa tutta la sua opera, da Political Order in the Changing Societies, pubblicato per la prima volta nel 1968 e tradotto in Italia soltanto nel 1975 con un titolo fuorviante che sostituiva la parola e il concetto di Ordinamento a quello di Ordine, nonché un sottotitolo che voleva ricondurne i contenuti addirittura al “compromesso storico” fra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, allora in stato di avanzata elaborazione28, fino a The Clash of Civilizations (1996), passando per Political Development, scritto assieme a Dominguez nel 1975, il Rapporto alla Commissione Trilaterale (1975), il saggio American Politics. The Promise of Disarmony (1982) e The Third Wave (1991). Se dunque ogni tentativo di salvaguardare il sistema politico da una crisi di legittimazione, così come stava avvenendo durante 25 S.P.Huntington, American Politics. The promise of disharmony, cit., pp. 211-214 cfr. S.P. Huntington, Il conservatorismo come ideologia, cit. 27 S.P.Huntington, Stati Uniti, in M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La Crisi della Democrazia, Rapporto alla Commissione Trilaterale, Kyoto, 31 maggio 1975, Franco Angeli, Roma 1977, p. 110 28 Si poteva infatti leggere nella “fascetta” traduzione italiana del 1975: “Un politologo di Harvard sostiene l’inevitabilità del ‘compromesso storico’” 26 22 gli anni compresi fra il 1968 e il 1978, risultasse vano, compreso il ricorso alla corruzione, descritta come uno strumento di “assimilazione di nuovi gruppi” all’interno del sistema politico, non resterebbe per Huntington altra via se non quella di concentrare la sostanza del potere politico nelle mani di un leader-legislatore che si identifichi con l’esercito, per quel che riguarda le società in via di sviluppo, in particolare quelle latinoamericane, ovvero un rafforzamento del potere esecutivo, per quanto riguarda invece le democrazie industriali (Europa, America settentrionale e Giappone), da compiersi mediante una riduzione, seppur ricca di incognite e dotata di una forte carica di opacità, della partecipazione politica. Non solo, ma l’intervento del legislatore deve essere il più possibile rapido e rivolto inizialmente a “impedire che gli oppositori delle riforme abbiano lo stimolo o la capacità di mobilitare le masse contro il cambiamento”, consapevole inoltre che “l’attuazione di alcune riforme” risulterebbe impossibile “senza un certo livello di violenza”. “L’efficacia della violenza nel promuovere le riforme – prosegue Huntington – è direttamente proporzionale in quanto essa appare come il sintomo della mobilitazione politica di nuovi gruppi che adottano nuove tecniche politiche”. Non é infatti “la violenza di per se, ma piuttosto lo shock e la novità dell’utilizzazione di una tecnica politica sconosciuta e insolita”, nonché “la dimostrata volontà di un gruppo sociale di travalicare gli schemi di azione accettati”29. È infatti il colpo di stato militare, escluso da Huntington per i paesi occidentali, a causa delle disastrose conseguenze cui darebbe luogo, il mezzo più idoneo in grado per garantire ai paesi in via di 29 S.P.Huntington, Stati Uniti, in M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La Crisi della Democrazia, Rapporto alla Commissione Trilaterale, cit., p. 110 23 sviluppo la possibilità di uscire dalla crisi politica nel rispetto dei rapporti di dominio costituiti. Così come per le democrazie industriali, è solo una riduzione della partecipazione politica, operata mediante un controllo e depotenziamento dei mezzi di comunicazione di massa, oltre che un accresciuto ruolo del potere esecutivo, a scongiurare il pericolo di una possibile trasformazione potenziale della democrazia. Quella che Huntington propone di limitare non è solo una crisi di ingovernabilità, ma l’evoluzione stessa della democrazia, intervenendo direttamente sulla sua causalità interna, cui va posto un limite all’espansione, prima che diventi incontrollabile da parte di ogni logica conservativa degli assetti dominati: la “vulnerabilità del sistema democratico statunitense” durante gli anni ’70, derivava per Huntington “non da minacce esterne, per quanto esse siano reali, né dalla sovversione interna da sinistra o da destra, per quanto entrambe queste evenienze possano darsi, bensì dalla dinamica interna della stessa democrazia in una società altamente istruita, mobilitata e partecipe”30. Era questo il pericolo che Huntington avvertiva in rapporto alle società industrializzate che, durante gli anni ’70, stavano assistendo a un rapido processo di modernizzazione che le avrebbe condotte verso un sistema politico-economico cosiddetto post-industriale. Questo passaggio stava avvenendo, secondo l’opinione del politologo americano, attraverso sei “soglie critiche di separazione” caratterizzate dallo spostamento da un’ economia prevalentemente industriale a un’economia in cui avrebbero predominato i servizi; dall’aumento del numero degli impiegati e dalla corrispettiva riduzione di quello degli operai; dalla crescita del livello di 30 cfr. S.P.Huntington, American Politics, cit., p. 110 24 istruzione scolastica; dal sempre maggior numero di persone che frequentavano l’Università; dall’incremento della proporzione del prodotto nazionale impiegata nella ricerca e nello sviluppo; e infine, dallo spostamento di residenza della popolazione31. La crescita della partecipazione politica che ne sarebbe derivata avrebbe potuto provocare una probabile crisi di trasformazione potenziale delle democrazie occidentale che si sarebbe potuta sviluppare a sua volta lungo tre “linee fondamentali di frattura”32 – sociale, istituzionale e ideologica –, comportando “un cambiamento nell’ordine d’importanza dei valori fondamentali”33. Tale contesto avrebbe potuto dare origine “a credenze e atteggiamenti politici e sociali” tali da “sfidare molte delle stesse istituzioni”, spingendo “qualcuno degli elementi più giovani delle classi generate proprio dal postindustrialismo a ritirarsi dalla società” e a lasciare il posto ai “ rampolli delle classi più povere…non ancora assorbiti dal milieu postindustriale”34. A sua volta la Commissione Trilaterale, nelle conclusioni del rapporto del 1975 presentate da Huntington, Crozier e Watanuki, individuava una via d’uscita da questa “vulnerabilità” nella “creazione di nuove istituzioni per la promozione cooperativa della democrazia”, dato che non era “più possibile…dare per scontato l’efficace funzionamento dello stato democratico”. “Le crescenti richieste e pressioni…e la crisi delle risorse e dell’autorità a sua disposizione” esigevano dunque “una più precisa collaborazione”, valutando “l’opportunità…di reperire, presso le fondazioni, le società di affari, i sindacati, i partiti politici, le Associazioni civili e, 31 S.P.Huntington, La politica nella società postindustriale, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. IV, n. 3, Il Mulino, Bologna 1974, p.141 32 op.cit., p. 148 33 op.cit., p. 159 34 op.cit., p. 160 25 laddove sia possibile e opportuno, gli uffici governativi, gli appoggi e le risorse finanziarie per la creazione di un organismo volto al rafforzamento delle istituzioni democratiche”35. Quello che ne emergeva era quindi una sorta di spontaneità programmata connaturata agli stessi processi di istituzionalizzazione e caratterizzata dalla creazione di frontiere mobili e gerarchie dinamiche all’interno del sistema politico, tese a loro volta al “rafforzamento delle istituzioni democratiche” nell’ambito di un’ottica conservatrice. Insomma, alle spalle di una spontanea interazione democratica, avrebbe dovuto agire un organismo in grado di saperne programmare gli sviluppi successivi in un contesto, quello appunto degli anni settanta, in cui non era più possibile dare per scontato l’efficace funzionamento dello stato democratico. Anche Marramao notava già all’inizio degli anni ’80 che l’aspetto fondamentale della crisi che investiva allora i sistemi politici democratici non consisteva tanto in una rottura strutturale con vincoli e leggi, ma nel perseguimento da parte delle società industriali di “due soluzioni idealtipiche”, vale a dire l’integrazione sistemico-sociale e la violazione stessa dei vincoli strutturali, sviluppando una paradossale meccanica36 che, possiamo dire, tendeva a ricondurre la spontaneità della violazione nei vincoli strutturali di una programmata integrazione sistemico-sociale. Laddove poi le dinamiche legate alla necessità di impedire l’emergere di una società pretoriana oppure l’avvio di un processo rivoluzionario avessero condotto alla nascita di una dittatura militare, questa avrebbe dovuto intendersi per Huntington come una “performance” in vista di un generale ritorno al potere da parte dei 35 M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La Crisi della Democrazia, Rapporto alla Commissione Trilaterale, cit., p. 169 (corsivo mio) 26 civili, una volta che tutte le tendenze disgreganti fossero scomparse dalla scena politica e la modernizzazione resa compatibile con l’autorità costituita. È questo il tema sottostante la Terza Ondata in cui il politologo americano descrive il ritorno alla democrazia di quei paesi che in passato avevano risolto la crisi delle loro rispettive democrazie, mediante il ricorso a un regime militare. Non a caso dalla trattazione sono stati espunti i regimi socialisti che, pur vivendo anch’essi una fase di democratizzazione istituzionale, non rientravano nel percorso evolutivo descritto da Huntington. L’opera complessiva di Huntington delinea dunque un vero e proprio percorso che dall’analisi delle conseguenze della modernizzazione e dal possibile sovraccarico istituzionale (Political Order in the Changing Societies), passa alle possibili soluzioni da adottare (Political Order in the Changing Societies; Rapporto alla Commissione Trilaterale; American Politics), fino al ritorno alla democrazia in quei paesi in cui erano stati i militari a sciogliere il nodo gordiano dell’ingovernabilità (The Third Wave). Vista in questa luce, The Clash of Civilizations, non appare come un cambiamento di rotta da parte del politologo di Harvard, bensì come il tentativo di allargare il raggio interpretativo delle possibili conseguenze di una modernizzazione non più limitata a livello nazionale, ma estesa a livello planetario. Sono essenzialmente due i punti di raccordo fra quest’ultima opera e la restante saggistica di Huntington; innanzitutto, il rischio di precipitare l’insieme delle relazioni internazionali in una sorta di stato pretoriano globale, dovuto ad una illimitata crescita della partecipazione alla gestione delle risorse mondiali da parte di popolazioni finora escluse, legata a sua volta a processi di 36 cit. in AA.VV., Trasformazioni e crisi del Welfare State, De Donato-Regione 27 modernizzazione divenuti globali, infine il sospetto nei confronti di una democrazia fonte di sovraccarico istituzionale sia a livello nazionale che internazionale: “Il superficiale presupposto occidentale secondo cui i governi democraticamente eletti saranno sempre cooperativi filoccidentali non si dimostra necessariamente vero per le società non occidentali”37; il tutto in un contesto in cui non sono più i mass-media ad incrementare il sovraccarico, ma lo sviluppo della tecnologia e la sua diffusione presso popoli ostili al modello di vita occidentale. Pertanto la crescita della partecipazione alla gestione delle risorse mondiali da parte dei paesi non-occidentali potrebbe produrre anch’essa un sovraccarico globale di cui i “conflitti di faglia”, così come durante gli anni ’70 le “linee fondamentali di frattura”, costituiscono un importante campanello d’allarme di un futuro conflitto mondiale che Huntington ritiene possa essere evitato mediante la suddivisione del pianeta in “civiltà” incaricate di gestire la loro rispettiva parte di popolazione mondiale sulla base del proprio sistema di valori. Anche in questo mutato contesto viene poi riproposta una linea di analisi nella quale le sorti della governabilità sono decise “a monte” dall’insieme dei gruppi dirigenti delle rispettive civiltà nell’interesse dei rapporti di dominio internazionali, secondo regole precise e, come Huntington stesso ha posto in evidenza nelle sue Piemonte, Torino 1983, pp. 88-89 37 S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà, op.cit., p. 289. Concetto ribadido in un’intervista rilasciata a una rivista francese nel 1998: “La démocratie serait à double tranchant? - Eh bien, dans nombre de cas, nous voyons qu'elle peut porter au pouvoir des gouvernements anti-occidentaux... Voyez la Turquie, où le parti islamiste, le Refah, est devenu la principale force politique en 1995, avant d'être chassé du pouvoir par l'armée et récemment dissous. La démocratie peut parfois devenir facteur de repli. Rappelezvous qu'en 1992, les fondamentalistes seraient arrivés au pouvoir en Algérie si l'armée n'avait pas cassé les élections” (G.-F.Duval, in Construire, n. 7, 10 febbraio 1998) 28 recenti interviste38, senza escludere il ricorso alla guerra qualora gli “interessi vitali” della civiltà occidentale siano posti in discussione dai paesi appartenenti ad un’altra. Il ruolo della politica nell’era della mondializzazioneglobalizzazione approda anch’essa a una programmazione della spontaneità dove il gioco dei rapporti di interazione tra le civiltà, pur apparentemente aperto e libero, resta di fatto sottoposto a una impostazione funzionale ai rapporti di dominio internazionali. Prima di concludere, volevo ringraziare la dottoressa Simona Costaggini dell’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo per aver effettuato delle preziose traduzioni dall’inglese di alcuni importanti testi di S.P.Huntington non ancora tradotti in Italia. Ringrazio anche Paul Révay (Direttore Europeo della Commissione Trilaterale), il professor Leonardo Morlino (ordinario della cattedra di Scienza politica presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Firenze) e il professor Gianfranco Pasquino (ordinario della cattedra di Scienza politica presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Bologna) per i colloqui avuti e la documentazione che mi hanno gentilmente concesso. Infine una dedica: ai miei genitori e a mio fratello. Questa laurea è anche loro. 38 Si veda a tal proposito l’intervista rilasciata da Huntington a Nathan Garderls del Global Viewpoint nell’ottobre del 2001 e pubblicata in Italia dal Corriere della Sera il 1 novembre 2001 (traduzione di Monica Levy, p. 6) 29 1. Modernizzazione socio-economica e ordinamento politico 1.1 L’analisi della modernizzazione socio-economica nella teorizzazione di Samuel P. Huntington Il tema della modernizzazione socio-economica riveste notevole rilievo nella teorizzazione di Samuel P. Huntington39. Huntington la considera infatti portatrice di profonde implicazioni per quel che concerne sia la cultura sia la partecipazione politica, al punto da poter determinare la probabile conseguenza di quello che potrebbe definirsi un “sovraccarico” 39 Nato a New York nel 1927, Samuel Paul Huntington è professore di Scienza dell’amministrazione alla Harvard University. Dopo aver conseguito il Bachelor of Arts alla Yale University (1949), il Master of Arts alla University of Chicago (1949), il titolo di Doctor of Philosophy alla Harvard University (1951), in cui svolse la sua prima attività di insegnamento (1950-1958), e aver insegnato alla Columbia University (19591962), è stato di nuovo chiamato ad Harvard dove ha rivestito (1962) la carica di Chairman del Dipartimento del Government, fondando e dirigendo anche il John Olin Institute for Strategic Studies. Direttore della rivista “Foreign Policy”, Huntington è stato eletto nel 1987 Presidente dell’American Political Science Association. Molteplici sono stati gli incarichi svolti per il governo degli Stati Uniti, fra cui quelli di consigliere del Policy Planning Council del Dipartimento di Stato, dell’Agency for International Development, del National Security Council (1976-1980). Huntington è stato anche consulente della Commissione Trilaterale. 30 delle istituzioni del sistema politico40 a causa di un eccesso di domanda proveniente da settori sempre più ampi della società civile. La modernizzazione è per il politologo americano “un processo multiforme che comporta mutamenti a tutti i livelli del pensiero e dell’attività umana”, sostenendo inoltre che “gli aspetti principali della modernizzazione”, cioè “l’urbanizzazione, l’industrializzazione, la secolarizzazione, la democratizzazione, l’istruzione, la partecipazione…non sono presenti casualmente e in modo scollegato”41. Lo sviluppo politico induce poi la trasformazione, a volte radicale, della cultura e delle istituzioni di un ordinamento politico-sociale, nonché della partecipazione al governo delle sue risorse, provocando alcuni problemi di gestione, dalla cui risoluzione dipendono gli esiti della conservazione politica dello stesso nel rispetto dei rapporti di dominio che lo contraddistinguono. Non a caso la modernizzazione42 incide per Huntington43 su una collettività di persone sia a “livello psicologico”, 40 Parte integrante dell’ordinamento di una società, il sistema politico è, per S.P. Huntington, l’insieme strutturato e organizzato dei valori e delle istituzioni del potere politico, dell’apparato statuale e dei suoi mezzi di intervento 41 S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, Franco Angeli, Roma 1975, p. 45 42 Lo studio della modernizzazione socio-economica e politica prende avvio, secondo G.Pasquino (Modernizzazione e sviluppo politico, Il Mulino, Bologna 1970) con l’opera di G.A. Almond, A functional approach to comparative politics (in The politics of the developing areas, a cura di G.A. Almond e J.S. Coleman, Princeton University Press, 1960). Sostituto moderno del concetto illuminista di progresso, lo studio dello sviluppo politico è dato per Pasquino da: a) la comparsa sulla scena internazionale di nuovi stati indipendenti e la loro crescente partecipazione a organismi quali le Nazioni Unite; b) la necessità, da parte di Stati Uniti e Unione Sovietica, di conoscere questi nuovi soggetti per adattarli alla propria sfera di influenza politica ed economica; c) la rivoluzione comportamentista in scienza politica, i cui principi fondamentali sono la ricerca empirica e il superamento dello studio istituzionale dei fenomeni politici per rivolgere direttamente l’attenzione al comportamento dell’uomo; d) il movimento di riforma dello studio della politica che va sotto il nome di politica comparata (cfr.R.C. Macridis, The study of comparative government, Parte I Capitolo 1, Random House, New York, 1955; 31 R.C. Macridis, Comparative politics and the study of government. The search for Focus”, in “Comparative politics”, I, 1968, pp. 79-90; T. Cole, (a cura di), European Political system, Knopf, New York, 1953; G. Carter, J. Ranney, J. Herz, Major foreign powers, Harcourt Brace and C., New York, 1952). Se G.A Almond è da considerarsi, per il Professor Pasquino, il caposcuola della teoria della modernizzazione politica, il Social Science Research Council con i suoi Comitati per il Comportamento Politico (istituiti nel 1945) e per la Politica Comparata (istitutito nel 1953 e che avrebbe dato origine a un Sotto-Comitato per lo Sviluppo Politico), forniva la necessaria copertura finanziaria per queste ricerche. Una prima importante definizione del concetto di sviluppo politico veniva elaborata proprio dal Comitato per la Politica Comparata che nel 1965 identificava tre caratteristiche essenziali del processo di sviluppo politico, eguaglianza, capacità e differenziazione, rappresentando, secondo Pye, “rispetto alla popolazione…un mutamento da uno status generalizzato di suddditi a un numero crescente di cittadini che collaborano fra di loro, accompagnato dall’espansione della partecipazione di massa, da una maggiore sensibilità per i principi di eguaglianza e da una più ampia accettazione di leggi universali…rispetto alle prestazioni del governo e del sistema generale…un aumento della capacità del sistema politico di dirigere gli affari pubblici, di controllare le controversie e di far fronte alle domande del popolo;…rispetto all’organizzazione della sfera politica…una maggior specificità funzionale e una maggiore integrazione di tutte le istituzioni e le organizzazioni che ne fanno parte” (L.W. Pye, Introduction in Political culture and political development, (a cura di L.W. Pye e S. Verba), Princeton University Press, Princeton, 1965, p. 13). 43 Huntington applica le categorie elaborate dalla teoria dello sviluppo politico non solo all’analisi delle società cosiddette del Terzo Mondo o “in via di sviluppo”, ma anche allo studio dei processi di modernizzazione delle società industriali di tipo occidentale: “The study of political development was, in its origins in the late 1950s, in some sense the political science reflection of a broader interest among social scientists in the general processes of societal change normally subsumed under the heading of “modernization”. In fact, much of the early work identified political development with political modernization, and almost all the work nonetheless focused on political development in the context of the overall change from traditional, rural, agrarian society to modern, urban, industrial society…The United States and some of the countries of Western Europe were said to be making the transition from industrial to postindustrial society with the growth of the service sector in their economies, the increasingly central role of technology and theoretical knowledge in the functioning of society, the growing preponderance of white-collar and particulary professional and scientific workers in the labor force, and overall rising levels of education and affluence. If this transition from industrial to postindustrial society was, indeed, of the same order as the transition from agrarian to industrial society, then presumably the accompanying political problems, dislocations, and needs might also be comparable in intensity and conceivably similar in nature…And a theoretical base could, indeed, be made for this proposition, which the political traumas and disruptions that characterized American and to some extent Western European society in the late 1960s and early 1970s certainly did nothing to disprove. In this sense the concepts and lessons that could be derived from the study of political development in the modernizing countries of the Third World might be applicable not just to the earlier history of the First World but to its contemporary and future evolution as well. The identification of political development with the peculiar historical process of modernization was thus loosened…Perhaps the most important political differences between societies coincide not with differing levels of per capita income but with the great cultural faults that divide men according to language, religion, ethnicity, race, and historical experience…If the tradition-modernity dichotomy becomes leses useful for political analysis, it seems likely that the study of political development will become increasingly divorced from the study of modernization and more closely indentified with the broader study of political change. In the late 1060s and early 1970s, political scientists who had been talking about political development began to think in 32 implicando “un mutamento significativo nei valori, nelle attitudini e nelle aspettative”, sia a livello intellettuale, comportando “un enorme sviluppo della conoscenza dell’uomo sul suo ambiente e alla diffusione di questa…all’interno della società per mezzo di un incremento dell’alfabetizzazione, della comunicazione di massa e dell’istruzione”44. La modernizzazione tende infine “ad integrare la famiglia e gli altri gruppi primari con ruoli diffusi in associazioni secondarie consapevolmente organizzate e dotate di funzioni molto più specifiche”45, determinando un’estensione delle coscienze individuali e di gruppo e la conseguente crescita delle capacità e aspirazioni, tanto individuali quanto collettive. 1.1.1 Modernizzazione socio-economica e modernizzazione politica Huntington guarda alla modernizzazione da un’angolatura tanto economica, quanto politica. Dal punto di vista economico, con la modernizzazione “l’attività subisce una diversificazione in quanto si passa da poche e semplici occupazioni a una pluralità di occupazioni di tipo complesso; il livello di qualificazione professionale aumenta in modo significativo; aumenta il rapporto tra capitale e lavoro; l’agricoltura di sussistenza lascia il passo all’agricoltura di more general terms about theories of political change. In some measure this meant a focus on change in the particular components of the political system and on how change in one component related to changes in other components” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political development, in F.I. Greenstein, N.W. Polsby (a cura di), Macropolitical Theory, vol. 3, Chapter 1, 1969, pp. 1-114) 44 S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 45 45 ibidem 33 mercato e la stessa agricoltura diminuisce di importanza rispetto al commercio, all’industria e alle altre attività non agricole”46. Da un punto di vista politico la modernizzazione comporta invece “un mutamento degli atteggiamenti, dei valori, e delle aspettative personali da modelli legati alla tradizione, verso modelli propri del mondo moderno”, presentandosi come “il risultato dell’alfabetizzazione, dell’educazione, dell’aumentato livello di comunicazione, dell’introduzione dei mass-media e dell’urbanizzazione”47. Questi due aspetti della modernizzazione sono fra loro complementari, innestandosi l’uno sull’altro per mezzo di consone procedure di istituzionalizzazione tese, a loro volta, a provocare una modernizzazione del sistema politico. Quest’ultima deve poi condurre alla “razionalizzazione dell’autorità”, nonché alla “sostituzione di gran parte delle autorità politiche, religiose, familiari ed etniche di tipo tradizionale con un'unica autorità politica nazionale e secolare…il (cui) governo… prodotto dell’uomo e non di Dio o della natura, deve avere una fonte (di legittimazione) umana e definita…, l’obbedienza alla cui legge definitiva è prioritaria rispetto agli altri obblighi”48. È infine la sovranità dello stato-nazione l’istanza ultima cui Huntington affida l’onere di sussumere i processi di modernizzazione, stabilendo un ordinamento e, se necessario, un ordine politico e sociale “la cui legge positiva (sia) prioritaria rispetto agli altri obblighi”49. 46 ibidem ibidem 48 S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 46 49 ibidem 47 34 La modernizzazione è inoltre strettamente connessa con l’espansione della partecipazione politica e lo sviluppo delle istituzioni politiche, oltre che, con la natura della stratificazione sociale e le opportunità di mobilità al suo interno e verso l’esterno, ponendo in evidenza l’influenza esercitata anche dai ritmi stessi dello sviluppo e dalle influenze dell’ambiente esterno50. L’ ambiente esterno può difatti influenzare la modernizzazione di un ordinamento tramite la diffusione di sistemi di valori, di tecniche e di risorse appartenenti a un’altra società, ovvero mediante l’intervento di individui e gruppi sociali esterni. Ma le influenze dell’ambiente esterno possono anche condurre a una reazione da parte dei gruppi interni51, suscitando quella che Huntington definisce una “modernizzazione difensiva”. Un ruolo importante, sui processi di modernizzazione, svolgono poi i “ritmi”52 con cui essa si determinano. Se infatti uno sviluppo socio-economico accelerato può essere causa di instabilità politica e violenza sociale, le società che si 50 “The principal variables affecting the political development of societies can thus be analyzed in terms of the influence of a) the traditional, transitional, and modern phases of development; b) cultural, social, economic, and political factors; c) domestic and foreign environments; d) the early or late timing of modernization; e) the degree of simultaneous or sequential change, and if the latter, the nature of the sequence; and (f) the rates of change in the components of modernization” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political development, cit., p. 15) 51 “Beyond this, external influences on political development may take the form of (a) importation by individuals and groups within the society of ideas, models, techniques, resources, and institutions from other societies; where importation is extensive and unvoidable, except at high costs, the result is a state of dependence by the one society on another, (b) intervention by individuals and groups from other societies through political, military, economic, or cultural means to affect directly or indirectly the political development of the society; (c) government by individuals and groups from other societies (colonialism); and (d) reaction by individuals and groups within the society against the threat of foreign intervention of rule (defensive modernization) (op.cit., p. 13) 35 modernizzano con ritmi piuttosto lenti corrono invece il rischio di registrare un eccessivo intervento da parte dell’apparato statale, una debolezza organica delle classi dirigenti, una mobilità sociale più elevata e infine una tensione strutturale che avrebbe come conseguenza un’instabilità politica difficilmente gestibile53. Infatti il sostanziale mutamento del sistema dei valori e delle istituzioni politiche che lo rappresentano richiede per Huntington un periodo di tempo compatibile con la capacità e possibilità che il sistema politico ha di amministrarlo, adattandosi ai cambiamenti che lo sviluppo socio-economico ha nel frattempo indotto all’interno della società54. E’ pertanto necessario che i vari aspetti dello sviluppo politico si presentino in maniera “sequenziale”55, cioè in modo graduale; gradualità assicurata solo dallo sviluppo di istituzioni politiche capaci di rendere le dinamiche suscitate dai processi di 52 “The rates of change in the social, economic, cultural, and political components of modernization clearly have important implications for political institutions, processes, and participation” (op.cit., p. 15) 53 “For instance, in late developers as compared with early developers: (a) the state normally plays a more important and more coercive role in the process of industrialization; (b) the bourgeosie is likely to be weaker and hence, according to some theories, democracy is less likely to emerge; (c) exogenous influences on political development are likely to be more important; (d) rates of social mobilization are likely to be high compared with rates of industrialization; (e) overall rates of socioeconomic change are likely to be higher and hence social tension sharpened; (f) in part as a result of these earlier factors, mass participation in politics is broader and popular demands on the political system more intense in comparison with the level of economic development and political institutionalization; and (g) in part as a consequence, violence and instability are more likely to be prevalent…) (ibidem) 54 “Rapid rates of socioeconomic change are more likely than slower rates to lead to social conflict and political disruption. Substantial changes in political values and institutions normally require substantial periods of time, and hence adaptation of the political system may lag behind broader changes in society” (ibidem) 55 “The extent to which various aspects and steps in development occur sequentially or simultaneously is also of paramount importance: the appearance of problems or crises sequentially is likely to promote peaceful change, stable government, and more democratic institutions; the simultaneous appearance of problems or crises is likely to “overload” the political system, producing sharp cleavages, violence, and repression” (op.cit., p. 15) 36 modernizzazione compatibili con gli assetti dell’ordinamento socio-politico56. 1.1.2 Gli effetti della modernizzazione socio-economica sulla cultura politica Huntington definisce la cultura politica di una società come l’insieme delle “credenze empiriche riguardo i simboli e i valori empirici espressivi e altri orientamenti dei membri della società verso gli oggetti politici”, nonché il “prodotto della storia collettiva di un sistema politico e della storia individuale di coloro che hanno creato effettivamente il sistema… (incorporando) i valori politici centrali di una società”57. La cultura politica viene perciò considerata dal politologo americano come un sistema di valori in grado di costituire i ruoli che definiscono i comportamenti politici di una collettività: per meglio dire, la fonte di legittimazione che ne determina l’agire politico compatibilmente con la struttura del 56 La “difesa di ogni sistema di istituzioni di fronte ad una sfida posta alle fondamenta di esso deve essere formulata in termini di logica di conservazione, di inviolabilità e di necessità delle istituzioni a prescindere dal livello di corrispondenza al carattere prescrittivo di una qualunque filosofia ideazionale. La forza sociale che intende sfidare le istituzioni deve rappresentare un evidente ed effettivo pericolo per le istituzioni…Secondo la definizione di Mannheim, il conservatorismo “diviene consapevole e auto-riflettente quando appaiono sulla scena altri e differenti modelli di vita e di pensiero, contro i quali esso è chiamato ad imbracciare le armi nella disfida ideologica” (S.P. Huntington, “Il conservatorismo come ideologia”, in American Political Science Review, vol. 51, 1957, trad.it. in C. Mongardini, Maria L. Maniscalco, Il pensiero conservatore. Interpretazioni, giustificazioni e critiche, Franco Angeli, Milano, 1999, p. 173) 57 “The political culture of a society consists of the empirical about expressive political symbols and values and other orientations of the members of the society toward political objects. It is the product of the collective history of a political system and the life histories of individuals who corrently make up the system. It is rooted both in public events and private experiences and in bodies a society’s central political values” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political Development, cit., pp. 15-16) 37 suo ordinamento. Ed è proprio provocando l’instabilità del rapporto tra valori culturali e struttura politica che la modernizzazione socio-economica innesta un cambiamento nella cultura politica58. La modernizzazione trasformerebbe, cioè, la cultura di un ordinamento, intervenendo sull’identità politica, vale a dire sulla capacità dei singoli individui di considerarsi parte integrante di una collettività59, sulla fiducia che essi nutrono nei confronti degli altri appartenenti alla medesima collettività, sulla loro capacità di associarsi60 e infine sulla loro convinzione di poter partecipare attivamente all’ elaborazione della politica nazionale61. Cultura e struttura politica risultano congruenti, per Huntington, soprattutto in presenza di un alto grado di compatibilità tra ruoli e strutture sociali da un lato e valori politici del sistema dall’altro62. Tant’è vero che per lo studioso americano è il legame tra i valori e le strutture del sistema a impedire, attraverso meccanismi di controllo, interiorizzati da 58 “Change in political culture arises out of instability between central values and structures” (op.cit., p. 29) 59 “The most crucial political belief for political modernization is political identity: the extent to which individuals consider themselves unambiguous members of a given nation” (op.cit., p. 32) 60 “A second requisite is the ability to trust one’s fellow citizens and to work with them. The capacity to trust has been described in many forms” (ibidem) 61 “Thirdly, individuals must believe that they can have an impact on politics and government, that they can and should participate actively to do so, and that the output of government – as a result of their and other people’s inputs – has relevance for their own lives. A modern political system requires the active legitimation of its acts by its citizens and the ability to reach them authoritatively and with significant impact” (ibidem) 62 “Political culture and political structures are congruent when there is a high degree of compatibility between political roles and structures on the one hand, and the central political values of the system on the other…The individual can use the available political opportunities with adequate gratification and can accept demands with minimal pain and anxiety. When demands exist they are kept from becoming disruptive by control mechanisms (governement, civic organizations, churches, etc.) that the individual perceives as legitimate. Political cognition must be accurate, and affect to and avaluation of political roles and structures must be positive”(op.cit., pp. 16-17) 38 gruppi e individui, che le domande rivolte al sistema politico possano determinare problemi di governabilità. Il teorico americano distingue le culture politiche in riceventi (recipient political cultures), in quanto subiscono un cambiamento per opera di un altro sistema di valori, e donanti (donor political cultures), ossia sistemi di valori che si porrebbero e imporrebbero come fonti di legittimazione alternative rispetto alla cultura politica vigente. Le culture politiche riceventi si differenziano poi in consumatrici e strumentali. Le culture consumatrici associano la maggior parte delle relazioni sociali a una dimensione religiosa, legando la gratificazione a valori trascendentali senza rilevare alcuna visibile diversificazione fra sfera religiosa, culturale, politica e scientifica, tendendo inoltre a resistere a tutti i cambiamenti, ovvero trasformandosi totalmente e rapidamente quando tutto risulti essere sul punto di cambiare. Viceversa le culture strumentali non valutano la condotta sociale in termini di significati trascendentali, derivando la gratificazione sociale da un immediato fine pratico raggiunto da un atto. Le culture strumentali sono di fatto più sensibili ai mutamenti adattati e reinterpretati in funzione delle strutture politiche vigenti63, e più disposte ad un cambiamento sequenziale 63 “Political cultures can be classified as consummatory or instrumental according to their response to cultural change, including but not limited to acculturation. Consummatory cultures link most social relationship with the religious sphere and ascribe religious meanings or value to most behavior patterns. Instrumental cultures do not evalutate social conduct in terms of wider, transcendental meanings but only in terms of more narrow and particular ones. Gratification in consummatory cultures follows from the transcendental values associated with and act; gratification in instrumental cultures follows from the immediate practical ends achieved by the act. In an instrumental culture there are tendencies toward differentiation among the religious, cultural, political, economic, and scientific spheres; in consummatory cultures there is little in any differentiation among these spheres. Acculturation through syncretism is likely to proceed in a gradual and orderly fashion in instrumental cultures that are confronted with European culture; consummatory cultures, on the other hand, will either 39 che, rispetto a quelle consumatrici, le rendono, per Huntington, meno esposte al rischio di una crisi strutturale dell’ordinamento politico6465. Le culture politiche donanti si strutturano in agglomeranti e assimilative. La cultura politica agglomerante66 è corporativa e gerarchica e quando stabilisce delle relazioni con una cultura diversa impone relazioni superordinate e subordinate all’interno di un nuovo contesto gerarchico67. resist all change (a change in one sphere is very threatening because it affects everything else) or, when they change, change totally and rapidly: They may reappear, therefore, in revolutionary form. Instrumental cultures can perceive localized similarities with other cultures and can reinterpret and adopt them; consummatory cultures are much less capable of following the syncretic route ” (op.cit., pp. 18-19) 64 “The inability to engage in instrumental, syncretic change leads to resistence and often to breakdown” (op.cit., p. 21) 65 “There are also, therefore, mixed cultures – partly instrumental, partly consummatory” (op.cit., p. 19) 66 “There are two main patterns of reponse: agglomerative and assimilative. The agglomerative political culture is corporative and hierarchical; when it encounters a different culture, it proceeds to establish superordinate and subordinate relationships within a new single hierarchical context. Everyone’s basic humanity is asserted in various degrees; groups within the new hierarchy have indipendently defined privileges and jurisdictions which are protected by the general system, no matter how lowly the groups may be” (op.cit., p. 22) 67 “Agglomerative patterns can be generalized beyond cases of acculturation: in traditional agglomerative cultures, change is slow, but continuous, and proceeds according to the norms of sanskritization. Sanskritization in India is the process by which a low Hindu caste or tribal or other group changes its customs, ritual, ideology, and way of life in the direction of a higher and, frequently, “twice-born” caste……As a general process, sanskritization has eight major charactericstics… 1. Groups and strata have well-defined traditional rights and prohibitions, at least at the local level, which encompass most or all aspects of social life. 2. Mobility that results from sanskritization is in no sense a “new” pattern of behavior dependent on modernization. 3. The political system makes the process possible and plays a crucial legitimating role. 4. The upwardly mobile take on the traditional perquisites of hight-status groups in the system. The structure of the system remains unaffected. Change is positional, not structural. 5. Mobility occurs in reponse to local conditions, challenges, and opportunities. It is a local, not a national or systemwide, group or stratum that is positionally mobile. The positional change process is fragmented. 6. It has mixed goals. The claim to higher status relies on a restored recognition of alleged ancestral high status; as such it looks to the past. But in terms of actual social relations it seeks to adjust real relations with other groups; as such it looks to the present and the future. 7. The process is essentially an exchange of one kind of status for another. Though it may lead to more wealth and there may be some bribery, the process does not depend on the legal public purchase of higher status. 8. The behavior depends on organization. It is a group, not an individual, process; the society has established procedures that can be seized on to press the claims” (op.cit., pp. 25-26) 40 La cultura assimilativa è invece egualitaria, legittimando un ordinamento con poche differenziazioni sociali68. Lo studioso statunitense sostiene anche che l’interazione non si svolge soltanto fra due culture prese nel loro insieme, ma anche fra il sistema di valori di una cultura politica e “frammenti” del sistema di un’altra che, “staccatisi” da una qualsiasi cultura donante, tracciano sentieri diversi da quelli della cultura d’origine. I mutamenti di una cultura politica sono anche il frutto di una forte e costante mobilità sociale. Per mobilità sociale Huntington intende “il processo per cui i maggiori raggruppamenti dei vecchi valori sociali, economici e psicologici vengono erosi e le persone diventano disponibili ad acquisire nuovi modelli di socializzazione e di comportamento, rendendosi più consapevoli del governo e della politica. Perciò più aspetti della cultura tendono a diventare politicizzati”69. In tale prospettiva, la scolarizzazione è vista come la possibilità di acquisire, ampliare e consolidare le proprie conoscenze, costituendo un’ importante fonte di cambiamento delle culture politiche. Non solo, ma modificando i valori politici centrali di una cultura, la mobilità, sollecitata da un’estensione della scolarizzazione superiore può condurre alla nascita di nuovi soggetti culturali pronti per nuove esperienze politiche, più aperti 68 “The assimilative political culture is egalitarian; consequently, when it encounters persons of a different culture it must either accept or reject their humanity. There are few gradations of rank and privilege in the new context: one either is a member of the society, with full rights and privilege, or is denied membership altogether”(op.cit., p. 22) 69 “the process by which major clusters of old social, economic, and psychological commitments are eroded or broken and people become available for new patterns of socialization and behavior. Social mobilization makes a people for more aware of government and politics. Therefore more aspects of the culture tend to become politicized” (op.cit., p.27) 41 verso l’innovazione e il cambiamento e più convinti infine che le istituzioni possano essere poste nella condizione di assolvere i loro obblighi e le loro responsabilità70. 1.1.3 La centralità delle istituzioni politiche nell’analisi delle trasformazioni indotte dalla modernizzazione socio-economica Secondo Huntington, la modernizzazione tende ad accompagnarsi a forme di istituzionalizzazione politica, ossia all’elaborazione di procedure71 in grado di rendere le trasformazioni indotte dallo sviluppo funzionali agli assetti dominanti di un ordinamento politico. Nello studio delle dinamiche della modernizzazione le istituzioni politiche rivestono dunque un ruolo chiave per comprendere le modalità attraverso cui gestirle, senza provocare cambiamenti radicali e irreversibili delle strutture di un ordinamento. L’osservazione delle dinamiche istituzionali implica tre dimensioni: il livello di istituzionalizzazione delle organizzazioni e delle procedure, cioè la loro capacità di interpretare e funzionalizzare i mutamenti socio-economici; il grado di modernità o di tradizione del sistema politico chiamato a gestire le problematiche dello sviluppo; la misura in cui le istituzioni del 70 “In sum, modern political man, according to Inkeles, is identified with and allegiant to leaders and organizations that transcend the parochial and primordial. He is interested in and informed about public affairs. He participates in politics. He is positively oriented and knowledgeable about recognizable political and governmental processes, and he accepts a rational structure of rules and regulations as desirable. Modern political man is politically active, involved, and rational” (op.cit., p. 28) 71 “Politics – that is, deciding who gets what, when, and how for a society – often, but not always, takes place through formal organizations and procedures. To the extent that these organizations and procedures become stable, recurring, and valued patterns of behavior, they become political institutions” (op.cit., p. 47) 42 sistema tendono alla concentrazione o alla ripartizione del potere all’interno dell’ordinamento72. L’incognita più rilevante della modernizzazione è data dal livello di partecipazione politica suscitato che il sistema politico deve essere in grado di rendere compatibile con gli assetti della società. Pertanto le istituzioni politiche sono chiamate a interpretare le trasformazioni prodotte dalla modernizzazione, adattandovisi in coincidenza con l’espandersi della partecipazione politica73. Huntington distingue tre istituzioni tipiche di un ordinamento politico: istituzioni di governo, che costituiscono essenzialmente, ma non solo, il “potere esecutivo” all’interno di un ordinamento politico, ricomprendenti anche organizzazioni politiche che vi partecipano senza farne ufficialmente parte; istituzioni partecipative, che elaborano le regole e le forme della partecipazione all’organizzazione e alla gestione del potere politico, garantendone il legame funzionale con le strutture portanti dell’ordinamento; istituzioni amministrative, che 72 “In analyzing the relations between political institutions and socioeconomic modernization, three dimensions of the former are of critical importance. 1. The level of institutionalization of the organizations and procedures. This can measured in terms of their adaptability, autonomy, complexity, and coherence…2. The degree of modernityor tradition of the organization, procedure, or political system. Modern political system differ from traditional ones in their (a) bases of legitimacy and nature of governing authority, (b) scope and nature of arrangements for political participation (input institutions), and (c) scope and complexity of bureaucracy (output institutions) 3. The extent to which the institutions provide for concentration or pluralism in the distribution of power. Traditional political systems differ from modern systems in the amount of power in the system; in each, however, the power that exists can be concentrated or dispersed. A democratic political system is one in which there is a large amount of power (broad participation in politics) and in which power is also dispersed rather than concentrated” (ibidem) 73 “In fact, modernization often expands political participation more rapidly than it leads to the development of modern participatory political institutions. This procedures a praetorian condition of disorder, violence, and the lack of legitimate political procedures for resolving political issues. Political instability is the likely political fruit of socioeconomic modernization” (op.cit., p. 48) 43 garantiscono l’applicazione in seno all’ordinamento sociopolitico delle decisioni adottate 74. Il politologo di Harvard distingue inoltre tre differenti fonti di legittimazione di un sistema politico. Abbiamo così una legittimità elettorale, in cui i rapporti di dominio di un ordinamento politico ottengono obbedienza in quanto selezionati tramite un procedimento elettorale libero e competitivo; una legittimità rivoluzionaria, i cui vincoli devono essere rispettati in quanto costituiscono lo strumento per creare un ordine sociale migliore; e infine una legittimità nazionalista in base alla quale le istituzioni di un ordinamento incarnano l’identità e l’indipendenza di una collettività nazionale75. Ognuna delle fonti di legittimità descritte implica poi un diverso tipo di istituzioni di governo. La legittimità elettorale presuppone un sistema elettorale e partiti politici competitivi; quella rivoluzionaria, un sistema ideologico ben sviluppato, portavoce del quale è il partito dominante; mentre la legittimità nazionalista presenta aspetti che sono propri sia della legittimità elettorale che di quella rivoluzionaria76. 74 “In some instances, however, mdernization can lead to the creation of modern political institutions by the adaptation of traditional ones or the generation of new institutions out of a revolutionary process. In general the emergence of a modern society functionally requires the rationalizationj of authority, the expansion of political participation, and the differentiation of structures. In institutional terms this means the development of (a) governing institutions that embody new sources of legitimacy, (b) participatory institutions that provide channels for relating the newly participant groups to the governing institutions, and (c) bureaucratic institutions that provide structures for the discharge of those administrative functions that modern society requires of its political system”, (op.cit., p. 48-49) 75 “The commonly accepted sources of legitimacy in modern societies are electoral, revolutionary, and nationalist. According to the first, governments are to be obeyed because they have been selected by popular vote throught a reasonably open and competitive electoral process. According to the second, governments are to be obeyed because they embody the will of one community (usually ethnic and linguistic) of people to assert their separate identity and establish their indipendence from control by the agents of other communities of people” (op.cit., p. 49) 76 “Each of these three sources of legitimacy implies distinctive types of governing institutions. Electoral legitimacy requires an electoral system and, usually, competitive 44 Le istituzioni sono oltretutto lo strumento principale con cui un sistema politico capta le trasformazioni determinate dalla modernizzazione, cercando di adeguarvisi. In un primo momento, dinanzi ai cambiamenti indotti dallo sviluppo socio-economico, il sistema istituzionale avverte di fatto il bisogno di rompere le procedure tradizionali per avviare riforme modernizzanti al fine di razionalizzarsi e sviluppare un’efficiente burocrazia. Le riforme promosse comportano in tal modo la crescita della coscienza politica e sociale tra gruppi esistenti e gruppi emergenti. Successivamente le istituzioni puntano a rendere la coscienza politica e sociale dei gruppi compatibile con i rapporti di dominio che reggono l’ordinamento politico, divenendo, infine, più disponibili ai bisogni e alle domande dei gruppi, mediante la negoziazione e redistribuzione del potere all’interno dell’ordinamento77. Comunque sia, ciò avviene anche mediante un’estensione del controllo delle istituzioni governative all’economia, alle risorse disponibili, alla produzione, alle risorse finanziarie e a quella militare della società78. political parties. Revolutionary legitimacy usually requires a well-developed ideology, the carrier of which is the dominant political party in the system. The institutions for nationalist legitimacy are less distinct, and this legitimacy is often combined with electoral or revolutionary legitimacy” (ibidem) 77 “In a very general sense modernization poses, more or less in sequence, three major challenges to political systems…In the first phase the need exists to break down traditional institutions and practices and to inagurate modernizing reforms designed to razionalize and secularize the system of authority, to develop an efficient bureaucracy and military force, to equalize the relations of citizens to government, and to extend the effective reach of the state…In a second phase, consequently, the major challenge to the political system is to extend its scope so as to relate these groups to the system…In a third phase these patterns of influence tend to become more reciprocal, and a dispersion of power takes place as the political system becomes more responsive to the needs and demands of those groups newly incorporated into it” (op.cit., p. 53) 78 “The expansion of governmental functions and of the bureaucracies to perform them usually takes place in five areas. 1. Regulative. The government extends its controls over the economy, particularly as the economy becomes less agricultural and more commercial and industrial…2. Distributive. In due course the gouvernment not only regulates the activities of others but also plays a significant role in distributing benefits 45 Quando il sistema politico non risulta più in grado di istituzionalizzare le dinamiche politico-sociali, prodotte dalle trasformazioni economiche, si verifica una “crisi nella modernizzazione”79 di cui altri singoli e i gruppi si faranno interpreti. Al contrario, i sistemi che riescono ad assorbire gli impulsi modernizzatori tendono ad avere maggiori tassi di crescita, fermo restando, secondo Huntington, che “società con meno istituzioni politiche democratiche tendono ad avere maggiori tassi complessivi di crescita economica rispetto a società con maggiori istituzioni politiche democratiche”80. 1.2 La crescita della partecipazione politica come conseguenza della modernizzazione socio-economica “La partecipazione politica può essere definita in vari modi. Il termine è qui usato per riferirsi all’attività di privati cittadini destinata ad influenzare il potere decisionale del governo…essa comprende …tutti gli sforzi…leciti o illeciti, violenti o pacifici, con esito positivo o negativo. Inoltre essa non comprende solo attività programmate dal singolo per influenzare directly through transfer payments and by other means…3. Productive. In varying degrees governments undertake to perform productive functions in the economy…4. Extractive. To carry out their other functions governments have to increase their ability to remove money, resources, and, at times, labor from the society…5. Protective. The defense and war-making capabilities of governments often increase in conjunction with but at a faster rate than the economic development of their societies” (op.cit., p. 52) 79 “Crises in political modernization occur when the development of society imposes new demands on political institutions which those institutions are unable to meet” (ibidem) 46 il potere decisionale del governo, ma anche attività programmate da qualcun altro”81. La modernizzazione socio-economica comporta “una maggiore partecipazione politica dei gruppi sociali in tutta la società”; e “l’accresciuta partecipazione politica può accrescere il controllo del popolo da parte del governo, come negli stati totalitari, o il controllo del governo da parte del popolo, come in certi stati democratici”82. Huntington distingue così la partecipazione politica in partecipazione autonoma, cioè condotta dal singolo individuo, e partecipazione mobilitata, ossia organizzata dai gruppi83. Gli strumenti della partecipazione politica includono il voto e altre attività elettorali, attività lobbistiche individuali e collettive, e azioni violente. Ma la partecipazione politica in grado di produrre duraturi e migliori risultati, è quella organizzata dall’attività di un gruppo sulla base dell’appartenenza a un sistema di bisogni e di valori che possa identificarsi con una classe sociale, con un gruppo locale, con i rapporti di vicinato o con un partito politico. Le ragioni per cui lo sviluppo socio-economico accresce la partecipazione politica vanno ricercate innanzitutto nell’espandersi della conoscenza scolastica di tipo superiore, da cui consegue una crescita dello status sociale e della coscienza 80 “Societies with less democratic political institutions tend to have higher overall rates of economic growth than societies with more democratic political institutions” (op.cit., p. 59) 81 “Political participation may be defined in various ways. The term is here used to refer to the activity of private citizens designed to influence government decisionmaking…it…includes all efforts…legal or illegal, violent or peaceful, successful or unsuccessful. Moreover it also includes not only activity designed by the actor him or herself to influence governmental decision-making but also activity designed by someone other” (op.cit., p. 33) 82 Cfr. S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 48 47 politica di settori sempre più consistenti della popolazione: più persone studiano e hanno la possibilità di migliorare finanziariamente, maggiore é per Huntington il bisogno di partecipare all’attività politica al fine di condizionare il governo della società84. La modernizzazione estende poi la partecipazione politica moltiplicando le organizzazioni in grado di coinvolgere un numero sempre maggiore di individui85. Un’organizzazione, e in primo luogo un partito politico, sviluppando e consolidando la coscienza politica dei suoi appartenenti, contribuisce a produrre alti livelli di coinvolgimento organizzativo e quindi di partecipazione politica86. L’emergere di un crescente numero di gruppi, dovuto appunto alla modernizzazione, può provocare anche forti tensioni tra gli stessi, contribuendo ad intensificare il conflitto sociale 87. Infatti, mentre i nuovi gruppi minacciano l’egemonia di altri già da tempo stabilizzatisi, collettivi di livello sociale più basso 83 “The former may be termed autonomous participation, the latter mobilized participation” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political Development, cit., p. 33) 84 “Why do status variables tend to produce greater political participation? The overwhelming evidence from a variety of studies indicates that high status is associated with feelings of political efficacy and competence and that those who feel politically efficacious are much more likely to participate in politics than those who do not. The status variables, in short, are relatede to participation through attitudinal variables” (op.cit., p. 34) 85 “Socioeconomic develpoment also promotes political participation because it leads to a multiplication of organizations and associations and the involvement of larger numbers of people in such groups” (op.cit., p. 35) 86 “In societies in which another factor may be responsible for organizational involvement, that variable may tend to counterbalance the effects of social status on political participation. Class or group consciousness may produce high levels of organizational involvement and of political participation” (op.cit., p. 36) . 87 “Economic and social modernization produces tensions and strains among social groups, new groups emerge, established groups are thereatened, lowstatus groups seize opportunities to improve their lot. As a result conflict multiply between social classes, regions, and communal groups. Social conflict intensifies and, in some cases, virtually creates group consciousness, which in turn leads to collettive action by the group to develop and protect its claims vis-à-vis other groups. The group, in short, is forced to turn to politics” (op.cit., p. 37) 48 cercano invece di migliorare le loro condizioni a danno delle élites che detengono il potere politico ed economico. Questi processi possono imporre “effetti di integrazione e di disintegrazione del sistema sociale88”. Pertanto, per il politologo americano, più che una tensione alla competitività vi è spesso “erosione della democrazia” e tendenza a regimi autocratici e a partito unico”, così come, invece della stabilità “continui colpi di stato e rivolte”89. Ma il grado di instabilità politica è anche correlato al grado di modernizzazione90; più rapida è quest’ultima, maggiore il livello di instabilità politicosociale91. Ma un’eccesso di partecipazione e di instabilità sociale possono provocare anche l’affievolirsi dell’efficacia politica della stessa. In tal modo le ampie opportunità di mobilità sociale, frutto della modernizzazione, tendono a ridurre invece che a incentivare la partecipazione politica, aprendo occasioni più attraenti verso altri obiettivi che non siano quelli del prender parte alla gestione del potere92. Comunque, nella maggior parte dei casi, lo sviluppo socio-economico tende, secondo Huntington, ad aumentare 88 “In certa misura la modernizzazione sociale è un dato di fatto in Asia, in Africa e in America Latina: l’urbanizzazione procede rapidamente, si verifica un lento incremento dell’alfabetizzazione, c’è una spinta all’industrializzazione; il prodotto nazionale lordo pro capite progredisce gradualmente; la circolazione dei mezzi di comunicazione di massa è in espansione. Tutto ciò è una realtà. Per contro, i progressi verso molti degli altri obiettivi che ricercatori hanno identificato con la modernizzazione politica, la democrazia, la stabilità, la differenziazione strutturale, i modelli acquisitivi, l’integrazione nazionale – nella migliore delle ipotesi sono spesso dubbi. Tuttavia c’è la tendenza a ritenere che dal momento che si verifica un processo di modernizzazione sociale, debba necessariamente intervenire un processo di modernizzazione politica” (S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 48) 89 ibidem 90 op.cit., pp. 56-57 91 Cfr. S.P. Huntington, Gli Stati Uniti, in S.P. Huntington, M. Crozier, J. Watanuki, cit., p. 85 49 anziché ridurre la coscienza individuale e di gruppo e la partecipazione politica dei singoli attraverso i gruppi. Oltre al resto, la modernizzazione fa dei gruppi la base per la partecipazione politica93. Essi possono di conseguenza renderla funzionale ai rapporti di dominio dell’ordinamento oppure incanalarla in direzione di una ristrutturazione degli stessi sulla base di fonti di legittimità alternative a quelle vigenti. Il politologo americano sostiene infine che la strutturazione della politica su basi comunali produce livelli più alti di partecipazione politica, rispetto ad una strutturazione politica di tipo classista funzionale invece ai processi di istituzionalizzazione. Non solo, ma l’articolazione della politica su basi comunali può contribuire ad accrescere anche l’antagonismo e la violenza dei gruppi, determinando alcune serie minacce per l’intero ordinamento politico-sociale. A causa di ciò “i governi possono tentare di ridurre sia la partecipazione politica sia l’ostilità dei gruppi comunali a causa della stretta relazione tra le due cose”94. 1.2.1 La crescita della partecipazione politica nel passaggio dalla società industriale alla società postindustriale In un articolo, apparso sulla Rivista Italiana di Scienza Politica nel 197495, Huntington forniva un’analisi della politica 92 “More generally, in Hirschman’s terms, the multiplication of the opportunities for and incentives to “exit” reduces the probability that people will resort to “voice” (Hirschman, 1970)” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political Development, cit., p. 43) 93 cfr. op.cit.., p. 46 94 “governments may attempt to reduce both political participation and communal group hostility because of the close relationship between the two” (ibidem) 50 statunitense in termini di transizione dalla società industriale alla società post-industriale. La sua analisi ravvisava in questa transizione i caratteri di una vera e propria modernizzazione con tutti i possibili risvolti per le strutture dell’ordinamento sociale e politico. Huntington affermava che la transizione dalla società industriale a una postindustriale stava avvenendo, durante gli anni ’70, attraverso sei “soglie critiche di separazione” consistenti: a) nello spostamento da un’ economia prevalentemente industriale a un’economia in cui avrebbero predominato i servizi; b) nell’aumento del numero degli impiegati e riduzione di quello degli operai; c) nella crescita del livello di istruzione scolastica; d) in un numero sempre maggiore di persone che frequentavano l’Università; e) nell’incremento della proporzione del prodotto nazionale impiegata nella ricerca e nello sviluppo; f) infine, nello spostamento di residenza della popolazione96. Il superamento di queste “soglie critiche di separazione” avrebbe condotto gli abitanti dell’occidente capitalistico, in particolar modo negli Stati Uniti, ad un più elevato status socioeconomico, a una maggiore complessità organizzativa e a un’accresciuta partecipazione politica. Oltretutto tra le variabili di status, l’istruzione sarebbe stata quella che ha avuto maggior peso: “nella società post-industriale i livelli di istruzione saranno molto più alti, una notevole porzione di popolazione avrà 95 S.P. Huntington, La politica nella società post-industriale, in “Rivista Italiana di Scienza Politica”, I, Il Mulino, Bologna, 1974 96 op.cit., p.141 51 frequentato l’Università e un’enorme maggioranza avrà un diploma di scuola superiore”97. In seguito l’espandersi della cultura avrebbe dato come risultato una partecipazione e un interesse troppo grandi, che a loro volta avrebbero portato ad una situazione di stasi politica. Perciò nella società post-industriale, a fronte di un rapido e radicale rinnovamento delle strutture socio-economiche, il sistema politico si sarebbe trovato a dover gestire la partecipazione politica in un contesto molto più complesso rispetto a quello della società industriale; contesto in cui il livello intellettuale e tecnologico avrebbe condotto ad una crescita esponenziale della domanda politica, cui le élites dirigenti non sarebbero state più in grado di far fronte tramite appropriate procedure di istituzionalizzazione. Questa situazione era per Huntington ancora più grave dato che il partito istituzionalizzazione politico, nell’ambito principale della strumento società di industriale, sembrava “sull’orlo del disfacimento istituzionale politico” 98. Se inoltre la relazione tra status e partecipazione politica fosse restata invariata, soprattutto negli Stati Uniti, i livelli di partecipazione politica avrebbero continuato a salire in modo significativo, con il pericolo, in assenza di procedure di istituzionalizzazione appropriate, di disordini e di violenze99. “Privati di procedure istituzionalizzate e senza un accordo sulla legittimità di tali procedure” non sarebbe stato affatto inverosimile che i gruppi sociali venutisi a formare, avrebbero agito “ciascuno per proprio conto e con le proprie armi 97 ibidem op.cit., pp. 144-147 99 ibidem 98 52 politiche”100, così come era avvenuto nel corso delle prime fasi della transizione al sistema industriale. L’aumento della partecipazione politica aveva inoltre per conseguenza tre “linee fondamentali di frattura”101: sociale, istituzionale e ideologica. La “frattura sociale” si sarebbe potuta produrre lungo tre diverse traiettorie: “tra forze sociali in declino e forze in ascesa, all’interno delle forze in declino e infine all’interno delle forze emergenti”102; tra gli abitanti delle città, alleati con gli operai e “le forze sociali delle categorie impiegatizie e delle periferie residenziali in via di espansione”; tra “impiegati del settore pubblico e impiegati del settore privato. I primi vorranno aumenti di paga e altri benefici economici, i secondi non vorranno essere loro a pagarli attraverso una tassazione più elevata. L’interazione tra proprietari e lavoratori nel settore privato della società industriale potrebbe così ripetersi nella interazione tra impiegati della burocrazia e impiegati contribuenti nella società postindustriale. Questo conflitto sottoporrà a enorme tensione i leaders politici a tutti i livelli di governo. Per mezzo dell’associazione in sindacati e di minacce di interruzioni nei servizi essenziali, gli impiegati del settore pubblico (potranno) esercitare pressioni e indurre o forzare i leaders politici a soddisfare le loro richieste.”103 La “spaccatura istituzionale”, che avrebbe avuto “un ruolo di primaria importanza politica”104, si sarebbe verificata invece “tra burocrazia esecutiva e mezzi di informazione di 100 ibidem op.cit., p. 148 102 ibidem 103 op.cit.., p. 151 104 op.cit.., p. 155 101 53 massa”. Infatti, precisava Huntington, il “Presidente (degli Stati Uniti n.d.a.) e i suoi collaboratori alla Casa Bianca” si sono trovati “di fronte alla necessità di usare i media per creare un appoggio politico per sé stessi e per le loro scelte politiche e di usare la burocrazia per metterle in atto”. Sarebbero nondimeno stati posti “nella necessità di controbilanciare sia la forza della burocrazia che quella dei media i quali” avrebbero potuto agire “nel proprio interesse in conflitto con gli interessi del Presidente e della Presidenza”105. Nella società postindustriale il potere sarebbe andato “ai leaders politici” che avrebbero avuto accesso “ai mezzi d’informazione”106, costruendosi un “ascendente sulla burocrazia”; la “capacità di riuscire nel primo intento” avrebbe stabilito quali élites sarebbero state chiamate a gestire il potere politico in una società107. Huntington sosteneva inoltre, a proposito del ruolo dei mass-media, che, così come le “grandi società emerse dalla transizione precedente si erano impadronite di una clausola del Quattordicesimo Emendamento della Costituzione – il ‘due process of law’ – per difendersi dal controllo del governo…nella transizione alla società postindustriale i mezzi di 105 ibidem Huntington notava inoltre come nei media vi fosse stata “una tendenza predominante verso una ridefinizione del loro ruolo, da quello relativamente distaccato di “reporters” a quello più impegnato di “modellatori” degli avvenimenti”. Ciò era “il risultato della crescente influenza sia dei media che della buracrazia governativa…I media hanno interresse a denunciare, criticare, sottolineare e incoraggiare il disaccordo e l’insoddisfazione entro l’esecutivo, mentre i leaders dell’esecutivo hanno interesse alla segretezza, alla gerarchia, alla disciplina, alla soppressione delle critiche. La funzione della stampa e quella di allargare il dibattito e l’impegno politico, l’istinto naturale della burocrazia è quello di limitarlo…Come gli industriali, la stampa identifica l’interesse pubblico con il proprio interesse ed elabora interpretazioni della Costituzione per promuoverlo” facendo quadrato “ intorno al “diritto di conoscere” (op.cit., p. 157) 107 op.cit., p. 155 106 54 d’informazione”108 avrebbero tentato “di sfruttare in modo simile la clausola della “libertà di stampa” del Primo Emendamento”. Però, così come “a suo tempo gli industriali furono frenati dal potere controbilanciante del governo…a tempo debito” anche “alla stampa (sarebbe toccato) un destino analogo.”109. La “frattura ideologica” avrebbe consentito da parte sua “un cambiamento nell’ordine d’importanza dei valori fondamentali, come risultato del più alto tenore di vita e di una maggiore diffusione della cultura”. Come conseguenza di queste trasformazioni anche la classe media sarebbe diventata “radicale” e “il movimento generale della società” si sarebbe indirizzato “verso sinistra”110. Infine, Huntington faceva notare come la società postindustriale, più che il prodotto di un determinato insieme di “ideologie postindustriali”, appariva al contrario come “la conseguenza di un insieme di processi sociali ed economici sviluppatisi negli ultimi anni della società industriale, in un periodo che fu considerato l’epitome della fine dell’ideologia”111. 108 ibidem op.cit., p. 157 110 op.cit., p. 159 111 Le teorie sulla “fine dell’ideologia” emergono, riscuotendo un discreto successo, durante gli anni ’60, trovando in Lipset, Bell e Marcuse i principali sostenitori. Gli anni a cavallo fra i ’50 e i ’60 sono anni di straordinaria crescita economica che, sotto la spinta delle logiche Keynesiane adottate a Bretton Wood (1944) e gli aiuti del Piano Marshall (1948), sembrava dovesse dar luogo ad una più equa redistribuzione dei redditi. Dopo le fortissime tensioni sociali dell’immediato dopoguerra, il movimento operaio sembrava non volesse o dovesse più esprimere una visione alternativa al capitalismo. La paura di un’imminente conflitto atomico, seppur viva e presente (crisi di Berlino, 1961, ottobre Cubano, 1962), stava lentamente perdendo i tratti più irrazionali a favore del raggiungimento di un vero e proprio “equilibrio” del terrore, fra le due Superpotenze (USA e URSS). Il confronto fra i due Blocchi si spostava sempre più dal piano militare a quello tecnologico, dal Pentagono al MIT (Massachussets Institute of Technology); dopo le imprese sovietiche dello Sputnik e di Y.Gagarin, gli USA investivano, infatti, numerosi capitali nella ricerca scientifica e tecnologica che, nonostante fosse momentaneamente confinata nei labirinti del settore bellico, mostrava all’uomo quali “sorti magnifiche e 109 55 La società postindustriale avrebbe potuto in tal modo dare origine “a credenze e atteggiamenti politici e sociali che” avrebbero potuto sfidare “molte delle stesse istituzioni” e tutto ciò “avrebbe potuto indurre “qualcuno degli elementi più giovani delle classi generate proprio dal postindustrialismo a ritirarsi dalla società”, subentrando ad essi “i rampolli delle classi più progressive” dovessero attenderlo in un futuro molto vicino. La rappresentazione del mito consumistico dell’”American Way of life”, sostenuta dal “boom economico” che si verificava in quegli anni, sembrava aver spazzato via ogni volontà anticapitalistica. “L’America come modello, come rassegna e sistema di merci, come influenza politica, come immagine veicolata dai mass-media…investe la vita, dal chewing-gum ai dischi, sino allo sviluppo della motorizzazzione e alla TV" (U. Eco, La rinascita culturale all’insegna dell’America, in O. Calabrese (a cura di), L’Italia moderna: immagini e storia di un’identità nazionale, Electa, Milano 1983). Quella che si presentava agli occhi degli analisti politici era dunque una società in cui la fabbrica Fordista sembrava essersi radicata nelle coscienze politiche dei gruppi che agivano all’interno dell’ ordinamento politico e sociale. Non si presentava ancora come il migliore dei mondi possibile, ma si mostrava sicuramente come una società del consenso ovvero come un perfetto paradigma capace, riproducendo tecnicamente ogni cosa (cfr.W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, 1955), di sussumere tutto ciò che le era alieno. E’ in questo contesto che si inseriscono gli studi sulla “fine dell’ideologia”. Inoltre la Sinistra sembrava oramai essersi assimilata alla Destra conservatrice nella logica di gestione, e non più trasformazione, dell’ordine politico esistente. Il tentativo di spiegare l’armonia politica imposta del capitalismo caratterizzava anche l’opera di H. Marcuse (cfr. H. Marcuse, L’Uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1968). Per H. Marcuse, lo straordinario sviluppo delle forze di produzione, la crescente concentrazione del capitale, i radicali cambiamenti nella scienza e nella tecnologia, l’espansione della burocrazia con la costituzione di enormi organizzazioni pubbliche e private, avevano come conseguenza la spoliticizzazione, cioè l’eliminazione delle questioni politiche e morali dalla vita pubblica a causa dell’ossessione per la tecnica, la produttività e l’efficienza. Infatti la spoliticizzazione non solo limitava fortemente l’agenda politica dei governanti, indaffarati a garantire la produzione per il profitto in nome della crescita economica, ma appariva anche come la diretta conseguenza della massificazione della ragione strumentale, vale a dire della diffusione dell’interesse per l’efficienza di mezzi differenti rispetto a fini pre-determinati. Questo stato di cose veniva rafforzato dai mass-media che, distruggendo tutte le particolarità culturali insite in una collettività nazionale, creavano una cultura unidimensionale, la cui conseguenza era il sorgere di una falsa coscienza, cioè di uno stato di consapevolezza in cui la gente non prendeva più in considerazione i suoi reali interessi e bisogni. Secondo H. Marcuse, nella società capitalistica dei primi anni ’60 non si realizzava una semplice “fine della ideologia”, ma un vero e proprio livellamento di tutti quei sistemi di valori, quindi di bisogni, contrastanti con l’ideologia capitalistica, l’unica ad essere accettata e propugnata. In questo contesto il vero soggetto rivoluzionario non era più rintracciato nella classe operaia, oramai integrata nei meccanismi della società capitalistica moderna, ma nella figura dell’emarginato che, escluso dalla società del consenso, poteva ancora svolgere una funzione realmente rivoluzionaria. 56 povere, della classe lavoratrice e della bassa borghesia non ancora assorbiti dal milieu postindustriale”. Insomma “l’immaturità della gioventù”, in particolar modo quella dei ceti medi, protagonista dei movimenti di contestazione, rischiava, nel passaggio dalla società industriale a quella post-industriale, di “determinare un infiltrarsi di tute blu nell’establishment”112, con conseguenze destabilizzanti per l’insieme dei rapporti di dominio vigenti. 112 S.P. Huntington, La politica nella società post-industriale, op.cit., p. 160 57 2. Sovraccarico e “processi di istituzionalizzazione politica” 2.1 Modernizzazione e sovraccarico istituzionale Come già evidenziato nel capitolo precedente, la modernizzazione, per Huntington, produce degli effetti sull’intero ordinamento sociale, coinvolgendone la cultura, le istituzioni e le modalità attraverso cui si esprime la partecipazione politica. Nell’analisi dello studioso di Harvard viene inoltre posto in evidenza come gli anni a cavallo fra la fine dei ’60 e la prima metà dei ’70 del XX secolo fossero appunto anni di modernizzazione sociale ed economica i cui effetti erano già evidenti all’interno del panorama politico occidentale. Questa modernizzazione che, per lo studioso americano, avrebbe condotto dalla società industriale a quella postindustriale, richiedeva la predisposizione di adeguati processi di “istituzionalizzazione” che dovevano rendere le dinamiche compatibili con gli sviluppi del sistema politico. 58 I timori di Huntington erano legati alla crescita della partecipazione politica “dei gruppi sociali in tutta la società” che, conseguenza della modernizzazione, avrebbero potuto condurre ad un “controllo del popolo da parte del governo, come negli stati totalitari, o…(ad un) controllo del governo da parte del popolo, come in certi stati democratici”113. Abbiamo già visto nel precedente capitolo le ragioni per cui lo sviluppo socio-economico comporta un aumento della partecipazione politica (espandersi della conoscenza scolastica, moltiplicazione delle organizzazioni in grado di coinvolgere un numero sempre maggiore di individui). Si tratta ora di considerare le possibili conseguenze, già in parte accennate, della crescita della partecipazione al di là di un suo possibile controllo istituzionalizzante. Difatti la partecipazione politica, la cui crescita è per Huntington direttamente proporzionale allo sviluppo socioeconomico, può determinare “effetti di integrazione e di disintegrazione del sistema sociale” con una possibile “erosione della democrazia e tendenza a regimi autocratici e a regimi a partito unico”114. L’erosione dell’ordinamento sociale e politico é dovuta soprattutto a una eccessiva pressione, determinata da un accumulo di domanda politica, cui il sistema non riuscirebbe più a far fronte, a causa della quantità e qualità degli inputs cui è sottoposto. Come detto, Huntington non elabora una personale definizione del concetto di sovraccarico. La definizione che, comunque, le si avvicina più di tutte è quella fornitaci da Richard 113 S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 48 59 Rose: “Siamo in presenza di sovraccarichi quando le aspettative popolari sono superiori alle risorse nazionali, alle capacità di elaborazione del governo, all’impatto che gli outputs governativi possono realizzare. Un tale sovraccarico deriva dalla decisione dei cittadini di chiedere al governo più di quanto esso, nel suo insieme, possa dare”115. È possibile individuare nell’opera di Huntington due diversi aspetti di sovraccarico: uno quantitativo, dovuto alla distanza intercorrente tra domande e risorse nazionali, e l’altro qualitativo, che chiama in causa le capacità di elaborazione del governo, cioè tutti quei mezzi necessari per neutralizzare aspettive alle quali il sistema non può dare un’adeguata risposta senza dover mettere in discussione le sue stesse fondamenta. La crisi da sovraccarico è dovuta pertanto dall’incontro fra l’aspetto quantitativo e quello qualitativo, nonché dalla disposizione delle domande che ne derivano lungo le articolazioni principali del sistema politico. In tal modo le istituzioni governative si troverebbero a dover fronteggiare non solo una domanda quantitativamente eccessiva, ma anche qualitativamente, tale da imporre una risposta volta a mettere in discussione i rapporti di dominio di un ordinamento. Come impedire che la modernizzazione politica, accrescendo la partecipazione dei cittadini, possa condurre ad un sovraccarico istituzionale ? Qualora questo si realizzasse, come ostacolarne il decorso nell’ambito dell’ordinamento stesso? Insomma, quali 114 115 ibidem R.Rose, Risorse dei governi e sovraccarico di domande, op.cit. 60 criteri adottare per gestire la trasformazione degli assetti sociali, politici ed economici dovuta alla modernizzazione? L’obiettivo di Huntington è quello di fornire al sistema politico gli strumenti per gestire ed “istituzionalizzare” la modernizzazione ovvero, se ciò non fosse possibile, la crisi di sovraccarico che ne deriverebbe, impedendole di innescare dinamiche di “potenziale trasformazione” dell’ordinamento socio-politico. Questi interrogativi erano per Huntington tanto più pressanti durante gli anni ’70, quando i rapidi processi di modernizzazione, coincidenti con una drammatica congiuntura economica, stavano producendo un elevato livello di partecipazione che, soprattutto in Occidente, sembrava sul punto di sfuggire al controllo del sistema politico, suscitandone una crisi da sovraccarico, le cui potenzialità di trasformazione dell’intero assetto socio-economico coincidevano con la presenza di fonti di legittimazione alternative, legate alla presenza dei partiti comunisti, in grado di dirigere le dinamiche della modernizzazione verso una riorganizzazione dei rapporti di dominio all’interno dei singoli ordinamenti, e dell’U.R.S.S. il cui modello esercitava un forte richiamo per i paesi in via di sviluppo sul piano internazionale. 2.1.1 Mobilitazione sociale e partecipazione politica come fonti di sovraccarico istituzionale Le principali fonti di sovraccarico istituzionale sono per Huntington le seguenti: la mobilitazione sociale, la 61 partecipazione politica, le conseguenze dello sviluppo e la lotta contro le diseguaglianze economiche. Fonti che, connesse l’una all’altra, condurrebbero ad una crescita della “vitalità democratica”, rendendo “il governo meno potente e più attivo” con la conseguente crescita delle funzioni e riduzione della sua attività116. Il politologo di Harvard definisce mobilità sociale quel processo mediante il quale tutto un sistema di valori si disgrega, perdendo la propria egemonia all’interno dell’ordinamento sociale, mentre le persone, alle quali si rivolgeva, divengono disponibili a seguire nuovi modelli di comportamento e socializzazione117. “Il rapporto tra la mobilitazione e l’instabilità politica sembra essere abbastanza diretto”. Infatti “l’urbanizzazione, l’aumento dell’alfabetizzazione, l’educazione e le sollecitazioni dei mezzi di comunicazione di massa”, elementi cioè che favoriscono la mobilitazione sociale, danno “origine ad accresciute aspirazioni e apettative che, se non soddisfatte stimolano gli individui e i gruppi verso l’azione politica”118. Dunque la mobilitazione sociale dei gruppi e dei singoli è uno dei fattori principali del sovraccarico istituzionale e della conseguente instabilità politica119. Essa costituisce a sua volta la 116 S.P. Huntington, Gli Stati Uniti, in S.P. Huntington, M.Crozier, J.Watanuki, op.cit., p. 75 117 “Social mobilization is the process by which major clusters of old social, economic, and psychological commitments are eroded or broken and people become available for new patterns of socialization and behavior” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political Development, op.cit., p. 68) 118 S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 59 119 Huntington delinea due modelli di stratificazione: sistemi sociali verticali o gerarchici in cui la “mobilità politica e sociale è spesso bloccata da criteri di carattere ascrittivo” (“In vertical, or hierarchical, structures social class stratification is synonimous with ascriptive strata membership”) e sistemi orizzontali o paralleli nei quali “esistono strutture parallele, ognuna con i suoi criteri di stratificazione di classe” (“In horizontal, or parallel, systems parallel structures exist, each with its own criteria of social class 62 premessa alla crescita della partecipazione politica all’interno delle società moderne, percorso principale “per l’avanzamento degli individui socialmente mobilitati”120. Quindi, conclude Huntington, l’incremento della partecipazione, determinando instabilità politica, implica i seguenti rapporti: lo sviluppo economico genera condizioni di mobilità sociale da parte dei gruppi che a loro volta contribuisce ad accrescere la partecipazione politica che, ove non sia resa funzionale con le strutture dell’ordinamento, mediante appositi processi di istituzionalizzazione, porta a un sovraccarico istituzionale con la conseguente instabilità dell’intero sistema121. 2.1.2 Le conseguenze dello sviluppo economico sull’aumento dell’instabilità politica Un rapido sviluppo economico contribuisce per Huntington a incrementare il sovraccarico istituzionale: a) favorendo la mobilitazione e la partecipazione politica, tramite la disgregazione dei “raggruppamenti tradizionali”; b) accrescendo stratification”). Per Huntington, pur essendo caratterizzati, i sistemi gerarchici, da una maggiore coesione sociale rispetto a sistemi cosiddetti paralleli, possono purtuttavia subire le conseguenze peggiori dalle conseguenze di un rapido processo di modernizzazione socio-economica, in termini di delegittimazione dei suoi apparati di governo fino all’estrema via d’uscita di una rivoluzione sociale: “Hierarchical systems, therefore, may possess more ‘social cement’ and more normative justification than do parallel systems. When the cement cracks, however, the result is typically a social revolution. In parallel systems there is intermittent conflict but not necessarily of the kind that may lead to major social transformations” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political Development, op.cit., p. 67) 120 “La base politica della ‘svolta sasistenziale’ (negli Stati Uniti) fu l’espandersi della partecipazione politica e l’intensificarsi dell’impegno per modelli democratici e egualitari esistenti negli anni 1960. I livelli di partecipazione politica alle campagne elettorali si sono stabilizzati e sembrerebbe che le altre forme di partecipazione politica si siano molto attenuate” (S.P. Huntington, Gli Stati Uniti, in S.P. Huntington, M.Crozier, J.Watanuki, op.cit., p. 75) 63 il numero degli individui ‘déclassés’ che si troverebbero in tal modo in una situazione di propensione alla protesta rivoluzionaria”; c) determinando la creazione di “nuovi ricchi che solo parzialmente si adattano e vengono assimilati dall’ordine esistente e che richiedono comunque potere politico e status sociale commisurati alla loro nuova posizione economica”; d) suscitando un incremento della mobilità geografica che a sua volta minaccia “i legami sociali”, incoraggiando “rapidi flussi migratori dalle aree rurali verso le città”. Inoltre lo sviluppo economico aumenta il “numero di persone con livello di vita in diminuzione”, ampliando per tanto il divario tra ricchi e poveri, rendendo “necessaria una restrizione generale del consumo per promuovere gli investimenti”. I conflitti relativi alla distribuzione degli investimenti e dei consumi risultano inoltre accentuati dalla diffusione dell’istruzione e dei mezzi di comunicazione di massa, dato che quest’ultimi comporterebbero un aumento122 della “capacità di organizzazione dei gruppi sociali e conseguentemente della loro forza rivendicativa nei confronti del governo”123 2.1.3 Diseguaglianza economica e sovraccarico istituzionale Un’altra fonte di sovraccarico istituzionale è costituita dalla diseguaglianza economica. 121 cfr.S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 69 “In America Latina ci sono stati più frequenti colpi di stato negli anni in cui si registrava un peggioramento delle condizioni economiche, pittosto che in quelli caratterizzati da un incremento dei redditi reali prop-capite” (ibidem) 123 op.cit., p. 61 122 64 La modernizzazione, secondo quanto sostenuto da Huntington, influisce “sulla diseguaglianza economica e quindi sull’instabilità politica”124, sviluppando la mobilitazione politica e la partecipazione, fino ad accrescere “la coscienza della diseguaglianza…(mettendo) in discussione”, mediante “l’influsso delle nuove idee”, “la legittimità della vecchia distribuzione dei redditi…(suggerendo così) un rapido cambiamento nella distribuzione” degli stessi125. E il mezzo più semplice per giungervi è quello di spingere il governo in tale direzione. Ma siccome “coloro che controllano la ricchezza, in genere controllano anche il governo”, una mobilità sociale diretta lungo la traiettoria della lotta alla diseguaglianza economica, si tradurrebbe pertanto in una incontenibile “spinta alla ribellione”126. Dunque per Huntington la modernizzazione aumenta “la diseguaglianza economica nello stesso momento in cui la mobilitazione sociale ne diminuisce la legittimità”. Entrambi questi aspetti finirebbero poi col combinarsi, generando uno slancio e una vitalità democratica in grado di suscitare una forte instabilità politica. 2.2 “Istituzionalizzazione” e modernizzazione del sistema politico 124 op.cit., p. 69 ibidem 126 ibidem 125 65 Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come i processi di modernizzazione socio-economica producano delle conseguenze sull’intero ordinamento sociale che il sistema politico è chiamato a gestire per evitare che la crescita della mobilitazione, l’aumento della partecipazione politica, la lotta contro le disuguaglianze economiche e l’incremento della “vitalità democratica” che ne deriva possano essere fonte di sovraccarico127. L’istituzionalizzazione dei fenomeni connessi alla modernizzazione, vale a dire la loro funzionalizzazione alle strutture portanti dell’ordinamento sociale vigente, assume così, per lo studioso americano, una valenza paradigmatica. Egli infatti tenta di elaborare una serie di strumenti che possano far coincidere modernizzazione socio-economica e trasformazione del sistema politico128, cosicché lo “sviluppo dello stato” non resti “indietro rispetto all’evoluzione della società”129 127 L’attenzione di Huntington si rivolge essenzialmente agli ordinamenti sociali e politici dell’Occidente capitalistico o a quelli dei Paesi del cosiddetto Terzo Mondo che, dopo la fase di decolonizzazione, ne hanno imitato i rapporti di produzione. Infatti Samuel P. Huntington si rivolgerà ai paesi del “Blocco Comunista” in maniera approfondita nello studio sulla Terza Ondata e soltanto per analizzarne l’adozione di sistemi politici di tipo occidentale nel passaggio dal “comunismo alla democrazia”. 128 Foucault stesso nel suo celebre saggio Sorvegliare e Punire faceva notare come la società moderna fosse caratterizzata da un “potere discliplinare”. “In effetti, il potere disciplinare è un potere che, in luogo di sottrarre e prevalere, ha come funzione principale quella di “addestrare” o, piuttosto, di addestrare, per meglio, prelevare e sottrarre di più. Non incatena le forze per ridurle, esso cerca di legarle facendo in modo, nell’insieme, di moltiplicarle e utilizzarle. Invece di piegare uniformemente e in massa tutto ciò che gli è sottomesso, separa, analizza, differenzia, spinge i suoi processi di scomposizione fino alle singolarità necessarie e sufficienti. Esso “addestra” le moltitudini, confuse, inutili, di corpi e di forze in una molteplicità di elementi individuali – piccole celleule separate, autonomie organiche, identità e continuità generiche, segmenti combinatori. La disciplina fabbrica degli individui; essa è la tecnica specifica di un potere che si conferisce gli individui sia come oggetti sia come strumenti del proprio esercizio. Non è un potere trionfante, che partendo dal proprio eccesso può affidarsi alla propria sovrapotenza: è un potere modesto, sospettoso, che funziona sui binari di un’economia calcolata, ma permanente. Modalità umili, procedure modeste, se confrontate ai rituali maestosi della sovranità od ai grandi apparati dello Stato…Il successo del potere disciplinare deriva senza dubbio dall’uso di strumenti semplici: il controllo gerarchico, la sanzione normalizzatrice e la loro combinazione in una 66 Il ruolo che dunque, possono assumere le istituzioni politiche durante la modernizzazione socio-economica è appunto fondamentale, tanto da permettere al sistema politico di governarne le dinamiche e le problematiche che ne possono emergere anche là dove esse si facciano portatrici di tendenze politico-sociali devianti che la crescita della partecipazione politica e la presenza di organizzazioni capaci di recepirla, potrebbero incanalare lungo traiettorie in contrasto con quelle del sistema politico vigente. Per Huntington la “principale distinzione politica applicabile ai diversi paesi non è tanto quella relativa alla loro forma di governo, bensì quella relativa alla loro capacità di governare”130 i processi di modernizzazione socio-economica. Egli sottolinea inoltre come da “un punto di vista storico, le istituzioni politiche siano scaturite dall’interazione e dal disaccordo tra le forze sociali e dal graduale sviluppo di procedimenti e di strumenti organizzativi atti alla soluzione di questo disaccordo”131 Un sistema politico non deve, quindi, prescindere dal conflitto suscitato dai processi di modernizzazione, ma recepirli, procedura che gli è specifica: l’esame” (M.Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, pp. 186-187 129 S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 13 130 ibidem 131 Huntington proseguiva la sua analisi affermando che “attività finalizzate all’elaborazione di una costituzione sembrano essere iniziate nel mondo mediterraneo quando l’organizzazione del clan cominciò ad indebolirsi ed il conflitto tra i ricchi e i poveri divenne un fattore politico significativo”. Senza poi tralasciare che gli “ateniesi si rivolsero a Solone per avere una costituzione quando il loro sistema minacciò di disgregarsi, in quanto vi erano ‘tanti partiti quante erano le diverse posizioni presenti nel paese’ e ‘il divario tra il ricco e il povero aveva raggiunto la sua punta massima’. Erano necessarie istituzioni politiche maggiormente sviluppate per mantenere in vita la comunità politica ateniese, dal momento che la società ateniese era diventata più complessa”. Per concludere infine che è “proprio questo processo che non si è manifestato durante il ventesimo secolo in molti paesi in via di modernizzazione. A forze sociali forti corrispondevano istituzioni politiche deboli; i poteri legislativi ed 67 evitando che la crescita della partecipazione politica non lo trovi impreparato per quel che riguarda la risposta e la selezione delle domande rivolte ai suoi apparati di governo, facendo inoltre attenzione a dissociarne i protagonisti, soprattutto quelli che rivestono un ruolo fondamentale nell’ambito del sistema economico, dalla richiesta di riforme sovvetitrici. Pertanto “in una società complessa il livello comunitario dipende dalla forza delle procedure e delle organizzazioni politiche presenti nella società. Questa forza a sua volta è legata all’ampiezza del sostegno di cui godono le organizzazioni e le loro procedure e al loro livello di istituzionalizzazione”132. L’ampiezza del sostegno indica oltretutto la misura in cui le organizzazioni e le procedure politiche regolano l’attività sociale, in quanto “modelli di comportamento stabili, validi e ricorrenti”133. L’istituzionalizzazione è dunque per Huntington, “il processo tramite il quale organizzazioni e procedure acquistano validità e stabilità”, disponendo un “dominio istituzionalizzato” in grado di regolare “l’interazione tra i vari gruppi in una società in direzione del vantaggio sistematico del gruppo dominante”134. Il livello di istituzionalizzazione di qualsiasi sistema politico può pertanto essere definito “sulla base della flessibilità, complessità, autonomia e coerenza delle sue organizzazioni e delle sue esecutivi, le autorità pubbliche e i partiti politici rimanevano fragili e disorganizzati; lo sviluppo dello stato restava indietro all’evoluzione della società” (ibidem) 132 op.cit., pp. 24-25 133 ibidem 134 “A variant within this family of solutions is the instituzionalization of the dominance of the leading sociocultural or communal group or stratum. This institutionalized dominance regulates interaction among the various groups in a society to the systematic advantage of the dominant group” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political Development, op.cit., p. 88, corsivo mio) 68 procedure. Così pure il livello di istituzionalizzazione di qualsiasi organizzazione o procedura specifica”135. 2.2.1 I “criteri di istituzionalizzazione politica” Huntington sembra porsi la seguende domanda: come è possibile impedire che la modernizzazione socio-economica, accrescendo la partecipazione politica, nonché il numero e la consistenza delle organizzazioni in grado di sostenerla ed organizzarla, possano indurre un sovraccarico istituzionale? Come è possibile accompagnare la modernizzazione del sistema politico, scongiurando nel contempo il pericolo che lo sviluppo dello Stato resti indietro rispetto all’evoluzione della società? Huntington ammette che un sistema politico, per poter rispondere alla domande appena formulate, deve essere in grado di sostenere lo sviluppo di organizzazioni caratterizzate da criteri di adattabilità, complessità, autonomia e compattezza136. 135 ibidem, corsivo mio Accanto ai processi di istituzionalizzazione, Huntington elenca anche altre soluzioni, adottate in passato e adottabili in futuro, seppur sconsigliabili per gli effetti nient’affatto positivi in termini di coesione sociale, quali l’ingegneria sociale, l’assimilazione, il genocidio e la separazione: “At least five different types of responses to the problem of national integration can be identified: social engineering, assimilation, institutional, genocide, and partition. Social engineering is the effort to submerge the cleavages of national integration into the cleavages of something else, typically but not only those of social class. This requires either the elimination of national integration cleavages, often by ignoring them, or their containment through cross-pressures, crosscutting cleavages, 136 69 Per quel che concerne l’adattabilità, “più un’organizzazione o una procedura sono adattabili, più è elevato il loro livello di istituzionalizzazione; più rigide sono, più è basso”137. Inoltre l’adattabilità costituisce una caratteristica organizzativa acquisita che dipende sia dalle sollecitazioni esterne, sia dall’età dell’organizzazione stessa. Sono tre, per Huntington, i modi per calcolare l’età di un’organizzazione. Il primo è puramente cronologico: “quanto più a lungo un’organizzazione o una procedura restano in vita tanto più elevato è il loro livello di istituzionalizzazione”. Insomma “più un organizzazione è vecchia e più è probabile che continui ad esistere nel futuro”138. Il secondo si basa invece sull’età generazionale, cioè sul presupposto che finchè “un’organizzazione ha ancora il gruppo dirigente originario, finchè una procedura viene eseguita da coloro che per primi l’hanno messa in atto, la sua adattabilità è ancora dubbia”. Infatti tanto “più frequentemente un’organizzazione ha superato il problema di una successione pacifica ed ha sostituito un gruppo dirigente con un altro, tanto più elevato è il suo grado di istituzionalizzazione”139. or political culture…Social engineering has more often failed than not; when it seems to suceed, it is typically because it has been mixed with another type of conflict regulating solution. Social mobilization is likely to yield an increase in the probability of conflict in unintegrated societies. Hypotheses about cross-pressures, crosscutting divisions, and political culture do not help to explain long-term successful conflict regulation in societies deeply troubled by cleavages of national integration…The second type of solution is the effort to induce assimilation of the politically subordinate subcultural group into the politically dominant cultural group…The fourth and fifth types of solutions are also tragic outcomes. The fourth specifies that members of the dominant cultural group perceive the subcultural group as an international enemy, unfortunately and perhaps accidentally located within the same state boundaries. Genocidal war or forced emigration may then be tried. Rwanda, Burundi, Biafra, Northern Ireland, and Bangladesh are but recent names in this tragic and criminal story. The fifth solution is territorial partition into two independent states.” (op.cit., pp. 83-89) 137 S.P.Huntington, Ordinamento politico emutamento sociale, cit., p. 27 138 ibidem 139 ibidem 70 Il terzo è quello funzionale: questa è la situzione cui si perviene quando un’organizzazione, creata soprattutto per espletare una particolare funzione, “adattandosi ai mutamenti intervenuti nell’ambiente è sopravvissuta ad uno o più mutamenti nella sue funzioni principali”, e di conseguenza ha acquisito “un livello di istituzionalizzazione molto più elevato di un’organizzazione che non ha vissuto questo processo”140. Molto importante risulta inoltre l’elasticità funzionale di un’organizzazione, dato che da essa deriva la sua adattabilità funzionale alle trasformazioni indotte dalla modernizzazione. Dall’analisi del criterio della complessità Huntington ricava poi la conclusione che tanto “più un’organizzazione è complessa tanto più il suo livello è elevato”, così come tanto “maggiore è il numero e la varietà delle unità organizzative tanto maggiore è la capacità dell’organizzazione di rafforzare e di mantenere la fedeltà dei propri membri”141. Infatti un’organizzazione o un sistema politico dotato di un apparato multifunzionale sviluppa una forza istituzionale superiore, avendo una probabilità maggiore di adattarsi alle nuove esigenze142. Ciò induce a pensare che la complessità istituzionale di cui un sistema politico dispone, può garantire a quest’ultimo una maggiore capacità di risposta agli inputs della modernizzazione, 140 ibidem op.cit., p. 30 142 “La caduta dello shogun non implicò la perdita dell’ordine politico, ma la ‘restaurazione’ dell’imperatore. Il sistema politico più semplice, ma anche il meno stabile, è quello che dipende da un solo individuo: Aristotele sottolineava che di fatto i tiranni hanno avuto tutti ‘vita breve’. Per contro un sistema politico articolato in istituzioni diverse è molto più facilmente in grado di trovare successivi adattamenti” (op.cit., p. 31) 141 71 fornendo loro una disciplina che possa in tal modo facilitarne la collocazione all’interno del sistema stesso143. Il terzo criterio, quello dell’autonomia, verifica “quanto le organizzazioni e le procedure politiche sono indipendenti da altri raggruppamenti sociali e da altre modalità di comportamento”144. Infatti per Huntington “un’organizzazione politica strumento di un gruppo sociale – una famiglia, un clan, o una classe – manca di autonomia e di istituzionalizzazione”145. Inoltre, così come le organizzazioni politiche, anche le procedure esplicano livelli variabili di autonomia. Infatti “un sistema politico altamente sviluppato possiede delle procedure atte a minimizzare, se non a eliminare, il ruolo della violenza nella società, ed altre atte a limitare entro canali chiaramente definiti l’influenza che la ricchezza esercita nel sistema…Le organizzazioni e le procedure che mancano di autonomia vengono chiamate, nel linguaggio corrente, corrotte”146. Oltre a ciò il politologo americano sottolinea come la vulnerabilità del sistema politico nei confronti di agenti ad esso esterni potrebbe condizionarne lo sviluppo147. “Pertanto un colpo 143 Huntington sottolinea, rivolgendo la propria attenzione alle Francia della IV Repubblica che quando “negli anni cinquanta l’assemblea si dimostrò incapace di far fronte al declino dell’impero francese, non c’era nessuna altra istituzione, ad esempio un esecutivo indipendente, in grado di entrare in campo. Conseguentemente una forza extracostituzionale, quella militare, intervenne nella vita politica, il che condusse alla creazione di una nuova istituzione, la presidenza di De Gaulle, in grado di affrontare il problema” (op.cit., p. 31) 144 op.cit., p. 32 145 Se “lo stato, secondo la visione marxista tradizionale, fosse veramente il ‘comitato esecutivo della borghesia’, allora non potrebbe essere considerato una istituzione” (ibidem) 146 ibidem 147 “However, one key variable that may undermine institutionalization in these political systems is precisely the ‘growing importance of ethnically ‘foreign’ elements in the costitution of different elites’. The task of the rulers of bureaucratic empires in balancing the traditional and more modern feautures of these systems is, ceteris paribus, more difficult in ethnically or religiously heterogeneous systems than in ethnically or religiously homogeneous systems. The elite is not the sole source of difficulty for 72 di stato attuato in un sistema politico, può facilmente ‘far scattare’ altri colpi di stato di gruppi simili, in altri sistemi politici meno sviluppati” 148. Con l’ultimo criterio, quello cioè della compattezza, si mostra poi come “più un’organizzazione è unita e compatta e più il suo livello di istituzionalizzazione è elevato: maggiore invece è la sua frammentazione e minore il suo grado di istituzionalizzazione”. Se, infatti, “un certo livello di consenso è un prerequisito per qualsiasi gruppo sociale, un’organizzazione efficiente richiede un consenso sostanziale sui confini funzionali del gruppo e sulle procedure dirette a risolvere le controversie all’interno di questi confini. Il consenso – prosegue Huntington deve essere esteso a tutti coloro che sono attivi all’interno del sistema; chi non partecipa, o chi partecipa alla vita del sistema solo in modo sporadico e marginale, non deve necessariamente esprimere il consenso e infatti di solito non lo esprime allo stesso livello di chi partecipa attivamente”. Da tutto ciò si capisce come un rapido allargamento della partecipazione potrebbe conseguentemente indebolire la compattezza149 di un sistema politico. La compattezza, cioè “l’unità, lo spirito di corpo, il morale e la disciplina”, sono per Huntington “altrettanto necessari nei governi quanto lo sono nell’esercito…La capacità di coordinamento e di disciplina sono fattori essenziali sia in national integration in traditional political systems. Upheavals have also occurred from below” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political Development, op.cit., p. 74) 148 S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p.34 149 “Ad esempio il governo dell’impero Ottomano, conservò la sua vitalità e la sua compattezza istituzionale finchè i nuovi adepti furono ‘sottoposti ad un’educazione molto complessa, con selezione e specializzazione ad ogni livello’. L’istituzione venne 73 guerra che in politica: storicamente è dimostrato che le società che si sono dimostrate in grado di organizzare l’una, sono state in grado di organizzare anche l’altra”150. 2.2.2 Il Partito istituzionalizzazione” politico come “strumento di Nel contesto della società moderna il partito politico assume per Huntington un ruolo chiave nei processi di istituzionalizzazione, presentandosi come uno strumento di integrazione sia orizzontale, per quel che concerne i gruppi comunitari, sia verticale, per quanto riguarda invece le classi economiche e sociali. Il partito politico si presenta quindi come l’organizzazione capace di disciplinare la partecipazione politica e la sua eventuale crescita dovuta ai processi di modernizzazione151. Pertanto “minimizzare…la il politologo possibile americano instabilità al politica fine di derivante dall’estensione della coscienza e del coinvolgimento politico, è necessario creare istituzioni politiche moderne, cioè creare i meno quando ‘tutti vi si precipitarono per condividerne i privilegi…il numero di persone aumentò; la disciplina e l’influenza diminuirono” (op.cit., p. 35) 150 ibidem 151 “I mezzi istituzionali più importanti per l’organizzazione della partecipazione politica sono i partiti politici e in generale il sistema partitico. Una società che sviluppa partiti politici abbastanza ben organizzati fin da quando il livello della partecipazione politica è relativamente basso…ha migliori probabilità di affrontare l’allargamento della partecipazione politica in modo stabile, rispetto a una società dove i partiti si organizzano a processo di modernizzazione già avanzato.” (op.cit., p. 424) 74 partiti politici, fin dall’inizio del processo di modernizzazione”152. Il partito, “istituzione distintiva di una società moderna”153, ha così il compito di strutturare la partecipazione politica di massa, senza tuttavia presentarsi solo come una semplice organizzazione integrativa, ma assumendo anche un ruolo “di legittimità e di autorità”154 all’interno del sistema politico155. Sarebbe proprio la cultura e la tradizione marxistaleninista a fornire i modelli che Huntington propone per la creazione di un sistema partitico capace di istituzionalizzare la partecipazione politica, senza che da essa generi un sovraccarico istituzionale156. La novità del leninismo non consiste per lo studioso di Harvard nell’aver inventato la rivoluzione, ma nell’aver elaborato un’organizzazione, il partito bolscevico, di “rivoluzionari di professione”, dotati di una ferrea disciplina organizzativa, con il compito di “distogliere la classe operaia da una preoccupazione semplicemente materiale e creare una coscienza politica più 152 op.cit., p.425 op.cit., p. 100 154 Riemerge nell’analisi di Huntington la figura gramsciana del partito come intellettuale collettivo intento non solo a gestire e disciplinare la partecipazione politica di massa secondo una welthangschuung elaborata dai suoi intellettuali organici, ma ad esercitare anche un’egemonia culturale sull’intera società, conducendola verso la costruzione – per quel che riguarda invece Huntington, conservazione – di nuovi rapporti di interazione fra gli individui e le forze di produzione 155 S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, p. 161 156 “Diversi motivi hanno portato sia i comunisti che i non comunisti a sottolineare il carattere rivoluzionario del comunismo. Ma non sono stati i comunisti ad inventare l’idea della rivoluzione…La teoria comunista della rivoluzione è semplicemente una generalizzazione dell’esperienza della rivoluzione francese successivamente modificata dalle esperienze della rivoluzione russa e di quella cinese…Prima della rivoluzione bolscevica nessuna rivoluzione fu completa dal punto di vista politico in quanto nessun capo rivoluzionario aveva formulato una teoria che spiegasse come realizzare ed istituzionalizzare l’espansione della partecipazione politica che è l’essenza della rivoluzione. Lenin risolse questo problema è così facendo attuò una delle più importanti innovazioni politiche del XX secolo” (op.cit., p.353) 153 75 ampia” in grado di garantire l’espansione della partecipazione politica, “essenza della rivoluzione”, e nel medesimo tempo di indirizzarla a sostegno dell’organizzazione stessa157. Insomma il partito bolscevico, concentrando sul suo gruppo dirigente la direzione dei processi politici, economici e sociali in corso durante la Rivoluzione russa, sarebbe stato in grado di proporsi in veste di sistema politico, al fine di sostituirsi a quello dell’impero che non aveva retto all’urto dei processi di modernizzazione innescati dallo scoppio della Guerra mondiale. Dinanzi dunque, al crollo dell’impero zarista, i bolscevichi avrebbero trionfato perché sarebbero stati in grado di produrre non solo delle fonti di legittimazione alternative, ma anche un’organizzazione capace di incanalarle all’interno di un progetto di generale trasformazione dei rapporti di dominio. Siffatta organizzazione si sarebbe infine inserita nel vuoto d’autorità provocato dal crollo dell’apparato istituzionale russo, sviluppando un’insieme di istituzioni, le quali avrebbero sostituito quelle precedenti e permesso anche il riflusso della partecipazione politica. Dunque, per Huntington, mentre il “marxismo, come teoria dell’evoluzione sociale, venne dimostrato falso dai fatti; il leninismo come teoria dell’azione politica si dimostrò giusto”158 , suggerendo il modello e i criteri organizzativi ideali per 157 “Più precisamente, Lenin sosteneva che il proletariato non poteva raggiungere da solo la coscienza di classe, questa coscienza doveva essere portata dall’esterno dagli intellettuali. La coscienza rivoluzionaria è un prodotto di intuizione teorica e un movimento rivoluzionario è un prodotto dell’organizzazione politica. I socialdemocratici, diceva Lenin, devono tendere ‘a creare un’organizzazione di rivoluzionari, che guidi la lotta del proletariato’…L’organizzazione dei rivoluzionari inoltre può attingere a tutti gli strati sociali. Essa ‘deve essere innanzitutto composta da quelle persone la cui professione è quella di rivoluzionari…essendo questa la caratteristica comune dei membri di una simile organizzazione, devono cadere tutte le distinzioni tra lavoratori e intellettuali e certamente le distinzioni di mestiere e di professione’’’ (op.cit., p.355) 76 disciplinare la partecipazione politica in una società di massa in corso di modernizzazione159. Il modello bolscevico suggerirebbe allora ad Huntington un’organizzazione partitica costituita da un gruppo dirigente fortemente selezionato e capace di espandersi gradualmente, guadagnandosi infine il sostegno e la partecipazione di altri membri160. In conclusione il partito apparirebbe ad Huntington come una sorta di intellettuale collettivo che, dotato di un progetto politico elaborato e sostenuto dai suoi organici, infonde nelle masse la coscienza politica, al fine di legittimare nuovi rapporti di dominio oppure di conservare quelli già esistenti. Comunque sia, esso si presenta come l’istituzione principale di una società industriale, perché in grado di integrare nel sistema politico, disciplinandone la partecipazione, interessi e gruppi. Nella società industriale il partito è dunque “un’istituzione di gran lunga più flessibile e di più ampia portata rispetto alla modernizzazione”161, e in quanto tale, la sola che, per Huntington, presenta quei criteri di adattabilità, complessità, autonomia e compattezza essenziali per permettere al sistema politico di guidare la modernizzazione socio-economica e procedere lungo la strada di quella politica; istituzione partitica 158 op.cit., p.357 “Trotsky sbagliava quando diceva ‘sono le classi che decidono e non i partiti’. Lenin e Mao avevano ragione quando sottolineavano la supremazia di una organizzazione politica indipendente dalle forze sociali in grado di manovrarle per raggiungere i propri fini. Invero il partito deve fare appello a tutti i gruppi della popolazione… ‘il nostro metodo di lotta è l’organizzazione’ diceva ancora (Lenin) ‘dobbiamo organizzare tutto’’’ (ibidem) 160 “Il marxismo è una teoria della storia. Il leninismo è una teoria dello sviluppo politico che tratta della base, della mobilitazione politica, dei metodi dell’istituzionalizzazione politica, delle fondamenta dell’ordine pubblico. La teoria della supremazia del partito è, come abbiamo precedentemente accennato, la controparte del ventesimo secolo della monarchia assoluta del diciassettesimo secolo. I modernizzatori del XVII secolo canonizzarono il re, quelli del XX secolo il partito” (op.cit., p. 358) 159 77 che, comunque, durante gli anni ’70, stava subendo per il politologo di Harvard una profonda crisi strutturale, accentuando il sovraccarico dei sistemi politici occidentali e spingendo contemporaneamente le élites dirigenti ad elaborare strumenti di istituzionalizzazione alternativi alla forma partito, ma non di meno dotate della stessa efficacia. 3. La crisi da sovraccarico del sistema politico e le sue possibili conseguenze 3.1 La coincidenza fra interesse istituzionale e interesse pubblico Huntington considera la politica come un mondo di inesorabile concorrenza tra le forze sociali, traendone la conclusione che in “assenza di istituzioni politiche forti, alla società” mancherebbero “gli strumenti per definire e realizzare i suoi interessi comuni”. “La capacità di creare istituzioni politiche” equivale quindi “alla capacità di fare gli interessi pubblici”162. Le istituzioni si presentano dunque come una necessità intrinseca a ogni sistema politico che ha bisogno di organizzazioni autonome, complesse, adattabili, compatte, 161 162 ibidem S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p.36 78 funzionalizzando le dinamiche dei processi di modernizzazione, rendendole in tal modo compatibili con i rapporti di dominio vigenti. Come abbiamo avuto modo di vedere nel capitolo precedente, il partito è, per Huntington, l’organizzazione che più di ogni altra può garantire con le sue procedure la modernizzazione del sistema politico, facendo in modo che, attraverso “la salvaguardia dell’interesse istituzionale, si possa garantire anche l’interesse pubblico”163 L’interesse pubblico164 è così “tutto ciò che rafforza le istituzioni pubbliche…è l’interesse delle istituzioni pubbliche; è qualcosa che viene creato e mantenuto in vita dall’istituzionalizzazione delle organizzazioni di governo…in un sistema politico complesso”165 Huntington sottolinea come gli “interessi istituzionali differiscono da quelli individuali di coloro che operano all’interno delle istituzioni”, essendo quelli individuali “forzatamente degli interessi di breve periodo”. Dunque la necessità di elaborare delle istituzioni che possano “durare nel tempo”, comporta anche “una limitazione degli obiettivi immediati”166 Da dove traggono la loro legittimità le istituzioni? Le istituzioni sono legittime “non in quanto rappresentano gli interessi del popolo o di un certo gruppo, ma in quanto esse 163 ibidem “Tradizionalmente il problema dell’interesse pubblico è stato affrontato in tre modi. È stato identificato con valori ideali, norme astratte e concrete, come le leggi naturali, la giustizia e il buon senso; oppure con l’interesse specifico (‘L’état, c’est moi’), di un determinato gruppo, di una determinata classe (marxismo), o maggioranza; o con il risultato di un processo di concorrenza tra gli individui (liberalismo classico) o tra gruppi (bentleismo). In ognuna di queste diverse impostazioni il problema è di arrivare ad una definizione che sia concreta” (ibidem) 165 op.cit., p. 37 164 79 hanno propri interessi, distinte da quelli di tutti gli altri gruppi”. Di conseguenza il potere di un governo non deriverebbe “dal fatto che rappresenti gli interessi di una classe, di un gruppo, di una regione o del popolo ma piuttosto dal fatto che non rappresenta nessuno di questi interessi167…la sua autorità ha le radici nella sua unicità”168. In tal senso riveste un ruolo centrale il rapporto d’interazione esistente tra la cultura della società e le sue istituzioni politiche. E’ pertanto necessario, per Huntington, che esista una fiducia reciproca tra la società e le istituzioni politiche: per “contro l’assenza di fiducia nella cultura della società produce enormi ostacoli alla creazione di istituzioni pubbliche. In quelle società in cui manca un governo stabile ed efficiente manca anche la mutua fiducia tra i cittadini, la fedeltà nazionale e pubblica, l’abilità e capacità organizzativa169…In queste società il prevalere della sfiducia limita l’estrinsecarsi della lealtà individuale ai soli gruppi intimamente collegati fra loro”170. 166 ibidem “L’esistenza di istituzioni politiche (come la presidenza o il comitato centrale) capaci di incarnare l’interesse pubblico rappresenta l’elemento distintivo tra le società politicamente sviluppate e quelle non sviluppate, e anche tra le comunità morali e le società amorali. Un governo con un basso livello di istituzionalizzazione non è solo un governo debole ma anche un cattivo governo. Se la funzione del governo è quella di governare un governo debole, un governo che manca di autorità e non è in grado di ottemperare alle proprie funzioni è tanto immorale quanto un giudice corrotto, un soldato codardo o un insegnate ignorante. Nelle società complesse la base morale delle istituzioni politiche si fonda sui bisogni degli uomini” (op.cit., p. 40) 168 ibidem 169 “La gente può essere leale nei confronti del suo clan, forse della sua tribù ma non nei confronti delle istituzioni politiche più ampie. In società politicamente sviluppate, la lealtà nei confronti di questi raggruppamenti sociali più immediati è subordinata e compresa nella fedeltà nei confronti dello stato…Tuttavia, in una società in cui sia carente l’aspetto di comunità sociale, la lealtà nei confronti dei raggruppamenti sociali ed economici più primordiali – la famiglia, il clan, la tribù, la religione o la classe sociale – è in concorrenza e spesso sostituisce la fedeltà nei confronti di autorità politiche più ampie” (op.cit., p. 42) 170 ibidem 167 80 Sfiducia reciproca e limitati rapporti di fedeltà sono anche indici di un basso livello di organizzazione171. Le conseguenze dell’assenza di uno stretto rapporto di fiducia tra istituzioni e società e il basso livello di sviluppo organizzativo che ne deriva sono in ogni modo caratteristici di “quelle società in cui la sfera politica è confusa e caotica” 172 e un “vuoto organizzativo e motivazionale” può costituire il terreno adatto per l’emergere di nuove fonti di legittimazione politica alternative a quelle vigenti173, tali da produrre una crisi di trasformazione potenziale dell’insieme dei rapporti di dominio di un ordinamento politico-sociale. Con quali possibili conseguenze? Huntington ne suggerisce tre: rivoluzione, reazione e riforma del sistema politico, reazione da parte dell’istanza dominativa sovrana e corruzione politica. 3.2 Lo Stato keynesiano come paradigma della riflessione politica di Samuel P. Huntington 171 “In termini di comportamento osservabile, la discriminante fondamentale tra una società politicamente sviluppata ed una sottosviluppata risiede nel numero, nella dimensione e nella efficienza delle sue organizzazioni. Se i mutamenti sociali ed economici minano o distruggono le basi associative tradizionali, il raggiungimento di un alto livello di sviluppo politico dipende dalla capacità di sviluppare nuove forme di associazione. Nei paesi moderni, facendo nostre le parole di de Tocqueville, ‘la scienza dell’associazione è la madre delle scienze; il progresso di tutto il resto dipende dal progresso acquisito in questo campo’” (op.cit., 43) 172 In America Latina, un grande problema sottolineato da George Lodge, è “un’organizzazione sociale relativamente bassa rispetto a quella esistente negli Stati Uniti”. Il risultato di questa situazione è un “vuoto organizzativo e motivazionale” che rende difficile la democrazia e lento lo sviluppo economico…Lucian Pye… “La prova definitiva dello sviluppo è la capacità di un popolo di creare e di mantenere forme organizzative vaste e complesse e nel contempo flessibili”. La capacità di creare simili istituzioni, tuttavia, è difficilmente rintracciabile nel mondo odierno” (ibidem) 81 Prima ancora di dedicarci all’analisi delle possibili conseguenze derivanti da una crisi da sovraccarico istituzionale, è opportuno fare qualche accenno al tipo di istituzioni politiche alle quali il teorico americano fa riferimento nel momento in cui sviluppa la propria riflessione politica. Il punto di riferimento politico-istituzionale della teorizzazione del politologo di Harvard é il “sistema industriale”, ossia lo Stato cosiddetto keynesiano che nel corso degli anni ’70 stava vivendo una progressiva trasformazione che faceva presagire il passaggio verso un nuovo sistema di relazioni politiche e sociali che si tendeva a definire con il termine di postindustriale; trasformazione che i sistemi politici erano chiamati a gestire, cercando di garantirne la transizione, nell’ambito di un contesto sociale caratterizzato da un alto livello di conflittualità e partecipazione politica, accentuate dalle conseguenze economicosociali derivanti dalla crisi petrolifera del 1973. Lo Stato keynesiano174 appariva come un apparato istituzionale caratterizzato da una vasta responsabilità nei confronti della società e dell’economia, non solo mediante un insieme di programmi di protezione sociale, ma anche di una particolare relazione tra sub-sistemi sociale, economico e politico175. Lo Stato diveniva in tal modo promotore di un “progetto unificato di orientamento, controllo e gestione della stessa 173 “Ed è soprattutto questa capacità di far fronte a necessità morali e di dar vita ad un ordine pubblico legittimo che i comunisti offrono ai paesi in via di modernizzazione” (ibidem) 174 AA.VV., Trasformazioni e crisi del Welfare State, De Donato-Regione Piemonte, Torino, 1983, p. 388 175 S.Fabbrini, Politica e mutamenti sociali. Alternative a confronto sullo stato sociale, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 15-24 82 accumulazione capitalistica”176, mantenendo ben fermi i rapporti economici dominati; rendendone comunque universali i benefici per mezzo di una più equa redistribuzione177 della produzione178. Si passava così da una fase di “intervento pubblico” a una di “politica pubblica” in cui, secondo Fabbrini, non si trattava “più di risolvere situazioni particolari o di intervenire, appunto, post-factum, sulla base delle difficoltà che il sistema economico e sociale” poteva evidenziare, quanto piuttosto di “condurre ad un quadro stabile di comportamenti e ad una direzione unitaria di intervento sia la crescente estensione dei compiti statali che la complessità delle condizioni che il sistema economico e sociale”179 mostrava. Nel contesto dell’economia keynesiana180 nascevano e si affermavano nuovi attori collettivi dotati di notevoli risorse organizzative181. 176 op.cit., p. 57 “Vorrei vedere che lo Stato – che è in condizioni di calcolare l’efficienza marginale di beni capitali in base a considerazioni di lunga portata e in vista del vantaggio sociale generale – si assumesse una sempre maggiore responsabilità” (J.M.Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, UTET, 1978, p. 324) 178 Con Keynes si realizzerebbe per Minsky una sorta di socializzazione del processo di accumulazione degli investimenti, separando nettamente “l’utilizzazione delle risorse esistenti dalla creazione di nuove risorse” (MINSKY, cit. in AA.VV. Trasformazioni e crisi del Welfare State, cit., p. 71) 179 S.Fabbrini, Politica e mutamenti sociali, op.cit., p. 62 180 La teoria keynesiana si articola per Fabbrini su tre diversi livelli: sul piano della politica monetaria, l’obiettivo è quello di influire, attraverso l’offerta della moneta, sull’andamento del saggio d’interesse; sul piano della politica fiscale, incidere direttamente sul reddito individuale disponibile; in politica della spesa pubblica, controbilanciare la spesa privata per consumi ed investimenti, dimostratasi insufficiente rispetto alle esigenze richieste da un equilibrio di piena occupazione. Lo Stato, con il sistema keynesiano, assume una funzione d’ordine e di organizzazione del sistema economico e sociale “poiché la sua logica di comportamento non è informata dalla ricerca del profitto, bensì dall’esigenza di preservare l’interesse generale del sistema” (op.cit. p.68) 181 Alber distingue, partendo dall’analisi dei dodici paesi che facevano parte allora della cosiddetta “Europa occidentale”, tre diversi modelli di mobilitazione dei partiti operai: un gruppo di paesi con una percentuale di voti cresciuta per la sinistra rispetto all’anteguerra e sempre più alta, un gruppo in cui i partiti operai ristagnavano (Belgio, Finlandia, Olanda, Svizzera), un terzo gruppo (Italia, Germania, Austria) dove l’avvento del Fascismo aveva messo i partiti della sinistra fuori gioco. Fra il 1915 e il 1940 questi tre gruppi si mossero molto diversamente per quanto riguardava la sicurezza sociale. Il 177 83 Il paradigma keynesiano si presentava dunque come il “luogo naturale della legalità…e della legittimità”182, chiamato a determinare, attraverso le sue istituzioni, l’evoluzione economica e politica dell’intera società, e a fissare i confini dell’azione collettiva. Pur originando dalla Grande Crisi del 1929, lo Stato keynesiano faceva tesoro dell’esperienza maturata durante la guerra tanto da un punto di vista solidaristico quanto organizzativo: la guerra aveva accresciuto infatti le capacità degli apparati statali nella mobilitazione e gestione dell’intera popolazione. La militarizzazione della società sarebbe continuata sotto altre forme dopo la fine della guerra, beneficiando di una forte legittimazione da parte dei lavoratori, dato che lo Stato appariva anche come il prodotto della lotta di liberazione contro il nazismo e il fascismo. Così facendo, lo Stato keynesiano assumeva le vesti, secondo Myrdal183, di uno “Stato primo gruppo ampliò i propri sistemi in misura maggiore rispetto al secondo gruppo (34,5% contro 25,5%). L’espansione dei partiti operai e risultava inoltre proporzionale all’espansione dei sistemi di sicurezza sociale già a partire dal primo dopoguerra e fino allo scoppio della seconda Guerra Mondiale: fino “alla fine della seconda guerra mondiale, la crescita dei programmi successivamente ad un successo elettorale delle sinistre in Europa occidentale era pari al doppio di quanto registrato in periodi in cui tale successo era mancato” (J.Alber, Dalla carità allo stato sociale, Il Mulino, Bologna 1987, p. 193-195). Una crescita comparativamente più bassa dei sistemi di sicurezza sociale si registra invece nei regimi fascisti del terzo gruppo. (cfr.op.cit., p.189-190). Mentre la crescita della sicurezza sociale nel primo dopoguerra e tra le due guerre sembrava per Alber influenzata dalla pressione politica esercitata dai partiti operai, “la crescita dei programmi nel (secondo) dopoguerra è stata largamente indipendente dalla forza dei partiti operai…La crescente spoliticizzazione dello sviluppo delle assicurazioni sociali può essere eventualmente spiegata con la trasformazione politico-strutturale dei partiti di classe in partiti pigliatutto in un contesto sociale mutato. La trasformazione della struttura sociale della popolazione attiva ha aumentato il peso politico dei lavoratori dipendenti non in grado di provvedere da sé alla propria sicurezza, cosicché anche i partiti liberali e conservatori sono stati obbligati a perseguire in misura crescente obiettivi sociali per non soccombere nella competizione elettorale. E, d’altro canto, il crescente peso dei ceti medi dipendenti impiegatizi spinge gli stessi partiti operai tradizionali verso scelte programmatiche più simili a quelle dei partiti borghesi” (op.cit., p. 191) 182 op.cit., p.74 183 cit. in in F.Caffè, La fine del Welfare State come riedizione del “crollismo”(AA.VV., Trasformazioni e crisi del Welfare State, op.cit., p. 123) 84 organizzatore” in grado di determinare il “gioco della domanda, dell’offerta e dei prezzi”. In tal modo le regole del gioco sarebbero state stabilite dallo Stato avvalendosi non soltanto della sua legislazione e amministrazione, bensì anche di organizzazioni e grandi imprese, semi-pubbliche e private, che avrebbero operato entro la sua struttura e sotto il suo controllo184 Lo sviluppo dello Stato keynesiano era accompagnato per De Swaan da una vera e propria “hyperbole de l’expansion”185, vale a dire una forte crescita della produzione durata per oltre un ventennio. De Swaan individua due momenti o épisodes critiques186 di questa espansione: un primo, che dalla fine degli anni ’40 giunge sino all’inizio degli anni 50, e un secondo che dalla metà dei ’60 arriva fino a quella dei ’70. Questa économie de croissance, come l’ha definita Castel187, oltre alla formazione di una ramificata e solida propriété sociale188, aveva comportato anche una “trasformazione radicale dei comportamenti delle popolazioni nei paesi corrispondenti” che, certe dell’intervento dello Stato in caso di perdita del reddito, nutrivano una maggiore fiducia nel futuro, accompagnata da una crescente presa di coscienza delle interdipendenze189 caratterizzanti la società190. Se da una parte, tutto ciò suscitava, secondo de Swaan, la necessità di dover disporre di una classe d’esperti e di 184 cit. in F.Caffè, cit. in AA.VV., Trasformazioni e crisi del Welfare State, cit., p. 123 A.Swaan (de), Sous l’aile protectrice de l’Etat, PUF, Paris 1995, pp.296 186 op.cit., p.211 187 R.Castel, Les metamorphoses de la question sociale, Fayard, Paris1995 188 Castel definisce la propriété sociale come “un patrimoine dont l’origine et les règles de fonctionnement sont sociales, mais qui fait fonction de patrimoine privé” (op.cit., p. 310) 189 A.Swaan (de), Sous l’aile protectrice dell’Etat, op.cit., p. 301 185 85 amministratori di professione in grado di gestire quest’espansione, dall’altra, secondo il giudizio di Morra, l’hyperbole dello Stato aveva come conseguenza, da un lato, “l’accentuazione della dicotomia e della reciproca mescolanza e invasione tra pubblico e privato e dall’altro”, la narcisizzazione della società civile191, la crescita dei desideri192 e infine la deresponsabilizzazione dei cittadini193. La maggior parte degli osservatori, secondo Offe, “concorda sul fatto che gli effetti delle logiche politicoeconomiche del sistema keynesiano abbiano apportato…un esteso sviluppo economico senza precedenti che ha finito coll’interessare le economie di tutti i paesi a capitalismo avanzato; e…la trasformazione del modello del conflitto industriale e di classe secondo modalità che indebolivano sempre di più le posizioni politiche radicali o rivoluzionarie”, conducendo a “un conflitto di classe prettamente economicistico, oltre che centrato sui problemi della distribuzione e istituzionalizzato”194. Bowles sottolinea poi come alla base di questo sviluppo vi sarebbe stato un “accordo di classe politico, che “rappresentò, 190 Inoltre, secondo de Swaan, le “conséquences de l’expansion de l’Etat-providence contribuèrent elles-memes à son développement” (op.cit.,p. 301) 191 I “gruppi e le istituzioni del sociale, si rinchiudono in se stessi e si realizzano come il luogo dell’intimità e dell’espressività, di contro alla sfera personale e strumentale del pubblico (G.Morra, Stato sociale e società civile, in I.Colozzi (a cura di), La riforma dello Stato sociale. Un confronto europeo, Franco Angeli, 1987, p.36) 192 “Posta ormai alle spalle la soddisfazione dei bisogni, l’uomo assistito si volge alla soddisfazione dei desideri…Non è un caso che lo stato sociale assista ad una diffusione di comportamenti ignoti, nella stessa misura, alle società tradizionali e tutti volti a soddisfare non bisogni, ma desideri: viaggi, licenza sessuale, pornografia, hobby, fumo, tossicodipendenze, audiovisivi, motori, sport, ecc.” (op.cit., p.37) 193 “Nella misura in cui il welfare tutto assicura e tutti sostituisce, esso produce inevitabilmente deresponsabilizzazione. La responsabilità (dal latino respondeo) è la risposta ad una autorità, che ha il diritto di chiedermi ragione di ciò che ho fatto…la responsabilità, che è la molla fondamentale della produttività e della crescita, si affloscia nella tranquilla e rassegnata certezza che tutto mi è dovuto e che nulla mi è dato in conseguenza del mio impegno e della mia iniziativa” (op.cit., p.37) 86 da parte della classe lavoratrice, l’accettazione della logica del profitto e del mercato come principi guida della allocazione delle risorse, delle relazioni economiche internazionali, del progresso tecnologico, localizzazione dello sviluppo delle della industrie”, produzione ottenendo in e della cambio “l’assicurazione che gli standard minimi di vita, i diritti sindacali e i diritti democratici sarebbero stati garantiti, la disoccupazione di massa evitata e…i redditi reali…cresciuti compatibilmente con l’aumento della produttività…il tutto, se necessario, attraverso l’intervento dello Stato”195. Tale accordo contribuiva, secondo Offe, a rendere compatibili tra loro capitalismo e democrazia. Infatti, accettando i termini dell’accordo, le organizzazioni della classe lavoratrice avrebbero inserito le loro domande e i loro progetti entro programmi che differivano profondamente da quelli sia della Terza che della Seconda Internazionale. Vi sarebbe stato così “un consenso di fondo sulle priorità, i valori e i vantaggi fondamentali dell’economia politica, soprattutto dello sviluppo economico e della sicurezza sociale (ma anche militare)”196. Per Marramao sul “piano della teoria politica e costituzionale, le tecniche regolative in cui si realizzano i rapporti tra Costituzione e sistema rappresentativo” all’interno dello Stato 194 C.Offe, cit. in AA.VV., Trasformazioni e crisi del Welfare State, cit., pp. 388-397 Ibidem 196 “Questa forma di alleanza interclassista ha, in effetti, una base pratica nella teoria economica di Keynes. Applicata alla pratica essa insegna a ciascuna classe a ‘immedesimarsi nell’altra’…Quindi, ciascuna classe deve tener conto degli interessi dell’altra: i lavoratori devono tener conto delle esigenze del profitto, perché solo un livello sufficiente di profitti e di investimenti assicurerà in futuro il livello occupazionale e l’aumento dei redditi; i capitalisti devono tener conto delle esigenze dei salari e della necessità di spesa dello Stato assistenziale, perché queste assicureranno la domanda effettiva per l’economia e determineranno l’esistenza di una classe operaia sana, bene addestrata e bene alloggiata” (ibidem) 195 87 keynesiano, hanno “condotto a un sensibile ridimensionamento dei due concetti-cardine dello jus publicum europaeum: quello di ‘sovranità’ e quello di ‘popolo’”. Il potere nel sistema keynesiano appariva pertanto come un complesso sistema di checks and balances che si sottraeva a qualsiasi definizione sintetica. In tale contesto la sovranità dello Stato sembrava limitata per Marramao non solo da procedure che garantivano “la supremazia della Costituzione (sia rispetto alle norme ordinarie, sia rispetto al governo) ma anche dalla costellazione dei ‘poteri di fatto’, dal diagramma degli interessi che si costituiscono all’interno come all’esterno del pluralismo politico-istituzionale”197 e che avrebbero comportato, così come sostenuto da Kelsen198, una vera e propria desonstanzializzazione e convenzionalizzazione del concetto stesso di democrazia. 3.3 La rivoluzione come possibile conseguenza della crisi da sovraccarico istituzionale La rivoluzione si configura per Huntington come una delle possibili conseguenze della crisi da sovraccarico del sistema politico. La rivoluzione consiste per il politologo statunitense in “un rapido, radicale e violento cambiamento interno dei valori e dei miti di una società, delle sue istituzioni politiche, della struttura sociale, della leadership, delle attività e delle politiche di governo”199. Le rivoluzioni200 sono poi “altra cosa dalle 197 AA.VV., Trasformazioni e crisi del Welfare State, cit., p. 344 cfr. H.Kelsen, Vom Wesen und wert der Demokratie, Tubingen, 1929 199 S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 286 198 88 insurrzioni , dalle ribellioni, dalle rivolte, dai colpi di stato e dalle guerre di indipendenza”201. Infatti un colpo di stato, così come le ribellioni e le insurrezioni, cambia “solo la dirigenza e forse le decisioni politiche”, ma “non la struttura ed i valori sociali”202. La rivoluzione203 si presenta inoltre come “l’espressione estrema della modernizzazione”204, nel momento in cui sviluppa “la convinzione che sia nei poteri dell’uomo di controllare e cambiare il suo ambiente e che l’uomo non solo ha la capacità ma anche il diritto di farlo”205 Potremmo quindi dire che le dinamiche politico-sociali, innestate dalla modernizzazione, contengano in sé, qualora il sistema politico non riuscisse a istituzionalizzarle, i rischi di una rivoluzionaria trasformazione dei rapporti di dominio caratterizzanti l’ordinamento politico. Ma in che modo la modernizzazione può determinare lo sviluppo di processi politici rivoluzionari?206. L’essenza politica della rivoluzione consiste per Huntington in un “rapido sviluppo della coscienza e della mobilitazione politica dei nuovi 200 “Chiameremo semplicemente ‘rivoluzione’ quello che altri hanno definito come grandi rivoluzioni, rivoluzioni totali o rivoluzioni sociali. Esempi insigni sono le rivoluzioni francese, cinese, messicana, russa e cubana” (ibidem) 201 ibidem 202 ibidem 203 “Le rivoluzioni totali, sono come dice Friedrick ‘una caratteristica della cultura occidentale’. Le grandi civiltà del passato - egiziana, babilonese, persiana, inca, greca, romana, cinese, indiana, araba – sono passate attraverso esperienze di rivolte, di insurrezioni e di mutamenti dinastici ma questi fenomeni non rappresentano nulla che possa rassomigliare alle ‘grandi rivoluzioni dell’occidente’” (ibidem) 204 “La rivoluzione è quindi un aspetto del processo di modernizzazione; non è qualcosa che può avvenire in una società qualsiasi, in un qualsiasi periodo della sua storia; non è una categoria universale ma piuttosto un fenomeno limitato storicamente. Non avrà luogo in società fortemente tradizionali, con livelli molto bassi di articolazione sociale ed economica e neppure in società molto moderne. Come le altre forme di violenza e di instabilità, è più probabile che intervenga in società che hanno sperimentato un certo sviluppo economico e sociale e in cui i processi di modernizzazione politica e di sviluppo politico sono rimasti indietro rispetto ai processi di mutamento sociale ed economico” (op.cit., p. 287) 205 op.cit, p. 286 206 op.cit, p. 287 89 gruppi”207. Ma per potersi verificare il rovesciamento generale delle strutture politiche di un ordinamento politico, ciò non basta: è necessaria un’estensione della mobilitazione politica da parte di nuovi gruppi coincidente con un altrettanto repentino sviluppo della coscienza politica di tutti i gruppi. Questi nuovi gruppi devono inoltre dimostrarsi capaci di proporre a loro volta “istituzioni politiche sufficientemente flessibili, complesse, autonome e compatte, in grado di assorbire e regolamentare la partecipazione…e di promuovere un mutamento economico e sociale all’interno della società”208, rendendo “impossibile la loro assimilazione da parte delle istituzioni politiche esistenti”209. 3.3.1 Rivoluzione e sistema politico occidentale La rivoluzione rappresenta perciò “l’estrema esplosione della partecipazione politica”. Tuttavia una rivoluzione necessita anche di quella che Huntington chiama la “seconda fase”, vale a dire “la creazione e l’istituzionalizzazione di un nuovo ordinamento politico”. Infatti una “rivoluzione riuscita associa ad una rapida mobilitazione politica una rapida istituzionalizzazione”. Ciò significa che “non tutte le rivoluzioni generano un nuovo ordinamento politico. La misura di quanto una rivoluzione è rivoluzionaria sta nella rapidità e nell’ampiezza dell’espansione della partecipazione politica”, così come la 207 ibidem ibidem 209 ibidem 208 90 misura di quanto “sia riuscita sta invece nell’autorità e nella stabilità delle istituzioni che genera”210. Una rivoluzione comporta quindi “la rapida e violenta distruzione delle istituzioni politiche esistenti, la mobilitazione politica di nuovi gruppi e la creazione di nuove istituzioni politiche”. Dall’interazione fra questi tre elementi – rapida e violenta distruzione delle istituzioni politiche esistenti, mobilitazione politica di nuovi gruppi e creazione di nuove istituzioni – Huntington ricava un modello di rivoluzione cosiddetto valido per i sistemi politici occidentali. In Occidente “per rovesciare il vecchio regime è sufficiente una azione limitata da parte di gruppi ribelli. La rivoluzione…non inizia con l’attacco di una potente nuova forza nei confronti dello stato, ma semplicemente dall’improvvisa presa di coscienza di quasi tutti i membri passivi ed attivi della comunità che lo stato non esiste più” Al crollo dell’apparato statale segue così un vuoto d’autorità di cui profitterebbero i “rivoluzionari” che, entrando “in scena non come eroi a cavallo…ma come impauriti bambini che esplorano una casa vuota ancora non sicuri che sia veramente vuota.”211 Sarebbe infine la loro capacità di sviluppare, prima ancora di entrare nella casa abbandonata, un proprio sistema di legittimazione, alternativo ed egemone212 rispetto a quello dominante, che determina poi la piena riuscita della rivoluzione. 210 op.cit., p. 288 ibidem 212 Gramsci sottolineava come il “fatto dell’egemonia presuppone indubbiamente che sia tenuto conto degli interessi e delle tendenze dei gruppi sui quali l’egemonia verrà esercitata, che si formi un certo equilibrio di compromesso, che cioè il gruppo dirigente faccia dei sacrifici di ordine economico-corporativo, ma è anche indubbio che tali sacrifici e tale compromesso non possono riguardare l’essenziale, poiché se l’egemonia è 211 91 Infatti i rivoluzionari, una volta preso il potere, si troverebbero comunque di fronte delle forze contro- rivoluzionarie interessate, “spesso con l’appoggio straniero”, a “bloccare l’espansione della partecipazione politica”213 e a “ristabilire un ordine politico basato su un potere ristretto e concentrato”214. L’intervento delle forze contro-rivoluzionarie darebbe luogo in tal modo a un “periodo di anarchia e di assenza dello stato successivo alla caduta del vecchio regime, in cui i moderati, i controrivoluzionari e i radicali lottano tra di loro per il potere”215. Quindi la presa della casa da parte dei rivoluzionari, non costituisce affatto, per Huntington, la vittoria della rivoluzione, ma l’inizio di un “prolungato periodo di dualismo di potere, in cui i rivoluzionari espandono la partecipazione politica, la portata e l’autorità dello loro istituzioni di governo mentre il governo, legittimo in altre aree geografiche, continua ad esercitare il proprio dominio”216. etico-politica, non può non essere anche economica, non può non avere il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo decisivo dell’attività economica” (A.Gramsci, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 37) 213 “Kornilov, Yuan Shih-Kai, Huerta, e, in certo senso lo scià Reza e Mustafa Kemal tutti giocarono questo ruolo all’indomani della caduta rispettivamente del regime di Porfirio, delle dinastie dei Romanov, dei Ch’ing, dei Quajar e degli ottomani. Questi esempi confermano che i controrivoluzionari sono quasi sempre militari: la forza è una fonte di potere ma può avere efficacia a lungo termine solo quando sia collegata ad un principio di legittimità” (S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 290) 214 op.cit., p. 290 215 ibidem 216 “Nella rivoluzione occidentale le lotte principali avvengono tra gruppi rivoluzionari: in quella orientale tra un gruppo rivoluzionario e l’ordine costituito. Nella rivoluzione occidentale la caduta del vecchio regime, che segna l’inizio della lotta rivoluzionaria, può essere datata in modo preciso, ma è quasi impossibile individuare la fine della lotta…… Nella rivoluzione occidentale i rivoluzionari partono dalla capitale per conquistare il controllo della campagna. Nella rivoluzione orientale essi partono dalle remote regioni della campagna e alla fine conquistano il controllo della capitale. In genere in una rivoluzione occidentale la conquista delle istituzioni centrali e dei simboli del potere è molto rapida……… la rivoluzione occidentale, in un certo senso combina l’ 92 Prerequisiti della rivoluzione sono per Huntington “l’incapacità delle istituzioni politiche di offrire canali per la partecipazione politica di nuove forze sociali e di nuove élites al governo e, in secondo luogo, la spinta alla partecipazione da parte di forze sociali, normalmente escluse dalla vita politica217. Questa spinta, in genere, nasce dal fatto che il gruppo vuole ottenere remunerazioni simboliche o materiali, che può conquistare solo portando avanti le sue rivendicazioni nella sfera politica”218. La rivoluzione219 trae poi origine sia da istituzioni politiche che rifiutano l’espansione della partecipazione a fronte di gruppi sociali che invece la esigono. La negazione delle sue rivendicazioni è l’impossibilità di partecipare al sistema politico può rendere un gruppo rivoluzionario220. “ esplosione urbana” della classe media e la “ rivoluzione verde” degli abitanti della campagna in un unico convulso processo rivoluzionario” (op.cit., p. 292, corsivo mio) 217 “Le rivoluzioni sono improbabili nei sistemi politici moderni altamente istituzionalizzati – costituzionali o comunisti – che sono quello che sono proprio perché hanno sviluppato le procedure idonee ad assimilare nuovi gruppi sociali e nuove élites desiderose di partecipare alla vita politica. Le grandi rivoluzioni della storia si sono verificate in monarchie tradizionali fortemente centralizzate (Francia, Cina, Russia), o in dittature militari a base ristretta (Messico, Bolivia, Guatemala, Cuba) o in regimi coloniali (Vietnam, Algeria). Tutti questi sistemi politici dimostravano poca, e spesso nessuna, capacità di espandere il loro potere e di offrire canali alla partecipazione politica di nuovi gruppi” (op.cit., p. 296) 218 “In teoria ogni classe sociale, che non sia stata incorporata nel sistema politico, è potenzialmente rivoluzionaria” (op.cit., p. 296) 219 “Forse l’elemento più importante e ovvio, ma anche più trascurato, relativamente alle grandi rivoluzioni vittoriose è che esse non avvengono in sistemi politici democratici, con ciò non si sostiene che i governi formalmente democratici sono immuni dalla rivoluzione; infatti una democrazia oligarchica a base ristretta può essere altrettanto incapace di provvedere all’espansione della partecipazione politica quanto una dittatura oligarchica a base ristretta. Ciò non di meno, l’assenza di rivoluzioni vittoriose in paesi democratici resta un fatto singolare e suggerisce che, mediamente, le democrazie hanno maggiore capacità di assorbire nuovi gruppi all’interno dei loro sistemi politici di quanto non ne abbiano quei sistemi in cui il potere è più concentrato. L’assenza di rivoluzioni vittoriose contro dittature comuniste suggerisce che la discriminante tra loro e le più tradizionali autocrazie può essere proprio questa capacità di assorbire nuovi gruppi sociali. Se una democrazia agisce in modo “non–democratico”. Impedendo l’espansione della partecipazione politica, può incoraggiare la rivoluzione” (op. cit., p. 296) 220 “In teoria ogni classe sociale, che non sia stata incorporata nel sistema politico, è potenzialmente rivoluzionaria” (ibidem) 93 La rivoluzione si presenta dunque, agli occhi di Huntington, come una sorta di disfunzione multipla; da un lato l’incapacità del sistema istituzionale di governare la modernizzazione, dall’altro l’esistenza di gruppi esclusi dalla gestione del potere, ma capaci di proporre un’elevata capacità di interpretazione dello sviluppo politico, intervenendo su di esso al fine di trasformare, rovesciandoli, l’insieme dei rapporti di dominio. Ma non basta l’esistenza di gruppi disposti ad una rottura sovvertitrice degli assetti sociali per suscitare una crisi rivoluzionaria; è necessaria anche, per Huntington, l’alleanza221 fra questi gruppi222; alleanza che verrebbe cementata proprio 221 “Una rivoluzione comporta necessariamente l’esclusione di molti gruppi da parte dell’ordine esistente: essa è il prodotto di una ‘disfunzione multipla’ all’interno della società. Un gruppo sociale può essere responsabile di un colpo di stato, di una rivolta, o di una insurrezione, ma solo un’alleanza di più gruppi può generare un rivoluzione” (op.cit.p. 298) 222 E’ interessante sottolinerare una certa analogia tra la riflessione politica di Huntington e l’elaborazione teorica di Gramsci a proposito delle condizioni essenziali per la formazione di un partito rivoluzionario, il cosiddetto Nuovo Principe. I caratteri di questa formazione rispecchierebbero per certi aspetti i tratti di quell’alleanza tra gruppi, anch’essa probabilmente tesa alla formazione di un’organizzazione partitica, che in presenza di certe circostanze (rapidi processi di modernizzazione e incapacità del sistema politico di istituzionalizzarli) potrebbe determinare l’avvio di un vero e proprio processo rivoluzionario. È proprio dalla lettura del seguente passo,tratto dall’opera di Gramsci, che possiamo cogliere le analogie con la riflessione sull’alleanza tra gruppi e la rivoluzione di S.P.Huntington: “Quando un partito diventa ‘necessario’ storicamente ? Quando le condizioni del suo ‘trionfo’, del suo immancabile diventar Stato sono almeno in via di formazione e lasciano prevedere normalmente i loro ulteriori sviluppi. Ma quando si può dire, in tali condizioni, che un partito non può essere distrutto con mezzi normali ? Per rispondere occorre sviluppare un ragionamento: perché esista un partito è necessario che confluiscano tre elementi fondamentali (cioè tre gruppi di elementi). 1) Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo. Senza di essi il partito non esisterebbe, è vero, ma è anche vero che il partito non esisterebbe neanche ‘solamente’ con essi. Essi sono una forza in quanto c’è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente…2) L’elemento coesivo principale, che centralizza nel campo nazionale, che fa diventare efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a sé conterebbero zero o poco più; questo elemento è dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche…inventiva…: è anche vero che da solo questo elemento non formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe più che non il primo elemento considerato. Si parla di capitali senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani…3) Un elemento medio, che articoli il primo col terzo elemento, che li metta a contatto, non solo ‘fisico’ ma morale e 94 dall’azione degli intellettuali che ne renderebbero il sistema di valori accessibile a tutti grazie alla diffusione delle informazioni, soprattutto per mezzo dei mass-media, veri e propri focolai di diffusione e amplificazione delle ideologie rivoluzionarie223. L’alleanza che può dar vita ad una rivoluzione è inoltre strettamente legata, per lo studioso americano, alla possibilità e alla capacità da parte dei gruppi rivoluzionari di far incontrare sul medesimo terreno politico i “gruppi rurali” e i “gruppi urbani”, cioè la classe media cittadina, vera e propria testa dello intellettuale. Nella realtà, per ogni partito esistono delle ‘proporzioni definite’ tra questi tre elementi e si raggiunge il massimo di efficienza quando tali ‘proporzioni definite’ sono realizzate. Da queste considerazioni, si può dire che un partito non può essere distrutto con mezzi normali, quando, esistendo necessariamente il secondo elemento, la cui nascita è legata all’esistenza delle condizioni materiali oggettive (e se questo secondo elemento non esiste, ogni ragionamento è vacuo) sia pure allo stato disperso e vagante, non possono non formarsi gli altri due, cioè il primo che necessariamente forma il terzo come sua continuazione e mezzo di esprimersi. Occorre che perché ciò avvenga si sia formata la convinzione ferrea che una determinata soluzione dei problemi vitali sia necessaria. Senza questa convinzione non si formerà il secondo elemento, la cui distruzione è la più facile per lo scarso suo numero, ma è anche necessario che questo secondo elemento, se distrutto, abbia lasciato in eredità un fermento da cui riformarsi. E dove questo fermento sussisterà meglio e potrà meglio formarsi che nel primo e nel terzo elemento che, evidentemente, sono i più omogenei col secondo? L’attività del secondo elemento per costituire questo elemento è perciò fondamentale: il criterio di giudizio di questo secondo elemento sarà da cercare: 1) in ciò che realmente fa; 2) in ciò che prepara nell’ipotesi di una sua distruzione…Poiché nella lotta si deve sempre prevedere la sconfitta, la preparazione dei propri successori è un elemento altrettanto importante di ciò che si fa per vincere”(A.Gramsci, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno, op.cit., pp. 28-30) 223 Rispetto al ruolo dei mass-media, di avviso diametralmente opposto era invece Débord, secondo il quale lo “spettacolo – quindi anche il sistema dei mass-media in generale – (appariva)…come strumento di unificazione. In quanto parte della società, è espressamente il settore che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto stesso che questo settore è separato, esso è il luogo dello sguardo ingannato e della falsa coscienza; e l’unificazione che realizza non è altro che il linguaggio ufficiale della separazione generalizzata (3)…Lo spettacolo può essere compreso come l’abuso del mondo del vedere, il prodotto delle tecniche di diffusione di massa delle immagini. È piuttosto una Weltanschauung divenuta concreta e operante, materialmente tradotta. È una visione del mondo che si è oggettivata (5)…Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è allo stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente…E’ il cuore dell’irrealismo della società reale…costituisce il modello presente della vita socialmente dominante…è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione…è anche presenza permanente di questa giustificazione in quanto occupazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna (6)” (G.Débord, La società dello spettacolo, Stampa Alternativa, Viterbo, 1995, pp. 5-6) 95 schieramento rivoluzionario, e i piccoli e medi proprietari terrieri224. 3.3.2 Gruppi urbani e alleanza rivoluzionaria Quali sono per Huntington i “gruppi urbani” rivoluzionari? Non il sottoproletariato, estraneo a ogni processo rivoluzionario a causa delle condizioni materiali in cui è costretto a vivere225, né tantomeno i lavoratori industriali, troppo 224 “Teoricamente le alleanze possibili sono molte, ma in realtà l’alleanza rivoluzionaria deve includere alcuni gruppi rurali ed alcuni gruppi urbani. L’opposizione dei gruppi urbani al governo può generare una instabilità permanente, caratteristica dello stato pretoriano, ma solo la combinazione dell’opposizione urbana con quella rurale può portare ad una rivoluzione…È quindi improbabile la rivoluzione se ad una situazione di frustrazione della classe media urbana non corrisponde una pari situazione dei contadini. I due gruppi potrebbero trovarsi ad esprimere un conflitto con il sistema politico, in momenti diversi: ciò tendenzialmente preclude un processo rivoluzionario. Un lento processo generale di mutamento sociale tenderà a ridurre le possibilità che questi due gruppi siano simultaneamente isolati e quindi in conflitto con il sistema esistente. Man mano che nel tempo il sistema di modernizzazione socio – economica diventa più rapido aumenta anche la probabilità della rivoluzione. Tuttavia perché abbia luogo una rivoluzione importante la media classe urbana e i contadini non devono solo essere alienati dall’ordine esistente ma devono anche avere la capacità e lo stimolo ad agire su linee parallele, se non in stretta alleanza. Se manca il giusto stimolo a unificare l’azione, la rivoluzione può essere ancora evitata”, (S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 298) 225 “In apparenza le fonti più probabili di rivolte urbane sono i quartieri poveri, le baraccopoli generate dalla immigrazione dei contadini. Come può essere spiegato questo apparente conservatorismo e consenso? Quattro fattori sembrano rivestire una certa importanza in questo fenomeno. Prima di tutto gli immigrati dalle campagne hanno sperimentato la mobilità geografica e, in generale, essi hanno senza dubbio migliorato le loro condizioni di vita passando alla città. L’immigrato paragonando il suo status economico urbano con quello precedente prova un “ sentimento di relativa ricompensa. Questo può accadere anche se si trova ai gradini più bassi della stratificazione urbana”. In secondo luogo gli immigrati portano con sé valori e atteggiamenti rurali, ivi compresi schemi di comportamento consolidati di rispetto sociale e di passività politica. La maggior parte dei sobborghi urbani sono caratterizzati da basso livello di coscienza e di informazione politica. La politica non è un problema seriamente sentito: meno di un quinto di un campione tratto dai sobborghi di Rio risultava essersi impegnato in una seria discussione politica nell’arco di sei mesi. Nella città vengono mantenuti i modelli rurali di dipendenza e, conseguentemente, rimangono bassi i livelli di aspirazione e di aspettativa politica. Diversi studi dimostrano che ‘i poveri delle città e delle campagne dell’America Latina non si aspettano davvero che il loro governo faccia qualcosa per migliorare la situazione’. Nella città di Panama, il 60% degli studenti provenienti dalle 96 omologati e garantiti dal sistema politico vigente226, bensì la classe media: “La vera classe rivoluzionaria nella maggior parte delle società in via di modernizzazione, è certamente la classe media che costituisce la fonte principale di opposizione urbana al governo. Gli atteggiamenti ed i valori politici di questo gruppo dominano la vita politica della città”227 Se infatti “un’ampia classe media, proprio come la prosperità, è una forza di moderazione politica: il processo di formazione della classe media”228, costituisce tuttavia, “conseguentemente ad un rapido classi lavoratrici riteneva che ‘ciò che il governo fa non avrebbe influenzato molto la sua vita’. Questo atteggiamento di indifferenza e di distacco rispetto alla politica e alla possibilità di mutamento politico costituisce la base dell’atteggiamento conservatore dei poveri…Un terzo fatto a cui far risalire la debolezza del radicalismo politico tra gli abitanti dei quartieri poveri, è il loro naturale interesse per vantaggi immediati in termini di cibo, di lavoro e di abitazione, vantaggi che possono essere ottenuti meglio inserendosi piuttosto che contrastando il sistema esistente…Infine i modelli di organizzazione sociale nei sobborghi possono essere un ulteriore elemento che scoraggia il radicalismo politico. Nell’America Latina, prevale nei sobborghi urbani un elevato livello di sfiducia reciproca e di antagonismo: questo rende difficile la cooperazione organizzata diretta a formulare rivendicazioni e a impegnarsi nell’azione politica…È tuttavia probabile che ad un certo punto questa situazione cambi e che il miglioramento nelle condizioni dei baraccati arrivi a generare maggior irrequietezza e violenza politica. La prima generazione di baraccati importa gli atteggiamenti rurali tradizionali di rispetto sociale e di passività politica; ma i loro figli crescono in un ambiente urbano e fanno propri gli obbiettivi e le aspirazioni della città; mentre i genitori si accontentano della mobilità geografica i figli richiedono una mobilità verticale” (op.cit., p. 301) 226 “Nei paesi di recente modernizzazione una fonte meno probabile di attività rivoluzionaria è costituita dal proletariato industriale…Il lavoratore industriale nella maggior parte dei paesi in via di modernizzazione è praticamente un membro dell’élite; egli usufruisce di condizioni economiche nettamente migliori di quelle della popolazione rurale e in genere, viene favorito dalle scelte politiche del governo. Nei paesi attualmente in via di modernizzazione, ha osservato Fallers il lavoratore si inserisce nell’ambiente industriale “ in circostanze che generano in misura molto inferiore tutte le frustrazioni e le ansietà, che Marx riassumeva nel termine “ alienazione” , rispetto ai pionieri occidentali del lavoro industriale. Non manca certo la gente alienata, negli stati di nuova formazione, ma i lavoratori industriali non ne rappresentano la parte più importante, sia perché il settore industriale resta piccolo, sia perché i lavoratori tendono ad essere in una situazione relativamente sicura e agiata se paragonata con quella dei contadini” (op.cit., p. 308) 227 op.cit., p. 304 228 “L’evoluzione della classe media può essere suddivisa in diverse fasi: di solito le prime figure della classe media che compaiono sulla scena sociale sono gli intellettuali, ricchi di radici tradizionali e di valori moderni. Ad essi seguono poi in graduale proliferazione i funzionari pubblici, i militari, gli insegnanti e gli avvocati, gli ingegneri e i tecnici, gli imprenditori e i dirigenti. I primi sono anche i più rivoluzionari: man mano che la classe media diventa più ampia essa diventa anche più conservatrice” (op.cit., p. 309) 97 processo di modernizzazione socio-economica”, anche “un fattore fortemente destabilizzante”229. Di tutti i settori della classe media, quello più disposto a sbocchi rivoluzionari è inoltre quello degli intellettuali230, la cui diserzione231 costituirebbe “un preavviso della rivoluzione”232. All’interno del gruppo degli intellettuali, gli studenti sono poi “i rivoluzionari più uniti e efficaci”233 Comunque sia, per assicurare l’avvio di uno sviluppo rivoluzionario la classe media intellettuale necessita per Huntington dell’attiva partecipazione dei gruppi rurali234. Pertanto i “gruppi dominanti nella campagna” divengono “il fattore critico che determina la stabilità o la fragilità del governo. Se invece la campagna sostiene il governo”235, questo ha il potenziale per isolare e contenere una rivoluzione. 229 ibidem “L’intellettuale rivoluzionario è un fenomeno quasi universale nelle società in via di modernizzazione…… La città è il centro dell’opposizione all’interno del paese; la classe media è il centro dell’opposizione all’interno della città; gli intellettuali rappresentano il gruppo di opposizione più attivo all’interno della classe media; e questo non significa necessariamente che la maggioranza degli studenti, come la maggioranza della popolazione in generale, non sia politicamente indifferente” (op.cit., p. 310) 231 “In realtà non si tratta di un problema di diserzione degli intellettuali, bensì di formazione degli intellettuali in quanto gruppo distinto, che può essere foriero della rivoluzione. Infatti nella maggior parte dei casi, gli intellettuali non disertano l’ordine esistente per la semplice ragione che non ne hanno mai fatto parte. Essi sono nati all’opposizione ed è la loro stessa comparsa sulla scena sociale, ad essere responsabile del loro ruolo potenzialmente rivoluzionario” (ibidem) 232 op.cit., p. 310 233 ibidem 234 “Confinata nella città (la classe media intellettuale) può opporsi al governo, può fomentare disordini e dimostrazioni, può a volte ottenere il sostegno della classe lavoratrice e del sottoproletariato. Se riesce anche a ottenere la cooperazione di alcuni elementi all’interno dell’esercito può anche rovesciare il governo. Tuttavia, in genere, il rovesciamento di un governo da parte di gruppi urbani non comporta il rovesciamento del sistema politico e sociale. È un cambiamento interno al sistema e non del sistema. Fatte rare eccezioni non preannuncia l’inizio della ricostruzione rivoluzionaria della società. In breve, i gruppi di opposizione nelle città, da soli, possono destituire dei governi ma non possono fare una rivoluzione, che richiede l’attiva partecipazione di gruppi rurali” (op.cit., p. 311) 230 98 3.3.3 Egemonia, rivoluzionari legittimità ed efficacia nei processi La rivoluzione si presenta dunque agli occhi del politologo statunitense come una possibile conseguenza dei processi di modernizzazione. Quest’ultima infatti muta “la natura della città e l’equilibrio città campagna. Nelle città le attività economiche si moltiplicano e portano alla formazione di nuovi gruppi sociali ed allo sviluppo di una nuova coscienza sociale all’interno dei vecchi gruppi. Fanno la loro apparizione nella città le nuove idee e le nuove tecniche importate dall’esterno. In molti casi, specialmente dove la burocrazia tradizionale è discretamente sviluppata, i primi gruppi a subire l’influenza della modernità sono i funzionari militari e civili. A tempo debito entrano in scena gli studenti, gli intellettuali, i mercanti, i dottori, i banchieri, gli artigiani, gli imprenditori, gli insegnanti, gli avvocati e gli ingegneri. Questi gruppi sviluppano una sensibilità politica e richiedono una qualche forma di partecipazione al sistema politico. Il ceto medio urbano, in breve, fa la sua apparizione nella politica e crea nelle città agitazioni e opposizione al sistema politico e sociale ancora dominato dalla campagna…Per ricreare la stabilità politica si rende necessaria un’alleanza fra alcuni gruppi urbani e le masse rurali. Una svolta determinante nell’espansione della partecipazione politica in una 235 ibidem 99 società in via di modernizzazione è segnata dall’ingresso delle masse rurali nella vita politica nazionale”236 La modernizzazione interviene così sulla strutturazione dei rapporti di dominio, suscitando l’emergere di nuovi gruppi che potrebbero a loro volta mobilitare la crescente partecipazione politica della classe media, che sarebbe spinta ad avanzare richieste volte alla promozione del proprio status sociale. Qualora il sistema politico vigente non riuscisse però a istituzionalizzarne la domanda politica, la contemporanea esistenza di nuovi gruppi politici, la loro possibile alleanza in un unico partito politico, la capacità di quest’ultimo di legare assieme e mobilitare gli interessi politici delle classi urbane e di quelle rurali, nonché di sviluppare un sistema di legittimazione egemone, porrebbe la problematica dell’esistenza e del confronto all’interno di una stessa collettività nazionale di due diverse fonti di legittimazione politica, l’una complessivamente legale e formalmente dominante, ma non più pienamente legittima, e l’altra in parte legittima, perché complessivamente egemone ed efficace237 nei confronti di numerosi settori della popolazione, ma 236 op.cit., p. 84 Il concetto di efficacia cui mi riferisco è quello sviluppato da H.Kelsen. Per lo studioso cecoslovacco “l’esistenza dell’ordinamento giuridico o…l’esistenza del potere statale è condizionata dall’efficacia complessiva, dal fatto cioè che le sue norme vengano abitualmente osservate da chi ne è il destinatario. Come Atlante, un tale potere non riposa che su se stesso, sulla sua sola capacità di farsi valere. Pertanto, chi accampa il diritto di insignorirsi legittimamente le leve del comando, deve possedere la forza necessaria per spezzare la resistenza dei recalcitranti ed imporre la propria volontà. Il diritto di comandare nasce dal fatto di esercitare con successo il comando stesso, e in questo contesto nulla esclude che dalla forza, dalla nuda e cruda forza, tale diritto derivi la sua fonte. Legittimo è il comando forte, o meglio, il comando del più forte, il comando efficace. E comando efficace è quello imperante, attualmente esistente, che nessuno riesce ancora a scardinare. In questo senso è lecito dire che il diritto è l’espressione di un potere efficace. Anche il bandito, però, possiede gli strumenti per piegare la nostra volontà e può forzarci a eseguire i suoi ordini. E quello del bandito è anch’esso un potere. E allora, considerato che il diritto è l’emanazione del potere e che il potere è tale se e finchè produce gli effetti desiderati, ciò considerato occorre chiedersi: come distinguere l’intimidazione del malvivente dalla prescrizione del legislatore ? La vessazione illecita dall’imposizione autorizzata ? La risposta non è difficile purchè si 237 100 non ancora formalmente legale. Se oltretutto la nuova alleanza si proponesse di sostituire le élites dominanti, disponendo della legittimità e dell’efficacia per poterlo fare, ciò provocherebbe il passaggio da una crisi di razionalità del sistema politico, dovuta al sovraccarico istituzionale, a una crisi di legittimità dell’apparato statale che aprirebbe un vuoto d’autorità, al tempo stesso politica e istituzionale, che, se fosse riempito dall’alleanza prima ricordata, avvierebbe un vero e proprio processo rivoluzionario, ovverosia “la distruzione delle vecchie istituzioni e dei modelli di legittimità politica, la mobilitazione di nuovi gruppi, la redifinizione della comunità, l’accettazione di nuovi valori e nuove concezioni di legittimità, la conquista del potere da parte di una nuova élite più dinamica e la creazione di istituzioni nuove e più forti”238. Ma la rivoluzione, non significherebbe ancora, secondo Huntington, l’inevitabile vittoria della stessa. Tutt’altro, vi sarebbe al quel punto il confronto fra coloro che sono riusciti a conquistare la casa abbandonata e coloro che l’hanno abbandonata, ma per farvi ritorno quando i tempi, e magari l’aiuto da parte di un paese straniero, lo avessero di nuovo permesso. A questo punto differenti fonti di legittimazione politica, diverse forme di legalità e di efficacia si confronterebbero in tempi e spazi coincidenti, ristrutturando definitivamente i rapporti di dominio, oppure precipitando la società in un rammenti che, appunto, di imposizione autorizzata si tratta. E dunque di norma che muove dalla volontà di chi è legittimato a emanarla. E chi è legittimato a emanarla altro non è che il destinatario di una norma ulteriore che autorizza lui e soltanto lui a creare il diritto in date circostanze e solo in date circostanze” (H.Kelsen, Diritto, Stato e giustizia nella teoria pura del diritto, in La teoria politica del bolscevismo, cit., p. 153, cit. in G.Pecora, Introduzione, in H.Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Etas Libri, Milano, 1994, XLI-XLII) 101 ordinamento politico di tipo pretoriano dove i ricchi sono pronti a corrompere, gli studenti tumultuano, i lavoratori scioperano, le folle fanno dimostrazioni e i militari colpi di stato 239. Se si riuscisse invece a evitare “la rivoluzione, a tempo debito il ceto medio urbano” muterebbe “in modo significativo”, diventando “più conservatore man mano che si ingrandisce” e “la classe lavoratrice urbana” inizierebbe “ad inserirsi nella politica…, permettendo alla città di “giocare un ruolo politico più efficace” in termini di conservazione dello status quo240. 3.4 Strategia e tattica delle riforme politiche Se le “rivoluzioni sono rare. Le riforme sono forse ancora più rare, ed entrambe non sono indispensabili”241. Così Huntington esprime il proprio giudizio sulle riforme politiche che, rispetto alle rivoluzioni, si differenziano “in termini di velocità, ampiezza e direzione del cambiamento dei sistemi politici e sociali”242. Infatti mentre una rivoluzione comporta un rapido e totale cambiamento delle strutture culturali, politiche e 238 S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 85 “L’instabilità della città ( rivolte, sommosse e dimostrazioni) è in qualche misura una caratteristica inevitabile del processo di modernizzazione. Il grado di questa instabilità che si manifesta dipende dall’efficienza e dalla legittimità delle istituzioni politiche della società. Nella città l’instabilità può essere contenuta ma è universale; l’instabilità nelle campagne può essere più grave, ma è evitabile. Se le élite urbane che si identificano con il sistema politico non riescono a egemonizzare la rivoluzione verde, si apre la possibilità, per un gruppo di opposizione, di prendere il potere con la rivoluzione con l’appoggio dei contadini e di creare un nuovo tessuto istituzionale monopartitico atto a colmare il divario tra città e campagna” (op.cit., p. 87) 240 ibidem 241 op.cit., p. 367 242 ibidem 239 102 sociali243, le riforme appaiono invece come “mutamenti della dirigenza, della linea politica e delle istituzioni politiche di ampiezza limitata244 e non molto rapidi”245, ma che possono comunque contribuire ad accrescere la richiesta di una maggiore eguaglianza sociale ed economica, e conseguentemente estendere la partecipazione politica246. Quali sono, per Huntington, gli obiettivi delle riforme? Mentre le finalità di una politica rivoluzionaria conducono verso una polarizzazione politica, semplificando e drammatizzando i problemi sociali, una rottura dello status quo e un ampliamento della partecipazione politica, gli obiettivi del riformatore mirano invece, attraverso l’abile “manipolazione delle forze sociali” 247, a un “più sottile…controllo del mutamento sociale…che non sia però…totale”, ma “graduale (e) non…convulso”248. Per questa ragione una politica riformatrice, rispetto a una rivoluzionaria, deve essere “molto più” selettiva “e discriminante249; deve cioè 243 “Più questi cambiamenti sono completi e più globale è la rivoluzione. Una rivoluzione “ totale” o “ sociale” implica mutamenti significativi in tutte queste componenti del sistema sociale e politico”, (ibidem) 244 “Tuttavia non tutti i cambiamenti parziali sono riforme. Il concetto di riforma implica una certa direzione del cambiamento. Come dice Hirschman, una riforma è un mutamento in cui il potere di gruppi fino a quel momento privilegiati, viene frenato mentre viene migliorata la posizione economica e lo stato sociale di gruppi meno privilegiati” (ibidem) 245 ibidem 246 “La riforma implica cioè un mutamento verso una maggiore uguaglianza sociale, economica o politica e un allargamento della partecipazione politica e sociale” (ibidem) 247 op.cit., p. 368 248 ibidem 249 “In primo luogo egli necessariamente si trova a combattere una guerra su due fronti, cioè sia contro i conservatori che contro i rivoluzionari. Per riuscire a vincere, si deve impegnare su molti fronti, contro una molteplicità di avversari che spesso sono nemici su un fronte e diventano alleati su di un altro….scopo del rivoluzionario è quello di giungere ad una polarizzazione politica; egli tenta quindi di semplificare, drammatizzare e sintetizzare i problemi politici secondo discriminati precise tra le forze del “ progresso” e quella della “ reazione”. Egli mette l’accento sulle divisioni, mentre il riformatore deve tentare di dipanare e risolvere le divisioni. Il rivoluzionario favorisce un irrigidimento politico, il riformatore favorisce la fluidità e la capacità di adattamento. Il rivoluzionario deve essere capace di dicotomizzare le forze sociali, il riformatore di manipolarle. Conseguentemente è necessario che il riformatore possegga un livello più elevato di abilità politica rispetto al rivoluzionario. Le riforme sono un fatto raro se non altro 103 dedicare molta più attenzione ai metodi, alle tecniche e ai tempi del cambiamento”250. Dovendo mantenere intatto il delicato equilibrio fra le forze sociali coinvolte nella politica riformatrice, conciliando nello stesso tempo la conservazione dei rapporti di dominio vigenti e la progressiva trasformazione della strutturazione dei rapporti di interazione sociali, il riformatore può adottare, per Huntington, due tipi di strategie: l’una “lo porta a far conoscere subito i suoi obbiettivi e a tentare di perseguirne il maggior numero, spingendoli tutti contemporaneamente”, l’altra lo indirizza invece a “tenere nascosti gli obiettivi pur tenendo aperte tutte le porte e di portare avanti le riforme separatamente, affrontando un cambiamento alla volta. La prima strategia rappresenta un approccio ‘radicale’ o a blitzkrieg, la seconda rappresenta un approccio incrementale cioè ‘settoriale’251 ovvero fabiano”252. perché è raro il talento politico necessario per realizzarle. Se un rivoluzionario vittorioso non è necessariamente un grandissimo politico, un riformatore di successo lo è sempre… Infine il problema della priorità e delle scelte tra diversi tipi di riforme è molto più acuto per il riformatore che non per il rivoluzionario. Il rivoluzionario punta innanzi tutto all’espansione della partecipazione della forza politica: le forze che emergono, vengono poi impiegate per produrre mutamenti nella struttura sociale ed economica” (ibidem) 250 ibidem 251 Huntington si riferisce esplicitamente alla strategia temporeggiatrice adottata alla fine dell’ottocento appunto dalla Società Fabiana della quale traiamo una descrizione direttamente da uno dei suoi iscritti, W.Clarke. “Nata nell’autunno 1883 dalla Democratic Federation. Fra gli altri, vi facevano parte anche “Walter Crane, il pittore; Stopford Brooke, predicatore e letterato; Grant Allen, uno degli uomini più versatili e dotati di oggi; George Bernard Shaw, estroso ma eccellente critico musicale, la signora Willard, una delle riformatrici d’America; il professor Shuttleworth, uno dei più noti e capaci ministri di Londra della Chiesa Latitudinaria; D.G. Ritchie, di Oxford, preminente fra i pensatori inglesi in campo filosofico; la signora Wright, una delle nostre attrici più valenti; Sergius Stepniak, secondo solo a Tolstoj fra i russi viventi; Alfred Hayes, giovane poeta fra i primi del nostro paese; il Dr. Furnival, studioso inglese insigne per dottrina e operosità: ecco alcuni dei suoi membri…Pochi lettori non hanno sentito parlare di quel generale romano, Quinto Fabio Massimo, qui cunctando restituit rem, e che di conseguenza ebbe il titolo di Cunctator, ossia di Temporeggiatore. Questo illustre personaggio è il santo patrono della nostra Società, per il cui tramite, benchè morto, egli parla tuttora. La Società fabiana si propone, dunque, di vincere temporeggiando; di attuare i suoi programmi non con impeto precipitoso, ma col metodo più lento, e a suo giudizio più sicuro, della discussione, esposizione e azione politica paziente di persone 104 3.4.1 “Strategia fabiana” e “blitzkrieg” La strategia fabiana “tende ad isolare un gruppo di problemi da un altro”, riducendo “al minimo l’opposizione che di volta in volta il riformatore si trova di fronte”253. La fabiana è dunque una politica dei piccoli passi, tendente ad affrontare la trasformazione sociale, vale a dire l’istituzionalizzazione non rivoluzionaria delle problematiche suscitate dalla modernizzazione, delimitando di volta in volta il campo politico delle richieste provenienti sia dalle élites dominanti, sia dai gruppi emergenti. La politica riformatrice di blitzkrieg trova invece nella “rapidità e…sorpresa, due antichi principi della guerra” le sue “necessità tattiche”254. In questo caso il “potere esistente nel sistema politico” viene “concentrato nelle mani del leader sorrette da convinzioni saldissime. Come motto adeguato la Società ha assunto la massima seguente: ‘Siate pazientissimi nell’aspettare il momento giusto, come fu Fabio guerreggiando contro Annibale, sebbene molti lo biasimassero per i suoi indugi; ma quando arriva il momento colpite con forza, come Fabio, o l’attesa sarà stata vana e infruttuosa’ (il corsivo è di chi scrive). Questa duplice linea di condotta, aspettare e colpire, è dunque l’idea generale della società. E quali sono gli scopi della Società? Cito dal programma ufficiale: ‘La Società fabiana è composta da socialisti. Vuole pertanto riorganizzare la società mediante l’emancipazione del capitale terriero e industriale dalla proprietà individuale e di classe, e il suo conferimento alla comunità per beneficio di tutti. Solo in questo modo i vantaggi naturali e acquisiti del paese saranno equamente condivisi da tutta la popolazione. La Società quindi lavora per l’eliminazione della proprietà privata della terra e della conseguente appropriazione individuale, sotto forma di rendita, del prezzo pagato per il permesso di usare la terra, e per i vantaggi di suoli e siti migliori. La Società inoltre lavora per il trasferimento alla comunità dell’amministrazione del capitale industriale che può essere gestito socialmente” (W.Clarke, La società fabiana, in AA.VV. Saggi fabiani, Editori Riuniti, 1990, pp. 241242) 252 S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 368 253 op. cit., p. 375 254 cit., p. 375 105 riformatore”255 cui si affida il compito “di mettere in atto le sue riforme prima che l’opposizione possa mobilitare i suoi sostenitori…(e) allargare il numero dei partecipanti (nonché) il livello di potere all’interno del sistema, con la possibilità di bloccare i cambiamenti”256. Pertanto la tecnica riformista appare come un’arma a doppio taglio. Da una parte può essere indirizzata alla progressiva trasformazione del sistema politico, implicante pure la strutturazione dei rapporti di dominio che lo sottendono; dall’altra può essere al contrario volta alla difesa delle istituzioni contro il pericolo di una loro radicale metamorfosi, tale da metterne in discussione gli assetti dominanti. Non a caso, come vedremo nel capitolo successivo, Huntington, dipingendo il colpo di stato militare come un’efficace risposta al progressivo scivolamento verso una società di tipo pretoriano ovvero verso processi rivoluzionari, invita le forze conservatrici a sviluppare una politica che sappia coniugare fabianesimo e blitzkrieg per portare a termine un’azione di riduzione del sovraccarico istituzionale e di conservazione del sistema politico. 255 Il leader-legislatore di Huntington, oltre a rifarsi alla celebre figura del legislatore roussoiano del Contratto Sociale, richiama anche quella del Nuovo Principe descritta da Gramsci: “Il moderno principe, il mito-principe non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione”; “elemento complesso” che Huntington individua nei militari o comunque nelle istituzioni governative. Anche Gramsci sottolineava l’efficacia di una tattica alla “blitzkrieg”: “Nel mondo moderno solo un’azione politica immediata e imminente, caratterizzata dalla necessità di un procedimento rapido e fulmineo, può incarnarsi miticamente in un individuo concreto: la rapidità non può essere resa necessaria che da un grande pericolo imminente”. Lo studioso italiano sottolineava tuttavia che “un’azione immediata…sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali” (A.Gramsci, Note sul Machiavelli, op.cit., p.6). Come il Principe di Gramsci, anche il legislatore di Huntington, non deve confondersi con l’azione di un’unica persona, ma si manifesta “come coscienza operosa della necessità storica” (op.cit., p.7) 256 S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 375 106 Mostrando, infatti, la fabiana i caratteri di una vera e propria strategia, portatrice di obiettivi che possono essere realizzati soltanto nel lungo periodo, e la blitzkrieg quelli di una tattica tesa a eliminare dal gioco politico tutte quelle forze d’opposizione che possano intralciare il cammino delle riforme, Huntington propone di sintetizzare le due diverse metodologie in un'unica combinazione politica, affinché l’azione politica sia la più incisiva possibile257. È possibile realizzare efficacemente questo tipo di combinazione in difesa delle istituzioni senza ricorrere alla violenza, soprattutto nella fase detta di blitzkrieg, quando cioè l’intervento del leader riformatore deve essere il più possibile rapido e volto a “impedire che gli oppositori delle riforme abbiano lo stimolo o la capacità di mobilitare le masse contro il cambiamento”258 ? È Huntington stesso a dissipare ogni dubbio, rilevando come “nella maggior parte delle società, la pace sociale non è possibile senza l’attuazione di alcune riforme e le riforme sono impossibili senza un certo livello di violenza”259. “L’efficacia della violenza nel promuovere le riforme – prosegue Huntington – …appare come il sintomo della mobilitazione politica di nuovi gruppi che adottano nuove tecniche politiche”. Inoltre, l’efficacia della violenza dipende “dall’esistenza o meno di strumenti politici alternativi la cui attuazione può tendenzialmente ridurre i disordini. Se (infatti) la violenza assumerà solo il significato di risposta alienata ad una 257 “La combinazione della strategia fabiana con tattiche di blitzkrieg è diretta a ridurre questo pericolo e a diminuire la probabilità che gli oppositori delle riforme abbiano lo stimolo o la capacità di mobilitare le masse contro il cambiamento” (ibidem) 258 ibidem 259 ibidem 107 situazione generale difficile ed avrà obiettivi imprecisati ed incerti, contribuirà ben poco a promuovere delle riforme. Per questo fatto, sia i riformatori che i conservatori, devono percepire che il ricorso alla violenza è direttamente collegato ad una richiesta su un particolare problema politico. La violenza, altrimenti, sposta l’interesse dal merito delle riforme alla necessità di ordine pubblico”, quando invece “la necessità delle riforme è più forte e convincente che mai quando viene espressa come necessità di preservare la pace interna”, spostando “a favore delle riforme i conservatori interessati al mantenimento dell’ordine pubblico”. Comunque, per il politologo americano, non è tanto la violenza di per sé a rendere efficace un’agire politico teso alla conservazione del sistema istituzionale, quanto il fatto che essa assuma i caratteri di “una tecnica politica sconosciuta e insolita”260, di cui le forze conservatrici devono farsi interpreti261. 3.5 La “corruzione politica” come strumento di “assimilazione irregolare di nuovi gruppi nel sistema politico” 260 ibidem Tuttavia Huntington rileva come non sempre la strategia riformista dia i frutti sperati in termini di conservazione dello status quo. Infatti si “può sostenere che le riforme contribuiscono non alla stabilità politica ma ad una ancora maggiore instabilità e perfino alla stessa rivoluzione”. Le riforme possono così “diventare un catalizzatore della rivoluzione piuttosto che un suo surrogato” (op.cit., p.385) 261 108 Per Huntington la “corruzione è il comportamento dei funzionari pubblici262 che deviano dalle norme riconosciute, al fine di conseguire obiettivi privati”263. Anch’essa, così come la rivoluzione e le riforme, é “correlata abbastanza strettamente con un rapido processo di modernizzazione”264, e con l’assenza di un efficiente processo di istituzionalizzazione da parte del sistema politico. Secondo lo studioso americano “La corruzione nelle società in via di modernizzazione non è tanto il risultato di deviazioni di comportamento, che vengono definiti corrotti e condannati secondo nuovi parametri e nuovi criteri di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato…(ma) un prodotto della distinzione tra benessere pubblico e interesse privato”265. Inoltre la modernizzazione stessa contribuisce alla corruzione creando nuove sorgenti di ricchezza e di potere, non più definite dalle tradizionali norme, ma non ancora regolabili con nuove disposizioni accettate dai gruppi sociali dominanti ed emergenti. Non solo, ma la modernizzazione implica pure un’“espansione dell’autorità governativa e una moltiplicazione delle attività soggette alla sua regolamentazione”266. È proprio per questa ragione che la corruzione può essere gestita in termini di “assimilazione irregolare” dei gruppi emergenti, “quando il 262 I “funzionari pubblici mancano di autonomia e di coesione, e subordinano i loro ruoli istituzionali alle richieste esterne” (ibidem) 263 “Se è vero che la corruzione esiste in tutte le società, è altrettanto vero che è più diffusa in alcune società e in certi periodi dell’evoluzione di una società” (ibidem) 264 “Sembrerebbe che la vita politica americana del XVIII e del XX secolo fosse meno corrotta che nel XIX secolo. Lo stesso si può dire della vita politica dell’Inghilterra nel XVII secolo e alla fine del XIX secolo rispetto a quella del XVIII secolo. È solo un caso che questo elevato livello di corruzione nella vita pubblica inglese e americana abbia coinciso con l’impatto della rivoluzione industriale, lo sviluppo di nuove fonti di ricchezza di energia e l’apparizione di nuove classi e di nuove rivendicazioni nei confronti del governo?” (op.cit, p. 390) 265 Ibidem. Il corsivo è di chi scrive 266 ibidem. Il corsivo è di chi scrive 109 sistema si sia dimostrato incapace di modificarsi abbastanza velocemente da predisporre strumenti legittimi e idonei a questo fine”267. Pertanto la corruzione politica e istituzionale può avere per Huntington anche conseguenze positive, presentandosi appunto come strumento irregolare di assimilazione dei nuovi gruppi nel sistema politico, affinché quest’ultimi, istituzionalizzati tramite questo tipo di procedura, non sviluppino una pressione tale da indurre un sovraccarico, divenendo invece indirettamente parte di quelle istituzioni che intendono contrastare268. 3.5.1 Funzioni e cause della corruzione politica Per Huntington le “funzioni ed anche le cause della corruzione sono simili a quelle della violenza. Entrambe vengono incoraggiate dal processo di modernizzazione; entrambe sono 267 “Nella società in via di transizione, l’adesione di un gruppo sociale a valori moderni spesso assume forme drastiche. Gli ideali di onestà, integrità, universalismo, e merito diventano spesso dominanti che gli individui e i gruppi arrivano a condannare come corrotte pratiche che sono accettate come normali e perfino legittime in società più moderne” (op.cit. p. 391) 268 Per la Zincone un processo analogo si sarebbe sviluppato in Italia durante l’ultima fase dell’Unità (1860-1865) (G.Zincone, Da sudditi a cittadini, Il Mulino, Bologna, 1992). Infatti per la studiosa italiana “il regime liberale” avrebbe scelto, soprattutto nel meridione, di “comprare la lealtà delle élites locali disponibili all’accordo utilizzando soprattutto risorse economiche locali”, abbandonando così “il costoso progetto di integrazione delle classi subalterne”, mettendo “al contempo…le proprie istituzioni al riparo dai gruppi sleali” (op.cit., p. 146). La stessa impressione si ricava da Ferrajoli (L.Ferrajoli, La crisi dello Stato di diritto nella crisi dello Stato sociale, in AA.VV., Trasformazioni e crisi del welfare state, cit.) che nel 1983 scrisse a proposito dell’uso sistematico della corruzione a fini di integrazione, verificatasi in Italia a cavallo fra gli anni ’70 e ’80. Tutto ciò sarebbe avvenuto “nella dissoluzione ulteriore dei tre connotati dello Stato di diritto…: precisamente, nell’incremento dell’illegalità del sistema politico, nello sviluppo rigoglioso del segreto entro l’apparato statale, nell’accresciuta irresponsabilità del ceto di governo” (op.cit., p. 422) 110 sintomatiche della debolezza delle istituzioni politiche…entrambe sono strumenti con cui gli individui e i gruppi si rapportano al sistema politico e, in realtà, vi partecipano in modi che violano le norme del sistema stesso”269. Quindi “una predisposizione alla società corruzione che possiede possiede pure un’elevata un’elevata predisposizione alla violenza”270. Tuttavia “il prevalere della violenza rappresenta una minaccia maggiore al funzionamento del sistema di quanto non lo sia la corruzione”271. Infatti, pur essendo entrambi “strumenti illegittimi per avanzare richieste nei confronti del sistema”, la prima procedura sarebbe da preferirsi alla seconda in quanto, lungi dall’essere “un sintomo di alienazione…profonda”, colui “che corrompe un funzionario pubblico del sistema si identifica probabilmente con il sistema molto più di colui che prende d’assalto un posto di polizia”272. Ciò significa che la corruzione si configura come una procedura istituzionalizzante per offrire “vantaggi immediati, specifici e concreti a gruppi che altrimenti sarebbero profondamente alienati dalla società. Per questo – ammette Huntington – la corruzione può essere funzionale al mantenimento del sistema politico”273, oppure esserne addirittura un sostituto274, riducendo sia “le pressioni dei gruppi sociali 269 S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, p. 391 ibidem 271 ibidem 272 ibidem 273 Ibidem. Il corsivo è di chi scrive 274 “Il grado di corruzione prodotto dalla modernizzazione in una società è chiaramente funzione della natura sia della società tradizionale che del processo di modernizzazione. In una società tradizionale, la compresenza di culture differenti e di vari sistemi di valori è un elemento che incoraggia la corruzione…Nella maggioranza dei casi la corruzione implica uno scambio di azione politica contro ricchezza economica. La forma particolare prevalente in una data società dipende dalla facilità di accesso all’una o all’altra. In una 270 111 verso cambiamenti politici”, sia “la pressione di classe in favore di mutamenti strutturali”275. 3.6 Crisi da sovraccarico e istanza dominativa sovrana La modernizzazione provoca dunque, per Huntington, dei cambiamenti all’interno di un ordinamento socio-politico, suscitando delle trasformazioni soprattutto nel sistema di legittimazione dei rapporti di dominio che lo sottendono. Essa definisce oltretutto l’immissione sulla scena politica di nuovi gruppi sociali che, non trovando un’adeguata risposta alle proprie richieste, potrebbero scegliere di mobilitare, al fine di realizzare i loro obiettivi, settori fino ad allora esterni al sistema, proponendo loro un programma di trasformazione delle strutture politiche esistenti in grado di determinare una ristrutturazione dei rapporti di dominio. La mobilitazione da parte dei nuovi gruppi si tradurrebbe in tal modo in una crescita della partecipazione politica, spesso non compatibile con gli assetti sociali vigenti, in quanto sospinta da fonti di legittimazione e da prospettive differenti rispetto a quelle definite dallo status quo. Qualora il sistema politico non riuscisse a istituzionalizzare la crescita e gli inputs politici, frutto dell’accresciuta partecipazione, il prezzo di questa inadeguatezza istituzionale potrebbe condurre ad una crisi da sovraccarico in società che offre molte occasioni di accumulazione di ricchezza e poche posizioni di potere politico di modello più ricorrente sarà quello di utilizzare la prima per acquistare il secondo” (ibidem) 112 grado di coinvolgere la razionalità ovvero la legittimità del sistema a seconda che al vuoto di autorità, provocato dal sovraccarico, faccia riscontro o meno un’alleanza politica fra i gruppi sociali esclusi dalla gestione del potere e in grado di mutare la crisi in una trasformazione potenziale degli assetti istituzionali. La capacità dell’alleanza di proporre una nuova distribuzione dei rapporti di dominio, sorretta da fonti di legittimazione proprie e da un sistema politico in grado di porsi come complessivamente legittimo, legale ed efficace, darebbe infine luogo ad un processo rivoluzionario che farebbe leva sulla disfunzione multipla del sistema istituzionale al fine di provocare un radicale mutamento dell’insieme dei rapporti di interazione dell’ordinamento politico. Inoltre sia l’inizio di una rivoluzione non significherebbe automaticamente la perdita di potere per le élites dominanti, ma l’avvio di un vero e proprio dualismo di potere che si svilupperebbe attraverso la crescita illimitata della partecipazione politica da parte dei gruppi rivoluzionari e la corrispettiva concentrazione della totalità del potere politico nelle mani di un unico leader-legislatore, posto a difesa dei rapporti di dominio, da parte invece dell’istanza formalmente dominativa e sovrana. È possibile impedire che il sovraccarico istituzionale inneschi dinamiche di potenziale trasformazione degli assetti dominanti, culminante in un processo rivoluzionario e in un successivo dualismo di potere? Per Huntington la risposta risiede nella capacità del sistema politico di saper anticipare ed ostacolare, seppur in presenza di inadeguate procedure di 275 Ibidem. Il corsivo è di chi scrive 113 istituzionalizzazione, determinate conseguenze, quali appunto la rivoluzione o l’emergere di una società pretoriana. Questa capacità di contrasto si esplicita infine in due prospettive, diverse per quanto riguarda la tecnica adottata, ma simili per le finalità perseguite e il contesto di generale “restringimento della legittimità all’interno del regno del potere”276 che realizzano: il colpo di stato militare e un “modello decisionale di governo più efficace e…vincolante”277. 276 277 S.P.Huntington, American Politics, cit., p. 211 M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, cit., p. 110 114 4. Colpo di stato e “performance” militare 4.1 Sovraccarico e sbocco nelle “società pretoriane”: il possibile ruolo di “legislatore” delle forze armate Nel capitolo precedente abbiamo analizzato le possibili conseguenze derivanti, per Huntington, da una crisi da sovraccarico. Abbiamo anche supposto che questa crisi può comportare una messa in discussione della stessa legittimità dell’apparato istituzionale inducendo una trasformazione potenziale nel tessuto politico-sociale fino alla conseguenza estrema di una rivoluzione. Nel capitolo che segue cercheremo invece di mettere in luce le soluzioni che il professore di Harvard suggerisce nel caso in cui la crisi da sovraccarico, implicando una trasformazione potenziale del sistema, minacci l’avvio di un processo rivoluzionario ovvero il precipitare dell’ordinamento politico nello stato pretoriano. L’analisi di Huntington segue due diverse direzioni, a seconda che si tratti dei sistemi politici dei paesi in via di sviluppo, in particolar modo l’America latina della fine degli anni ’60, ovvero delle democrazie occidentali. 115 Una possibile via d’uscita dalla deriva pretoriana, caratteristica delle democrazie dei paesi in via di sviluppo278, consiste per Huntington nell’intervento politico delle forze militari. Tant’è vero che “gli interventi militari costituiscono un elemento non dissociabile dal processo di modernizzazione politica, qualsiasi sia il continente o il paese in cui avvengono”279. Non solo, ma le “stesse cause che generano gli interventi militari in politica sono parimenti responsabili dell’impegno politico dei sindacati, degli imprenditori, degli studenti e del clero”. Queste cause non risiedono nella natura dei gruppi militari, bensì “nella struttura della società”, ossia 278 Il pretorianesimo, cioè la tendenza verso un sistema di tipo pretoriano, è per Huntington un “risultato particolarmente endemico presso certe culture (ad esempio quella spagnola e quella araba) con la tendenza a mantenersi parallelamente all’espansione della partecipazione politica e all’emergere di una struttura sociale moderna più complessa”, le cui “origini…vanno ricercate nell’assenza di una qualsiasi eredità di istituzioni politiche del periodo coloniale e inoltre nel tentativo di introdurre, nella società fortemente oligarchica dell’America Latina dell’inizio del XIX secolo, le istituzioni repubblicano-borghesi della Francia e degli Stati Uniti” 278. Ragion per cui in queste società l’intervento dei militari può rivestire un indiscutibile ruolo modernizzatore: “A queste domande non esistono risposte ovvie. Tuttavia, forse si possono fare due generalizzazioni relativamente al passaggio delle società dalla disunione pretoriana all’ordine civile. Innanzitutto, più presto avviene questo sviluppo all’interno del processo di modernizzazione e di allargamento della partecipazione politica, più bassi sono i costi che vengono a gravare sulla società. Al contrario, più complessa è la società e più difficile diventa la creazione di istituzioni politiche di integrazione. In secondo luogo, ad ogni stadio dello sviluppo della partecipazione politica le occasioni di azione politica feconda sono legate a differenti gruppi sociali e a differenti tipi di dirigenti politici. Quanto alle società che si trovano nella fase pretoriana radicale, la leadership, nel processo di creazione di durature istituzioni politiche, deve ovviamente provenire dalle forze sociali della classe media e deve fare appello ad esse. Alcuni hanno sostenuto che una leadership eroica, carismatica può essere in grado di esercitare questo ruolo. Dove le istituzioni politiche tradizionali sono deboli, o in decadenza, o distrutte, l’autorità spesso finisce col dipendere da questi leader carismatici, che tentano di colmare il divario tra la tradizione e la modernità attraverso una forte carica personale. Nella misura in cui questi leader sono in grado di concentrare in sé il potere, è probabile che si vengano a trovare in una posizione tale da promuovere lo sviluppo istituzionale e da esercitare il ruolo di ‘grande legislatore’ o di ‘padre fondatore’…Per la loro stessa natura gli studenti sono contro l’ordine costituito e, in genere, sono incapaci di costituire l’autorità e di stabilire principi di legittimità. Vi sono molti casi di dimostrazioni, disordini e rivolte religiose e studentesche, ma nessun esempio di governo studentesco e pochi esempi di governi religiosi” (S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 248) 279 op.cit., p. 211 116 “nell’assenza…di efficaci istituzioni politiche all’interno della società stessa”280. Come si verrebbe a configurarsi una società pretoriana? “In un sistema pretoriano – secondo l’ipotesi dello studioso americano – le forze sociali” si confronterebbero “l’una con l’altra in modo diretto; nessuna istituzione politica, nessun corpo di dirigenti politici di professione” verrebbe “riconosciuto o accettato come intermediario legittimo per moderare i conflitti di gruppo…Ogni gruppo” utilizzerebbe “così gli strumenti che riflettono la sua particolare natura e le sue capacità: la forte corruzione, i disordini studenteschi, gli scioperi dei lavoratori e le dimostrazioni di massa”281. L’assenza di istituzioni politiche efficaci in una società pretoriana implicherebbe pertanto un potere frammentato, esercitato in molte forme e in piccole quantità. L’autorità sul sistema nel suo complesso finirebbe così coll’essere transitoria e la debolezza delle istituzioni politiche definirebbe autorità e cariche facilmente acquisite e perdute. Nelle “società pretoriane la partecipazione di gruppi nuovi alla vita politica” acutizzerebbe “le tensioni piuttosto che ridurle”, moltiplicando “le risorse e i metodi impiegati nell’azione politica”, contribuendo, pertanto, “alla disgregazione dell’ordinamento politico”. Nuovi gruppi verrebbero mobilitati, ma non assimilati. Insomma, in una società che rischia di precipitare in un simile contesto, le “tecniche dell’intervento militare” sarebbero “solamente più drammatiche ed efficaci delle 280 281 op.cit., p. 214 op.cit., p. 215 117 altre in quanto, come dice Hobbes, ‘quando non viene girata la carta i fiori sono briscole’”282. 4.1.1 Il colpo di stato militare come strumento d’intervento Per Huntington lo “strumento estremo” per impedire il precipitare del sistema politico in una società pretoriana è dunque “il colpo di stato militare”283. Nelle intenzioni del professore di Harvard il colpo di stato militare è tanto un tipo di intervento, al tempo stesso drammatico ed efficace, quanto “il risultato e il prodotto di altri tipi di azione politica condotti da altri gruppi284. “L’intervento dei militari nella vita politica non è una deviazione isolata rispetto a una situazione politica normalmente pacifica: è un elemento particolare all’interno di una complessa situazione di azioni dirette messe in atto da diversi gruppi della classe media in conflitto tra loro…l’assenza di canali istituzionali riconosciuti per l’espressione degli interessi, comporta che le rivendicazioni nei 282 “È dunque chiaro che la stabilità di un ordinamento politico civile è direttamente proporzionale all’ampiezza della partecipazione politica, mentre la stabilità di una società pretoriana è inversamente proporzionale all’ampiezza della partecipazione politica. Le oligarchie pretoriane possono durare secoli; i sistemi pretoriani della classe media decenni, i sistemi pretoriani di massa in genere solo pochi anni. O il sistema pretoriano di massa viene trasformato con la conquista del potere da parte di un partito totalitario come nella Germania di Weimar, oppure le élites più tradizionali tentano di ridurre il livello della partecipazione attraverso strumenti autoritari, come in Argentina. In una società senza istituzioni politiche efficienti ed incapace di svilupparle, il risultato finale del processo di modernizzazione sociale ed economica è il caos politico” (ibidem) 283 “Anche in una società pretoriana la partecipazione politica tende ad aumentare o a decrescere simultaneamente in tutti i gruppi sociali. Tuttavia l’azione politica di un gruppo provoca una forma di azione differente da parte di un altro gruppo, che, a sua volta può suscitare altre modalità di comportamento politico” (op.cit., p. 217) 284 “Rispetto agli altri gruppi sociali impegnati in particolari forme di azione diretta, il tipo d’intervento dei militari è il più drammatico e il più efficace: esso tuttavia è in genere il risultato e il prodotto di altri tipi di azione politica condotti da altri gruppi” (ibidem) 118 confronti del governo vengano portate avanti ‘con i meccanismi della violenza civile e dell’intervento militare’”. Pertanto “l’intervento dei militari è in genere una risposta all’acutizzazione del conflitto sociale tra i diversi gruppi e partiti che accompagna una diminuzione di efficacia e di legittimità delle istituzioni politiche esistenti. L’intervento militare serve ad arrestare la rapida mobilitazione politica di piazza delle forze sociali…e a disinnescare l’esplosiva situazione politica, rimuovendo l’obiettivo e lo stimolo immediato di questa escalation. In breve l’intervento dei militari spesso segna la fine di una serie ininterrotta di violenze”285. Il dato interessante della riflessione di Huntington è il fatto che il colpo di stato militare risulta essere anche il prodotto di una serie ininterrotta di azioni violente, alcune delle quali appositamente predisposte per acutizzare il clima di tensione politico-sociale e sollecitare in tal modo un più rapido intervento delle forze armate; per cui è probabile che l’intervento dei militari, coerentemente alla tattica di blitzkrieg esposta nel capitolo precedente, debba essere anticipato da una serie di atti terroristici che contribuiscano ad accrescere il disordine politicosociale al fine di dirigere l’attenzione dell’opinione pubblica verso una necessità d’ordine, legittimando il colpo di stato come una soluzione necessaria. 285 “In questo senso esso è molto diverso dalle tattiche impiegate da altri gruppi sociali: sebbene i disordini, gli scioperi, le dimostrazioni possano costringere direttamente o indirettamente un governo a modificare la sua politica, essi non sono in grado da soli di far cadere la forza che detiene il potere governativo. Il colpo militare invece, è una azione diretta che cambia non solo la politica del governo al potere, ma il governo stesso. Paradossalmente la dirigenza militare non ha a disposizione strumenti di intervento diretto per il raggiungimento di obiettivi politici parziali. L’esercito può minacciare il governo di intervento se non cambia la sua politica, ma non può esercitare pressioni sul governo eseguendo un colpo di stato. Nei confronti di questo obiettivo le forze sociali civili e i soldati semplici (che possono scioperare o ribellarsi) hanno 119 4.1.2 Le possibili conseguenze del colpo di stato militare Il colpo di stato militare è dunque, per Huntington, il mezzo più idoneo per arrestare i processi di disgregazione politica. Le sue “caratteristiche politiche” sono: (a) il tentativo da parte di una coalizione di sostituire illegalmente i capi del governo per mezzo della violenza o della minaccia di violenza; (b) il ristretto numero di persone implicate; (c) il controllo da parte dei promotori di basi istituzionali di potere all’interno del sistema politico prima che il colpo di stato abbia luogo. Ma quale ruolo rivestono i militari in una società coinvolta in un rapido processo di modernizzazione? “Se la società cambia – sostiene Huntington – cambia il ruolo dei militari. Nel mondo dell’oligarchia il militare è un radicale; nel mondo della classe media egli è membro e arbitro; quando appare all’orizzonte la società di massa egli diventa il custode conservatore dell’ordine esistente” Pertanto in una società industriale o in via di sviluppo, percorsa da un rapido processo di modernizzazione, i militari appaiono come l’istituzione conservatrice per eccellenza dei rapporti di dominio esistenti. Tant’è vero che “più una società è arretrata, più progressista è il ruolo dei suoi militari; più avanzata diventa, più il ruolo dei suoi militari diventa conservatore e reazionario”. possibilità di azione più adatte degli ufficiali. Questi ultimi si devono limitare ad usare o a minacciare l’uso di un arma estrema” (op.cit., p. 234) 120 Secondo quest’ottica il colpo di stato militare riveste dunque una funzione di “sbarramento”286 degli effetti prodotti dal sovraccarico istituzionale, quando questi siano tali da mettere a repentaglio l’esistenza stessa del sistema politico, riflettendo la crescita non istituzionalizzata della partecipazione287. Questo intervento si presenta però come temporaneo e non permanente. Deve pertanto svolgere, nelle intenzioni di Huntington, una funzione di ripristino e non di gestione dello status quo, quindi vertere verso una riconsegna del potere alle istituzioni civili, dopo averle adeguatamente depurate da tutti quei fattori che ne avevano provocato la crisi. L’intervento dei militari è di conseguenza “stimolato dalla corruzione, dalla stagnazione, dalle situazioni di stallo, dall’anarchia, dalla sovversione del sistema politico costituito. Una volta che questi elementi siano eliminati, i militari ritengono di poter restituire la vita politica purificata nelle mani dei dirigenti civili. Il loro compito è semplicemente quello di eliminare il disordine e poi tornare al proprio posto. La loro è una dittatura temporanea – in una certa misura una dittatura di modello Romano”288. 286 “Più precisamente gli interventi di sbarramento in genere avvengono in presenza di due circostanze. Una è la reale o prevista vittoria elettorale di un partito o di un movimento a cui i militari si oppongono o che rappresenta gruppi che i militari desiderano escludere dal potere politico…L’impegno dei militari nella vita politica è saltuario e limitato ad obiettivi specifici, i militari non considerano se stessi né come i modernizzatori della società, né come i creatori di un nuovo ordine politico, ma piuttosto come i guardiani e forse i moralizzatori dell’ordine esistente”, (op.cit., p. 241) 287 “Gli interventi militari di questo tipo cioè di ‘sbarramento’; riflettono quindi direttamente una crescente partecipazione politica delle classi inferiori. Il momento in cui i militari argentini giocarono un ruolo più attivo coincise col raddoppiamento del proletariato industriale da mezzo milione a un milione di lavoratori in poco più di un decennio. Analogamente in Brasile ‘il rumoreggiare delle masse urbane e la proliferazione di politici che sollecitavano demagogicamente i loro voti riportarono nel 1950 i militari nella vita politica’. Nel 1954 i militari si rivoltarono contro Vergas quando egli cominciò a comportarsi come Peron ‘nel sollecitare una rapida ripresa del sostegno popolare al governo, facendo sconsiderate promesse ai lavoratori’” (op.cit. p. 244) 288 “Come ha detto un generale argentino, l’esercito dovrebbe intervenire nella vita politica per affrontare ‘le sventure che possono mettere in pericolo la stabilità e integrità 121 Dunque, “se l’esercito giudica che la repubblica è in pericolo, e prevede disordini, ha l’obbligo di intervenire e di ripristinare la costituzione”. Ma una volta “adempiuto questo compito ha poi l’obbligo di ritirarsi e di ridare il potere ai dirigenti civili normali”289. Si potrebbe sostenere che il legislatore ipotizzato da Huntington, cui spetterebbe il compito di realizzare le riforme che garantiscano al istituzionalizzare sistema le politico gli trasformazioni strumenti indotte per dalla modernizzazione, finisca coll’incarnarsi nelle forze armate, assumendo le vesti di istituzione di “sbarramento”, cioè di “conservazione” del sistema politico; istituzione pronta ad intervenire in circostanze che potrebbero essere a loro volta amplificate artificialmente290. 4.1.3 L’intervento istituzionalizzazione dei militari come strumento di nazionale, senza invece prendere in considerazione le piccole sventure contro le quali ogni tentativo di porvi rimedio serve solo a separarci dalle nostra missione e ad offuscare la percezione del nostro dovere’. Molte costituzioni della America Latina riconoscono implicitamente o esplicitamente questa funzione di custodia ai militari” (ibidem) 289 “L’esercito secondo le parole del presidente boliviano (e generale dell’aviazione) Barrientos dovrebbe essere la ‘istituzione tutelare del paese… che sorveglia con zelo il rispetto delle leggi e le prerogative del governo’” (op.cit., p. 243) 290 “Il presidente Castello Branco diceva ‘i militari devono essere pronti ad agire al momento opportuno e di comune accordo quando ci sia l’assoluta necessità di assicurare al Brasile una appropriata direzione. La necessità e l’opportunità non corrispondono semplicemente al desiderio di essere i tutori della nazione ma derivano dall’individuazione di una situazione che richiede un’azione di emergenza al servizio della nazione’. Questa dottrina, un tempo denominata ‘super – missione’, forse è definita in modo più appropriato come ‘civismo’. Questa ideologia riflette la diffidenza dell’esercito nei confronti del culto della personalità che si sviluppa intorno alle figure di forti leader popolari eletti dalle masse come Getulio, Janio, Jango o Juscellino. ‘L’esercito non vuole un sistema peronista, non vuole un partito popolare che possa minacciare la posizione dominante dell’esercito in quanto interprete e custode dell’interesse nazionale’. L’esercito accetterà i leader popolari solo finché essi non 122 Il colpo di stato militare si configura quindi come l’estrema ratio di un sistema politico intento a garantire la propria conservazione. Esso è la conseguenza diretta di una particolare situazione socio-politica: rapidi processi di modernizzazione, crescita della partecipazione politica, incapacità del sistema politico di assorbirla all’interno delle sue istituzioni. Huntington sottolinea inoltre che una società percorsa da una crisi istituzionale tenda inevitabilmente alla conservazione e che, in quest’ottica, il colpo di stato militare abbia come sua diretta conseguenza il quasi spontaneo coagularsi di gran parte della popolazione attorno alle forze armate: l’assenza di “efficienti istituzioni politiche ostacola lo sviluppo della comunità. Ne risulta che…esistono forti tendenze che agiscono a favore di una sua conservazione”291. Il colpo di stato dipende anche “dalla composizione delle forze sociali all’interno della società”. Infatti, per Huntington, “l’influenza dei militari varia con il livello della partecipazione”. Minore è il livello di organizzazione della partecipazione popolare da parte delle forze politiche di opposizione, maggiore sarà la possibilità che il colpo di stato militare riesca, minore è il livello di alleanza raggiunto dalle forze di opposizione, più facile sarà consolidare il ruolo di una dittatura militare di transizione verso un governo composto da civili in grado a sua volta di garantire l’ordine politico292. Di conseguenza, le possibilità di cominceranno ad organizzare un proprio seguito di massa con cui minacciare la posizione dell’esercito di arbitro dei valori nazionali” (op.cit., p. 244) 291 op.cit., p. 221 292 “Nella fase oligarchica, in genere è difficile distinguere tra capi militari e civili e la scena politica è dominata da generali o, quantomeno, da individui che ne portano il titolo. Quando una società entra nella fase borghese, radicale in genere il corpo degli ufficiali si è ormai nettamente delineato come istituzione a sé; l’autorità si suddivide tra i 123 creare istituzioni politiche sotto gli auspici dei militari sono maggiori durante le prime fasi di una società a tendenza pretoriana. In tal caso, la “strada verso un governo stabile passa per la coalizione dei fucili e del numero contro i cervelli. Questa è, per i militari, l’occasione che consente di trasformare la loro società dal pretorianismo…all’ordine civile”293. Anche se l’intervento iniziale può apparire “illegittimo”, esso acquisterebbe comunque legittimità una volta trasformatosi nella “partecipazione e nell’assunzione di responsabilità in vista della creazione di nuove istituzioni politiche che renderanno impossibili e inutili futuri interventi sia dei militari che di altre forze sociali”294. Di conseguenza, una volta preso il potere, i militari hanno il dovere di avviare una rapida politica di riforme che comporti l’uscita dal pretorianesimo e la realizzazione dell’ordine politico, necessario ad un successivo ritorno dei civili. Sarebbe dunque necessario, secondo Huntington, che l’élite militare svolga il suo ruolo istituzionale predisponendo “istituzioni politiche che riflettano la distribuzione di potere esistente ma che, allo stesso tempo, siano in grado di attrarre e assimilare nuove forze sociali man mano che emergono, in modo che la loro esistenza diventi indipendente dalle forze che inizialmente le crearono”295. Una volta realizzato questo obiettivo, deve poi separare “le funzioni politiche dagli organismi burocratici” in militari e le altre forze sociali e può allora avvenire un certo grado di istituzionalizzazione politica all’interno della struttura di un sistema politico rigorosamente definito e non elastico. L’intervento dei militari spesso è saltuario, alterna giunte militari e giunte civili ed è soggetto al ‘graduale emergere di gruppi civili più potenti che controbilanciano il poter militare’. Infine nella fase pretoriana di massa, l’autorità dei militari viene ad essere circoscritta dalla nascita di grandi movimenti popolari” (ibidem) 293 op.cit., p. 234 294 ibidem 124 modo tale da “mantenere questi ultimi all’interno dei propri compiti specialistici”, disponendo infine le “istituzioni…capaci di regolamentare la successione e di provvedere al trasferimento del potere da un leader o da un gruppo di leader ad un altro senza il ricorso all’azione diretta sotto forma di colpi di stato, rivolte od altri interventi violenti”296. Inoltre l’intervento dei militari in una società a tendenza pretoriana è necessario, anche perché da essa può sorgere il pericolo di una rivoluzione: “in molte società l’intervento dei militari nella creazione di strutture politiche può essere l’ultima concreta opportunità di istituzionalizzazione politica all’infuori del totalitarismo. Se i militari non colgono questa occasione l’allargamento della partecipazione trasforma la società in un sistema pretoriano di massa. In questo sistema la possibilità di creare istituzioni politiche passa dai militari, gli apostoli dell’ordine, agli altri dirigenti della classe media che sono gli apostoli della rivoluzione”297. 4.1.4 “Performance” e legittimità del colpo di stato militare 295 op.cit., p. 255 op.cit., p. 234 297 “Tuttavia in questa società la rivoluzione e l’ordine possono benissimo diventare alleati. I gruppi, gli schieramenti e i movimenti di massa lottano direttamente l’uno conto l’altro, ognuno con armi particolari. La violenza si sostituisce alla politica, la società lotta contro sé stessa. L’ultimo prodotto della degenerazione è una strane inversione nei ruoli politici. La società veramente debole non è una società minacciata dalla rivoluzione, ma da una società incapace di rivoluzione. Nell’ordinamento politico normale il conservatore si interessa alla stabilità e alla conservazione dell’ordine, mentre il radicale minaccia questi stessi con cambiamenti improvvisi e violenti. Ma che significati hanno i concetti di conservatorismo e radicalismo in una società totalmente caotica, dove l’ordine può essere creato solo da una precisa volontà politica? In questa società chi è poi il radicale? Chi è il conservatore? Il solo vero conservatore non è forse il rivoluzionario?” (op.cit., p. 260) 296 125 Vent’anni dopo dalla sua prima analisi dei regimi pretoriani e dalla proposta avanzata per poterne uscire, salvarguardando l’insieme dell’ordinamento e del sistema politico, Huntington, con The Third Wave. Democratization in the Late Twentieth Century (1991)298, tornava nuovamente sul tema delle dittature militari, affrontanto questa volta la problematica del passaggio alla democrazia dei regimi dittatoriali che tra gli anni sessanta e settanta avevano visto le forze armate dei rispettivi paesi impadronirsi del potere. È interessante notare come le dittature militari degli anni settanta, soprattutto quelle latino-americane, prendano le mosse proprio da colpi di stato e da progetti riformistici volti a scongiurare il disordine sociale, considerato ormai inevitabile, e il conseguente rischio di una rivoluzione, nonché a porre le basi politiche e sociali per il ritorno di un governo civile depurato però delle sue componenti più estremiste; insomma una operazione di chirurgia politica destinata a colpire tutti quei gruppi d’opposizione che in alcuni casi, come in Cile, erano riusciti a costruire un’alleanza politica in grado di conquistare la maggioranza parlamentare e procedere legalmente a una trasformazione della struttura socio-economico. Con la “terza ondata” Huntington presenta l’intervento dei militari, come una “performance” volta a ristabilire, con la violenza, laddove fosse necessaria, l’ordine politico in difesa dello status quo, adottando altresì tutte quelle riforme che possano renderlo capace di istituzionalizzare le trasformazioni prodotte dallo sviluppo socio-economico, nonché risolvere il contrasto tra sistema politico e forze sociali dovuto a processi di 298 S.P. Huntington, The Third Wave. Democratization in the Late Twentieth Century, 126 modernizzazione troppo rapidi299. Insomma un’intervento temporaneo, legittimato proprio dalla necessità di preservare quei rapporti di dominio che il sovraccarico e la sua distribuzione lungo le strutture portanti del sistema possono mettere in discussione, lasciando aperto il campo a una trasformazione rivoluzionaria degli assetti socio-economici o a una strisciante e infinita guerra civile con possibili effetti anche al di fuori dell’area geo-politica considerata300. La presa del potere da parte dei militari, arreca comunque “solo un sollievo temporaneo al sistema politico”, in quanto i “gruppi che partecipano al colpo”, essendo “in genere…uniti solo dal loro desiderio di bloccare o di invertire le tendenze che considerano sovversive dell’ordine politico”, una volta al potere, cominciano “a spaccarsi”, frazionandosi “in molte piccole cricche ognuna delle quali” tenta “di portare avanti i propri obiettivi”. Più frequentemente il potere militare si divide “in due grosse fazioni: i radicali e i moderati, i fautori della linea dura e i fautori della linea conciliante…La lotta tra moderati e radicali può concentrarsi su un certo numero di problemi ma il problema chiave è il ritorno al potere dei civili”301. Norman-London, London, 1991, trad.it. Il Mulino, Bologna 1993 299 Se per Maffeo Pantaleoni “la creazione di un ordine, o di un ordinamento, è appunto ciò stesso che esclude il caso, l’arbitrio o il capriccio, l’incalcolabile, l’insaputo, il mutevole senza regola” (M.Pantaleoni, Erotemi di Economia, Laterza, Bari 1925, vol. I, p. 112), per Max Rheinstein “la legge giusta è quella che la ragione ci mostra essere in grado di facilitare, o almeno di non impedire, il raggiungimento e la salvaguardia di un ordine sociale pacifico” (M.Rheinstein, The Relations of Morals and Law, in “Journal of Public Law”, I, 1952, p. 298) 300 cfr.S.P.Huntington, La terza ondata, op.cit., p. 80 301 “Invariabilmente la giunta che giunge al potere con un colpo di sbarramento promette una veloce rassegna dei poteri a un normale governo civile: ma i fautori della linea dura sostengono che i militari debbono rimanere al potere per tenere lontani i gruppi civili che essi hanno destituito dal potere e per imporre riforme strutturali al sistema politico; si tratta in genere di forze militari che appoggiano l’intervento statale in economia e l’autoritarismo in politica. I moderati per contro attribuiscono in genere al colpo di stato obiettivi più limitati. Una volta rimossi i dirigenti politici sgraditi e introdotti alcuni cambiamenti politici e amministrativi, essi ritengono di aver adempiuto al loro compito e 127 Il “problema della legittimità dei regimi militari e delle dittature personali”302 poggia dunque le proprie fondamenta sul fatto che la “fine del sistema democratico e la sua sostituzione con uno autoritario” é “salutata per lo più dalla popolazione con un senso di sollievo e approvazione”, permettendo in tal modo una sorta di “legittimazione negativa, derivante dal fallimento dell’esperienza democratica e dalle sue differenze con questa. Questi nuovi regimi si giustificavano con la lotta al comunismo e alla sovversione interna attraverso la riduzione del grado di agitazione sociale, il ristabilimento della legge e dell’ordine, l’eliminazione della corruzione e il rafforzamento dei valori nazionali”303. Si può anche sostenere che per Huntington l’intervento dei militari sia legittimo non solo dal punto di vista prettamente politico, ma anche giuridico. È infatti l’esistenza stessa dell’istituzione militare a giustificare e conferire validità giuridica ad un intervento coercitivo a salvaguardia del ordinamento socio-politico. Essendo infatti una delle più sono pronti a ritirarsi ad attività politiche secondarie. Come nei colpi di stato di rottura, che segnano l’ascesa della classe media all’attività politica, anche nei colpi di sbarramento i moderati in genere giungono per primi al potere. Essi sono moderati non perché desiderosi del compromesso con la oligarchia esistente, ma perché sono disponibili a trattare con i nascenti movimenti di massa: i radicali invece si oppongono all’espansione della partecipazione politica…I radicali non giungono a compromessi con l’oligarchia; nello stesso modo, nei colpi di sbarramento, essi non arrivano a compromessi con le masse. Gli uni accelerano la storia; gli altri si oppongono alla storia. La divisione tra moderati e radicali implica che spesso gli interventi di sbarramento, come quelli di rottura, avvengano a coppia: il colpo di stato iniziale è seguito da un colpo di stato di consolidamento, in cui i fautori della linea dura tentano di rovesciare i moderati e di impedire il ritorno al potere dei civili. Tuttavia in questo caso il colpo di consolidamento ha minori possibilità di riuscire di quanto non avesse nel caso dall’allargamento della partecipazione politica alla classe media…Il dilemma fondamentale proprio del ruolo di guardiano è insito nella due affermazioni che l’esercito è al disopra della politica e che l’esercito dovrebbe intervenire nella vita politica per impedire cambiamenti nel sistema politico. Il ruolo di guardiani si basa sulla premessa che le cause dell’intervento dei militari derivano da una disgregazione temporanea e straordinaria del sistema politico”, (op.cit., p. 72) 302 ibidem 303 ibidem 128 importanti garanti dell’efficacia (potestas directa) dello Stato, il suo intervento viene probabilmente inteso come una forma estrema di riduzione del disordine politico, prodotto dai processi di modernizzazione. L’intervento dell’istituzione militare, mediante la procedura del colpo di stato, risulta perciò l’estrema ratio cui un sistema politico ricorre per imporre il monopolio della forza da parte delle istituzioni statali, prima che un’alleanza politica rivoluzionaria possa a sua volta sviluppare i medesimi livelli di legittimità ed efficacia, ponendone in discussione l’esistenza304. Huntington sembra confermare questo aspetto quando afferma che “la legittimazione negativa” dei militari tendeva “a 304 L’asserzione che ogni Stato, purchè sia valido, cioè legittimo ed efficiente, è uno stato di diritto, è ripetuta frequentemente anche in tutta l’opera di Kelsen (Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, Tubinga, 1911, p. 249; Der soziologische und der juridische Staatsbegriff, Tubinga 1922, p. 190; 1935, p. 486; 1960, p. 314, cit. F.A.von Hayek, Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1989, p. 247, nota 56). Questo tuttavia comportava per Hayek che non si sarebbe potuta più fare “nessuna distinzione tra un sistema giuridico in cui prevale il dominio della legge (ovvero il principio del governo sottoposto alla legge, o Rechtsstaat) e dove ciò non avviene; quindi ogni ordinamento giuridico sarebbe un esempio del principio di legalità, persino quando i poteri dell’autorità sono totalmente illimitati” (op.cit., pp. 246-247). Tant’è vero che Kelsen stesso arrivò a sostenere che “dal punto di vista della scienza giuridica, il diritto (Recht) durante il governo nazista era diritto (Recht). Possiamo dispiacercene, ma non possiamo negarlo” (H.Kelsen, in Das Naturrecht in der politischen Theorie, a cura di F.M. Schmoelz, Salisburgo, 1973, p. 148, cit. in op.cit, p. 254). “E’ questa – proseguiva Hayek – la concezione secondo cui la coercizione è legittima soltanto se usata per far osservare norme di mera condotta ugualmente applicabili a tutti i cittadini. Lo scopo del positivismo giuridico è di rendere l’uso della coercizione al servizio di fini particolari, ovvero di qualsiasi interesse speciale, altrettanto legittimo dell’uso fattone per preservare le basi di un ordine spontaneo” (op.cit., p. 247). Infatti Kelsen sosteneva che “dal punto di vista della conoscenza razionale, vi sono unicamente interessi di esseri umani e quindi conflitti d’interessi. La soluzione di questi ultimi può avvenire soltanto soddisfacendo un interesse a spese di un altro, o tramite un compromesso tra interessi conflittuali. È impossibile dimostrare che l’una o l’altra delle due soluzioni è giusta” (H.Kelsen, Vom Wesen und Wert der Demokratie, Tubinga 1920, cit. in op.cit., p. 251). Di fatto “…per coloro che rendono il potere del legislatore necessariamente illimitato, la libertà individuale diventa un qualcosa che va al di là di quel che può essere salvato, e la libertà politica finisce col diventare la libertà collettiva della comunità, cioè la democrazia. Di conseguenza il positivismo giuridico è diventato anche il supporto ideologico principale dei poteri illimitati della democrazia” (op.cit., pp. 250-251) Pertanto proponeva che “l’asserzione…che ogni legge valida è una legge stabilita dall’autorità” fosse da ritenersi accettabile soltanto se “si sostituisce ‘resa valida’ a ‘stabilita’, e ‘di fatto applicata dall’autorità’ a ‘resa valida’” (op.cit., p. 249) 129 decadere con il tempo”, costringendo “questi regimi autoritari” a cercare “nella efficacia della loro azione una delle principali basi, se non la principale, della loro legittimazione”305. Ciò sta a indicare che, svanito il pericolo di una prospettiva pretoriana, ovvero una successiva trasformazione rivoluzionaria degli assetti sociali (legittimazione negativa), i militari devono inevitabilmente cedere il governo ai civili oppure sviluppare un apparato istituzionale che sia in grado di basare il proprio potere sulla sola potestas directa, dunque su un possibile controllo coercitivo dei rapporti di interazione sociale (efficacia dell’azione come principale base della legittimazione). Comunque sia, laddove i colpi di stato hanno avuto successo, i militari hanno spesso optato per l’efficacia dell’azione, piuttosto che per un ritorno al potere dei civili, strutturando longeve e sanguinarie dittature che in fin dei conti sono risultate incapaci di risolvere le problematiche di fondo dei paesi che hanno governato, primi fra tutti quelli latino-americani. Sono purtuttavia riuscite a sradicare dal territorio tutte quelle organizzazioni politiche capaci di proporre un progetto di potenziale trasformazione del sistema politico306. Tant’è vero 305 “Nelle democrazie la legittimazione dei governanti dipende da quanto costoro sono in grado di rispondere alle aspettative dei gruppi chiave di elettori, vale a dire della loro performance, la legittimazione del sistema dipende invece dalle procedure e dalla capacità degli elettori di scegliere i propri governanti con il voto. Se i governanti falliscono, perdono in legittimazione, sono sconfitti alle elezioni e sostituiti da una nuova classe dirigente. In questo modo la perdita di legittimazione a causa di una scarsa performance dei capi porta alla riaffermazione della legittimazione procedurale dell’intero sistema. Nei sistemi autoritari diversi da quelli monopartitici non è possibile la distinzione fra la legittimazione del governo e quella del sistema” (S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, p. 72) 306 Questo pericolo veniva avvertito dallo stesso Hayek quando sosteneva che il “fatto che il contenuto di un sistema di norme alle quali il legislatore conferisce validità, possa non essere un prodotto del suo disegno ma esistere indipendentemente dalla sua volontà, e che egli non si sia mai considerato capace di, né abbia mirato a sostituire il sistema vigente di norme riconosciute con uno completamente nuovo, ma accetti alcune norme stabilite senza metterle in discussione, ha una importante conseguenza. In molti casi in cui vorrebbe ridefinirle egli non potrà emanare le norme che preferisce, ma sarà 130 che, in poco meno di vent’anni, dai primi colpi di stato alla fine degli anni ‘80, un’intera generazione è stata ridotta al silenzio, attraverso il sistematico uso della repressione delle libertà democratiche, della tortura e dell’omicidio politico307 in nome di una superiore istanza dominativa, e non tanto quella della democrazia, la cui crisi venne risolta imponendo l’ordine militare e dei militari. 4.1.5 Il “dilemma della performance” e la riconsegna del potere ai civili: la “terza ondata di democratizzazione” Durante gli anni ottanta, tutti i regimi militari lasciavano finalmente il posto ad un governo civile formato in gran parte da forze politiche conservatrici. I militari si ritiravano nelle caserme, lasciando il potere nelle mani di civili a loro graditi. vincolato dai requisiti di quella parte del sistema che gli è dato. In altri termini, l’intero complesso di norme di fatto osservate in una società determina quale norma particolare sia razionale applicare o si dovrebbe applicare”. (F.A.von Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., p. 248). Ciò starebbe a significare che una volta al potere i militari costituirono un sistema di norme che ben presto si autolegittimarono indipendentemente dalla volontà di quelle forze civili e politiche che ne avevano invocato l’intervento. 307 La “Comisiòn Nacional sobre la Desaparicion de Personas”, istituita dal governo argentino, pubblicò già nel 1984 un dossier, Nunca Mas, ora giunto alla sua quinta edizione (Eudeba, Buenos Aires 1999), in cui si ricostruiva dettagliatamente il dramma dei desaparecidos argentini e le tecniche di repressione attuate dal governo militare tra il 1976 e il 1982 nell’ottica del già menzionato Piano Condor. Recentemente un articolo apparso sul giornale “Internacionales” del 2 settembre 2001 (p.30), dava la notizia del ritrovamento di importanti documenti presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America in cui vi sarebbero le prove di una “alianza de Uruguay y los EE.UU (Stati Uniti n.d.a.) en el Plan Còndor”: “Segùn los nuevos documentos, el Organismo Coordinador de Operaciones Antisubversivas (OCOA) de Uruguay…comenzaron a desarrollar operaciones de inteligencia de una manera sistemàtica en la Argentina a partir de junio 1976. uno de los documentos revela que Campos Hermida fue entrenado por la Oficina de Securidad Pùblica de EE.UU. (un departamento vinculado con la CIA)” (ibidem). Ringrazio la signora Franca Lepori e il giornalista argentino Jorge Casal, all’epoca dei fatti (1973-1982) sindacalista, nonché fotografo per l’agenzia Reuter e testimone diretto dei drammatici eventi che coinvolsero la quasi totalità del continente sudamericano, per avermi inviato il materiale appena citato 131 Così come vent’anni prima aveva analizzato le vicende e le strategie socio-politiche che dal disordine pretoriano e dal pericolo rivoluzionario portavano all’Ordine politico, ora Huntington con The third wave. Democratization in the late twentieth century (1991), analizzando la cosiddetta terza ondata di democratizzazione, che, fra il 1974 e il 1990 ha assistito al passaggio alla democrazia di ben ventinove paesi, descrive le diverse fasi della riconsegna del potere ai “civili” da parte dei militari, ponendo fine alla “performance” dittatoriale. Se la democrazia è definita dal politologo di Harvard come una procedura di base per l’istituzione dei governi308, la democratizzazione consiste invece in “una serie di passaggi da regimi autoritari309 a regimi democratici, concentrati in un periodo di tempo ben determinato”310. Nel corso della storia si 308 “La democrazia può essere definita come fonte di autorità per i governi, come fine ultimo perseguito e servito dai governi stessi e come procedura di base per l’istituzione dei governi” (S.P.Huntington, La terza ondata, op.cit., p. 28) 309 In Authoritarian politics in Modern society. The dynamics of established One-Party systems (Harvard University Press, Harvard, 1970), curato assieme a C.H. Moore, Huntington analizza il processo di istituzionalizazzione da parte di un unico partito. Il sistema a partito unico non è, per Huntington, né il prodotto di una società senza classi né di una società troppo eterogenea e con tendenze centrifughe dove il partito unico costituirebbe l’unico strumentoper mantenerne la coesione. Il partito unico è invece la conseguenza di un accumularsi di cleavages (fratture) che conducono alla formazione di gruppi fortemente differenziati. Il sistema monopartitico nascerebbe per Huntington da “biforcazioni” di tipo religioso, linguistico, etnico, razziale e socio-economico che non possono essere risolte per mezzo di secessioni e divisioni territoriali. L’emergenza del partito unico è più frequente nelle fasi iniziali e intermedie della modernizzazione ed è di solito frutto della coalizione delle forze socili più modernecontro le forze più tradiazionali. Una volta giunto al potere, il partito unico ridefinisce le basi della comunità in modo tale da presentarsi come l’”eletto” che deve assimilare gli altri raggruppamenti sociali o escluderli in maniera permanente. Secondo Huntington, in base alla scelta dell’una o dell’altra tattica si hanno i sistemi di partito esclusivisti e i sistemi di partito rivoluzionari: i primi accettano la biforcazione della società, i secondi cercano o di liquidare le forze sociali antagonistiche in modo completo o di assimilare più o meno rapidamente glia ltri gruppi sociali. Se i partiti unici esclusivisti resistono alle sfide della modernizzazione socio-economica, allora si mantengono al potere, se li accettano, il sistema tende a mutare e a provocare nuovi allineamenti politici. Invece i partiti rivoluzionari che accettano i mutamenti introdotti dalla modernizzazione riescono a riunificare il sistema sociale senza perdere il potere anzi, consolidandolo fino a riflettere, secondo Huntington, i bisogni di una società relativamente “consensuale” anziché quelli di una società divisa. 310 S.P. Huntington, La terza ondata, op.cit. p. 36 132 sono verificate per Huntington tre ondate di democratizzazione (1828-1926; 1943-1962; 1974-1990), due delle quali seguite da altrettante ondate di riflusso (1922-1942; 1958-1975). Fra il 1828 e il 1926 si poteva parlare di democrazia soltanto se si fossero registrati i seguenti indicatori: 1) almeno il 50% degli adulti maschi doveva esercitare il diritto elettorale attivo, 2) doveva esservi un esecutivo responsabile che deteneva la fiducia di una maggioranza all’interno di un parlamento scelto attraverso consultazioni elettorali periodiche. La prima ondata registrò lo sviluppo della democrazia in Italia, Argentina, Svizzera, Gran Bretagna, Francia, Irlanda, Islanda, Germania e nei Dominions inglesi. L’ondata di riflusso (1922-1942) prese avvio con la marcia su Roma del 1922, seguita nei dieci anni successivi dalla nascita di governi autoritari in Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia, Austria, Germania, Cecoslovacchia, Grecia, Portogallo, Argentina, Cile, Spagna e Giappone. La seconda ondata di democratizzazione fu piuttosto breve. Durò infatti appena 19 anni (1943-1962) e fu essenzialmente dovuta alla vittoria degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale e al rapido processo di decolonizzazione che ha provocato la nascita di numerosi Stati indipendenti. Oltre al ritorno alla democrazia in numerosi Stati europei, molti cambiamenti di regime si verificarono nel continente asiatico (Pakistan, India) e latino-americano (Colombia, Venezuela, Perù). Anche questa ondata fu seguita da un periodo di riflusso che dal 1958 si protrasse fino al 1975. Drammatici rovesciamenti di regime si ebbero infatti in America Latina (Cile, Ecuador, Argentina, Bolivia, Uruguay, 133 Brasile), mentre in Europa faceva la sua comparsa il “regime dei colonnelli” (Grecia, 1967-1974). Mentre la seconda ondata di democratizzazione appariva soprattutto come la conseguenza di ragioni esterne agli ordinamenti stessi, la terza (1974-1990), eccezion fatta per Grenada e Panama, è stata essenzialmente generata da logiche endogene che vanno dall’ “unica causa”311, verificatasi a prescindere da qualsiasi altro evento occorso negli altri paesi, oppure da “sviluppi paralleli”312, determinatesi in più paesi contemporaneamente, fino a un “effetto valanga”, che ha trasformato le cause immediate di una soluzione, divenuta prevalente, in una risposta comune da parte delle élites dei diversi paesi313. Durante la terza ondata, avviatasi con la rivoluzione portoghese (25 aprile 1974), hanno intrapreso la strada della democratizzazione la quasi totalità dei regimi autoritari dell’America Latina (Brasile, Perù, Cile, Uruguay, Argentina), i vecchi sistemi autoritari dell’Europa meridionale (Portogallo e Spagna) e infine, quasi tutte le Repubbliche Popolari dell’Europa dell’Est, eccezion fatta per la Jugoslavia. Ben 29 Stati, di cui 24 avevano già conosciuto in passato la democrazia, portarono a termine con successo, fra il 1974 e il 1990, il processo di democratizzazione delle loro strutture di governo. Le modalità seguite sono state essenzialmente tre: trasformazione, transostituzione e sostituzione. Nel primo caso sono state le élites al potere ad aver intrapreso la transizione 311 “Potrebbe trattarsi dell’ascesa di una nuova superpotenza o di qualche altro mutamento nella distribuzione internazionale del potere, oppure dello scoppio di una grande guerra o di qualche altro evento significativo” (op.cit., p. 55) 312 “Cause simili possono trovarsi all’opera più o meno simultaneamente in altri paesi producendo effetti abbastanza uguali” (op.cit., p. 56) 134 democratica, nel secondo l’opposizione e il governo, nel terzo è stata invece la sola opposizione, mentre il governo è rimasto fuori da ogni gioco. Inoltre Huntington, sulla base dei dati fornitigli dalla terza ondata, propone addirittura delle “linee guida” per tutti i gruppi politici che vogliano a loro volta intraprendere un processo di democratizzazione. Nel caso di “trasformazioni”, suggerisce di assicurarsi una solida base politica, di operare i cambiamenti attraverso le procedure stabilite dal regime autoritario, rassicurando i gruppi conservatori intransigenti, senza dimenticare però di ridurne gradualmente l’influenza. Egli invita anche a non perdere mai il controllo del processo di democratizzazione, tenendo basse le aspettative e gli obiettivi reali del cambiamento oltre ad incoraggiare l’operato di un partito d’opposizione responsabile, moderato e che sappia creare un senso di inevitabilità intorno al processo di democratizzazione. Le linee guida del politologo americano per i democratizzatori che vogliano invece “sostituire”, rovesciandolo, un regime autoritario, propongono che i gruppi politici dell’opposizione, soprattutto quelli moderati, spingano l’opinione pubblica verso la necessità di por fine alla “performance” del regime autoritario, cercando di metterlo in difficoltà su questioni di carattere generale. Sarebbe poi necessario persuadere il più possibile figure fondamentali della società civile (uomini d’affari, professionisti della classe media, figure religiose) della necessità di avviare la democratizzazione del sistema politico. Huntington raccomanda inoltre di adottare pratiche non violente, di cogliere 313 op cit., p. 57 135 ogni occasione per esprimere l’opposizione al regime, di sviluppare contatti con i media mondiali e le organizzazioni internazionali e soprattutto di essere pronti a riempire il vuoto di autorità una volta che il regime sia caduto. Le èlites dei regimi autoritari che abbiano inteso invece l’intenzione opposizioni, di negoziare sostenendo la democratizzazione una “transostituzione”, con le devono innanzitutto isolare e indebolire al loro interno le fazioni conservatrici, consolidando la propria presa sul governo al fine di ottenere delle concessioni sempre più importanti, assicurandosi nello stesso tempo l’approvazione dei negoziati da parte dei generali più influenti. Dal punto di vista dei militari la riconsegna del potere può invece avvenire nei modi seguenti:1) “Restituzione e contenimento....I militari possono restituire il potere ai civili dopo un breve governo ed una purga dei funzionari governativi, ma continuare a mantenere l’ascesa di nuovi gruppi al potere politico. Quasi sempre, tuttavia, si ripresenta la necessità del loro intervento”; 2) “Restituzione e espansione…I capi militari possono restituire il potere ai civili e permettere ai gruppi sociali, ai quali avevano precedentemente impedito l’accesso al potere, di accedervi sotto nuove condizioni e in genere con una nuova dirigenza”; 3) “Mantenimento e contenimento…I militari possono mantenere il potere e continuare ad opporsi all’espansione della partecipazione politica. In questo caso, nonostante le buone intenzioni, essi vengono inevitabilmente trascinati ad attuare misure sempre più di repressione”; 4) “Mantenimento ed Espansione…I militari possono mantenere il 136 potere e permettere, anzi promuovere l’espansione della partecipazione politica”314. E’ possibile per Huntington una quarta ondata di democratizzazione? Considerando che le risorse democratiche, liberate dal crollo del comunismo sovietico, dall’azione svolta dagli Stati Uniti e dalla Comunità Europea, nonché il ruolo assunto dal cattolicesimo, punto di forza della terza ondata, sembrano ormai essersi esaurite, una quarta ondata, se non impossibile, sembrerebbe comunque essere quanto meno compromessa. Fra gli ostacoli che vi si frappongono – avverte Huntington – c’è anche il rischio di nuove forme autoritarie di governo sottoforma di dittatura tecno-elettronica resa possibile dalla manipolazione dell’informazione, dei media e di altri sofisticati mezzi di comunicazione. Dunque lo studioso americano, con la “terza ondata” non si limitava soltanto a fornire un’interpretazione della problematica della democratizzazione, ma elabora anche dei suggerimenti per avviarla e condurla a buon fine, articolando gli interventi a seconda che si tratti di una transformazione, di una transostituzione o di una sostituzione. Alla base del processo di democratizzazione suggerito si colloca essenzialmente una crisi di legittimità dei regimi autoritari, detta dall’autore “dilemma della performance”, sarebbe 314 “Questa è stata la strada seguita da Peron e in misura inferiore da Rojas Pinilla in Colombia. I due ufficiali giunti al potere con un colpo di stato di impostazione diversa dall’intervento di sbarramento ottennero l’appoggio di ampi forze che proprio dal colpo di stato traevano la possibilità di intervenire nella vita politica. In genere il prezzo che si paga in questo caso è doppio. Il leader militare si aliena la fonte originaria di sostegno, cioè l’esercito, aumentando la sua vulnerabilità nei confronti di un colpo militare conservatore. Inoltre si intensifica l’antagonismo tra la classe media conservatrice e le masse radicali” (S.P.Huntington, Ordinamento Politico e mutamento sociale, cit., p. 250) 137 a dire il venir meno delle cause che a suo tempo ne avevano richiesto la formazione al fine di garantire una fase di “ordine politico”. Quindi, se ci riallacciamo alla tematica del sovraccarico, possiamo sostenere che Huntington delinea un vero e proprio percorso circolare: la crisi da sovraccarico di un sistema politico, se distribuita lungo le sue strutture portanti, determina una crisi di legittimazione degli apparati istituzionali con la conseguente, possibile, trasformazione radicale dell’intero ordinamento politico-sociale, qualora intervengano, nel corso della crisi, dei gruppi capaci di formare e mobilitare complessivamente la volontà della collettività nazionale, indirizzandola verso forme rivoluzionarie di istituzionalizzazione dei processi di modernizzazione, oppure lasciandola scivolare lungo il precipizio della società pretoriana. Per impedire che ciò accada, il sistema politico deve lasciare spazio, soprattutto nelle società a tendenza pretoriana, a una fase di ordine politico, imponendo una performance di tipo autoritario, avvalendosi pertanto dell’intervento dell’istituzione militare. Una volta eliminati i fattori di crisi del sistema, primo fra tutti l’eccessiva partecipazione politica, ricondotta la modernizzazione all’interno di procedure istituzionalizzanti più consone alle strutture portanti dell’ordinamento socio-politico e aver dato modo ai gruppi più radicali di “rivalutare le virtù democratiche”, cioè di escludere definitivamente l’ipotesi di una trasformazione rivoluzionaria delle strutture portanti della 138 società, solo a questo punto, si può pensare di proporre un’evoluzione democratica315. Il discorso si complica per quanto riguarda invece le democrazie occidentali. Infatti, se possono suggerirsi “performance” autoritarie per i sistemi politico-economici in via di sviluppo, non si può, per Huntington, fare altrettanto per quelli europei o nordamericani, dove le istituzioni democratiche sono ben più radicate non soltanto nel tessuto politico-istituzionale, ma anche nelle singole coscienze dei cittadini e nell’insieme della società civile. Era quindi necessaria una diversa strategia di riduzione del sovraccarico istituzionale. Quando Huntington parla di paesi in via di sviluppo fa riferimento soprattutto ai paesi latino-americani, principale oggetto d’indagine tanto in Political Order quanto in The Third Wave316. Tornando alle soluzioni da adottare per scongiurare le conseguenze di una crisi da sovraccarico istituzionale, dobbiamo ora 315 “Molti regimi autoritari hanno dovuto controllarsi con i problemi relativi alla legittimazione negli anni settanta proprio in virtù delle loro passate esperienze con la democrazia. In certo senso il corpo politico dei loro stati si era “ infettato” con il virus della democrazia e, sebbene il precedente regime non avesse ottenuto successo, rimaneva la convinzione che un regime effettivamente legittimato si dovesse basare su istituzioni democratiche. In questo modo i governanti autoritari dovevano giustificare i loro regimi con la retorica della democrazia asserendo di essere dei convinti democratici o di trasformarsi in tali una volta risolti i problemi più impellenti della società…..Le dittature di destra, come nel caso delle Filippine e del Salvador, spesso stimolano la crescita di movimenti rivoluzionari di sinistra. In Sud America, tuttavia, la violenta repressione dei regimi militari ha eliminato fisicamente molti estremisti, favorendo anche presso i gruppi marxisti la rivalutazione delle virtù democratiche. Come osservato da Juan Linz e da Alfred Stepan, negli anni ottanta la sinistra latino – americana ha iniziato ha considerare la “ democrazia procedurale” come “una norma valida in se stessa e come una soluzione politica in grado di offrire protezione contro il terrorismo di stato e speranze di progredire verso una effettiva democrazia sociale ed economica”. Uno dei padri della teologia della liberazione, padre Gustavo Gutiérrez del Perù, ha osservato nel 1988 che “l’esperienza della dittatura ha reso i teologi della liberazione più sensibili ai diritti politici” (op.cit., p. 80) 316 Questa suddivisione tra paesi europei-nordamericani e paesi latinoamericani, entrambi parte di un’unica civiltà, seppur con alcune differenze che suggeriscono appunto diverse strategie d’intervento, tornerà a emergere nell’ultmio lavoro di Huntington: The Clash of Civilizations. Vi si precisa infatti che sebbene l’America latina si è evoluta secondo un modello diverso da quello europeo e nord-americano, è pur sempre “un’emanazione diretta della civiltà europea” di cui “può essere considerata o una sottociviltà nell’ambito della civiltà occidentale, oppure una civiltà a se stante strettamente associata all’Occidente e divisa in merito alla sua appartenenza o meno ad esso” (S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997, pp. 52-53) 139 concentrare la nostra attenzione sulle proposte suggerite da Huntington per uscire dalla “crisi della democrazia” occidentale durante gli anni ’70; suggerimenti che possiamo assumere a paradigma della riflessione hungtintoniana sulla democrazia nei paesi occidentali, sulle conseguenze di un suo sovraccarico istituzionale e sulle possibili soluzioni da adottare qualora si verificassero. 5. Il “limite” all’espansione della democrazia e le risposte alla potenziale deriva verso una “crisi di trasformazione potenziale” 5.1 L’“ingovernabilità” della democrazia nella riflessione politica di S.P.Huntington: il rapporto alla Commissione Trilaterale del 1975 Huntington si occupò della problematica del sovraccarico istituzionale in relazione anche alle democrazie occidentali, e alla situazione critica che esse stavano vivendo durante gli anni settanta, fornendone una significativa analisi nel rapporto sugli “Stati Uniti”, preparato nel 1975 per la riunione di Kyoto (Giappone) della Commissione Trilaterale. Questo rapporto era parte di un’unico lavoro317, comprendente anche le relazioni presentate da M.Crozier (Europa) e J.Watanukj (Giappone), che abbracciava l’insieme delle democrazie facenti parte delle zone 317 M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, The Crisis of Democracy, Trilateral Commission, New York, 1975, trad.it La crisi della democrazia, cit. 140 geo-politiche più industrializzate della Terra: Europa, Giappone, Nord-America. Prima di affrontare i temi analizzati da Huntington nel suo rapporto, è opportuno dedicare parte della nostra attenzione alla Commissione Trilaterale e alla riunione di Kyoto, nonché agli sviluppi, contemporanei e successivi a tale riunione, della cosiddetta teoria dell’ingovernabilità o della crisi da sovraccarico delle democrazie occidentali durante gli anni settanta. 5.2 Il “gruppo di privati cittadini” della Commissione Trilaterale La Commissione Trilaterale, fondata da David Rockefeller, nasceva nel 1973 a ridosso di un contesto politico internazionale caratterizzato da un’allarmante crisi energetica e dalla firma del trattato che sanciva la sconfitta Statunitense in Vietnam318. La cosiddetta crisi del petrolio, dovuta alla guerra del Kippur fra Israele e i paesi arabi319, aveva gettato le nazioni dell’Occidente europeo in profonda crisi economica, provocando un’accentuazione del conflitto sociale che si era esteso a settori 318 I negoziati, iniziati il 30 aprile 1968, si conclusero il 23 gennaio 1973 quando Kissinger parafò l’“Accordo sulla cessazione delle ostilità e il ristabilimento della pace in Vietnam e il presidente Nixon “annunciò che il cessate il fuoco entrava in vigore il 28 gennaio, che tutte le forze americane sarebbero state ritirate nei 60 giorni seguenti e i prigionieri americani liberati” (cfr.J.-B.Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, Led, Milano, 1998, p. 679). Era la “pace con onore” promessa alla fine degli anni sessanta, in un contesto in cui, all’uccisione di Martin Luther King (aprile 1968) avevano fatto seguito vere e proprie rivolte da parte della popolazione nera delle più importanti città statunitensi e l’uccisione del candidato alla presidenza Robert Kennedy 319 Iniziata sabato 6 ottobre 1973, alle 13,50, quando consistenti truppe egiziane attraversarono il canale di Suez e nello stesso momento l’esercito siriano, con l’aiuto di 141 sempre più ampi della popolazione. Mentre la Repubblica Federale Tedesca procedeva al definitivo riconoscimento della Repubblica Democratica e dei suoi confini orientali (OderNeisse), gli Stati Uniti, appresa la “lezione vietnamita”, come l’aveva definita Kissinger, reimpostavano la propria politica estera su logiche decisamente diverse rispetto al passato; logiche che non avrebbero più visto gli Stati Uniti impegnati in prima persona nei conflitti caratterizzanti certe aree del pianeta (Europa, Asia). La vietnamizzazione del conflitto veniva così imposta dagli USA non più soltanto al Vietnam, ma anche ad altre realtà geo-politiche, lasciando che l’intervento contro i pericoli che minaccivano la democrazia venisse direttamente dall’interno della singola realtà minacciata, la quale, tutt’al più, avrebbe potuto usufruire di un coordinamento esterno esercitato da alcune agenzie aventi per obiettivo quello di proporre soluzioni equilibrate a problemi di attualità internazionale e di comune interesse. Non solo, ma la situazione sociale interna ad ogni singolo stato, soprattutto europeo-occidentale, mostrava una cronica instabilità, dovuta a processi di continuo allargamento della partecipazione democratica e all’emergere impetuoso di movimenti indirizzati verso un cambiamento più o meno radicale della società. Tutto questo spingeva settori sempre più ampi della popolazione a partecipare direttamente al “governo del potere pubblico in pubblico”320, cioè alla gestione del potere democratico. unità irachene, penetrò nella zona di occupazione israeliana del Golan (cfr.J.B.Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, cit., p. 663) 320 N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, p.76 142 Quali erano le finalità della Commissione Trilaterale? La Commissione veniva definita nel suo Statuto come “un gruppo di privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti, delle tre aree del mondo industrializzato (America Settentrionale, Europa Occidentale, Giappone) che si riuniscono per studiare e proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità internazionale e di comune interesse”321. La nascita e la strutturazione di questo gruppo prendeva origine dalla consapevolezza dell’esistenza di una realtà internazionale globale, suddivisa in tre sottosistemi regionali, interdipendenti e cooperanti di fatto tra di loro, “nell’ambito di una complessa dinamica…che si è venuta identificando in due flussi principali: un flusso Est-Ovest e uno Nord-Sud”, cioè due flussi convergenti in “‘linee di conflittualità’”322, quasi ad indicare come la componente più forte delle relazioni internazionali fosse appunto, la contrapposizione. Riconosciuta la divisione di fatto del sistema internazionale in tre sotto-sistemi, si poneva il problema essenziale della possibile identificazione di un “mondo occidentale”, industrializzato e democratico, che si potesse inserire nelle relazioni internazionali come forza ben definita, tesa a sostenere i fondamentali principi della cooperazione nella libertà internazionale degli scambi con l’obiettivo di uno sviluppo equilibrato del pianeta. Per svolgere il suo compito, la Commissione trilaterale, oltre agli incontri e alle discussioni a livello globale, di gruppo o di comitato esecutivo, proponeva periodicamente la pubblicazione di rapporti su argomenti concordati in base al loro interesse ed alla loro attualità. La 321 Statuto della Commissione Trilaterale, New York 1973, art.1. Direttamente visionato presso la sede di Parigi della Commissione Trilaterale per gentile concessione di M.P.Révay, Direttore Europeo della Commissione Trilaterale 143 preparazione dei rapporti veniva affidata a tre esperti della Commissione, uno per ciascuna area, i quali elaboravano bozze successive che, dopo la discussione in una riunione plenaria della Commissione e di gruppi di lavoro ad hoc, venivano pubblicati in forma di volumi. Come era strutturata la Commissione Trilaterale? La Commissione poteva contare nel 1975 su 180 membri. Vi era un primo livello formato da organi che esplicavano la loro azione in ambito internazionale: un Presidente, seguito da un Direttore Generale, un Comitato esecutivo e un’Assemblea plenaria comprendente tutti gli iscritti. La Commissione era inoltre suddivisa a seconda delle aree geografiche interessate (Gruppo Nord America, Gruppo Europeo, Gruppo Giapponese). Ogni gruppo era diretto da un Chairman, un Deputy Chairman e un Director, affiancati da un Comitato Esecutivo regionale. A loro volta i singoli Stati323 facenti parte di ciascun gruppo regionale, avevano un proprio organigramma che ripeteva quello proprio della struttura principale. L’area europea comprendeva nel 1975 60 membri324, tanti quanti ne disponevano quelle Nord-Americana e Asiatica325. 322 Cfr. M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, cit., p. 3 Durante gli anni ’70 non si discusse molto in Italia della Commissione Trilaterale e il dibattito fu essenzialmente limitato agli organi di stampa che se ne occuparono soprattutto in occasione dell’elezione alla Presidenza degli Stati Uniti di J.Carter, membro della Trilaterale: Il Sole 24 Ore (15 ottobre 1975), La Repubblica (5 novembre 1976) Corriere della Sera (4 novembre 1976), La Stampa (4 novembre 1976), Il Sole 24 Ore (4 novembre 1976), Il Giorno (2 novembre 1976), L’Europeo (4 giugno 1976). Da segnalare anche un incontro tra alcuni studenti dell’Università di Bologna e il direttore della Stampa, Arrigo Levi, anch’egli membro della Commissione Trilaterale, trasmesso da Rai Radio Due il 10 marzo 1977 alle ore 21:50, in cui, oltre all’elezione di Carter, si discusse pure della Trilateral Commission 324 Nel 1975 facevano parte della Commissione Trilaterale anche Z.Brzezinski (Direttore della Commissione Trilaterale), G.C.Smith (Direttore della deputazione nordamericana), M.Kohnstamm (Direttore della deputazione europea), T.Watanabe (Direttore della deputazione giapponese), F.Duchene (European Deputy Chairman), C.J.Makins (Deputy Director), G.S.Franklin (Segretario per il Nord-America), T.Yamamoto (Segretario per il Giappone), James E.Carter (Governatore della Georgia e 323 144 5.2.1 Il Rapporto del 1975 sulla crisi della democrazia Il Rapporto della Commissione Trilaterale sulla “crisi della democrazia”, presentato all’Assemblea Plenaria di Kyoto futuro Presidente degli Stati Uniti), Alden W.Clausen (Presidente della Banca d’America), David Rockefeller (Presidente della Chase Manhattan Bank e membro del Comitato esecutivo Nord-America), Raymond Barre (membro dell’Assemblea Nazionale francese e futuro Presidente del Consiglio francese), Gerhard Schroder (futuro cancelliere tedesco e allora membro del Bundestag). La componente italiana era invece formata da: Giovanni Agnelli (Presidente della Fiat e membro del Comitato esecutivo europeo), Piero Bassetti (Presidente della Regione Lombardia), Franco Bobba (Company Director, Turin), Umberto Colombo (Direttore del Comitato per le politiche scientifiche, OECD), Guido Colonna di Paliano (Presidente de La Rinascente e membro della Commissione della Comunità Europea), Francesco Compagna (Sottosegretario di Stato al Ministero del Mezzogiorno e membro del Comitato esecutivo europeo), Francesco Forte (Professore di Scienza delle Finanze all’Università di Torino), Giuseppe Glisenti (Director of General Affairs, La Rinascente), Arrigo Levi (Direttore del quotidiano La Stampa, Torino), Cesare Merlini (Direttore dell’Istituto Italiano per gli Affari Internazionali). Attualmente la Commissione Trilaterale può annoverare tra i suoi iscritti: Zbigniew Brzezinski, Henry A.Kissinger, John D.Rockefeller, George Soros, Bruce Babbit (ex-Segretario di Stato agli Interni), Stephen W.Bosworth (Ambasciatore in Corea del Sud), Bill Clinton (ex-Presidente degli Stati Uniti), William S.Cohen (exSegretario di Stato alla Difesa), Thomas Foley (Ambasciatore in Giappone), Alan Greenspan (Capo delle Federal Reserve), Richard Holbrooke (Ambasciatore alle Nazioni Unite). Il gruppo italiano riporta invece i nomi di: Umberto Agnelli Presidente della IFIL, Torino), Piero Bassetti (Membro del CNEL, Roma), Franco Bernabé (former Chief Executive Officer, Telecom Italia, Roma), Boris Biancher Chiappori (Presidente dell’Agensia ANSA di Roma), Umberto Capuzzo (membro del Senato), Salvatore Carrubba (former Managing Editor de il Sole 24 Ore di Milano), Fausto Cereti (Presidente dell’Alitalia), Gian Maria Gros-Pietro (Presidente dell’ENI), Andrea Pininfarina (Managing Director, Industrie Pininfarina, Torino), Alessandro Profumo (Managing Director, Unicredito, Milano), Gianfelice Rocca (Presidente della Techint Group of Companies, Milano), Sergio Romano (Editorialista del Corriere della Sera ed ex-ambasciatore in URSS), Renato Ruggiero (attuale Ministro degli Esteri), Silvio Scaglia (Managing Director, e-Biscom, Milano; former Managing Director, Omnitel), Marco Tronchetti Provera (Presidente della Pirelli, Milano), Gianni Zandano (Presidente della Fondazione S.Paolo, Torino), Mario Monti (Membro della Commissione Europea). La presente lista è aggiornata al 1 gennaio 2001. Si ringrazia M.P.Révay per la disponibilità prestata nella consultazione della lista degli iscritti alla Commissione Trilaterale 325 Gli Stati che oggi fanno parte della Trilaterale sono la Rep.Fed.Tedesca (20 membri), la Francia (20), l’ Italia (20), il Regno Unito (20), la Spagna (14), l’ Olanda (9), il Belgio (7), il Lussemburgo (7), l’Austria (5), la Danimarca (5), l’ Irlanda (5), la Norvegia (5), il Portogallo (5), la Svezia (5), la Finlandia (4), gli Stati Uniti (75), il Canada (75) e il Giappone (25), per un totale complessivo di 325 membri iscritti. Fonte: Commissione Trilaterale, Parigi, rue de Téheran 5. Per gentile concessione di M.P.Révay, Direttore Europeo della Trilateral Commission 145 (Giappone) il 31 maggio 1975, era stato preparato da un apposito Gruppo di Studio, istituito nella primavera del 1974, i cui relatori rispondevano ai nomi di Michel Crozier326 (Francia), Samuel P. Huntington (USA) e Joji Watanuki327 (Giappone). Ogni relatore doveva predisporre un rapporto riguardante una determinata area geografica. Il Gruppo di Studio era inoltre composto da Robert R. Bowie (Professore di affari internazionali alla Harvard University), Zbigniew Brzezinski (Direttore della Commissione Trilaterale), James Cornford (Professore di politica all’Università di Edimburgo), George S. Franklin (Segretario della Commissione Trilaterale per il Nord America), Donald M. Fraser (Membro della Camera dei Rappresentanti degli Usa), Karl Kaiser (Direttore dell’Istituto di ricerca della Società tedesca per la politica estera), Seymour Martin Lipset (Professore di sociologia alla Harvard University), John Meisel (Professore di 326 Michel Crozier, che si occupava dell’area Europeo-Occidentale, era fondatore e Direttore del Centre de Sociologie des Organisations di Parigi e Direttore di Ricerca al Centre Nationale de la Recerche Scientifique. Nato nel 1922, si era formato all’Università di Parigi, svolgendo in seguito regolari funzioni di consigliere per il governo francese in tema di pianificazione economica, istruzione ed amministrazione pubblica. Aveva insegnato anche presso diverse università americane, lavorando tra l’altro per tre anni alla Harvard University (1966-67 e 1968-70) e per due anni al Center for Advanced study in the Behavioral Sciences di Stanford (1959-60 e 1973-74). Nel 1970-72 era stato Presidente della Société française de sociologie. Tra i suoi lavori di maggior rilievo, spiccavano nel 1975: Le phénomène burocratique. Essai sur les tendences bureaucratiques des systèmes d’organisation modernes et sur leurs relations en France avec le système social et culturel (1963), Le monde des employes de bureau. Rèsultats d’une enquetemenèes dans sept compagnies d’assurances parisiennes (1965) e La société bloque (1970) 327 J.Watanuki, incaricato per l’Area Asiatica, era professore di sociologia alla Sophia University di Tokyo, nell’ambito della quale collaborava all’Institute of International Relations for Advanced Studies on Peace and Development in Asia. Nato nel 1931 a Los Angeles, aveva portato a termine i suoi studi universitari all’Università di Tokyo. Dal 1960 al 1971 aveva insegnato nel Dipartimento di sociologia di questa Università, trasferendosi poi alla Facoltà di Sociologia della Sophia University. Dopo aver trascorso molti anni di insegnamento e di ricerca in università statunitensi (1962-63 Princeton University con sovvenzioni della Rockfeller Foundation, 1963-64 University of California nell’Institute of International Studies) nel 1969-70 era divenuto “professore ospite” presso il Dipartimento di scienze politiche dell’University of Iowa e nel 1973 “Senior Scholar” nel il Comunications Institute dell’East-West Center di Honolulu. Nel 1975 i suoi lavori più importanti potevano considerarsi: Politica contemporanea e mutamento sociale (1962) e La società politica giapponese (1967) 146 scienza politica alla Queen’s University), Erwin Scheuch (Professore di scienza politica all’Università di Colonia), Arthur M. Schlesinger Jr. (Professore di lettere classiche alla City University di New York), Gerard C. Smith (Presidente della Commissione Trilaterale per il Nord America), Yasumasa Tanaka (Professore di scienza politica all’Università di Gakushuin di Tokyo) e Tadashi Yamamoto (Segretario della Commissione Trilaterale per il Giappone). Il 21 aprile 1974 i relatori e Brzezinski si incontravano a Palo Alto, in California, per elaborare lo schema generale del rapporto, mentre il 12 novembre gli stessi si davano appuntamento a Londra per esaminare le prime stesure dei capitoli regionali e fissare i lineamenti più precisi dello studio. Il 23 febbraio 1975 i relatori si confrontavano invece con gli esperti delle tre regioni della Commissione a New York, prendendo in esame le seconde stesure dei capitoli regionali, nonché la bozza dell’introduzione del rapporto approvato in via definitiva dall’assemblea plenaria della Trilaterale, tenutasi a Kyoto il 31 maggio 1975, pochi giorni dopo la conclusione del Congresso Mondiale del Petrolio, svoltosi anch’esso in Giappone (Tokio), tra l’11 e il 16 maggio. Il presidente della FIAT Giovanni Agnelli scriveva nella sua prefazione all’edizione italiana del rapporto della Trilaterale che, se c’era “molto di lodevole nei risultati conseguiti dal sistema democratico di governo delle società della Trilaterale”, esistevano comunque “settori di debolezza critica e di potenziale fallimento” e che “il nocciolo del problema” stava nelle contraddizioni intrinseche della stessa espressione “governabilità della democrazia”. Il concetto di governabilità, precisava ancora 147 il Presidente della FIAT, vale a dire la capacità oggettiva e soggettiva di un sistema di essere gestito, non doveva venire inteso come un concetto statico e involutivo a lungo termine, bensì in maniera dinamica ed evolutiva, “qual è nella sua vera accezione democratica”328 Il rapporto della Trilaterale del 1975 traeva spunto dalla crisi di governabilità che aveva investito la democrazia dei paesi industrializzati tra la fine degli anni ’60 e l’inzio degli anni ’70. I rapporti presentati da Crozier per l’Europa Occidentale, da Huntington per il Nordamerica e da Watanuki per il Giappone, “individuavano i diversi tipi di minacce a cui era esposto lo stato democratico: minacce contestuali (che derivano dall’ambiente esterno a quello in cui operano le democrazie); minacce dipendenti dalla struttura e dalle tendenze sociali (movimenti fascisti, partiti comunisti, intellettuali antagonisti, mutamenti a livello dei valori sociali); “e infine, e aspetto forse più grave,…minacce intrinseche alla stessa vitalità del sistema democratico che sgorgano direttamente dal funzionamento della democrazia”. Si sosteneva infatti nel rapporto che un “governo democratico non opera necessariamente secondo modi che regolino o mantengano automaticamente l’equilibrio. E’ possibile, invece, che funzioni in modo tale da dare vita a forze e tendenze le quali, se non controllate da qualche intervento esterno, finiscono col condurre all’indebolimento della democrazia”329 La ragione della crisi della democrazia veniva pertanto individuata nella ampiezza con cui emergevano contemporaneamente minacce contestuali, e minacce dipendenti 328 M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., p. 3 148 dalle tendenze sociali. Questi pericoli erano, per gli autori del rapporto, la conseguenza diretta dell’ampliata partecipazione politica che aveva fatto aumentare le richieste ai governi. Infatti un “eccesso” di partecipazione aveva reso troppo pressanti le rivendicazioni provenienti “dal basso”, finendo per avvicinare i cittadini a quelle decisioni strategiche da cui andavano, invece, tenuti a debita distanza330. Per contro, come evidenziava Crozier, un sovraccarico di domande determinava un’elevata coesione burocratica, necessaria per mantenere la possibilità di prendere e attuare le decisioni. Da ciò scaturiva una forte difficoltà nel dominare la complessità, incoraggiando invece l’irresponsabilità politica e civica e la dissoluzione del consenso. Per quanto riguardava la situazione dell’Europa occidentale, Crozier rintracciava le cause della crisi da sovraccarico: a) nell’aumento dell’interazione sociale, la quale rendeva sempre meno organizzabili e sempre più complesse le collettività d’individui; b) nell’impatto della crescita economica e nel conseguente progresso materiale il quale, invece di acquietare le tensione, non faceva altro che esasperarla; c) nel crollo delle istituzioni tradizionali, divenute vincoli insopportabili; d) nello straordinario aumento della libertà di scelta dell’individuo per cui ogni cosa appariva possibile; e) nello “sconvolgimento” del mondo intellettuale, i cui esponenti, in una società dove il sapere tendeva a divenire sempre più la principale risorsa dell’umanità, venivano sospinti all’avanguardia delle lotte socio-politiche, mutando radicalmente i propri rapporti con la società; f) nei mezzi di comunicazione di massa, che 329 op.cit., pp. 24, 110 Cfr. V.Sorrentino, Marx: corruzione e strategie occulte nella democrazia moderna, in “Democrazia e diritto”, nn.2-3, aprile-settembre 1994, pp. 527-578 330 149 amplificavano la vulnerabilità della società divenendo un’immensa cassa di risonanza delle difficoltà e delle tensioni sociali. I relatori della Trilaterale ritenevano inoltre necessaria, per garantire la governabilità della democrazia, una limitazione delle sfere in cui venivano applicati i procedimenti democratici, accompagnando tale limitazione da “una certa dose di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi”331, evitando in tal modo sia i pericoli provenienti dall’esterno (Mondo Sovietico) come quelli derivanti dalla possibilità di un regresso politico e sociale interno dovuto all’affermarsi di un eccessivo statalismo che, pur di garantire i lavoratori e contribuire all’espansione occupazionale, appariva di fatto come la soluzione più facile; soluzione che non avrebbe però fatto altro che incrementare il sovraccarico. 5.3 La teoria dell’“ingovernabilità” delle democrazie occidentali La tesi di base che sottintendeva la teoria del sovraccarico, elaborata essenzialmente durante gli anni settanta, consisteva in un’organica impotenza dello Stato, soprattutto quello democratico, incapace di fronteggiare la pressione delle aspettative eccedenti, producendo una sorta di gap tra volume delle esigenze, emergenti dalla società civile, e capacità degli apparati governativi di saperle soddisfare. 331 M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, cit., pp. 108-109 150 5.3.1 La teoria del sovraccarico nell’interpretazione di C.Offe Claus Offe, analizzando le diverse teorie sulla crisi da sovraccarico della democrazia notava l’esistenza di “affinità strutturali” tra interpretazioni neoconservatrici e interpretazioni marxiste332. Infatti entrambe le posizioni convergevano sul fatto che l’opposizione di classe e le lotte che ne derivavano avrebbero condotto inevitabilmente ad una crisi della democrazia. Le due soluzioni, notava ancora Offe, divergevano invece sulle soluzioni da adottare per risolvere la “catastrofe della democrazia capitalistica”333: superamento dell’assetto sociale capitalistico per i marxisti, conservazione dello stesso e quindi drastico “Molti regimi autoritari hanno dovuto controllarsi con i problemi relativi alla legittimazione negli anni settanta proprio in virtù delle loro passate esperienze con la democrazia. In certo senso il corpo politico dei loro stati si era “ infettato” con il virus della democrazia e, sebbene il precedente regime non avesse ottenuto successo, rimaneva la convinzione che un regime effettivamente legittimato si dovesse basare su istituzioni democratiche. In questo modo i governanti autoritari dovevano giustificare i loro regimi con la retorica della democrazia asserendo di essere dei convinti democratici o di trasformarsi in tali una volta risolti i problemi più impellenti della società…..Le dittature di destra, come nel caso delle Filippine e del Salvador, spesso stimolano la crescita di movimenti rivoluzionari di sinistra. In Sud America, tuttavia, la violenta repressione dei regimi militari ha eliminato fisicamente molti estremisti, favorendo anche presso i gruppi marxisti la rivalutazione delle virtù democratiche. Come osservato da Juan Linz e da Alfred Stepan, negli anni ottanta la sinistra latino – americana ha iniziato ha considerare la “ democrazia procedurale” come “una norma valida in se stessa e come una soluzione politica in grado di offrire protezione contro il terrorismo di stato e speranze di progredire verso una effettiva democrazia sociale ed economica”. Uno dei padri della teologia della liberazione, padre Gustavo Gutiérrez del Perù, ha osservato nel 1988 che “l’esperienza della dittatura ha reso i teologi della liberazione più sensibili ai diritti politici”. 332 Cfr.C.Offe, “Unregierbarkeit”. Zur Renaissance konservativer Krisentheorien, in J.Habermas (a cura di), “Stichworte zur ‘Geistingen Situation der Zeit’”, vol. I: Nation und Republik, Frankfurt am Main 1979, p. 525, trad.it. in C.Donolo, F.Fichera, Il governo debole. Forme e limiti della razionalità politica, Laterza, Bari, 1981, p. 108 333 cfr.ibidem 151 ridimensionamento degli scenari che lo avevano messo in moto, in primo luogo una partecipazione democratica divenuta ormai insostenibile, secondo il giudizio dei neoconservatori. Pertanto se per i marxisti la crisi della democrazia dipendeva dalla forza esplosiva dei conflitti di classe, i teorici della destra neoconservatrice, pur partendo anch’essi dalla constatazione della rilevanza dello scontro sociale che si stava vivendo in occidente, individuavano il nodo gordiano nell’insufficiente istituzionalizzazione dei fenomeni sociali da parte del sistema politico, e nella democrazia, le cui strutture favorivano inevitabilmente la partecipazione e la crescita esponenziale della domanda politica, la causa stessa dell’ingovernabilità. Per Offe il problema dell’“ingovernabilità” delle democrazie occidentali, nasceva invece dal sovraccarico delle aspettative a cui il potere dello stato si trovava esposto nelle condizioni della concorrenza tra i partiti, del pluralismo dei gruppi d’interesse e di mezzi di comunicazione di massa relativamente indipendenti. Il carico costantemente crescente delle aspettative, e di conseguenza degli obblighi e delle responsabilità che il governo si trovava ad affrontare, senza poterle, fra l’altro evitare, induceva lo studioso tedesco a credere che “le società industriali di capitalismo sviluppato” non disponevano di nessun meccanismo capace di rendere compatibili le loro norme e i loro valori con le condizioni di funzionamento sistemico a cui esse erano soggette. Ciò dava luogo ad un’instabilità e ingovernabilità strutturale delle società occidentali334, nonché ad una loro crisi di governabilità e al dissolversi dell’alleanza tra crescita economica e sicurezza contro 152 i rischi sociali335 che aveva caratterizzato la società industriale336. Tendeva invece ad emergere un nuovo modo di gestire le problematiche sociali, i cui protagonisti non sarebbero più stati né i partiti politici né i gruppi d’interesse, ma i movimenti sociali, 334 Cfr.C. Offe, Ingovernabilità e mutamento delle democrazie, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 19-42 335 A tal proposito è interessante notare come il concetto di rischio, e in particolar modo quella di rischio sociale, abbia svolto un ruolo molto rilevante in questo tipo di direzione. Sembrerebbe quasi che l’elaborazione del rischio e l’allarme sociale che l’accompagna, sia divenuto ormai un modo di gestione delle dinamiche sociali. Ewald specifica anche che la nozione di rischio, apparsa verso la fine del Medioevo con l’assicurazione marittima, “est doué d’une tendance à proliférer partout. Il obéit à la loi du tout ou rien. Il ne connait pas les partages binaires de la pensée juridique classique, celui du permis et du défendu, du légal et de l’illégal, mais la chaine indéfinie des quantités discrètes...Le risque implique une sorte de solidarité aussi bien active que passive des individus composant une population : personne ne peut plus prétexter de sa bonne conduite pour échapper aux contraintes du groupe ; il doit reconnaitre sa faiblesse constitutive, mieux : que par son existence meme il est un risque pour les autres ; en conséquence, il doit se plier aux impératifs liés à cette solidarité (F.Ewald, L’Etat Providence, Gallimard, Paris, p. 417). La definizione del concetto di rischio, fornitaci da Ewald, troverà un sviluppo fecondo nell’opera di Beck (U.Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Milano, 2000) che arriverà ad estendere all’intera società post-moderna le dinamiche del rischio, protagoniste di una “modernizzazione riflessiva…vale a dire il passaggio dalla prima modernità, chiusa nel sistema dello Stato-nazione, a una seconda modernità aperta, rischiosa, caratterizzata da una situazione di insicurezza diffusa, e tutto ciò all’interno della continuità della modernizzazione capitalistica impegnata a liberarsi delle catene dello Stato-nazione e dello Stato sociale” (op.cit., p. 28). Ewald, recentemente tornato sull’argomento in un articolo scritto con Kessler, sottolinea come i “rischi sociali (malattia, pensione, incidenti sul lavoro) hanno cambiato natura e struttura; lo sviluppo tecnologico ha aggiunto ai rischi di incidenti classici rischi di natura catastrofica, che pongono problemi inediti per le loro dimensioni spaziali e temporali” (F.Ewald, D.Kessler, Tipologia e politica dei rischi, in “Parolechiave”, 22-24, dicembre 2000, pp. 15-39, p. 23). Inoltre il rischio, a “lungo vissuto come una costrinzione e inserito in programmi che si proponevano solo di escluderlo”, è diventato invece una risorsa della politica moderna. Mentre l’ “accento è di nuovo posto sul modo di governare i rischi, (e) gli obiettivi delle politiche di protezione restano relativamente immutati” (op.cit., p. 35), per Ewald e Kessler, “la maggiore ingiustizia non risiede tanto nella diseguale distribuzione dei redditi quanto nella disuguaglianza di fronte al rischio” Pertanto governare “la protezione sociale rispetto al rischio non consiste nel ridurre il livello delle coperture, ma nel modificarne i metodi di gestione in modo da consentire a ciscuno, secondo gli obiettivi originari, di affrontare i rischi che sono i suoi con una modalità che, quanto meno, non condica all’eclusione e, nel migliore dei casi, assicuri la promozione sociale…Compito (infatti) del governo non è tanto quello di trasferire sullo Stato i rischi dei cittadini quanto di far sì che essi trovino sostegno presso delle istituzioni che non li deresponsabilizzano” Tant’è vero che in “una democrazia moderna, lo Stato viene giudicato in base alle sua capacità di gestire i rischi” (op.cit., pp. 37-38) 336 “Le società capitalistiche si distinguono da tutte le altre non per il problema della loro riproduzione…ma per il fatto che esse elaborano questo problema fondamentale di tutte le società in modo da prendere contemporaneamente due strade mutuamente esclusive: la differenziazione o privatizzazione della produzione e nello stesso tempo la sua socializzazione e politicizzazione” (C.Offe, “Unregierbarkeit”, cit., p. 127) 153 il cui “principio formativo…è un certo concetto, per lo più implicito e ideologicamente assai grezzo, di identità, che costituisce poi la base di un movimento”337. Questa “identità collettiva” emergeva “in risposta ad eventi esterni”, come diretta conseguenza di “provocazioni”, che avrebbero preso la forma di effetti esterni e non intenzionali di processi di modernizzazione politica ed economica, evidenziando come base una “politica anti-politica”, ossia il tentativo di stabilire saldi limiti alla gamma o alla portata convenzionale della politica, rivolgendosi invece ai modi di vita del privato338. Secondo l’analisi di Offe la strategia neoconservatrice era sintetizzabile con l’approccio della Riduzione del “sovraccarico”, congretizzantesi a sua volta in tre diversi modi: 1) deviazione delle esigenze che andavano verso relazioni di scambio monetario, cioè verso il mercato, privatizzando o destatalizzando le prestazioni pubbliche, tramite la loro cessione a enti economici privati concorrenziali; 2) promozione dei valori come rinuncia, disciplina, senso comunitario; 3) riduzione di tutte quelle esigenze e rivendicazioni che non potevano essere impedite nel loro sorgere, mediante l’installazione di meccanismi 337 Queste posizioni verranno poi riprese da P.Rosanvallon ne La Crise de l’Etat Providence, Editions du Seuil, Paris 1981 e recentemente da P.Donati in La cittadinanza societaria, Laterza, Bari, 2000 e C.Mongardini, Economia come ideologia, Franco Angeli, Roma 1996 338 Quest’aspetto, sottolineato da Offe, portava invece, quasi contemporaneamente, l’italiano Alberto Asor Rosa a collocare queste forme di “anti-politica”, che cominciavano ad intravedersi, ai margini della società ovvero all’interno di quella che definì la “seconda società”: “la lotta non è più per imporre una diversa ipotesi politica delle stesse masse, ma è tra due diverse società. Il punto politico è questo: dobbiamo chiederci che cosa abbiamo fatto per questa seconda società, che è cresciuta accanto alla prima e magari a carico di questa, ma senza trarne rilevanti vantaggi, senza avere uno sbocco e senza un radicamento reale nella ‘pima società’. Aggiungerei questo, come necessaria precisazione: noi abbiamo fatto la scelta, che io credo giusta, di difendere un tipo di società in trasformazione, al cui centro sta…la classe operaia organizzata. C’è il pericolo, oggi, che quanto non rientra in questo tipo di società – e vale a dire emarginazione, disoccupazione, disoccupazione giovanile, disgregazione – le si scarichi 154 di filtraggio che dovevano stabilire quali esigenze avrebbero meritato di essere ascoltate e considerate come inputs politici, oppure essere respinte come irrealistiche o inammissibili. Queste funzioni filtro dovevano poi svolgersi attraverso “prestazioni conoscitive” istituzionalizzate poste al di sopra dei soggetti e delle loro esigenze339. Parallelamente la capacità regolativa dei governi avrebbe dovuto essere migliorata dal punto di vista “qualitativoorganizzativo” al fine di potenziare la funzionalità e l’efficacia dell’azione politico-amministrativa. Il principio seguito da questo tipo di strategia, suggeriva che, sia dal punto di vista delle interdipendenze reali, sia da quello della pianificazione a lungo termine, avrebbe dovuto essere ampliato l’orizzonte informativo e operativo del governo e dell’amministrazione. Ampliamento possibile solo se si fosse riusciti a estendere la base di consenso, cioè la capacità del sistema politico-amministrativo di assorbire i conflitti. Questa strategia avrebbe infine dovuto, per Offe, perseguire l’istituzionalizzazione di alleanze e lo sviluppo di meccanismi di accordo tra governo, sindacati, associazioni lavorative, unioni delle corporazioni settoriali e cooperative di consumatori. 5.3.2 Contraddizioni e crisi di razionalità del capitalismo nell’analisi di D.Bell e J.Habermas addosso come un turbine distruttivo” (A.Asor Rosa, Le due società, Einaudi, Torino 1977, p. 139) 339 N. Bobbio, Il futuro della democrazia, op.cit., pp.99-100 155 Ancor prima di Offe, Daniel Bell, con L’avvento della società post-industriale (1973), e successivamente con Le contraddizioni culturali del capitalismo (1976), riprendendo un tema già trattato da J.Schumpeter in Capitalismo, socialismo e democrazia (1946), sosteneva un argomento di grande interesse, riconducibile anch’esso al tema del sovraccarico. Infatti, mentre nella società industriale le logiche dell’efficienza e della razionalizzazione economica, così come quelle dell’efficienza decisionale politica e dell’integrazione culturale, andavano nella stessa direzione ed erano unificate, nella società post-industriale si stava invece verificando, per Bell, una completa dissociazione tra logiche di efficienza e logiche culturali di espressività e di autorealizzazione dei soggetti, individuali e sociali. Tutto ciò aveva come conseguenza che la cultura non era più un mezzo di integrazione e manipolazione, bensì un fattore inflattivo in grado di spingere verso una continua moltiplicazione e dissociazione delle domande e dei bisogni senza rapporto con le interdipendenze oggettive del mercato e dei rapporti politici. Per reazione al tema dell’ingovernabilità delle democrazie occidentali, Habermas tentava di tematizzare il problema espressivo dell’identità come domanda radicale di cambiamento non soltanto dei rapporti economici e sociali ma anche dei valori e delle forme di legittimazione del sistema. Secondo Habermas la società attuale, in quanto forma di “capitalismo maturo” (Spatkapitalismus) regolato dallo stato, si stava sviluppando in maniera contradditoria, caratterizzandosi per le sue continue crisi che si producevano, appunto, a causa delle minori possibilità di risoluzione dei problemi offerte dal sistema 156 industriale340. Lo studioso tedesco distingueva così tra crisi che rappresentavano delle “perturbazioni durevoli” del sistema, e crisi che avevano soltanto un carattere congiunturale, come quelle connesse al ciclo economico, o relative ai mutamenti di governo o di regime politico. La crisi del “tardo capitalismo” evidenziava, per il sociologo tedesco, non tanto una crisi della democrazia, ma una vera e propria crisi strutturale che investiva radicalmente i fondamenti di valore e di legittimazione morale del sistema. L’unica via d’uscita dalla crisi consisteva pertanto in una necessaria trasformazione degli assetti politico-sociali vigenti, mediante l’insorgere di una tensione sociale che avrebbe condotto progressivamente a un sovraccarico di problemi di direzione collettiva e di governo. La trasformazione che ne sarebbe derivata avrebbe suscitato l’abbandono della razionalizzazione efficientistica di tipo capitalistico in favore di una “razionalità comunicativa”, orientata cioè alla comprensione e al rispetto degli altri341. 340 Cfr. J.Habermas, L’universalità della democrazia, De Donato, Torino1968 Marramao sottolineava invece come “La crisi non rappresenterebbe più quel memento mori del sistema che nella vulgata marxista secondo e terzinternazionalista figurava come un necessario viatico alla tesi della fuoriuscita dal capitalismo, intesa come passaggio da un sistema perennemente “in crisi” a un sistema basato sulla trasparenza e sul consenso: su un ideale di armonia, alla fin dei conti, non molto distante da quello che i teorici liberali assegnavano alla sfera del mercato. Il concetto subisce così un duplice emendamento: sul piano dello statuto teorico, tende a perdere la connotazione globale e in un certo qual modo olistica ad esso tradizionalmente assegnata nel quadro di un marxismo inteso come filosofia della storia ‘trasformazionista’…sul piano dell’analisi storica, le epoche di crisi o le fasi ‘critiche’ del ciclo vengono studiate come periodi positivi di produzione di nuovi assetti, e non soltanto come periodi di declino, di blocco oppure di dispersione…la crisi non è sempre e necessariamente la premessa o la causa delle innovazioni, ma ne è spesso la conseguenza o addirittura l’effetto” (G.Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità nella filosofia politica, G.Giappichelli Editore, Torino, 1995, pp. 80-81). Ewald, sostenendo invece che un sistema post-moderno si trova “perennemente in crisi”, concentra la propria attenzione sulla sua “gestibilità” (cfr.F.Ewald, L’Etat Providence, op.cit.). Chi gestisce la crisi puòcontrollarla e, mediante il meccanismo dell’ “opacità”, cioè strumenti tramite cui garantire l’efficacia di interessi particolari, tenendone all’oscuro l’opinione pubblica, dirigerla lungo le traiettorie più confacenti con i rapporti di dominio che intende assicurare con la propria 341 157 Questo cancellazione processo di quei implicava rapporti di per Habermas forza che, una penetrati impercettibilmente nelle strutture comunicative, impedivano con blocchi psichici e interpersonali della comunicazione che i conflitti venissero sostenuti consapevolmente e regolati consensualmente. In una società che fosse riuscita a superare la regolamentazione statale dei conflitti d’interesse, sarebbe emersa una nuova identità, non più dall’appartenenza o dall’essere membro di un gruppo o di un’identità collettiva, ma da una forma riflessiva, fondata sulla coscienza di avere chances uguali e generali per prendere parte ai processi di comunicazione. 5.3.3 “Meccanica paradossale” e Welfare come fattore di sovraccarico istituzionale delle società industriali: la riflessione di G.Marramao e N.Luhmann Anche Marramao, ispirandosi direttamente alla teorizzazione di Offe, sosteneva che la teoria della crisi da ingovernabilità poteva suddividersi in una serie di “terapie” ordinabili “secondo due variabili strategiche principali” rintracciabili nel “paradigma del sovraccarico”: “a) strategia di riduzione della domanda, tendente a diminuire il sovraccarico del sistema politico-amministrativo; b) strategie di potenziamento delle capacità di prestazione-controllo del sistema politico- azione. Quindi la questione di sostanziale rilevanza nel govenrno delle società postmoderne non consisterebbe nel cercare di evitare il manifestarsi di una crisi, divenuta ormai una caratteristica fisiologica, ma nel saper individuare il soggetto che la “gestisce” e le finalità che intende perseguire gestendola, consistenti in parte nel produrre o nell’impedire “una trasformazione potenziale” degli assetti politico-sociali 158 amministrativo”. A loro volta queste varianti principali comprendevano delle “sottovarianti terapeutiche formalizzabili nel modo seguente: a1) strategia di ‘privatizzazione’ o ‘destatalizzazione’ delle funzioni pubbliche; a2) strategia di ‘austerità’: questa sottovariante strategica consiste nel promuovere i valori di rinuncia, disciplina, senso comunitario, ecc., rivolgendosi agli agenti e alle istituzioni che regolano la formazione e l’osservanza delle norme sociali; a3) strategia di ‘selettività’: essa dà luogo all’istallazione di meccanismi di filtraggio delle domande ‘eccedenti’, consistenti in prestazioni conoscitive svolte da istituzioni o istanze generalmente sovrapartitiche, le quali (operando controlli sulla legittimità delle richieste) intervengono a ‘schermare’ lo Stato dalla pressione inflattiva della domanda, ammortizzando l’impatto sul terreno statuale di quella che è stata chiamata ‘rivoluzione delle aspettative crescenti; b1) strategia amministrativa di elevazione delle prestazioni statali: ampliamento dell’orizzonte informativo e operativo del governo e della pubblica amministrazione attraverso riforme strutturali oppure attraverso il potenziamento degli indicatori sociali e delle tecniche di programmazione dei bilanci; b2) strategia politica di elevazione delle prestazioni statali: istituzionalizzazione di alleanze e di meccanismi di negoziazione e accordo di tipo ‘neocorporatista’”342. Per Marramao343, i teorici del sovraccarico non ritenevano che lo Stato democratico potesse soddisfare le 342 G.Marramao, Dopo il Leviatano, op.cit., pp. 83-84 Marramao evidenziava anche l’insufficienza argomentativa delle posizioni menzionate: “In primo luogo…nessuna delle terapie prospettate fa i conti con il deficit di consenso che caratterizza i sistemi politici contemporanei: deficit che viene periodicamente colmato in modo surrentizio o attraverso politiche di allarme sociale o deviando su obiettivi esterni…le piattaforme neocorporative…prospettano in realtà come soluzione un modello che rischia di portare alla sclerosi e all’impotenza delle 343 159 aspettative crescenti “perché le sue capacità di intervento e di direzione erano in linea di principio troppo scarse. La differenza tra volume di esigenze e capacità di direzione sarebbe precipitata in frustrazioni. Ciò avrebbe condotto ad una scomparsa di fiducia nei confronti delle istituzioni con cui si mediavano e canalizzavano i conflitti sociali. L’accumulo di disillusioni poteva sviluppare la sua forza esplosiva in due direzioni: polarizzazione entro il sistema partitico, cioè massimalizzazione della prassi dell’opposizione mediante programmi di principio alternativi, oppure drastica diminuzione della ‘capacità di canalizzazione’ delle istituzioni rappresentative, nonchè della loro capacità di articolare e formare la volontà delle collettività”. In questo contesto, secondo i teorici della “crisi della democrazia”, la situazione di partenza, caratterizzata dalla discrepanza tra livello delle esigenze e capacità di prestazione, avrebbe potuto innescare una dinamica ancor più ingestibile: sistemi non governabili sarebbero diventati sempre più ingovernabili, fintanto che a un dato momento si sarebbe pervenuti ad un vasto bloccaggio e alla dissoluzione dello stesso potere statale organizzato. soluzioni politiche, necessariamente dipendenti da una molteplicità di spinte e controspinte, le quali potrebbero addirittura neutralizzarsi a vicenda in un sistema di veti incrociati…accade anche alle strategie amministrative…di chi, affidandosi all’ ‘oggettività delle strutture tecnocratiche, si illude di risolvere i problemi politici con i mezzi di una conoscenza non politica’…In secondo luogo…un’incongruenza di livello più profondo…manca il momento dell’eziologia: la spiegazione delle cause da cui si origina il fenomeno dell’ingovernabilità… ‘Nell’immagine conservatrice del mondo, la ‘crisi di ingovernabilità’ è un incidente imprevisto, di fronte al quale devono essere abbandonate le vie troppo complesse della modernizzazione politica e occorre far riacquistare valore a principi d’ordine non politico come la famiglia, la proprietà, la prestazione, la scienza’. L’apparente persuasività delle strategie di decentramento e di ‘destatalizzazione’…cela abilmente, sotto un livello descrittivo…l’incongruenza di secondo grado…quella che Offe definiva incapacità di trascorrere dal piano descrittivo al piano diagnostico vero e proprio…le cause da cui si originano la patologia di ingovernabilità vanno, in definitiva, ricercate nel carattere particolare della merce forzalavoro e, conseguentemente, nella struttura contraddittoria che attraverserebbe l’intero mercato del lavoro e i tentativi di ristrutturarlo e governarlo” (op.cit., pp. 85-87) 160 Per lo studioso italiano ogni sistema per riprodursi “deve trovare una forma strutturalmente e storicamente determinata di compatibilità tra l’aspetto ‘oggettivo’ delle strutture e dei nessi funzionali e quello ‘soggettivo’ dell’agire normativo e dotato di senso dei suoi membri”. Questo dualismo si esprime poi “nella distinzione tra ‘integrazione sistemica’ e ‘integrazione sociale’”, realizzando la loro compatibilità “secondo due modalità…‘idealtipiche’:…attraverso fasce protettive…oppure attraverso la possibilità che i sistemi determinino le loro stesse condizioni strutturali di funzionamento mediante l’agire normativo dotato di senso”. Da ciò consegue “i sistemi sociali” diverrebbero “ingovernabili…quando attraverso le regole seguite dagli attori”, si persegue un’altra “soluzione ideal-tipica”, vale a dire la violazione delle “leggi di funzionamento del sistema e dei vincoli strutturali”. Ma l’aspetto fondamentale delle democrazie occidentali sul finire degli anni ‘70, ammette Marramao, non consisteva tanto in questa sistemica rottura strutturale con vincoli e leggi, ma nel contemporaneo perseguimento di “ambedue le ‘soluzioni idealtipiche’”344, vale a dire l’integrazione sistemicosociale e la violazione stessa dei vincoli strutturali. Ciò stava sviluppando una paradossale meccanica gestionale che appariva come una delle più importanti caratteristiche delle società industriali nella loro transizione verso un modello postindustriale345. 344 op.cit., pp. 87-88 “Per un verso…‘neutralizzazione politico-normativa della sfera della produzione’…nella forma mercato…Per l’altro verso…il fenomeno di secolarizzazione che questa neutralizzazione-spoliticizzazione dell’ambito economico-produttivo induce…chiama in causa la necessità di nervature istituzionali capaci di garantire non solo le condizioni generali di funzionamento del mercato, ma anche…il carattere di ‘disciplinamento’ della sfera produttiva…La reintroduzione di elementi di istituzionalizzazione rappresenta per la dinamica capitalistica una necessità vitale. Ma…il fenomeno paradossale…di un contrasto sistematico tra momento economico e 345 161 Per Luhmann una fattore strutturale di sovraccarico nelle società industriali era invece rintracciabile nei meccanismi di funzionamento del Welfare State. Quest’ultimo infatti si basava negli anni ’70 “sul positive feed-back, cioè sul rafforzamento delle deviazioni”, contrariamente allo Stato costituzionale che si fondava al contrario “sul negative feed-back, vale a dire sulla soppressione delle deviazioni ed era per questo motivo politicamente praticabile”. Il Welfare costituiva un fattore di sovraccarico istituzionale perché conduceva a una “inclusione crescente di tutti in una cerchia funzionale specifica”. Per questa via aumentavano “di conseguenza, le richieste rivolte alla decisione politica e alle prestazioni che esse” dovevano produrre, al punto che la politica stessa veniva “ad assumere una funzione di mera promozione e non più di controllo”. In particolare – proseguiva Luhmann – l’idea che dovevano essere compensati tutti gli svantaggi che ricadevano sui singoli, investiti in maniera diseguale dagli eventi naturali o dalle sventure sociali, si trasformava “in un programma di aiuto per principio senza fine”, trasformando la giustizia stessa in un vero e proprio “principio di crescita”346 momento sociopolitico del processo riproduttivo: mentre da un lato la differenziazione di una sfera di mercato neutralizzata rispetto alle norme…tende a risolvere il problema della riproduzione tenendo separato il livello funzionale da quello dell’agire, dall’altro la razionalizzazione…spinge…in una direzione esattamente opposta: ‘il processo di accumulazione non può funzionare senza la regolazione politica che a sua volta ha bisogno di legittimazione’…In tal modo, la ‘neutralizzazione politica della sfera del lavoro, della produzione e della distribuzione’ si trova ad essere…‘contemporaneamente affermata e revocata’” (op.cit., pp. 88-89) 162 5.4 Fattori di sovraccarico S.P.Huntington sugli Stati Uniti nel rapporto di Il rapporto di Huntington alla Commissione Trilaterale muoveva dalla considerazione che negli Stati Uniti l’“essenza dell’ondata democratica degli anni 1960 consistette in una contestazione generale dei sistemi di autorità”347 che, in “una forma o nell’altra”, si era manifestata “nella famiglia, nell’università, nel lavoro, nelle associazioni pubbliche e private, nella politica, nella burocrazia statale e nei corpi militari”, producendo, con l’aumento della partecipazione politica democratica, verificatosi durante gli anni ’70, un declino dell’autorità di governo e una una vera e propria crisi di 346 N.Luhmann, Il Welfare State come problema politico e teorico, in AA.VV., Trasformazioni e crisi del Welfare State, op.cit., pp. 351-353 347 “Nella società americana l’autorità era stata comunemente basata su posizioni organizzative, ricchezza economica, abilità specializzate, competenza legale, rappresentatività elettorale. L’autorità basata sulla gerarchia, sull’abilità, e sulla ricchezza andava ovviamente contro lo spirito democratico e egualitario del periodo, e durante gli anni sessanta tutte le tre furono duramente attaccate”. Anche se l’autorità “derivata da fonti legali e elettorali non necessariamente si poneva contro lo spirito dei tempi”, quando però ciò accedeva, “anch’essa veniva sfidata e limitata. Le decisioni dei giudici e le azioni delle legislature erano legittimate fino al punto che promuovevano, come spesso facevano, obiettivi egualitari e partecipativi. ‘Disobbedienza civile’, dopo tutto, era il grido per essere moralmente nel giusto quando si disobbediva a una legge moralmente sbagliata. Ciò implicava che il valore morale del comportamento secondo legge in una società dipendeva dal contenuto delle leggi, non dal processo per cui esse venivano emanate. La legittimità elettorale era, obiettivamente, per la maggior parte conforme all’ondata democratica, ma anche così essa talvolta era messa in discussione, poiché il valore della rappresentatività “di categoria” veniva alzato per sfidare il principio della rappresentatività elettorale” (S.P.Huntington, American Politics, Harvard University Press, Harvard, 1982, pp. 173-180) 163 governabilità348. In settori sempre più vasti dell’opinione pubblica, la considerevole partecipazione politica, da parte soprattutto della classe media urbana, stava determinando una crescente “disobbedienza civile”349, la cui immediata conseguenza si rifletteva nel fatto che “il valore morale del comportamento di ossequio alle leggi dipendeva dal contenuto delle leggi, non dal corretto meccanismo proceduarale con cui esse venivano emanate”350. “Il divario tra l’ideale politico e la realtà politica” si manifestava secondo “tre caratteristiche distintive degli ideali politici americani”: innanzitutto “lo scopo del consenso a quegli ideali” che rimandava, ed è questa la seconda caratteristica, ad un’ampia e radicata legittimazione dei “valori…politici di base”, 348 “La gente non sentiva più la stessa coazione a obbedire a quanti prima aveva ritenuto superiori a sé per età, prestigio, condizione sociale, competenza, personalità o capacità. All’interno della maggior parte delle organizzazioni, la disciplina si allentò e le differenze di status si attenuarono. Ogni gruppo rivendicò il diritto di partecipare in modo egualitario – e magari più che egualitario – alle decisioni che lo riguardavano. Più precisamente, nella società americana, l’autorità si era comunemente basata su: posizione organizzativa, ricchezza economica, competenza specialistica, prerogative legali o rappresentatività elettorale. Le forme di autorità basate sulla gerarchia, sulla competenza e sulla ricchezza contrastavano, ovviamente, con l’orientamento democratico e egualitario e subirono tutte e tre un pesante attacco. Nelle Università, studenti privi di competenza giunsero a partecipare al processo decisionale riguardante molti problemi importanti. Nella pubblica amministrazione, la gerarchia organizzativa s’indebolì e i subalterni non esitarono a ignorare, a criticare e a frustare i voleri dei loro superiori. Nell’ambito politico in genere, fu contestata l’autorità basata sulla ricchezza e vi furono iniziative riuscite d’introduzione di riforme che ne mettessero a nudo e limitassero l’influenza. L’autorità basata su fonti giuridiche o elettorali non necessariamente si scontrava con lo spirito dei tempi, ma quando ciò accadeva, era anch’essa contestata ed ostacolata” (M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., p. 109) 349 “Durante gli anni sessanta e settanta, comunque, l’autorità non fu solo abusata, ma anche erosa e, in certo senso e a volte, quasi eliminata. La portata dell’attività di ufficiali di governo legittimamente riconosciuti dall’opinione dominante si ridusse significativamente negli anni delle due S. Il comportamento di pubblici ufficiali che prima portavano alla condiscendenza ora provocavano l’oltraggio. L’autorità del governo declinava mentre smetteva di vederla come devota all’interesse pubblico. Questa erosione, naturalmente, si rifletté drammaticamente nel calo di fiducia che il popolo aveva nelle istituzioni di governo e in chi lo guidava. Questi cambiamenti nelle attitudini pubbliche furono solo un indice di una più profonda sfida all’autorità di governo che si manifestò in molti altri modi” (S.P.Huntington, American Politics, op.cit., pp. 211-214) 350 M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, cit., p. 109 164 “liberali, individualistici, democratici, ugualitari, e quindi principalmente antigoverno e antiautorità nel carattere”. Infine la terza caratteristica consisteva nella “mutevole intensità (degli ideali n.d.a.)…che varia secondo il momento e il gruppo, con cui gli americani (vi) credono”, palesando una società che si evolveva “in periodi di passione…(e) di passività”351. Il risultato immediato di queste tre caratteristiche consisteva inoltre in “un divario perenne tra…ideali,…istituzioni e…pratica politica”352 che aveva provocato un rapporto “disarmonico”353, divenuto ormai fisiologico, tra istituzioni e società americana354. 351 S.P.Huntington, American Politics, cit., p. 2 ibidem 353 “Negli Stati Uniti, il consenso ideologico è la fonte del conflitto politico, la polarizzazione avviene per questioni morali piuttosto che economiche, e la politica dei gruppi di interesse è completata e a volte soppiantata dalla politica della riforma moralistica. L’America è stata risparmiata dal conflitto sociale per ottenere agitazioni morali. È precisamente il ruolo centrale della passione morale che distingue la politica americana dalla politica della maggioranza delle altre società, ed è questa caratteristica che è più difficile per gli stranieri comprendere…La storia della politica americana è la ripetizione di nuovi inizi ed esiti frammentati, promesse e disillusioni, riforme e reazioni. La storia americana è la storia degli sforzi di gruppo per promuovere i propri interessi realizzando gli ideali americani. Ciò che è importante, comunque, non è il fatto che essi abbiano avuto successo ma che abbiano fallito, non che il loro sogno si sia realizzato ma che ciò non sia successo”. Ed è questo “divario tra la promessa e l’attuazione crea una conseguente disarmonia, a volte latente, a volte manifesta, nella società americana”. Ciò non toglie però che per Huntington le “ineguaglianze sociali, economiche e politiche possono certamente essere più limitate e le libertà politiche più estese negli Stati Uniti piuttosto che in altre società. Tuttavia l’impegno verso l’uguaglianza e la libertà e l’opposizione alla gerarchia e all’autorità sono così diffusi e profondi che l’incongruità tra gli ordini normativo ed esistenziale è di gran lunga maggiore negli Stati Uniti che altrove” (op.cit., pp. 10-12) 354 L’idea dell’esistenza di una inevitabile “disarmonia” tra società e apparato istituzionale (Stato), riferita questa volta alla società industriale della seconda metà dell’ottocento, è presente anche nell’opera del filosofo tedesco Lorenz von Stein (cfr. Socialismo e Comunismo, 1842 e Storia del movimento sociale, in Lorenz von Stein, Opere scelte (a cura di Elisabetta Bascone Remiddi), I, Giuffré, Milano, 1986) di cui Huntington sembra recuperare alcune delle posizioni soprattutto nell’elaborazione dei concetti di riforma e rivoluzione come possibili scenari derivanti da un’eccessiva partecipazione politica popolare, e in particolar modo per quel che riguarda il ruolo che attribuisce allo Stato e alla necessità di concentrare nei suoi organi di governo, identificabili per Stein con la sola istituzione monarchica, un potere che gli avesse potuto permettere di ripristinare l’equilibrio fra le diverse forze, riducendone la spinta democratica ovvero “dissociandone” da essa le tendenze più radicali e rivoluzionarie 352 165 A ciò si affiancava la permanente “crisi di fiducia”355 verso le autorità pubbliche e la loro capacità di mediare e dare risposta alla conflittualità politica. Tale sfiducia era per Huntington la conseguenza diretta di un “impegno civico e politico più attivo” che dava adito ad “una maggiore coerenza ideologica (dell’opinione pubblica) sui problemi della comunità”, cui spesso non corrispondeva un’efficace capacità di risposta da parte del governo356. La sequenza e la direzione di questi mutamenti dell’opinione pubblica spiegavano poi “chiaramente come la vitalità della democrazia negli anni ’60…generò problemi per la governabilità della democrazia negli anni ’70”357. L’accresciuta partecipazione politica358 comportava difatti “livelli più alti di coscienza politica”359, in quanto “fette 355 “In un sistema democratico, l’autorità dei leaders e delle istituzioni presumibilmente dipende in parte dalla dose di fiducia che il pubblico ripone in essi. Negli Stati Uniti, durante gli anni 1960 questa fiducia si affievolì considerevolmente” (S.P.Huntington, American politics, op.cit., p. 12) 356 Insomma i “valori classici del Credo americano – uguaglianza, democrazia, libertà, diritti individuali, limitazione del potere – furono nuovamente espressi con un’intensità e un fervore pienamente uguali a qualsiasi precedente scoppio di passione” (op.cit., p. 175) 357 Il periodo intercorrente tra l’inizio degli anni sessanta e la fine dei settanta, durante il quale si manifestò appunto la crisi di “ingovernabilità” delle democrazie occidentali, venne chiamato da Huntington il periodo delle “due S”. Per quanto riguardava gli Stati Uniti esso iniziò il 1 febbraio 1960 e si concluse il 29 gennaio 1976: “Gli anni delle due S iniziarono il 1 febbraio 1960, quando quattro matricole di colore entrarono in un Woolworth (catena di grandi magazzini che tratta articoli di poco prezzo, n.d.a.) a Greensboro, in Nord Carolina, si sedettero al banco, chiesero un caffè, gli venne rifiutato, e rimasero seduti. Il quarto periodo finì quasi esattamente sedici anni più tardi, il 29 gennaio 1976, quando la Camera dei Rappresentanti votò 264 a 124 di non diffondere il rapporto del Select Committe on Intellegence finché quel rapporto non fosse stato approvato dalla Casa Bianca. Il sit-in di Greensboro diede il via alla politica di protesta che costituì la prima parte degli anni delle due S; il voto della Camera segnò la fine della politica di denuncia che ne dominò l’ultima parte” (op.cit., pp. 168-169) 358 Contrariamente alla fine degli anni cinquanta, quando la “soddisfazione americana nell’identificarsi con il sistema politico”(op.cit., pp.169-173) raggiunse i suoi picchi più alti (85%), durante“gli anni 1960, la pubblica opinione sui principali problemi dell’indirizzo politico manifestò la tendenza a una polarizzazione e strutturazione ideologica maggiori, cioè ci fu una generale tendenza a una polarizzazione e strutturazione ideologica maggiori, cioè ci fu una generale tendenza ad assumere posizioni, sia liberali, sia conservatrici, più coerenti sulle questioni politiche…Questo modello di sviluppo della polarizzazione e della coerenza ideologica ha le sue radici in 166 sempre più consistenti del pubblico americano assunsero posizioni più estreme sulla tematica politica”360 e “coloro che assunsero queste posizioni furono, in seguito, portati a un atteggiamento di maggiore diffidenza verso il governo” 361. due fattori. In primo luogo, coloro che sono più attivi in politica hanno anche più probabilità di nutrire opinioni coerenti e sistematiche sulle questioni politiche. L’aumento della partecipazione politica nei primi anni ’60 fu così seguito da una maggiore polarizzazione dell’opinione politica nella metà degli anni ’60” (M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., p. 104) 359 “Nel 1964, il 64% del pubblico pensava che il governo fosse guidato a beneficio di tutti, e il 29% pensava che fosse guidato da pochi grandi interessi personali. A partire dal 1974, l’opinione fu quasi interamente ribaltata: il 66% pensava che il governo fosse guidato da pochi grandi interessi; il 25% pensava che fosse guidato a beneficio di tutti. Sbalzi simili avvennero nella misura in cui il popolo avesse fiducia che il governo agisse giustamente, sperperasse il denaro delle tasse, e fosse guidato da persone adatte o disoneste. Grandi cambiamenti ci furono anche nel grado in cui il popolo percepiva la risposta del governo. Nel 1960, per esempio, il 73% del pubblico discordava con l’asserzione che i pubblici ufficiali “non si curano molto di ciò che pensa la gente come me”, mentre il 25% era d’accordo con l’affermazione. A partire dal 1974, un quarto del pubblico aveva cambiato idea: il 50% credeva che gli ufficiali non valutassero i loro pensieri, mentre il 46% credeva che lo facessero. I cambiamenti nella percezione del pubblico non si limitavano alle percezioni del governo. Durante gli ultimi anni sessanta e i primi anni settanta, la fiducia del pubblico verso altre istituzioni della società americana precipitarono. Tra il 1966 e il 1976, la proporzione di pubblico che aveva “una grande quantità di fiducia” nella guida della parte esecutiva del governo federale passò dal 41% all’11%, del Congresso dal 42% al 9%, e della Corte Suprema dal 51% al 22%. Durante gli stessi dieci anni, drastiche riduzioni avvennero anche nella proporzione di pubblico che aveva grande fiducia nella medicina (dal 73% al 42%), nell’educazione superiore (dal 61% al 31%), nelle forze armate (dal 62% al 23%), nelle grandi compagnie (dal 55% al 16%), nella religione organizzata (dal 41% al 24%), nel lavoro organizzato (dal 22% al 10%). Tra le grandi istituzioni della società americana, l’unica i cui capi suscitassero maggiore fiducia nel 1976 (28%) che nel 1966 (25%) fu la notizia televisiva” (S.P.Huntington, American Politics, op.cit., pp. 176-180) 360 L’aspetto principale degli “anni delle due S” è per Huntington la scomparsa dal dibattito politico americano delle “questioni economiche…Dal 1950 al 1959, una media del 23% del pubblico americano classificarono la questione economica come “la più importante questione cui si trovasse di fronte il paese”; nel 1971-72, una media del 21,5% del pubblico americano definì la questione economica di critica importanza; e dal 1973 al 1979, la percentuale salì fino al 71,7%. Tra il 1960 e il 1970, comunque, soltanto un semplice 11,1% del pubblico identificava una questione economica come il più importante problema del paese: i diritti civili, la politica estera, la guerra del Vietnam, i crimini e i disordini, e l’onestà di governo soppiantavano l’economia negli interessi del pubblico” (ibidem) 361 “Gli aumenti di partecipazione si registrarono per la prima volta negli anni ’50; ad essi susseguì la polarizzazione, nella metà degli anni ’60 dalla diminuazione della fiducia nel governo e della sensazione di efficacia politica individuale. C’è motivo di ritenere che tale sequenza non fosse del tutto casuale. È verosimile che quanti sono attivi in politica abbiamo opinioni più sistematiche e coerenti sui temi politici, e che, come abbiamo indicato prima, quanti nutrono tali opinioni si estraneino allorchè l’azione del governo non riflette le loro convinzioni. Sul filo di questo stesso ragionamento si dovrebbe supportare che quanti svolgono il massimo di attività politica dovrebbero essere massimamente insoddisfatti del sistema politico. In passato accadeva esattamente 167 Pertanto per Huntington le tendenze ereditate dagli anni ’60 avevano tratteggiato i contorni, durante la prima metà dei ‘70, di “un quadro prevalentemente negativo...Da un lato,…la crescente sfiducia nel governo, le tendenze alla polarizzazione dell’opinione pubblica e il venir meno della sensazione di efficacia politica. Dall’altro,…(la) crescita di partecipazione politica rispetto ai livelli precedenti”. Esisteva dunque una certa interdipendenza tra sfiducia nel governo e crescita della partecipazione politica; ragion per cui non sarebbe stato possibile far fronte alla prima senza aver precedentemente ridotto la seconda362. Un altro fattore di sovraccarico era poi individuato nel “deperimento del sistema partitico”, dovuto al “decadimento il contrario: quanti partecipavano attivamente alla politica avevano atteggiamenti altamente positivi nei riguardi del governo e degli indirizzi politici. Oggi, però, questa correlazione sembra indebolirsi, ed è ben possibile che quanti nutrono scarsa fiducia nel governo non siano politicamente più apatici di quanti nutrono in esso grande fiducia” (M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., p. 102) 362 Huntington faceva notare anche che l’“affievolirsi della sensazione di efficacia politica da parte del cittadino medio potrebbe generare anche un abbassamento dei livelli di partecipazione politica…Si ha così qualche motivo di ritenere che possa esserci un processo ciclico di interazione in cui: 1. l’accresciuta partecipazione politica porta a un’accresciuta polarizzazione degli indirizzi politici a livello della società; 2. la maggiore polarizzazione degli indirizzi politici porta a una crescente sfiducia e a un senso di decrescente efficacia politica a livello individuale; 3. una sensazione di decrescente efficacia politica porta a una minore partecipazione politica…Inoltre il cambiamento delle principali questioni all’ordine del giorno politico potrebbero condurre a una minore polarizzazione ideologica. La passione di cui sono stati oggetto molti temi ‘caldi’ degli anni ’60 si è placata, e ciò che oggi predomina è la preoccupazione riguardo ai problemi economici, anzitutto quello dell’inflazione, seguito da quelli della recessione e della disoccupazione. Le posizioni del pubblico sulle questioni economiche non sono, tuttavia, connesse con le sue inclinazioni ideologiche di fondo in modo altrettanto diretto delle sue posizioni sulle altre questioni. Inoltre l’inflazione e la disoccupazione appaiono come qualcosa di criminale; nessuno si dichiara favorevole ad essi, e differenze significative possono manifestarsi solo se ci sono programmi alternativi significativamente diversi per affrontarli…Ciò fa pensare che l’ondata democratica degli anni ’60 ben potrebbe generare le proprie forze di compensazione, che un improvviso aumento di partecipazione politica producano le condizioni che ne favoriscono il calo” (ibidem). Quindi un eccesso di partecipazione politica avrebbe potuto provocare un riflusso della stessa, concentrando l’attenzione su tematiche “neutre”, ossia incapaci di causare una polarizzazione su basi ideologiche dell’opinione pubblica, lasciando inoltre scoperti, di conseguenza facilmente isolabili, i gruppi che l’avevano mobilitata con finalità riformatrici oppure rivoluzionarie 168 della funzione dei partiti politici americani nel corso degli anni ’60”. La crisi del sistema partitico poteva essere analizzata “in vari modi: identificandola con l’aumento della “porzione di pubblico che analizzandone si considera l’importanza Indipendent assunta dal in politica”363; fenomeno della “scissione delle liste” all’interno delle formazioni partitiche364, oppure dal venir meno della “coerenza ‘partigiana’ del voto”365. In compenso il ruolo di guida elettorale del partito era assunto “dalla capacità di attrazione del candidato”, sgretolandosi “non solo la base di massa dei partiti, ma anche la coerenza e la forza”366 della sua stessa forma organizzativa e dei processi di 363 “Nel 1972, quanti identificavano sé stessi come Indipendents, erano più di quanti si riconoscevano come Republicans, e tra le persone al di sotto dei trent’anni c’erano più Indipendents che Republicans e Democrats messi assieme. I votanti più giovani tendono sempre ad essere meno ‘partigiani’ di quelli più anziani. Ma la proporzione di indipendenti in questa classe d’età è aumentata nettamente. Nel 1950, per esempio, a considerarsi indipendente nella classe dai 21 ai 29 anni era il 28%; nel 1971, il 43%. Così, se non si verificheranno un rovesciamento di questa tendenza ed un marcato aumento della ‘partigianeria’, c’è da prevedere che per almeno un’altra generazione persisteranno nell’elettorato americano livelli sostanzialmente bassi di identificazione nel partito” (ibidem) 364 “Nel 1950 l’80% circa dei votanti diede il proprio suffragio direttamente alle liste di partito; nel 1970 a comportarsi così fu soltanto il 50%. Gli elettori sono dunque più propensi a votare per un candidato che non per il partito, e ciò, a sua volta, vuol dire che i candidati devono farsi la campagna elettorale essenzialmente come individui e farsi accettare dai votanti per la propria personalità e capacità, anziché far fronte unico con gli altri candidati dello stesso partito. Per cui, devono pure raccogliersi il denaro occorrente e crearsi un’organizzazione propria” (op.cit., p.104) 365 “A livello nazionale, si registra una sempre maggiore tendenza dell’opinione pubblica a puntare ora sull’uno o sull’altro, e questo a prescindere, almeno in parte, dalle differenze abituali esistenti tra gruppi elettorali definiti” (ibidem) 366 “Anzi, il partito politico è diventato qualcosa di meno di una organizzazione, con vita e interessi propri, e qualcosa di più di un’arena in cui attori diversi perseguono i loro interessi…In alternativa i sintomi della decomposizione dei partiti potrebbero essere interpretati come presagio, non tanto d’un nuovo schieramento dei partiti nel quandro d’un sistema in sviluppo, quanto piuttosto d’un fondamentale deperimento e d’una potenziale dissoluzione del sistema partitico…L’avanzamento degli Stati Uniti in una fase post-industriale implica la fine del sistema dei partiti politici quale finora l’abbiamo conosciuto” (ibidem) 169 istituzionalizzazione che era stato in grado di predisporre a sostegno del sistema politico367. Per Huntington la crisi del sistema politico, e in particolar modo il “deperimento dei partiti”, poneva pertanto le élites dirigenti dinanzi a “tutta una gamma di questioni cruciali”: Se infatti la partecipazione politica non sarebbe più stata organizzata per mezzo dei partiti, quale avrebbe potuto esserne l’alternativa? Mentre nei paesi in via di sviluppo “la principale alternativa al governo attraverso i partiti” era “quella del governo 367 “Il declino dei partiti politici fu un fenomeno spesso notato degli anni sessanta e settanta”. Era come se, per Huntington, “gli Stati Uniti stavano diventando ‘un sistema senza partiti’. Il declino dei partiti potrebbe essere visto nella misura in cui funzioni tradizionalmente rivestite dai partiti politici furono sempre compiute attraverso altri mezzi e da altre istituzioni. Con l’espansione del sistema primario, la funzione centrale di nominare i candidati per gli incarichi pubblici fu sempre meno soggetta al controllo delle organizzazioni e dei capi di partito. La conduzione delle campagne politiche, compresa la ricerca dei fondi, fu sempre più intrapresa da organizzazioni personali di candidati e da professionisti, da organizzazioni elettorali e consulenti politici. Una terza funzione dei partiti politici era stata quella di offrire una guida al popolo per il voto. Durante gli anni sessanta, comunque, sia il voto secondo le direttive del proprio partito in ogni elezione che la coerenza nel voto di partito da un’elezione all’altra declinarono paurosamente. Negli anni quaranta e cinquanta gli indipendenti formavano il 20-23% dell’elettorato; all’inizio dei sessanta, questa proporzione iniziò a salire, assestandosi circa al 37-38% alla fine del decennio, con il 40-45% dei nuovi gruppi d’età che entrarono nell’elettorato alla fine degli anni sessanta e settanta rifiutando di identificarsi con alcun partito maggiore. Il popolo non si adagiava più principalmente sul partito come guida nella scelta del candidato. Il voto al problema aumentò in importanza, mentre il voto al partito diminuiva. Una quarta funzione del partito fu quella di offrire storicamente i canali e i mezzi per reclutare ufficiali di governo scelti. In qualche misura, i partiti continuarono a giocare questo ruolo fino alla fine degli anni settanta. Un cambiamento nell’amministrazione sia nelle capitali di stato che a Washington normalmente portava un cambiamento significativo nei più alti livelli dell’esecutivo. Infine, o partiti politici ebbero un ruolo importante nella formulazione e nella realizzazione della politica pubblica. Un numero di fattori diversi contribuì al declino dei partiti politici. Più alti livelli di educazione e di ricchezza tra i votanti aumentarono le tendenze verso il voto al problema e verso lo sviluppo di posizioni ideologiche complessive sulle questioni. La facilità con cui i candidati (che possedevano denaro) potevano raggiungere i votanti attraverso la televisione ridusse l’importanza delle organizzazioni e degli operatori di partito. Molte delle riforme introdotte durante gli anni sessanta e settanta ebbero l’effetto (se non l’intento) di minare ulteriormente il ruolo del partito. E, infine, la crescente complessità dei problemi richiedeva crescente esperienza e professionalità, cosa che le organizzazioni di partito non erano in genere in grado di offrire” (S.P.Huntington, American Politics, op.cit., pp. 213-214) 170 militare”, era invece concepibile una terza alternativa per “i paesi ad alto tasso di sviluppo?”368 5.4.1 Crescita e radicalizzazione della partecipazione politica americana durante gli “anni delle due S” Huntington sottolineava, ricorrendo a dati statistici, come dal 1965, quando “tra i giovani di appena 18 anni” solo “una media del 2,1% era impegnata in politica”, al 1973, vi fosse stato negli Stati Uniti un eccezionale incremento369 della partecipazione politica. Questa crescita presentava, agli occhi dello studioso americano, una preoccupante anomalia: non si riusciva infatti ad istituzionalizzarla, rendendola compatibile con le strutture del sistema politico. Questo era evidenziato dal fatto che i “tassi di partecipazione al voto…ebbero un picco negli anni sessanta, e poi declinarono decisamente fino agli anni ottanta, con la caduta più forte tra il 1968 e il 1972”370, cioè nel momento di massima espansione della partecipazione politica che, non incanalandosi 368 M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., p. 109 I “giovani adulti tra la fine degli sessanta e i primi anni settanta furono davvero eccezionali nella loro partecipazione politica. I giovani parteciparono con tassi più alti di quanto non avessero fatto i giovani del passato, e furono più attivi degli adulti nello stesso periodo. Entrambi i modelli erano insoliti e inaspettati” (S.P.Huntington, American Politics, op.cit., pp. 188-196) 370 ibidem 369 171 lungo traiettorie istituzionali, stava al contrario prendendo strade diametralmente opposte371. Tutto ciò indicava che “le tattiche e le arene della partecipazione politica si moltiplicarono al di fuori dei canali convenzionali”, coinvolgendo nuove organizzazioni “radicali e di protesta, e organizzazioni di riforma, più moderate” con l’immediata conseguenza che “le persone si mobilitarono di più verso nuovi livelli di attività”372 In tal modo la partecipazione politica si allargava, secondo l’analisi di Huntington, “sia in senso orizzontale, verso nuove forme e canali, che in senso verticale, con un marcato aumento dell’intensità delle proteste organizzate dal Movimento o dai movimenti contro l’ordine stabilito”373 Se ciò non bastasse, sottolineava ancora il teorico di Harvard, si ricorreva sempre più a radicali forme di protesta374. 371 “In un periodo di passione…lo scopo primario della politica è la protesta. La protesta politica è l’espressione, attraverso l’azione collettiva, dell’opposizione a particolari condizioni, politiche, o ufficiali. Può essere legale o illegale, pacifica o violenta, diffusa o concentrata. Può prendere la forma di azione diretta e di disobbedienza civile; può includere incontri, dimostrazioni, assemblee di protesta, tumulti, picchetti, marce, sit-ins, scioperi. In certi casi, il voto stesso può essere un mezzo di protesta, ma può esserlo anche il non-voto. Inoltre, ci sono molti altri modi più efficaci e più soddisfacenti di indicare una protesta. Negli anni sessanta, tutti le fasce d’età sempre più discordavano con questa affermazione: ‘Il voto è l’unico modo che le persone come me hanno per dire la loro su come il governo manda le cose’. Nel 1952, comunque, virtualmente la stessa proporzione di ventenni e di ultra sessantenni era d’accordo con questa affermazione. Nel 1960, comparve un piccolo spacco generazionale, con il 69% dei ventenni e il 78% degli ultra sessantenni che erano d’accordo con quell’affermazione. Dal 1968, si era aperto un abisso, con il 37% dei più giovani e il 62% dei gruppi più anziani che concordavano con l’affermazione. I giovani, i neri e altri elettori sentirono la disillusione del voto e erano pronti a impegnarsi in un numero di altre forme di azione politica” (op.cit., pp. 191-192) 372 “Tra il 1970 e il 1976, per esempio, il numero delle cause d’occupazione per i diritti civili iniziate nelle corti federali aumentò da 344 a 5321; il numero delle cause per antitrust privato salì da 877 a 1504. Gli americani tentavano di usare il processo giudiziario per riparare quelli che venivano percepiti come errori sociali… Durante gli anni delle due S era in gran voga la frase di Emerson “critica cosciente, instancabile, indagatrice”, dal momento che il popolo sostenne attivamente e cercò di realizzare i diritti che aveva precedentemente trascurato” (ibidem) 373 ibidem 374 “Dal 1948 al 1959 gli Stati Uniti ebbero in media 5 grandi dimostrazioni di protesta all’anno; dal 1960 al 1972 la media fu di 144. Nel 1973 il numero delle dimostrazioni 172 In breve tempo questo tipo di contestazione dell’autorità, seguita all’incremento della partecipazione, aveva prodotto negli Stati Uniti una serie di atteggiamenti fortemente radicali nei confronti di quasi tutte le istituzioni, prime fra tutte quelle del sistema politico. Huntington si chiedeva inoltre se la trasformazione dei modelli politici di comportamento degli americani durante gli anni ’60 e ’70, e il suo confluire in una partecipazione politica dai toni radicali, doveva intendersi come l’avvio di una generale riforma del tessuto sociale o come l’inizio di un vero e proprio processo rivoluzionario. La risposta metteva in evidenza come “l’essenza del radicalismo americano è precisamente la sua ambivalenza sulla questione; per diverse ragioni…il radicalismo in America è in grado di comprendere sia quelli che cercano di migliorare il sistema sia quelli che intendono distruggerlo”. Entrambi possono poi essere tatticamente d’accordo sul ruolo centrale della protesta, indirizzandola “oltre il pallido confine della politica convenzionale”. Ciò avrebbe di conseguenza condotto gli attori politici a “muoversi al di fuori della…camera legislativa” in favore di un’“azione di massa”, contenente a sua volta un forte “potenziale di illegalità” capace di coinvolgere nella mobilitazione e nell’organizzazione della protesta tanto il “riformatore liberale” quanto “il rivoluzionario marxista”375. scese precipitosamente, assestandosi su una media annuale di 57 durante i successivi 5 anni. La distribuzione die tumulti seguì un modello simile: molto pochi negli anni cinquanta, un deciso aumento nel 1960 che continuò fino al 1967, un tremendo calo fino a una media di 22 per i cinque anni successivi, seguito da un ulteriore caduta a numeri a una sola cifra nel 1973” (op.cit., pp. 195-196) 375 “Alla fine degli anni cinquanta e all’inizio dei sessanta sia le organizzazioni della Nuova Sinistra – soprattutto le SDS – che le organizzazioni nere – in particolare il CORE (il Congress of Racial Equality, Congresso per l’uguaglianza razziale) e il SNCC (Student Nonviolent Coordinating Committee, Comitato di coordinazione studentesca non violenta) – perseguirono obiettivi riformisti con tattiche radicali. Gli SDS, come altre coalizioni radicali, andavano “dai moderati ai maoisti”; la dichiarazione di Port 173 Questa prospettiva era confermata, per Huntington, dal fatto che le “principali organizzazioni di protesta nel movimento per i diritti civili” stavano passando durante gli anni settanta attraverso una progressiva metamorfosi; “dalla protesta alla violenza, da una base ampia a una ristretta, e da ideali derivati dal Credo americano ad altri che avevano radici nel marxismo o in altre ideologie rivoluzionarie”376; ragion per cui la partecipazione politica, cresciuta sull’onda della “battaglia per i diritti civili”, Huron del 1962 fu una dichiarazione di obiettivi generali di riforma radicale, ben all’interno degli ampi confini della tradizione radicale americana. “Fino al 1964”, disse uno storico, “la Nuova Sinistra, in realtà, era decisamente riformista e convinta che le istituzioni americane potessero essere fatte per riflettere ideali proclamati”. Dopo il 1964, comunque, l’appello dei riformisti cominciò a cedere. Nel 1965, gli SDS tolsero la clausola anticomunista dalla loro costituzione e aprirono la partecipazione a tutti quelli di Sinistra. Cambiamenti paralleli avvennero nell’organizzazione, dal momento che i bisogni del controllo burocratico centrale eclissarono i valori della democrazia pertecipativa. Il Marxismo, che era stato rifiutato pochi anni prima come ideologia obsoleta della Vecchia Sinistra, fu di nuovo accettato. In seguito alle elezioni del 1968, gli SDS furono ancora più dilaniati da conflitti di fazione e iniziarono a rifiutare le tattiche di protesta a favore di quelle di violenza. Nel 1969 i Weathermen (membri di un gruppo militante rivoluzionario americano n.d.a.) fecero degli SDS un’organizzazione rivoluzionaria che, dopo il fallimento della violenta protesta dei ‘Days of Rage’ in ottobre, si diedero alla clandestinità alla fine dell’anno. Nel marzo 1970 arrivò la fine simbolica della transizione dalla protesta alla rivoluzione, quando tre Weathermen si uccisero accidentalmente mentre fabbricavano bombe in un appartamento della West Eleventh Street a New York. Gli SDS erano sempre stati radicali, ma il senso di questo essere radicale cambiò drasticamente tra la dichiarazione di Port Huron e l’episodio dell’Eleventh Street. Nei primi anni era un’organizzazione di riforma radicale perché voleva realizzare i valori liberali dell’America; alla fine era un’organizzazione radicale rivoluzionaria perché voleva distruggere le istituzioni liberali americane. Ma come organizzazione di protesta radicale non poteva durare: inevitabilmente i suoi capi erano portati sia a fabbricare bombe…sia alla corsa per il Congresso” (ibidem) 376 “Nel 1960-61 decine di migliaia di persone parteciparono a centinaia di sit-in per togliere dalla segregazione razziale i banconi del pranzo e altri servizi commerciali; i bianchi e i neri cooperarono nel Comitato per la coordinazione studentesca non violenta e nella Southern Christian Leadership Conference (Conferenza cristiana del sud, ndt); un quarto di milione di persone partecipò alla marcia per i diritti civili su Washington nel 1963. Il successo della mobilitazione di supporto, facilitata dall’apparentemente spietata opposizione alla disgregazione da parte di alcuni elementi nel sud, creò l’ambiente politico per l’approvazione dei Civil Rights Acts (leggi sui diritti civili, n.d.a.) nel 1964 e nel 1965. A tal fine, alcuni capi neri furono assorbiti nella politica elettorale e burocratica del Potere Costituito, passando “dalla protesta alla politica”. Altri, comunque, sentirono che le organizzazioni per i diritti civili si dovevano muovere in una direzione più radicale. Nel 1965-66 lo SNCC cambiò il suo corso, sostituì lo slogan “potere nero” con “libertà”, imprigionò e poi espulse i suoi operai bianchi, e si schierò contro la guerra del Vietnam e a favore della resistenza alla leva. Allo stesso tempo, il CORE ruppe con la sua tradizione non violenta e appoggiò il potere nero e una strategia organizzativa comune nel nord” (op.cit., pp. 186-187) 174 aveva mano mano assunto toni sempre più radicali, provocando un sovraccarico di domande fino alla completa messa in discussione della legittimità delle istituzioni governative, investite a loro volta da una crisi di potenziale trasformazione, ponendo i presupposti per un prevedibile passaggio dall’“ingovernabilità” alla radicale riforma di tutto l’ordinamento politico. 5.4.2 Mass-media e “politica di denuncia degli abusi d’autorità” durante gli “anni delle due S” Per Huntington, convergeva verso un’accentuazione del sovraccarico istituzionale, anche la sistematica politica di denuncia degli abusi governativi377 operata dai mass-media. Centrale, nell’ambito di questa “nuova politica” era il ruolo giocato dalla stampa e dalla televisione. Huntington spiegava l’accresciuta importanza dei massmedia statunitensi, ricordando come gli “sviluppi tecnologici, le mode sociali, e i bisogni politici” avessero prodotto “grandi cambiamenti nella posizione della stampa all’interno della politica americana”. Questi cambiamenti erano sintetizzati dallo studioso americano in quattro punti fondamentali: “Primo, negli anni cinquanta e sessanta emerse un tipo di stampa sinceramente nazionale, i cui maggiori elementi erano i settimanali e i quotidiani nazionali, come The New York Times, The Washington Post e, poi, The Wall Street Journal. Questi media, insieme ad altri, formavano il centro di una stampa nazionale che si creò un 377 op.cit., p. 203 175 suo rapporto con il Presidente e altri agenti dell’autorità nazionale, paragonabile a quello che i quotidiani locali avevano a lungo avuto con i sindaci e le autorità locali delle maggiori città americane. Sostanzialmente, i giornalisti associati a questi media nazionali stabilivano cosa facesse notizia e il modo in cui essa dovesse essere espressa e interpretata. Secondo, l’emergere della televisione ebbe un tremendo impatto su come le persone apprendevano la notizia e, forse cosa ancora più importante, su chi apprendeva la notizia. I notiziari notturni raggiungevano molte più persone della notizia stampata. Inoltre, le telecamere influenzavano ciò che era considerato notizia e il modo di farla. All’inizio, la televisione diffondeva la notizia, poi quest’ultima fu costruita per la televisione. Terzo, la maggiore diffusione della stampa e il suo mutato ruolo ebbero un impatto sul reclutamento di giornalisti”378. Infine – proseguiva Huntington – “la combinazione di questi tre elementi gettò le basi per una ridefinizione del ruolo della stampa, da quello di passivo osservatore e rilevatore di fatti a quello di ‘antagonista’ del governo”379, sviluppando un vero e proprio servizio investigativo in grado di creare ostacoli rilevanti alla sua azione. Quali furono le caratteristiche principali della politica di denuncia? “La denuncia cui fu soggetta l’autorità politica negli Stati Uniti negli anni sessanta e nei primi anni settanta” fu, per Huntington, “unica nella storia moderna”380 ed essenzialmente 378 ibidem ibidem 380 “Questa grande età di denuncia, comunque, non cominciò fino al 1971, quando Daniel Ellsberg fondò un giornale, sbocco dei Pentagon Papers. Fu seguito da ulteriori rivelazioni riguardo la conduzione della guerra e, nell’estate 1972, dall’inizio del Watergate, che lentamente salì in importanza e dominò i media nazionali per i successivi due anni. (Il Watergate fu in prima pagina su The New York Times ogni giorno tranne tre 379 176 mossa da due fattori principali: “Primo, sia la protesta che la riforma” precedevano “la denuncia perché i mali principali a cui…erano diretti – la discriminazione razziale e la guerra – erano ovvii e appariscenti”. Appunto per questo sarebbero stati “necessari pochi sforzi, o addirittura nessuno, per scoprirli”. Era invece essenziale “comunicare questi fatti al pubblico, e ciò fu fatto dai media nazionali – la televisione in particolare – con un impatto tremendo sulla politica americana”; Secondo, la denuncia non sarebbe potuta “avvenire finché l’autorità dell’esecutivo – cioè l’obiettivo plausibile della denuncia – non fosse stata indebolita”. Infatti la pubblicazione delle attività del governo non conformi ai principi costituzionali richiedeva “l’indebolimento dell’autorità”. Tutto ciò era poi riconducibile al fatto che i massmedia erano i principali fautori di una generale disaffezione nei confronti dell’autorità politica, spingendo la popolazione a nel maggio, giugno, luglio 1973). Le rivelazioni della rete di coinvolgimenti nel Watergate offrirono ciò che sembrava essere un’irresistibile esca e una carriera promettente per dozzine di giornalisti. A suo tempo, inoltre, la graduale distribuzione delle cassette di Nixon rivelò la casualità e banalità, la grettezza di motivi e la ristrettezza dello scopo, che può caratterizzare i capi politici al lavoro. Nell’autunno del 1973 al Watergate si aggiunsero le rivelazioni e la prosecuzione che portarono alle dimissioni del Vice Presidente Agnew. Le dimissioni del Presidente Nixon l’estate successiva sostanzialmente conclusero il Watergate, ma durante l’autunno 1974 i media furono in grado di continuare sulla stessa linea e di togliere molto del mistero che aveva circondato la ricchezza, lo stile di vita e le operazioni politiche di Nelson Rockfeller, che era stato nominato alla vicepresidenza. Nel dicembre 1974, The New York Times raccontò la storia delle operazioni dei servizi segreti interni della CIA; nell’anno seguente la stampa, tre corpi investigativi di governo e parecchi individui competerono e cooperarono in rivelazioni riguardo il servizio segreto statunitense e le agenzie per la sicurezza nazionale…Un processo in qualche modo simile fece anche della CIA e dell’FBI bersagli attraenti. Insoddisfazione pubblica rispetto alla guerra del Vietnam non si amplificò fino al 1969, e di conseguenza si preparò la strada per la rivelazione delle Carte del Pentagono nel 1971 e per le successive investigazioni della CIA nel 1975. Quando gli Stati Uniti furono infine cacciati dal Vietnam nella primavera del 1975, i comitati del Congresso non cercarono di indagare perché gli Stati Uniti avessero perso la guerra e non tentarono di dare responsabilità ai civili e ai militari per questo esito. Il Congresso voleva perseguire il male piuttosto che il fallimento, e per fare questo aveva bisogno di un bersaglio debole. L’opposizione al coinvolgimento straniero, che risaliva agli anni sessanta, rese le condizioni favorevoli per un assalto dei servizi segreti statunitensi. Di nuovo, la questione tempo era cruciale”, (op.cit., p. 189) 177 perdere “il proprio senso di lealtà e di fiducia verso la legittimità dei propri capi”381. Oltretutto “il processo di denuncia, il sovraccarico e la delegittimazione dell’azione governativa che ne seguirono”, stavano sviluppando “caratteristiche e dinamiche proprie”, determinando, per il politologo americano, il moltiplicarsi degli “agenti”382 e dei “bersagli delle denunce”383; l’incremento, 381 ibidem “Primo, gli agenti della denuncia si moltiplicano. Nel sistema americano, la denuncia richiede la partecipazione di tre tipi di persone: gli informatori, i giornalisti, e il loro gruppo. All’inizio, l’informatore nell’esecutivo decide che nell’interesse pubblico o suo personale certe informazioni debbano essere rivelate per influenzare sia la sostanza della politica che l’identità degli attori politici. Dal momento che l’informatore normalmente non desidera rivelare il proprio ruolo nel processo di denuncia, egli cerca qualcuno tra i media o nel Congresso a cui possa confidare l’informazione e che poi si assuma la responsabilità di comunicarla pubblicamente. Come nel caso di Ellsberg e delle Carte del Pentagono, questo processo può richiedere un po’ di tempo. Per assicurare la tempestiva rivelazione delle informazioni, Ellsberg commise un errore nel rivolgersi prima al presidente del Comitato per gli Affari Esteri del Senato (Senate Foreign Relations Committee). I giornalisti probabilmente avranno meno inibizioni e maggiore interesse in un’azione rapida piuttosto che i membri del Congresso. Nella maggior parte dei casi, l’informatore desidererà trasmettere l’informazione a un giornalista dei media nazionali, dove la sua denuncia riceverà l’attenzione di chi è coinvolto nella politica nazionale. Una volta che l’informazione è uscita, gli uomini del Congresso adatti si muovono per investigare le accuse della rivelazione. Quando comincia l’indagine del Congresso, i membri del comitato del Congresso di solito stabiliscono una relazione simbiotica con i giornalisti che seguono le rivelazioni, scambiandosi informazioni e indiscrezioni e promuovendo i loro interessi comuni facendo durare la questione più a lungo possibile. Un informatore che fa trapelare con successo la prova dell’abuso di autorità alla stampa o al Congresso sia incoraggia altri che desiderano denunciare la stessa cosa sia provoca altri informatori a rivalersi contro altri bersagli. Di conseguenza, come dimostrano le storie del Pentagono o del Watergate, uno scoop da parte di un giornalista provoca una forte competizione da parte di altri: si sviluppa una “sporca razza” mentre i giornalisti perseguono vecchie tracce e corrono dietro a nuovi indizi, in un’intensa competizione per vedere la rivelazione di chi dominerà i titoli del giorno dopo. I comitati del Congresso, normalmente almeno uno in ogni camera, competono in modo simile” (op.cit., p. 205) 383 “All’inizio ci si focalizza generalmente sugli sbagli presunti di pochi ufficiali. Il processo di denuncia di quegli ufficiali, comunque, scopre gli errori di altri ufficiali. Inoltre, come dimostrato ancora dal Watergate, il processo di denuncia può condurre gli ufficiali ad agire di conseguenza per coprire i loro errori, il che porta a sua volte a nuovi comportamenti da denuncia. C’è inoltre un limite preciso alla quantità di sbagli che un ufficiale può commettere, perciò una volta che il meccanismo della denuncia si è messo in moto esaurirà, a suo tempo, un bersaglio, e si volgerà a un altro. I giornalisti hanno fatto ogni sorta di sforzo per moltiplicare il Watergate in una serie di successivi “gates” (“scandali”): Koreangate, Lancegate, Billygate. La denuncia di certe cose stimola la controdenuncia di altre. Così, le rivelazioni dell’abuso dell’autorità da parte del Presidente Nixon generò rivelazioni di apparentemente simili abusi d’autorità da parte dei Presidenti Johnson, Kennedy, e Roosevelt. Gli agenti della denuncia che hanno avuto 382 178 dinanzi a un sistema politico impreparato, dei successi ottenuti384 che a loro volta spingevano i promotori ad aumentare l’intensità dei loro sforzi; e infine la crescita programmata del “segreto” nella sfera dell’attività governativa, facendo dipendere da quest’aspetto la stessa credibilità del fatto denunciato385. successo una volta tenteranno di ripetersi; i fustigatori della Casa Bianca di Nixon divennero gli approvvigionatori di piccole chiacchiere sulla Burger Supreme Court” (op.cit, p. 200) 384 “Terzo, come suggerisce questo ultimo esempio, il processo di denuncia inizia molto velocemente a produrre dei risultati marginali in diminuzione, che, comunque, potrebbero aumentare o diminuire l’intensità degli sforzi degli agenti della denuncia. L’impatto del Watergate, e in particolare la denuncia conclusiva delle cassette nel luglio 1974 che accelerò le dimissioni del Presidente, diede un’ulteriore attrattiva a quello che Michael Kinsley e Arthur Lubow chiamarono ‘la fallacia delle prove evidenti’ – cioè la convinzione che ‘importanti verità emergeranno da questo spedire i cronisti a scavare piccoli indizi, che porteranno a grandi indizi, che porteranno alla VERITÀ’. Questa inclinazione è radicata nelle teorie americane sulla cospirazione che affermano che qualcosa di importante si nasconde sotto la superficie della politica, e che grandi sforzi sono necessari per strappare i vari strati di inganno e rivelare la realtà corrotta del comportamento ufficiale. In realtà, comunque, è vero l’esatto contrario. Più le indagini vanno avanti, meno è probabile che si scoprano nuovi grandi scandali. Il significato di ciò che è denunciato varia inversamente allo sforzo richiesto per la denuncia. Le più grandi violazioni del Credo americano – concentrazioni di potere e ricchezza, abusi di autorità, negazione di una giustizia equa e dei diritti individuali, discriminazione e ineguaglianze – non si nascondono facilmente. La prova è là, per coloro che vogliono vederla, appropriarsene e usarla. Una volta iniziato, comunque, il processo di denuncia, nello sforzo di svelare i nuovi grandi mali, passa dall’essere importante all’essere insignificante” (op.cit., p. 194) 385 “Quarto, il processo di denuncia richiede la moltiplicazione dell’attività denunciabile – cioè la moltiplicazione dei segreti. In qualche modo, la credibilità di un fatto dipende da quanto quel fatto è segreto. Un atto visto come malvagio in se stesso diventa peggiore se fatto in segreto. Di conseguenza, fatti non segreti devono spesso essere descritti come tali per aumentare l’indignazione del pubblico e accrescere il contributo degli informatori: essi diventano non semplicemente i messaggeri della conoscenza del male, ma i denunciatori dell’esistenza del male. Forse il più rilevante esempio della creazione di un segreto fu quello riguardo il bombardamento della Cambogia da parte dell’amministrazione Nixon nel 1969 e 1970. Il presidente prese la decisione il 16 marzo 1969; il primo attacco avvenne due giorni dopo. Per evitare di imbarazzare il Principe Sihanouk e i complicati negoziati di pace con il nord vietnamita non fu fatto alcun annuncio pubblico. Il 9 maggio, The New York Times pubblicò un lungo articolo in prima pagina che descriveva il bombardamento, al quale seguì l’interesse di altre testate e dei media. Il bombardamento, che continuò per un altro anno, fu di dominio pubblico per il 90% del tempo della sua durata. Negli anni successivi, comunque, il bombardamento “segreto” della Cambogia fu uno dei più frequenti e appassionatamente evocati racconti nelle accuse contro l’amministrazione Nixon. Un ‘segreto’ che quasi immediatamente diventò un “non segreto” continuò ad essere descritto come segreto per molti anni a seguire. Ciò che questo fatto dimostra, comunque, è, primo, l’incapacità del governo americano di mantenere un segreto, e, secondo, il bisogno per i denunciatori di segreti di classificare come “segreti” cose che in realtà erano del tutto pubbliche” (op.cit., p. 195) 179 Non solo, ma il successo della “politica di denuncia” a livello nazionale stimolava “nuove ondate di ‘rapporti investigativi’ a livello…locale, mentre i media locali e regionali tentavano di replicare al loro livello il successo del The New York Times e del The Washington Post”386 La crisi istituzionale del modello democratico americano era inoltre ricollegabile alla “crescita di potere del Congresso” in contrasto con “il lungo periodo di dominio presidenziale”387, iniziato con il New Deal e rafforzatosi durante la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda. La “diffusione di potere” che ne risultava “aumentò il potere del Congresso”388, riducendo la possibilità di ogni singolo leader o piccolo gruppo di leader di “consegnarlo…nei negoziati con il Presidente o altri ufficiali esterni”389 Per Huntington l’obiettivo cui mirava il Congresso, avvalendosi del supporto fornitogli dai mass-media, era quello di “un ricollocamento del potere tra il Presidente e il Congresso e 386 ibidem Dal New Deal alla fine degli “anni delle due S” gli Stati Uniti ebbero ben 8 presidenti: Roosevelt (1932-1945), Truman (1945-1952), Eisenower (1953-1961), J.F.Kennedy (1961-1963), Johnson (1963-1968), Nixon (1969-1974), Ford (1974-1975), Carter (1976-1980). Di questi uno fu assassinato (J.F.Kennedy, 1963) e un altro fu costretto alle dimissioni in seguito allo scandalo del Watergate (Nixon, 1974). Accanto a questi eventi si devono collocare l’uccisione di un candidato alla presidenza (Robert Kennedy, 1968) e di due dei più importanti leader del movimento afro-americano (Malcom X, 1964; Martin Luther King, 1968, appena un mese prima, aprile, dell’uccisione di Robert Kennedy) 388 “L’abilità del Congresso a giocare un ruolo più attivo e positivo nel formare la politica pubblica fu rafforzata molto anche dall’aumento del personale di supporto al Congresso durante gli anni delle due S. Due nuove agenzie di personale di supporto, l’Ufficio per la Valutazione Tecnologica (Office of Technology Assessment) e l’Ufficio per il Bilancio del Congresso (Congressional Budget Office), furono create rispettivamente nel 1972 e nel 1974, e il personale delle agenzie esistenti, l’Ufficio per la Ricerca (Congressional Research Service) e l’Ufficio Contabile Generale (General Accounting Office) fu largamente aumentato. Il personale delle commissioni quasi triplicò tra il 1957 e il 1975, e i membri degli staff personali dei parlamentari diventò più del doppio” (S.P.Huntington, American politics, op.cit., p. 208) 389 ibidem 387 180 l’estensione del suo controllo su attività di tipo esecutivo” 390. Tant’è vero che anche in “politica estera, il Congresso si mosse per ridurre il potere decisionale del Presidente e per obbligare l’esecutivo ad essere più responsabile verso il Congresso”391. La crescita della partecipazione politica da una parte e il ruolo del Congresso e dei mass-media dall’altra, stavano ad indicare per Huntington che nel corso degli anni settanta una persona poteva pure diventare Presidente degli Stati Uniti “creando una efficiente coalizione elettorale”, senza purtuttavia 390 ibidem “Negli anni cinquanta il Senatore Richard Russell aveva sottolineato ‘Dio aiuti il popolo Americano se il Congresso inizia a legiferare sulla strategia militare’. Negli anni settanta il Congresso fece proprio questo. Nel 1970 impose termini ultimi per il ritiro delle forze terrestri degli Stati Uniti dalla Cambogia. Nel 1973 proibì tutte ‘le attività di combattimento per terra, per aria e per mare intorno ai confini della Cambogia, del Laos, del Vietnam del Nord e del Sud’. Lo stesso anno passò la Risoluzione sui Poteri di Guerra (War Powers Resolution) definendo le circostanze per cui il Presidente poteva convocare le forze statunitensi per combattere, richiedendo un immediato rapporto al Congresso di ciascuna di tali convocazioni, e limitando la durata di tali convocazioni senza l’espressa approvazione del Congresso. Nel 1975 il Congresso proibì l’aiuto clandestino degli Stati Uniti alle forze insorte in Angola in opposizione al MPLA (Movimento Popular de Libertacão de Angola) sostenuto da Cuba. Nel 1974 e 1975 l’azione del Congresso influenzò seriamente le relazioni statunitensi con l’Unione sovietica e con la Turchia imponendo condizioni per il conferimento dello status di “nazione preferita” alla prima e il proseguimento dell’assistenza militare alla seconda. Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta il Congresso mostrò una nuova determinazione nel considerare i programmi militari e il bilancio della difesa, non esitando ad arrivare a giudizi suoi propri riguardo i meriti dei primi o a tagliare significativamente i secondi. Nel 1974 il Congresso approvò anche la legge sul Controllo del Bilancio e Confisca (Budget Control and Impoundment Act), che diminuiva il controllo del Presidente sulla spesa di fondi adeguati e che rafforzava la capacità del Congresso, attraverso nuove commissioni per il bilancio e il Congressional Budget Office, di esercitare un controllo totale sullo scopo e sui propositi delle spese di governo. Nello stesso anno, il Congresso richiese che il direttore dell’Ufficio di Gestione e Bilancio (Office of Managment and Budget) e i suoi deputati nell’Ufficio Esecutivo (Executive Office) del Presidente fossero soggetti alla conferma dei senatori. Durante gli anni delle due S, il Congresso moltiplicò anche l’uso del veto legislativo come mezzo per controllare l’azione esecutiva. Una ricerca del 1976 identificò 37 leggi, dall’Amtrack Improvement Act (?)al Foreign Military Sales Act (legge sulle vendite militari all’estero), la maggior parte delle quali, tenendo conto dell’uso del veto, erano state emanate durante la decade precedente. Altri provvedimenti legislativi ingrandirono il numero di rapporti che l’esecutivo doveva presentare al Congresso. Allo stesso tempo, il Congresso asserì ulteriormente il suo controllo sull’esecutivo attraverso l’inchiesta del Watergate, le attività dei servizi segreti, e altre cose” (ibidem) 391 181 poter disporre, una volta eletto, dei mezzi necessari “per governare il paese”392. Difatti le conseguenze della politica di denuncia degli abusi governativi, portata avanti contemporaneamente dal Congresso e dai mass-media, non solo accrescevano la mobilitazione e la partecipazione politica dell’opinione pubblica, senza che il sistema partitico riuscisse in qualche modo filtrarla, ma contribuivano enormemente a far sì che “il declino della fiducia pubblica nel governo” subisse “un’accelerazione”, facendo in modo che l’erosione della legittimità dell’autorità di governo andasse “avanti indipendentemente”, senza essere più “un prodotto di quell’abuso”393. Tant’è vero che “la messa in dubbio dell’autorità” finiva con l’estendersi dal governo a quasi 392 “L’elezione conferiva legittimità ma non potere, ed entrambi erano necessari per l’esercizio dell’autorità. La creazione del potere richiedeva la creazione di una coalizione di governo, il che divenne sempre più difficile, se non impossibile, da fare dal momento che il potere stesso si stava diffondendo nella società. Come risultato, i Presidenti provavano sempre più un senso di impotenza, un’incapacità a trovare le leve da tirare per produrre i risultati che sentivano di essere stati chiamati a raggiungere. Lyndon Johnson, eletto da una delle più schiaccianti maggioranze nella storia americana, meditò su quanto fosse necessario per lui ‘ottenere il supporto dei media…degli orientalisti… degli intellettuali’, perché ‘senza quel supporto non avrei avuto nessuna possibilità di governare il paese’. Perse molto di quel supporto. Il suo successore non ne ebbe quasi per nulla; quattro mesi dopo aver vinto le elezioni con una delle più alte maggioranze nella storia americana diceva esasperato ‘Nessuno ci è amico. Affrontiamo questa situazione’. Abilmente esprimendo la mentalità d’assedio della Casa Bianca, un anziano assistente alla Casa Bianca consigliava un giovane assunto ‘Una cosa dovresti realizzare molto presto, noi siamo praticamente un’isola qui’; il più alto appello era a ‘proteggere il Presidente’ contro le forze ostili che circondavano l’isola. Alla fine degli anni settanta, il Generale Ford poteva con qualche diritto dire che lontano dall’avere una presidenza imperiale, gli Stati Uniti avevano di fatto ‘una presidenza in pericolo’”. (gioco di parole tra “imperial” e “imperiled”, n.d.a.) (op.cit., p. 210) 393 “L’abuso di autorità, d’altra parte, può essere stato in parte un prodotto dell’erosione. In primo luogo, il declino dell’autorità degli ufficiali pubblici e, in particolare, i cambiamenti nelle loro stesse percezioni del loro potere e della loro legittimità può stimolare gli ufficiali ad abusare della loro autorità nello sforzo di restaurarla. La Casa Bianca, sia con Johnson che con Nixon, fu pervasa da un senso di paranoia politica, quando il Presidente e i suoi collaboratori ebbero a che fare con un Congresso sempre più critico, una stampa ostile, una burocrazia contraria. In qualche caso, come per le rivelazioni delle Carte del Pentagono e le storie del bombardamento cambogiano, fu chiaramente evidente una relazione causa-effetto tra l’attacco all’autorità e l’abuso di autorità. In secondo luogo, cosa più importante è la misura in cui l’erosione di autorità porta non semplicemente ad un aumento dell’effettivo abuso di autorità ma piuttosto a un cambiamento nell’attitudine del pubblico verso quegli abusi” (op.cit., p. 213) 182 tutti i campi della società: famiglia, scuole, università, chiese, associazioni private, ambiente militare394 La crescente sfiducia nell’azione del governo e dei partiti era inoltre inversamente proporzionale alla fiducia riposta dall’opinione pubblica nei notiziari televisivi, i quali, a loro volta, per attrarre fette sempre più estese di una popolazione fortemente politicizzata, accentuavano i toni della denuncia contro la politica dei più importanti apparati governativi e, più in generale, verso le autorità oggetto della contestazione395. Insomma, per Huntington, questa politica di denuncia stava esercitando un pericoloso ruolo di moltiplicatore della domanda, determinando una situazione difficilmente controllabile rispetto alla fonte che l’aveva prodotta396. 5.4.3 I limiti auspicabili all’ampliamento indefinito della democrazia La “grande difficoltà risiede in questo: si deve, in primo luogo, mettere il governo in grado di dominare i governanti e, in secondo luogo, costringerlo a dominare se stesso”; è con questa citazione, tratta dal n. 51 del The Federalist di James Madison, 394 ibidem “Alla fine degli anni sessanta, la maggiore fiducia nella televisione per le notizie era associata alla bassa efficacia politica, alla sfiducia sociale, al cinismo, a una debole lealtà di partito. Dalla metà degli anni settanta, queste caratteristiche si erano così diffuse nell’elettorato che la relazione con la fiducia nella televisione era virtualmente scomparsa. Durante gli anni delle due S l’impatto complessivo dei media, particolarmente della televisione, doveva minare la legittimità del governo”, (ibidem) 396 “L’impatto negativo dei media sulla legittimità delle istituzioni politiche condusse un analista a formulare una ‘legge di ferro’ con il risultato che ‘in nazioni in cui la notizia è prodotta commercialmente e indipendentemente, il livello (o branca) di governo che riceve la maggiore enfasi, alla lunga, sperimenterà anche il maggiore disdegno pubblico’. Accentuando il sensazionale, il semplice, il controverso, la televisione ebbe un ruolo particolarmente forte nel minare l’autorità” (op.cit., p. 216) 395 183 che Huntington rendeva esplicito il senso delle sue proposte, formulate nel rapporto del 1975, per uscire dalla crisi che, secondo i relatori della Commissione Trilaterale, stava coinvolgendo gran parte delle democrazie occidentali. Come sostenuto nel 1957 in un articolo apparso su American Political Science Review, nell’adottare le soluzioni più idonee alla crisi, era necessario, per lo studioso americano, considerare il fatto che “quando coloro che intendono sfidare le istituzioni si pongono in contrasto con l’ideologia della società esistente ed intendono affermare un sistema di valori completamente diverso, l’ambito di discussione comune viene distrutto”. Da ciò deriva che il rifiuto “dell’ideologia corrente da parte di coloro che intendono sfidare le istituzioni” costringe le stesse classi dirigenti “ad abbandonarla”, dato che “la difesa di ogni sistema di istituzioni di fronte ad una sfida posta alle fondamenta di esso deve essere formulata in termini di logica di conservazione, di inviolabilità e di necessità delle istituzioni a prescindere dal livello di corrispondenza al carattere prescrittivo di una qualunque filosofia ideazionale”. Tutto questo perché, come sosterrà poi nel 1982 con il saggio American politics, l’“autorità politica – cioè l’esercizio legittimo del potere da parte di pubblici ufficiali – può diventare illegittima in molti modi”, implicando di conseguenza un generale “restringimento del regno della legittimità all’interno del regno del potere” situando quest’ultimo “al di fuori della ratifica del primo”397. Huntington, pur essendo dell’opinione “che, in termini di previsione, la spinta democratica ed il conseguente squilibrio 397 S.P.Huntington, American Politics, op.cit., pp. 211-214 184 duale del sistema di governo” si sarebbero attenuate, sosteneva che nell’immediato, “al fine di evitare le conseguenze nocive della spinta”, era necessario “ripristinare l’equilibrio tra vitalità e governabilità nel sistema democratico”398. Proponeva pertanto che per “il funzionamento efficace di un sistema politico democratico”, sarebbe stato opportuno suscitare “una certa dose di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi”, sostituendo “la minore emarginazione di alcuni gruppi con una maggiore autolimitazione di tutti i gruppi”, allontanando così “il pericolo di sovraccaricare il sistema politico con richieste che ne allargano le funzioni e ne scalzano l’autorità”399. La “vulnerabilità del sistema democratico statunitense” derivava dunque “non da minacce esterne, per quanto esse siano reali, né della sovversione interna da sinistra o da destra, per quanto entrambe queste evenienze possano darsi, bensì dalla dinamica interna della stessa democrazia in una società altamente istruita, mobilitata e partecipe”400. Pertanto se si ammetteva l’esistenza di “limiti potenzialmente auspicabili alla crescita economica” era ormai opportuno fare altrettanto dinanzi “all’ampliamento indefinito della democrazia politica”, 398 M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, cit., p. 108 “In passato, ogni società democratica ha avuto una popolazione marginale, di dimensioni più o meno grandi, che non ha partecipato attivamente alla politica. In se, questa marginalità da parte di alcuni gruppi è intrinsecamente antidemocratica, ma ha anche costituito uno dei fattori che hanno consentito alla democrazia di funzionare efficacemente. I gruppi sociali marginali, ad esempio i negri, partecipano ora pienamente al sistema politico” (op.cit., p. 110) 400 Ibidem. Questo per Huntington era soprattutto vero per la società statunitense. Infatti l’instabilità sociale americana degli anni sessanta e settanta (gli “anni delle due S”) era riconducibile ai valori stessi della democrazia statunitense. Tant’è vero che le “giovani generazioni” volevano soltanto “mettere in pratica quegli ideali in cui voi – e noi – crediamo” e proclamare “una Nuova Verità per sfidare i vecchi miti delle generazioni precedenti”, invocando “le Vecchie Verità” per accusare le “vecchie generazioni”, i veri “sovversivi”, di averle abbandonate, mentre “i sudditi fedeli”, ne 399 185 favorendone in tal modo “un’esistenza più equilibrata”, che le avrebbe di certo assicurato “una vita più lunga”. La soluzione prospettata dal teorico di Harvard si basava così sulla proposta di “un modello decisionale di governo più efficace e più vincolante”, cioè in condizione di garantire “una certa dose di autorità, deferenza e gerarchia”, in una società in cui la “coesione sociale e l’adattabilità istituzionale” erano ormai sottoposte a una “pressione” non sempre compatibile “con i requisiti politici per la conservazione della società”401. Riassumendo, si può dunque sostenere che come per i sistemi politici latino-americani, anche quelli occidentali stavano vivendo nel corso degli anni ’70 una profonda crisi istituzionale dovuta al sovraccarico di domanda politica che pesava sui loro apparati di governo. A favorire il sovraccarico istituzionale era però l’esistenza stessa delle istituzioni democratiche e la tensione ad una loro progressiva espansione che nel lungo periodo avrebbe potuto essere fatale per gli stessi assetti della democrazia, qualora le forze e i gruppi politici d’opposizione, profittando della situazione e stringendo fra loro un’alleanza politica, avessero messo in discussione la conservazione stessa dei rapporti di dominio vigenti. A questo punto la risposta che il sistema era chiamato a dare doveva necessariamente muovere dal presupposto della propria conservazione, quindi ammettere la possibile “violazione…del diritto comune per un fine di pubblica utilità”402. Comunque sia, i sistemi politici occidentali non potevano ricorrere all’intervento delle forze armate, come era stato invece “riaffermano…orgogliosamente i principi” ignorati (cfr. S.P.Huntington, American Politics, cit., pp. 1-5) 401 M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., p. 110 186 suggerito per i paesi in via di sviluppo, senza renderne ancor più ingovernabili le società403. Quest’ipotesi era poi esclusa dalle conclusioni, affatto positive, che si potevano trarre, contemporaneamente alla pubblicazione del rapporto di Kyoto, dalla fine del cosiddetto “regime dei colonnelli” in Grecia (1974) e dagli eventi che si stavano verificando in Portogallo e in Spagna con la fine di dittature pluridecennali. Inoltre le organizzazioni sindacali e partitiche d’opposizione erano talmente forti che non sarebbe stato possibile imporre una simile strategia senza correre il rischio di precipitare l’intero corpo politico in una disastrosa guerra civile. 5.5 “Nuove istituzioni per la promozione cooperativa della democrazia”: le “conclusioni generali” del Rapporto della Commissione Trilaterale La proposta di Huntington di un governo che fosse dotato di poteri tali da poter garantire la governabilità della democrazia, deve necessariamente essere ricompresa nel quadro delle 402 Botero, Della Ragion di Stato, 1589, cit. in op.cit., p. 117 Huntington avrebbe comunque escluso un intervento militare in Occidente in quanto “via via che la società diventa più complessa, diventa più difficile per gli ufficiali militari sia esercitare efficacemente il potere, che anche riuscire a prendere il potere”. Inoltre la “loro capacità di ottenere appoggi e di indurre alla cooperazione diminuisce;…gli ufficiali non sono necessariamente esperti nelle arti esoteriche della negoziazione, del compromesso, del ricorso alle masse, necessari per l’azione politica all’interno di una società complessa”. Infine in “una società molto complessa non solo diventa più difficile per un gruppo altamente specializzato esercitare la dirigenza politica, ma per di più gli strumenti con cui i militari possono acquisire il potere, incominciano a perdere di efficacia. Proprio per sua natura, l’utilità del colpo di stato come tecnica di intervento politico, diminuisce via via che aumenta l’ampiezza della partecipazione politica” (S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 246) 403 187 conclusioni generali del rapporto della Trilaterale, discusse a Kyoto il 31 maggio 1975. Queste, collocandosi nel clima di generale “pessimismo sul futuro della democrazia”404, espresso anche da Brzezinski nella prefazione all’edizione italiana del Rapporto, proponevano dei “campi d’intervento”, vale a dire “sette settori a partire dai quali affrontare i problemi…che per l’Europa e gli Stati Uniti (avevano) un’attinenza immediata e a cui il Giappone non (avrebbe potuto) sottrarsi in un futuro non lontano”405. I “campi d’intervento” proposti miravano a: 1) un’“Efficace pianificazione dello sviluppo economico e sociale”. Secondo tale ipotesi “i programmi governativi” avrebbero dovuto “assegnare la massima precedenza al raggiungimento di un livello minimo di sussistenza garantita per tutti i cittadini”406, insomma una sorta di reddito minimo garantito407; 2) 404 M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., pp. 20, 25 op.cit., p. 157 406 op.cit., pp. 158-159 407 Molto diffuso nel XVIII e nel XIX secolo, l’idea di minimo garantito si presenta come una sorta di "filo rosso" continuamente riemergente nei "momenti di svolta" del dibattito politico, economico e sociale, costituendo di per sè non solo un capitolo affascinante della storia delle idee. Presente già in Hobbes, Montesquieu, Smith e Paine, tornerà con forza sulla scena del dibattito politico internazionale grazie a Josef PopperLynkeus. Originale figura di affermato fisico, inventore di numerosi brevetti industriali, e nel contempo Sozialethiker e intimo amico di Ernst Mach, Popper aveva delineato sin dal 1878, e poi sviluppato per oltre un quarantennio, un personale e tenacissimo disegno di riforma sociale, via via espresso in numerose opere di filosofia politica e analisi economica. Anche i coniugi Webb, Sidney e Beatrice, proposero un “moral minimum”, pur indicandolo, come avrebbe fatto notare Ernesto Rossi, “solo di passaggio, in forma incerta, senza soffermarsi di proposito a trarne tutte le conseguenze” (E.Rossi, Abolire la miseria, Laterza, Bari 1977, p. 120). Un altro durevole e importante centro di riflessione attorno all'idea di "minimo sociale garantito" si costituirà poi in Francia per il tramite dei giovani redattori (Robert Aron, Arnaud Dandieu, Jean Jardin, Henri Daniel-Rops, Alexan de Marc, Denis de Rougemont) della rivista intitolata L'Ordre Nouveau (19331938). Un “minimum social garanti” era anche per Alexandre Marc, teorizzatore di un federalismo di marca péguista e proudhoniana e leader di una corrente culturale che a questo si richiama, la premessa per un’economia “polarisée” in diverse “zones économiques” e articolata in una pianificazione “dichotomique”, da un lato “impérative dans la première zone…qui recouvre les besoins sociaux fondamentaux (nourriture, habillement, logement, santé, éducation)”, dall’altro « indicative dans la zone…qui regroupe toutes les autres activités économiques, celles qui, dans une société donnée, à un moment donné de l’histoire, compte tenu des ressources et des techniques, peuvent 405 188 “Rafforzamento delle istituzioni della leadership politica”408. Si registrava infatti la necessità che l’ago della bilancia non si spostasse troppo in direzione delle istituzioni legislative. Perciò, “lo sforzo decisivo” avrebbe dovuto “essere orientato al reinserimento del dibattito democratico nelle procedure amministrative, alla prevenzione del monopolio della competenza da parte della pubblica amministrazione e al ripristino delle funzioni del parlamento, assegnando a quest’ultimo nuova competenza e, così, la possibilità di discutere su un piano di etre considérés comme ressortissant à la catégorie du superflu”. In tal modo il “minimum social garanti…assure à chaque individu, de sa naissance à sa mort, un revenu régulier, indépendamment de tout travail...” (M.Lipiansky, Esquisse d’une économie fédéraliste, in « Repères pour un fédéralisme révolutionnaire », n. 190-192, janvier-mars 1976. Russell stesso si chiedeva se fosse “tecnicamente possibile fornire i beni necessari alla vita in quella grande quantità che sarebbe necessaria se ogni uomo e ogni donna ne potesse prendere dai magazzini pubblici la quantità che desidera”, giungendo alla conclusione che si sarebbe potuto “stabilire come criterio generale…che il principio di una distribuzione illimitata potrebbe venire adottato per tutti quei beni la cui richiesta ha dei limiti che rimangono al di sotto della quantità di essi che può venir prodotta con facilità. E questo, se la produzione fosse organizzata in modo efficiente, sarebbe il caso dei beni necessari alla vita, includendovi, non soltanto i beni di consumo, ma anche altre cose, come l’educazione…” (B.Russell, Socialismo, anarchismo, sindacalismo, Longanesi & C., Milano, 1968, p. 126). Recentemente anche U.Beck ha ripreso l’idea di minimo garantito, sotto forma di “reddito di cittadinanza”, associandola alla sua proposta di “lavoro d’impegno civile”, strumento, quest’ultimo, attraverso cui rispondere alle dinamiche della società occidentale, che corre ormai il rischio di una sua generale “brasilianizzazione”, a causa dell’ “irruzione della precarietà, della discontinuità, della flessibilità, dell’informalità…(cioè) delle forme lavorative, biografiche ed esistenziali” tipiche dei paesi del Sud del pianeta (U.Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino, 2000, p. 1). Anche per Bahuman il reddito minimo garantito, “cioè la separazione del diritto acquisito dell’individuo di avere un reddito dalla reale capacità di guadagnare un reddito” (Z.Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000, p. 187) è uno strumento tramite cui contrastare l’incertezza in cui si troverebbero ad agire i singoli all’interno della moderna società capitalistica, permettendo una parziale ricostruzione del tessuto sociale che starebbe invece subendo le drammatiche conseguenze di una rapida modernizzazione socio-economica (cfr. E.Morley-Fletcher, Per una storia dell’idea di “minimo salariale garantito”. Traccia di bibliografia ragionata, in “La Rivista Trimestrale”, pp.297-321, 1980, 1981) 408 “Negli Stati Uniti il rafforzamento delle istituzioni di leadership richiede un intervento, sia in relazione al Congresso, sia in relazione alla presidenza. Nel Congresso, la tendenza del decennio passato è stata a una maggiore dispersione del potere nella Camera come pure nel Senato. Però se il Congresso deve svolgere un effettivo ruolo di governo diverso da un ruolo di critica e di opposizione, deve essere in grado di formulare obiettivi complessivi, determinare priorità e avviare programmi. Questo richiede inevitabilmente una certa centralizzazione del potere nell’ambito del Congresso” (M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., pp. 159-161) 189 parità con i funzionari pubblici”409; 3) un “Rinvigorimento dei partiti politici”, adattandoli “ai mutati bisogni ed interessi dell’elettorato”. Il partito avrebbe così dovuto da un lato “riflettere gli interessi e i bisogni delle forze sociali e dei gruppi di interesse principali e, dall’altro…essere indipendente da interessi particolaristici410; 4) il “Ripristino dell’equilibrio tra governo e mezzi di informazione”. Pur considerando la libertà di stampa “assolutamente essenziale al funzionamento effettivo del sistema democratico di governo”, si faceva notare che quest’ultima avrebbe tuttavia potuto risultare fonte di possibili abusi411. Sarebbe stato perciò opportuno che “la responsabilità della stampa” fosse stata “accresciuta in modo da corrispondere al suo potere”, mediante “importanti misure per ristabilire un giusto equilibrio412 tra la stampa, il governo e le altre istituzioni sociali”. Le ragioni per cui, accanto all’esigenza “di assicurare alla stampa il suo diritto di pubblicare quello che vuole”, doveva 409 ibidem Il Rapporto suggeriva anche degli interventi a proposito dei finanziamenti ottenuti dai partiti politici: il “rafforzamento dei partiti politici, necessario per il reale funzionamento della politica democratica, sembra richiedere una diversificazione delle fonti ai cui i partiti attingono sul piano finanziario. I partiti politici non dovrebbero dipendere esclusivamente dai singoli membri, o dagli interessi organizzati, o dallo stato, per i mezzi occorrenti all’espletamento delle proprie funzioni. Dovrebbero potere trarre sostegno da tutt’e tre queste fonti di finanziamento…La slealtà potrebbe combattersi anzitutto con misure che proibiscano ogni versamento da parte dei gruppi industriali, o che per lo meno pongano limiti invalicabili ed esigano nello stesso tempo la più completa pubblicità a queste sovvenzioni” (op.cit., pp.161-163) 411 “Negli ultimi anni si è registrata un’immensa crescita nel campo d’azione e nel potere dei mezzi di comunicazione…la stampa ha assunto un ruolo sempre più critico verso il governo e i funzionari pubblici. In alcuni paesi, le regole tradizionali della ‘obiettività’ e dell’‘imparzialità’ sono state accantonate in favore di un ‘giornalismo peroratore’” (ibidem) 412 “Qui, l’aumento di potenza dei mezzi di comunicazione non è dissimile dall’ascesa al potere nazionale delle società industriali alla fine del diciannovesimo secolo. Così come le società si posero sotto il riparo costituzionale della disposizione relativa al debito procedimento legale, i mezzi di comunicazione oggi si difendono in base al Primo Emendamento…ci sono ovviamente importanti diritti da proteggere, ma sono anche in gioco gli interessi, più vasti, della società e dello stato” (ibidem) 410 190 comunque ammettersi “la possibilità di negare le informazioni413 alla loro origine”414; 5) il “Riesame dei costi e delle funzioni dell’istruzione superiore”415, rapportando “la pianificazione scolastica agli obiettivi economici e politici”, attraverso un generale adattamento dei programmi scolastici ai “modelli di sviluppo economico e alle future possibilità di lavoro”, dato che l’“istruzione superiore è ormai il più importante meccanismo di produzione dei valori nella società. Ed il fatto che esso funzioni male o si orienti a fini contrastanti con quelli della società non può non destare grandi preoccupazioni”416; 6) “Un più effettivo rinnovamento nel campo del lavoro”. Veniva perciò richiesto a tale proposito “un nuovo tipo di intervento attivo” sia nelle “strutture operative dell’impresa” che “nel contenuto del lavoro stesso”, rivolgendosi ad “una laboriosa trasformazione dei rapporti sociali417, dei modelli di cultura e di autorità e, perfino, 413 “Non c’è alcun motivo, inoltre, di negare le informazioni ai funzionari pubblici un’equa protezione legale contro gli scritti diffamatori, e i tribunali dovrebbero agire senza indugi per ristabilire la legge sulla diffamazione, intesa come freno necessario ed adeguato agli abusi di potere da parte della stampa. I giornalisti dovrebbero elaborare propri valori professionali e creare dei meccanismi, quali i consigli professionali, che facciano rispettare questi valori. L’alternativa potrebbe pure essere la regolamentazione da parte dello stato” (ibidem) 414 op.cit., pp. 164-165 415 “In tutte le società della Trilaterale, negli anni ’60 si registrò un’enorme espansione dell’istruzione superiore. Questa espansione fu il prodotto d’un benessere crescente, di un incremento temporaneo della classe d’età adeguata agli studi secondari, nonché dell’assunto sempre più diffuso secondo cui i tipi di istruzione superiore (…), accessibili soltanto ad una ristretta élite, dovevano essere resi universalmente disponibili. Da questa espansione, però, possono risultare un numero di persone fornite di istruzione universitaria sproporzionato rispetto alle occupazioni per esse disponibili, il dispendio di somme considerevoli che assottigliano i già scarsi fondi pubblici e l’imposizione sui ceti sociali più bassi di tasse per finanziare l’istruzione pubblica gratuita degli studenti appartenenti ai ceti medi e superiori” (ibidem) 416 op.cit., pp. 165-167 417 “Una strategia…più promettente e più importante è quella che punta sulla seconda serie di problemi, quelli del lavoro, delle condizioni del lavoro e dell’organizzazione del lavoro. E’ questo un campo molto più concreto nel quale si sono sviluppati risentimenti e frustrazione profonde, con effetti di retroreazione sugli aspetti convenzionali della contrattazione tra lavoratori e direzioni. E’ un campo difficile dove comincia a profilarsi la possibilità d’un cambiamento di fondo. Si sono sviluppati nuovi orintamenti ed esperimenti, che bisognerebbe incoraggiare e sovvenzionare. All’industria si dovrebbero dare tutti i possibili incentivi per andare aventi ed attuare gradualmente nuovimento di di 191 dei modi di pensare”418; 7) la “Creazione di nuove istituzioni per la promozione cooperativa della democrazia”. Secondo i relatori della Commissione Trilaterale, non era “più possibile…dare per scontato l’efficace funzionamento dello stato democratico. Le crescenti richieste e pressioni…e la crisi delle risorse e dell’autorità a sua disposizione” esigevano “una più precisa collaborazione”. Doveva pertanto valutarsi “l’opportunità…di reperire, presso le fondazioni, le società di affari, i sindacati, i partiti politici, le associazioni civili e, laddove sia possibile e opportuno, gli uffici governativi, gli appoggi e le risorse finanziarie per la creazione di un organismo volto al rafforzamento delle istituzioni democratiche. Lo scopo di tale organismo” avrebbe dovuto essere “quello di stimolare lo studio comune dei problemi connessi alla attività della democrazia nelle organizzazione. E’ l’unico modo di allentare le tensioni che tendono a caratterizzare la società transindustriale in questo campo e che, per altri versi, alimentano strategie ricattatrici e nuove pressioni inflazionistiche” (ibidem). È interessante notare come in quegli anni la Fiat di Giovanni Agnelli, fra l’altro membro della Commissione Trilaterale e autore dell’Introduzione alla traduzione italiana del Rapporto della Trilaterale, fosse sul punto di intraprendere una sistematica riconversione delle strutture produttive aziendali seguendo proprio le linee tratteggiate dal VI campo d’intervento suggerito dalla Commissione. Questa riconversione, dopo il lungo perido di lotte sindacali, culminate nell’occupazione di Mirafiori da parte degli operai nel 1973, sarebbe apparsa in tutta la sua evidenza qualche anno dopo, quando, dopo il licenziamento dei 61, l’azienda piemontese licenziò molti dei suoi operai, sconfiggendo anche il Sindacato (e il Partito Comunista) nella dura vertenza sindacale dell’ottobre del 1980. In un’intervista al settimale “Panorama” del 21 marzo 1974 l’allora amministratore delegato della Fiat Umberto Agnelli aveva concordato, con il fratello Giovanni, che nella prefazione all’edizione italiana del rapporto della Trilaterale aveva espresso l’esigenza di sostituire la “cooperazione” alla “conflittualità”, “la apertura di un dialogo sempre più ristretto con il PCI, la sola forza politica che può disciplinare il sindacato”. Successivamente Umberto Agnelli manifestava ancora, in un’intervista rilasciata al quotidiano Il Tempo del 17 gennaio 1976 la propria disponibilità all'incontro con il Partito Comunista: “Se il PCI è pronto a dare il suo contributo ad un programma realistico, perché rifiutarlo? Da che posizione poi il PCI dia questo contributo, se dall'opposizione o dalla maggioranza, poco importa”. Umberto Agnelli è giovane, avrebbe poi commentato Vittorino Chiusano, consigliere politico della famiglia e direttore della Fiat per le relazioni estere, “e come tutti i giovani, vuole, come dire, vivere la vita, credere al suo tempo e alle sue occasioni”. “Certo per luì i comunisti non sono la stessa cosa che per noi, non sono la storia, sono delle persone con cui oggi si può lavorare” (La Repubblica, 21 gennaio 1976) 418 M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., pp. 167169 192 società della Trilaterale a utilizzare le esperienze reciproche per approfondire il modo più efficace di funzionamento della democrazia nei rispettivi paesi”419. Emergeva quindi la necessità di un’organizzazione a base sovranazionale, incaricata dello studio delle soluzioni possibili per fuoriuscire dalla crisi della democrazia420, intendendo magari “la difesa – come suggeriva Huntington – di ogni sistema di istituzioni di fronte ad una sfida posta alle fondamenta di esso…formulata in termini di logica di conservazione, di inviolabilità e di necessità…a prescindere dal livello di corrispondenza al carattere prescrittivo di una qualunque filosofia ideazionale”. 5.6 Dagli “anni delle due S” agli anni ottanta: l’uscita dalla crisi da sovraccarico della democrazia americana La crisi della democrazia americana poteva considerarsi in parte conclusa, secondo Huntington, alla fine degli anni settanta421. 419 op.cit., p. 169 Oggi non si tende più a parlare di crisi della democrazia come durante gli anni settanta. Tutt’al più c’è chi, come C.S.Maier, parla di “crisi morali della democrazia”: le “crisi morali possono far sorgere crisi politiche e sono anche rivelatrici si sintomi economici caratteristici, anche se non hanno origine in cause economiche. Le manifestazioni economiche coinvolgono la distribuzione più che la produzione: le crisi morali sono alimentate da una crescente disuguaglianza dei redditi, di un consumo febbrile e spesso cospicuo e dalla ricerca frenetica d colpi di fortuna ottenuti con i beni immobili e con la speculazione finanziaria (C.S.Maier, Crisi morali della democrazia, in “Parolechiave”, 5, ottobre 1994, Donzelli, pp. 95-96) 421 “Come gli inglesi del 1650, una nazione di profeti divenne ancora una nazione di negozianti. Una fase nella vita politica degli Stati Uniti era venuta e passata, e la politica degli ultimi anni settanta non sembrava, almeno in superficie, differire molto dalla politica degli ultimi anni cinquanta”. Se qualcuno “si fosse addormentato nel 1957 e si fosse risvegliato nel 1977 avrebbe difficilmente creduto che il paese era passato attraverso un decennio ‘di assassini e guerre asiatiche, di bizzarre trame politiche e imputazioni al Presidente, di uomini che passeggiano sulla luna, di fotografie di Marte, di città che bruciano e dimostrazioni di massa’. Durante questo periodo…il popolo 420 193 L’immediato prodotto di questo lungo periodo di crisi di “ingovernabilità”, che toccò le sue punte più alte tra il 1967 e il 1975, erano per lo studioso americano “quattro rilevanti cambiamenti nei ruoli istituzionali”422 che “coinvolgevano le americano era passato ‘attraverso lo straordinario ciclo dell’emozione pubblica” che “iniziò con l’euforia (la Nuova Frontiera), si mutò improvvisamente in orrore (l’assassinio) e in rabbia (il Vietnam), e nello sconcerto (il Watergate) che a sua volta divenne disgusto quando il periodo delle investigazioni rivelò una corruzione politica profonda e diffusa, inconcepibile nel 1957’”, (S.P.Huntington, American Politics, op.cit., pp. 197-202) 422 “In poco più di un decennio avvennero cambiamenti sostanziali e irreversibili nella politica, nel governo e nell’educazione del sud. Prima del passaggio della Legge sul Diritto di Voto (Voting Rights Act) nel 1965, il 29% dei neri eleggibili in sette stati del sud era registrato al voto, paragonato al 73% di bianchi eleggibili. Dal 1972 un milione di neri era stato aggiunto alle liste elettorali: il 56% di neri contro il 67% di bianchi. Su base nazionale, la percentuale di bianchi votanti nel 1956 fu più alta del 42% rispetto alla percentuale di neri (77% contro il 35%). A partire dal 1976 questa percentuale si riduceva di 8 punti percentuali (73% contro il 65%). A metà degli anni cinquanta forse da 100 a 200 neri occuparono una carica elettiva a livello nazionale; a partire dal 1979 circa 4500 bianchi…Gli sforzi di quegli anni per assicurare parità di diritti ad altri gruppi di americani – indiani, asiatici, donne, omosessuali – diedero risultati meno evidenti. Questo derivò in parte dal fatto che le violazioni dei diritti civili di questi gruppi non sembravano essere tanto eclatanti come quelle sopportate dai neri del sud, e in parte dal fatto che gli sforzi per garantire i diritti civili a questi gruppi seguirono in grande misura il treno delle campagne per i diritti civili dei neri. Quindi ci fu meno tempo per produrre risultati paragonabili prima che la passione moralistica per la riforma iniziasse a scemare e si sviluppassero correnti contrarie. Nel caso più ovvio, l’Emendamento sui Pari Diritti divenne quasi parte della Costituzione a metà degli anni settanta, essendo stato approvato dal Congresso e ratificato da 35 stati. A quel punto, comunque, l’opposizione si mobilitò e arrivò a un punto morto. Gli sforzi di riforma nei settori della politica militare ed estera presero tre vie. All’inizio ebbero immediato successo gli sforzi per obbligare gli Stati Uniti a ridurre e poi a terminare la sua partecipazione alla guerra del Vietnam. L’opposizione alla guerra fu gradualmente alimentata da una massiccia protesta in aumento tra il 1965 e il 1968; la guerra ebbe chiaramente un ruolo rilevante nell’elezione di Nixon; e a partire dal 1969 una gran numero di americani si oppose al coinvolgimento statunitense. La nuova amministrazione cominciò quasi immediatamente a ridurre gradualmente le truppe americane in Vietnam. L’invasione della Cambogia nel 1970, comunque, riattivò l’opposizione di massa, e a lungo andare portò all’accettazione da parte degli Stati Uniti di un armistizio e del ritiro dal conflitto. Essa portò, nel 1973, anche all’emanazione di un atto del congresso che proibiva il coinvolgimento statunitense in azioni militari nella penisola indocinese, così rimuovendo la sanzione che sosteneva l’accordo di armistizio del gennaio precedente. Secondo, i riformatori si muovevano per ridurre le risorse, l’autonomia e l’influenza delle maggiori agenzie statunitensi – quella militare e quella dei servizi segreti – coinvolte in operazioni oltremare. Per la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale il Congresso rifiutò di approvare e ridusse drasticamente i fondi per i grandi programmi di armamento. In verità, la spesa militare diminuì ogni anno dal 1969 al 1975. La forza del personale delle forze armate fu ridotta a un livello molto al di sotto rispetto a come era prima del Vietnam. Anche le risorse dei servizi segreti vennero similmente tagliate. Il terzo maggiore gruppo di riforme fu diretto verso i processi politici attraverso cui venivano selezionati i pubblici ufficiali e si prendevano le decisioni di governo. Gli obiettivi 194 istituzioni politiche centrali della società” ed erano al tempo stesso “rappresentativi del tipo di cambiamento che avvenne in quegli anni”. Queste quattro trasformazioni erano nell’ordine: l’“aumento delle funzioni e del potere dei media e del Congresso e il parallelo declino del potere e delle funzioni dei partiti politici e della presidenza”423. Inoltre l’“ondata di democrazia partecipativa e di egualitarismo abbassò gravemente, quando non distrusse, la probabilità che ognuno in ogni istituzione potesse dare un ordine a qualcun altro ed essere prontamente obbedito. Questa situazione cominciò a cambiare alla fine degli anni ‘70, e l’autorità della presidenza potè essere ripristinata424, restaurando l’“autorità all’interno delle altre istituzioni…con la ricostruzione di matrici complesse di relazioni personali e obblighi tra i capi”425. primari sia a livello statale che nazionale erano i partiti politici e le elezioni, le legislature e la burocrazia” (op.cit., p. 208) 423 op.cit., p. 211 424 “L’immediata eredità degli anni delle due S rispetto alle attitudini pubbliche fu così un alto livello di sfiducia nel governo e di convinzioni relativamente profonde che poco poteva essere fatto per correggere quella situazione. Finché gli americani percepivano il loro governo come deviante dai loro ideali rispetto a cosa il governo dovesse essere, essi erano, per forza, indirizzati verso un responso sia moralistico che cinico. Finché rimanevano moralmente esauriti per le passioni degli anni delle due S, essi erano, per forza, inclinati al cinismo. Tuttavia gli esseri umani vogliono anche una guida, un’autorità, qualcuno che li diriga, e alla fine degli anni settanta cominciò ad emergere questo desiderio. I commentatori politici e i critici sociali iniziarono a criticare le operazioni di separazione dei poteri e altri meccanismi costituzionali per dividere e limitare il potere. Ci fu un crescente sentimento che il Presidente allora in carica li avesse abbandonati per non aver fornito una tale guida. Jimmy Carter era stato eletto Presidente nel 1976 in parte perché si era appellato al bisogni degli americani in quel momento di una personalità irreprensibile e che fosse lontano da ciò che stava accadendo a Washington. Fu sconfitto alla rielezione del 1980 in parte perché il popolo allora voleva un Presidente che non fosse solo virtuoso ma anche energico e deciso. Abbiamo ‘ansimato per un capo’, come disse un giovane membro del Congresso nel 1980, ma ‘la pecora affamata cercava e non veniva nutrita’. La diminuzione del potere del Presidente divenne uno dei maggiori motivi di preoccupazione” (op.cit., p. 215) 425 “Una guida nazionale forte e responsabile richiede una rete di piccoli tiranni. Le proteste, la denuncia, le riforme, e il riallineamento degli anni delle due S sostanzialmente lacerarono quella rete. Creare un’altra rete simile è un processo complesso. Finché ciò non accade, il divario tra la guida che il popolo desidera e la 195 La causa principale dell’esaurimento dell’ondata democratica andava ricercata per Huntington negli alti livelli di partecipazione politica raggiunti a cavallo tra la prima e la seconda metà degli anni settanta, che nel lungo periodo, di fronte ad un apparato governativo capace di resistere alla “pressione democratica”, generarono la loro stessa riduzione e il riflusso della contestazione: “Alla fine, la dilagante denuncia contribuì a minare l’impeto della riforma e fece in modo che il popolo si adattasse alla penetrazione e all’inevitabilità degli esistenti modelli di comportamento. Nella dinamica degli anni delle due S, in breve, il moralismo produsse la protesta, la protesta contro i mali ovvi produsse il cinismo, il quale eliminò la motivazione sia della protesta che della denuncia”426 guida che il sistema permette discrediterà ulteriormente chi governa e, in un circolo vizioso, renderà sempre più difficile per loro agire” (ibidem) 426 “Alla fine degli anni settanta, le percezioni sfavorevoli sul governo rimanevano, ma l’impulso ad intraprendere un’azione correttiva era scomparso. Come altri periodi di passione ideologica, gli anni delle due S lasciarono uno strato di organizzazioni – gruppi di interesse pubblico, gruppi ambientali, gruppi di donne, organizzazioni di minoranze, e simili – che in qualche misura istituzionalizzarono più alti livelli di coscienza e attività politica di quelli antecedenti agli anni sessanta. Negli anni settanta, comunque, l’intensità e la portata dell’attrattiva di queste organizzazioni declinò dai picchi che aveva toccato solo pochi anni prima. L’indignazione si esaurì. L’impeto per la denuncia e la riforma scemò. La partecipazione e l’interesse politico calarono. A dimostrazione del cambiamento fu il fatto che mentre il 58% delle matricole di college nel 1966 sosteneva che ‘mantenersi aggiornati in politica’ era ‘essenziale’ o ‘molto importante’, nel 1978 solo il 37% rispondeva similmente. L’efficacia politica del popolo americano – cioè la loro fiducia nella loro abilità ad influenzare il processo politico – decadde. L’alienazione e l’apatia condussero al cinismo. A partire dalla fine degli anni settanta il popolo si sentì disilluso rispetto alla possibilità di una società che riformasse il governo. Era disilluso anche rispetto alla possibilità di un governo che migliorasse la società. Il cambiamento nel sentire del paese nel 1976 fu colto da Jimmy Carter (ex-governatore della Georgia e membro della Commissione Trilaterale n.d.a.) nella sua campagna con l’enfasi sulla moralità, l’onestà, e l’integrità da un lato (che si appellava agli elementi permanenti di moralismo nella vena americana) e con l’enfasi sui limiti dell’azione di governo dall’altro (che rifletteva le nascenti correnti di cinismo e indifferenza). Questo paese merita, disse Carte, “un governo buono come il suo popolo” (e, implicitamente, buono, come il suo popolo crede che debba essere), tuttavia allo stesso tempo egli previde un governo che non avrebbe fatto, e non poteva fare, molto bene per il popolo. “Speranze umiliate” fu la frase chiave di quel periodo.Il clima politico degli ultimi anni settanta si distingueva per il crescente ascendente dei conservatori, per le attitudini antigoverno tra il pubblico in generale e per le idee conservatrici e anti-governo tra l’élite intellettuale” (op.cit., pp. 216-217) 196 Gli “anni delle due S” lasciavano così “gli Stati Uniti con una società più equa, una politica più aperta, un pubblico più cinico, e un governo meno autoritario ed efficiente” e un “popolo” posto di fronte a “sfide interne e estere che richiedevano l’esercizio del potere”427, nonché la sua indiscussa legittimazione428. 6. Lo “scontro delle civiltà” 427 ibidem In occasione del ventesimo anniversario, la Commissione Trilaterale è tornata sul tema della democrazia, partendo proprio dal rapporto del 1975 con l’intento di verificare se si potesse ancora oggi parlare di “crisi” o di “ingovernabilità” delle democrazie occidentali. La risposta del nuovo rapporto, discusso nella riunione di Copenhagen del 22-24 aprile 1995 e firmato da R.D.Putnam, J.-C.Casanova, S.Sato, tende, contrariamente a quello di Huntington, Crozier e Watanuki, a sottolineare la “rinascita” della democrazia nei paesi della trilaterale. Tant’è vero che il titolo del rapporto, alla cui stesura hanno partecipato anche S.P.Huntington, R.A.Dahl, G.Sartori, T.Skocpol, è appunto Revitalizing Trilateral Democracies, Trilateral Commission, New York, April/October 1995). In particolar modo Putnam sottolinea come “In historical perspective, the sense of crisis that permeated the volume (drafted during 1974 and debated at the May 1975 Plenary Session) can be seen as reflecting the confluence of two factors: 1. the surge of radical political activism that swept the West in the 1960s, beginning with campus protests in the United States about civil rights and the Vietnam War and then echoed in such far-flung and momentous episodes as the events of May 1968 in France and the ‘Hot Autumn’ later thet year in Italy; and 2. the economic upheavals triggered by the oil crisis of 1973-74 that were to engender a decade and more of higher inflation, slower growth, and worsening unemployment” (R.D.Putnam, J.C.Casanova, S.Sato, Revitalizing Trilateral Democracies, op.cit., p. 2). Ciò ha significato che “Two decades later is an opportune time for the Commission to revisit the issue of the performance of our democratic institutions. The intervening twenty years have witnessed many important developments in our domestic societies, economies, and polities, as well as in the international setting” (ibidem): “Most dramatic of all, of course, was the end of the Colf War, symbolized by the fall of Berlin Wall in 1989”; “Economically, the two decades since the Crozier-Huntington-Watanuki volume have been distinctively less happy than the twenty years preceding it”; “Although ‘interdipendence’ was already widely discussed in the early 1970s, the integration of the world economy has continued at a rapid pace in the succeeding two decades. International trade has grown faster than gross domestic product, and foreign investment has grown more rapidly than either”; “Socially and culturally, these two decades have seen significant change in all our countries. Traditional family and community ties have been eroded, partly by increased mobility and partly by growing individuation”; Infine “Political change in the last two decades is a pervasive theme of the present study. One element, however, deserves special emphasis at the outset. When our predecessors wrote, citizens in the Trilateral world were still primarily concerned about ‘market failure’ – in sectors as diverse as social services, culture, and the environment – and the demand for government intervention to redress those failures was ascendant” (op.cit., pp. 3-6). Ringrazio M.P.Révay per avermi concesso la possibilità di consultare direttamente il rapporto del 1995. 428 197 6.1 Lo scontro delle civiltà nella recente opera di S.P. Huntington Quale sarà il futuro geopolitico del pianeta? E’ una domanda cui molti studiosi sono stati sottoposti dai più recenti avvenimenti che, dall’attacco terroristico alle “Torri gemelle” di New York, giungono sino allo stato di guerra tuttora in corso in Afghanistan. A questo tema Huntington aveva già dedicato un articolo, “The Clash of Civilizations?”, apparso su Foreign Affairs nell’estate del 1993, succesivamente diventato un vero e proprio libro: The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, omettendo questa volta il punto interrogativo, uscito nel 1996 e tradotto in Italia l’anno successivo429. Con questo lavoro lo studioso americano 429 Quest’ultimo lavoro di Huntington conferma la preferenza del suo autore per gli argomenti di geopolitica, disciplina che, nata a cavallo tra il XIX e il XX secolo, sta vivendo proprio in questi ultimi anni un improvviso risveglio. Molte sono state infatti le opere recentemente pubblicate; da Le dictionnaire de géopolitique, a cura di Yves Lacoste (Flammarion, Paris, 1993) all’ Introduzione alla geopolitica di Philippe Moreau Defarges (Il Mulino, Bologna 1996). Inoltre alcuni degli aspetti trattati nell’opera di Huntington sono stati affrontati anche da Zbigniew Brzezinski: Il mondo fuori controllo. Gli sconvolgimenti planetari all’alba del XXI secolo (Grazanti, Milano 1993). Brzezinski delinea infatti un “ovale di violenza”, cioè un “vortice geografico” dove le civiltà si scontrano. Terreno del futuro confronto fra le civiltà sarebbe appunto l’Asia. Inoltre Brzezinski pone in evidenza come il mondo occidentale, scampato ai metamiti del ‘900, si trova ora ad affrontare una nuova crisi dovuta ad un eccesso di consumi economici che determina uno stile di vita che Brzezinski definisce della “cornucopia permissiva”. Il carico di consumi cui dà luogo non solo sta facendo perdere all’occidente la propria identità culturale, ma attira anche su di sé “l’invidia” della restante popolazione del paese che si trova invece a vivere in condizioni di miseria estrema. Inoltre il sistema internazionale é caratterizzato da una pluralità di poteri che si dispongono sopra una scacchiera priva di re e regine, ma dove agiranno in futuro una molteplicità di raggruppamenti che Brzezinski identifica con i gruppi: Nordamericano, dominato dagli Stati Uniti e organizzato sulla base dell’ Area di Libero Mercato Nordamericano (NAFTA); Europeo, probabilmente integrato sul piano economico a quello Nordamericano, ma la cui zona di dipendenza comprenderebbe sia l’Europa Orientale, sia gran parte dell’Africa; Asiatico orientale, economicamente dominato dal Giappone, ma privo di strutture politiche e di sicurezza confacenti, e quindi potenzialmente soggetto a tensioni regionali, in particolar modo con la Cina; Asiatico meridionale, la cui potenza regionale egemone sarebbe l’India; Musulmano, che, fatta eccezione per Israele, si estenderebbe dal Nordafrica al Medio Oriente; un probabile raggruppamento EuroAsiatico, dominato dalla Russia. Una potenza che, per Brzezinski, potrebbe diventare egemone scalzando definitivamente l’Occidente è certamente la Cina, 198 intendeva “presentare un modello interpretativo dello scenario politico mondiale che risulti valido per gli studiosi ed utile per i politici.”430 La tesi di fondo del lavoro431 ritiene che “la cultura e le identità culturali – che a livello più ampio corrispondono a quelle delle rispettive civiltà – siano alla base dei processi di coesione, disintegrazione e conflittualità che caratterizzano il mondo postGuerra fredda”432 e che “l’elemento centrale e più pericoloso dello scenario politico internazionale che va delineandosi oggi è il crescente conflitto tra gruppi di diverse civiltà.”433 . Huntington ritiene infatti che sotto la spinta della modernizzazione la politica planetaria si stia ristrutturando secondo linee culturali434 e che per “la prima volta nella storia435, lo scenario la quale sta proponendo un sistema capace di coniugare l’efficienza economica capitalistica e centralizzazione del controllo politico. Il richiamo al comunismo e ad un ideale di giustizia sociale farebbe inoltre della Cina un referente mondiale di primo piano per tutti quei popoli che ora vivono in condizioni di estremo disagio 430 S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, op.cit., p 8 431 Già in passato Huntingon aveva cercato di delineare i tratti di un futuro “ordinamento modiale”, privo della guida statunitense, durante un intervento alla Commissione per l’anno 2000. Questo gruppo era stato costituito durante gli anni ’60 dall’American Academy of arts and Sciencies con lo scopo di “indicare le conseguenze future della…politica pubblica”. Nel corso del suo intervento aveva sostenuto che “proprio come l’influenza americana ha sostituito quella europea, così nell’ultimo quarto del secolo la potenza anericana comincerà a declinare, e altri paesi si muoveranno per riempier il vuoto. Tra quelli che assumeranno un ruolo preminente vi saranno la Cina nell’Asia continentale, l’Indonesia nel Sudest asiatico, il Brasile nell’america Latina, e qualcun altro in Medio Oriente e in Africa” (S.P. Huntington, Sviluppo politico e declino del sistema americano di ordine mondiale, AA.VV., Prospettive del 21° secolo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1962, p.419) 432 S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, p 14 433 op.cit., p 7 434 “Durante la Guerra fredda, il quadro politico mondiale divenne bipolare e il mondo si divise in tre parti. Un gruppo di società più ricche e democratiche, guidate dagli Stati Uniti, entrò in forte competizione…con un gruppo di società comuniste più povere, capeggiate dall’Unione Sovietica. Gran parte di tale conflitto si consumò al di fuori di questi due campi, nel Terzo Mondo, costituito da paesi spesso poveri, politicamente instabili, di recente indipendenza e che si definivano non allineati. Alla fine degli anni Ottanta del Novecento l’universo comunista è crollato, e il sistema internazionale caratteristico della Guerra fredda è entrato a far parte della storia. Nel mondo postGuerra fredda, le principali distinzioni tra i vari popoli non sono di carattere ideologico, politico o economico, bensì culturale” (op.cit., p. 16) 435 “Nel mondo post-Guerra fredda, la cultura è dunque, secondo questo tipo di visione, “una forza al contempo disgregante e aggregante. Popolazioni divise dall’ideologia ma 199 politico mondiale appare a un tempo multipolare e caratterizzato da un alto numero di civiltà diverse”436 Non solo, ma contemporaneamente al mutamento degli equilibri di potere tra le varie civiltà, “l’influenza relativa dell’Occidente” starebbe invece calando di fronte alle “civiltà asiatiche (che invece) accrescono la loro forza economica, militare e politica” e a un “mondo islamico” che “vive un’esplosione demografica con conseguenze destabilizzanti per i paesi musulmani e i loro vicini”437. In questo modo, i recenti processi di modernizzazione, indicati dalla gran parte degli studiosi con il concetto di “globalizzazione” condurrebbero a “un ordine mondiale fondato sul concetto di ‘civiltà’” in cui “società culturalmente affini tendono a cooperare tra loro” e “i vari paesi si raccolgono intorno agli stati guida della propria civiltà”. Dinanzi a questo tipo di realtà l’Occidente, “con le sue pretese universalistiche” sta invece entrando sempre più in conflitto con altre civiltà, in particolare con l’Islam e la Cina, “mentre a livello locale lo scoppio di guerre tribali, soprattutto tra musulmani e non musulmani, provoca la ‘chiamata a raccolta dei paesi fratelli’”, innescando “il pericolo di un’espansione del conflitto”. La sopravvivenza dell’Occidente438 dipenderebbe pertanto, secondo culturalmente omogenee vengono a unificarsi…Società unite dall’ideologia o da circostanze storiche ma appartenenti a differenti civiltà finiscono viceversa con lo sgretolarsi, com’è accaduto all’Unione Sovietica, alla Jugoslavia, alla Bosnia, oppure sono scosse da violente tensioni, come ad esempio in Ucraina, Nigeria, Sudan, India, Sri Lanka” (op.cit., p. 24) 436 op.cit., p. 15 437 ibidem 438 “L’Occidente è e resterà per gli anni a venire la civiltà più potente. Il suo potere in relazione a quello di altre civiltà, tuttavia, si va progressivamente riducendo. Dinanzi al tentativo occidentale di imporre i propri valori e proteggere i propri interessi, le società non occidentali si trovano a un bivio. Alcune tentano di emulare l’Occidente e di unirsi o allearsi a esso. Altre società, come quelle confuciane o islamiche, tentano di espandere il proprio potere economico e militare al fine di contrapporsi all’Occidente. Un elemento 200 Huntington, dalla volontà degli Stati Uniti di confermare la propria identità occidentale, e dalla capacità degli occidentali di accettare la propria civiltà come qualcosa di peculiare, unendo le proprie forze per rinnovarla e proteggerla dalle sfide provenienti dalle società non occidentali. Questa è la tesi di fondo dell’opera di Huntington che al momento, sull’onda di quanto accaduto a New York, sembrerebbe fornire il paradigma interpretativo di riferimento per tutti coloro che immaginano una futura resa dei conti globale tra opposte culture439. 6.1.1 Il ruolo della modernizzazione nello scontro delle civiltà Nella prospettiva di Huntington, la riorganizzazione geopolitica del pianeta sulla base delle civiltà è il prodotto degli effetti della modernizzazione socio-economica sulle civiltà non occidentali440. Lo sviluppo economico avrebbe causato, da una chiave del quadro politico mondiale post-Guerra fredda diventa quindi l’interazione tra potere e cultura occidentale da un lato e potere e cultura delle civiltà non occidentali dall’altro. In sintesi, il mondo post-Guerra fredda è un mondo composto da sette o otto grandi civiltà. Le affinità e le differenze culturali determinano gli interessi, gli antagonismi e le associazioni tra stati. I paesi più importanti del mondo appartengono in grande prevalenza a civiltà diverse. I conflitti locali con maggiori probabilità di degenerare in guerre globali sono quelli tra gruppi e stati appartenenti a civiltà diverse. Il modello dominante di sviluppo politico ed economico varia da una civiltà all’altra. I principali nodi da sciogliere nel campo della politica internazionale riguardano le differenze tra le varie civiltà. Il potere sta passando dalle tradizionali civiltà occidentali alle civiltà non occidentali. Lo scenario politico mondiale è diventato multipolare e caratterizzato da più civiltà” (op.cit., p. 25) 439 Recentemente, in un articolo per il Sole 24h, Alain Touraine ha sottolineato come il libro di Huntington “rappresenti un totale allontanamento dai principi che fino a questo momento hanno dominato negli Stati Uniti. Questo paese ha infatti difeso i principi di crescita e di sviluppo, non solo come un insieme di indici economici, ma partendo da un’immagine universale del mondo in base alla quale, nonostante la diversità dei percorsi, tutti i Paesi avrebbero dovuto modernizzarsi, ossia...organizzare un'’conomia di mercato, instaurare una democrazia rappresentativa e dar prova di tolleranza culturale” (A.Touraine, Globalizzazione alla prova dei conflitti, in “Il Sole 24 Ore”, 8 gennaio 2002, n. 7, p. 9) 440 In un’intervista rilasciata nel 1998 alla rivista francese Construire, Huntington faceva notare che “il ne faut pas confondre ce phénomène de globalisation économique et 201 parte, una loro generale crisi di identità e, dall’altra, essendo stati i paesi del Terzo mondo il terreno di guerra per eccellenza delle due “Superpotenze”, una crescita esponenziale del potere economico, militare e politico441. In altri termini, le società non occidentali sarebbero state in grado di modernizzarsi, mantenendo intatta la propria civiltà, trasformando poi i propri valori in veri e propri strumenti di propaganda anti-occidentale, in un mondo che, per Huntington, “sta diventando più moderno e meno occidentale”442. Quali sono gli effetti della modernizzazione sullo scontro tra le civiltà ? Huntington colloca tra gli effetti della modernizzazione quello della crescita demografica che porterebbe alla formazione di uno strato sociale composto prevalentemente da giovani disoccupati, disposti più di tutti a emigrare nei paesi occidentali, portando con sé il proprio sistema di valori ostile all’Occidente. A tale fenomeno si combinerebbe poi la crescente insoddisfazione per le condizioni economiche, politiche e sociali, nonché la rottura dei legami e dei vincoli comunitari, contribuendo a fare di questi gruppi di giovani il punto di riferimento ideale per tutti quei movimenti che fanno della religione un forte collettore di identità. Ma il legame tra modernizzazione e “scontro”, nella prospettiva di Huntington, è ancora più evidente se si considera la modernizzazione nella sua dimensione tecnologica: infatti lo studioso statunitense mette più volte in evidenza come la possibilità dello scontro tra civiltà sia aumentato soprattutto a causa della technologique avec une intégration, par les pays non occidentaux, de nos valeurs occidentales » (J.-F.Duval, Huntington : La victoire de l’Occident est un mythe ! , in “Construire”, n.7, 10 febbraio 1998) 441 S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà, op.cit., p. 102 442 op.cit., p. 105 202 crescente interazione tra le civiltà stesse, dovuta in particolar modo agli enormi passi avanti compiuti nel campo delle comunicazioni e della telematica. Ancora una volta è evidente in Huntington il legame esistente tra modernizzazione, crescita della coscienza politica e mobilitazione della stessa da parte di quei gruppi interessati a trasformare radicalmente aumentando e gli generalizzando assetti la socio-politici conflittualità vigenti, insita negli ordinamenti, sia nazionali che internazionali. In questo caso, però, il paradigma interpretativo elaborato da Huntington non si applica più all’interno della stessa civiltà, ma ai rapporti internazionali tra le stesse; la posta in gioco non è più la conservazione o meno di un sistema politico e delle sue capacità istituzionalizzanti, ma la difesa della civiltà e del suo pacifico interagire con le altre; il rischio non risiede più nella rivoluzione o nel precipitare della società nel pretorianesimo, ma in un nuovo conflitto mondiale e nella catastrofe nucleare che ne conseguirebbe; la soluzione suggerita, infine, non consiste più nell’emersione di un’istanza dominativa sovrana a difesa dei rapporti di dominio, ma in una civiltà Occidentale che, consapevole della propria peculiarità e dei propri limiti, rifluisca entro i suoi confini, accettando un ordine mondiale caratterizzato da una ripartizione al plurale delle risorse del pianeta. 6.1.2 Dalla Civiltà al singolare alla civiltà al plurale 203 Per Huntington, la “storia umana è storia delle civiltà” e pensarla diversamente sarebbe del tutto impossibile443 . Che cosa intende Huntington per civiltà e quali sono le sue caratteristiche distintive ? Una civiltà rappresenta “il più vasto raggruppamento culturale di uomini ed il più ampio livello di identità culturale che l’uomo possa raggiungere dopo quello che distingue gli esseri umani da altre specie”. Essa viene definita “sia da elementi oggettivi comuni, quali la lingua, la storia, la religione, i costumi e le istituzioni, sia dal processo oggettivo di autoidentificazione dei popoli. La civiltà di appartenenza è insomma per un uomo “il livello di identificazione più ampio al quale aderisce strettamente…il più ampio ‘noi’ di cui ci sentiamo culturalmente parte integrante in contrapposizione a tutti gli altri ‘loro’”444. In quest’ottica le civiltà “non hanno confini nettamente delimitati, non hanno un inizio e una fine precisi”, anche se poi l’uomo “è in grado di ridefinire – e lo fa – la propria identità”. Secondo questo modello le “culture dei popoli interagiscono e si sovrappongono, di modo che anche il livello di somiglianza o diversità tra le culture delle singole civiltà può variare considerevolmente”. Ciò nonostante, “le civiltà sono entità estremamente rilevanti e i confini che le separano, benchè raramente ben definiti, sono confini reali”445 Le caratteristiche peculiari di ogni civiltà sono per Huntington: “Primo…una distinzione tra ‘la civiltà’ al singolare e ‘le civiltà’ al plurale”. Il concetto di “civiltà al singolare” venne elaborato per lo studioso americano dagli intellettuali europei del XIX secolo per 443 op.cit., p. 43 op.cit., p. 48 445 op.cit., p. 49 444 204 essere poi utilizzato come criterio di modernizzazione culturale nei confronti dei popoli con cui l’imperialismo europeo stava entrando in contatto. Tant’è vero che i sistemi di valore delle popolazioni conquistate non avevano diritto ad assurgere al rango di civiltà, essendo invece considerate come primitive fintanto che non avessero adottato pienamente il portato della cultura europea446. Durante il XX secolo, soprattutto nel corso della sua seconda metà, “si cominciò sempre più spesso a parlare di civiltà al plurale. Ciò significò…l’abbandono del presupposto che esistesse un unico metro di giudizio per stabilire cosa fosse civile…Esistevano invece molte civiltà, ciascuna delle quali civilizzata a suo modo”. Una seconda caratteristica della civiltà, evidenziata da Huntington, mostra come essa sia “sempre un’identità culturale…Civiltà e cultura fanno entrambe riferimento allo stile di vita generale di un popolo, e una civiltà non è altro che una cultura su larga scala”447. Oltretutto, fra tutti “gli elementi formali che 446 “Il concetto di civiltà fu sviluppato dai pensatori francesi del XVIII secolo in contrapposizione a quello di ‘barbarie’. . la società civilizzata si distingueva dalla società primitiva per il suo carattere stanziale, urbano e colto. Essere civili era bene, essere incivili era male. Il concetto di civiltà fu eletto a metro di giudizio delle società, e nel corso del XIX secolo gli stati europei profusero grandi sforzi intellettuali, diplomatici e politici per stabilire dei criteri in base ai quali decretare le società non europee non sufficientemente ‘civilizzate’ da poter essere ammesse nel sistema internazionale da essi dominato” (op.cit., p. 45) 447 op.cit., pp. 45-46 205 definiscono le civiltà”, i più importanti448 sono “generalmente la religione”449 e la lingua. Inoltre nessuna cultura, ed è questa la terza caratteristica di una civiltà, “può essere compresa appieno senza riferimenti concreti alle civiltà di cui è parte”. Una civiltà sarebbe, insomma, una “totalità”450 che trova in se stessa le ragioni e le radici della propria esistenza. Dopodichè anche le “civiltà muoiono, ma hanno…una vita molto lunga; si evolvono, si adattano, e sono le più durature tra tutti i tipi di associazione tra uomini…le civiltà si evolvono. Sono entità dinamiche, fioriscono e deperiscono, si fondono e si dividono, e come sanno molti studiosi di storia, possono anche scomparire e finire seppellite dalla sabbia del tempo”451 Infine, in “quanto entità culturali e non politiche, le civiltà non provvedono di per sé a mantenere l’ordine, amministrare la giustizia, raccogliere tasse, combattere guerre, negoziare trattati o assolvere le altre incombenze solitamente espletate dai governi. La composizione politica delle civiltà varia da caso a caso e si modifica 448 “Tra le maggiori religioni del mondo nessuna nasce in Occidente e tutte, nella maggior parte dei casi, sono antecendenti a esso. Via via che il mondo esce dalla sua fase occidentale, le ideologie che hanno caratterizzato l’epoca più recente di queste civiltà tendono a declinare e il loro posto è preso dalle religioni e da altre espressioni culturali di identità e di appartenenza…Lo scontro di ideologie sviluppatosi nell’ambito della civiltà occidentale sta lasciando il posto a uno scontro di culture e di religioni tra civiltà diverse. La geografia politica mondiale è passata dall’unico mondo del 1920 ai tre mondi degli anni Sessanta agli oltre sei mondi degli anni Novanta. Parallelamente, gli imperi occidentali universali del 1920 si sono ridotti al ben più circoscritto ‘Mondo libero’ degli anni Sessanta (comprendente molti stati non occidentali avversari del comunismo), e quindi all’ancor più ristretto ‘Occidente’ degli anni Novanta” (op.cit., p. 66) 449 “Quasi tutte le maggiori civiltà nella storia dell’umanità sono state strettamente identificate con le grandi religioni del mondo, e popolazioni di uguale lingua ed etnia ma di diversa religione possono benissimo massacrarsi a vicenda, com’è accaduto in Libano, nell’ex Jugoslavia e in India” (op.cit., p. 47) 450 op.cit., p. 47 451 op.cit., p. 49 206 altresì nel tempo all’interno di ciascuna di esse. In tal modo, una civiltà può contenere una o più entità politiche”452 Sulla base dei criteri appena esposti, Huntington individua cinque grandi civiltà: Sinica, risalente al 1500 a.C., Giapponese (100-400 d.C.), Indù (1500 a.C.), Islamica (VII secolo d.C.) e Occidentale453 (700-800 d.C). Non considera una vera e propria civiltà quella Africana, in quanto il “nord e la costa orientale del continente africano appartengono alla civiltà islamica. L’Etiopia ha tradizionalmente costituito una civiltà a sé”, mentre altrove, “l’imperialismo e la colonizzazione europea hanno introdotto elementi della civiltà occidentale”454 Rispetto alle altre civiltà, quella occidentale ha inoltre ampliato considerevolmente i suoi confini grazie all’imperialismo che, tra il XIX e il XX secolo, gli ha permesso di estendere il proprio dominio su gran parte della terra. Durante la prima metà del XX secolo, l’espansione della civiltà occidentale aveva di fatto eliminato quelle precolombiane, sottomesso le popolazioni mussulmane e africane e posto sotto la propria influenza la civiltà cinese. Soltanto la civiltà russa e quella giapponese sono di fatto riuscite a resisterle455. 452 op.cit., p. 50 “L’Occidente, dunque, comprende l’Europa, il Nord America, più altri paesi a forte colonizzazione europea quali l’Australia e la Nuova Zelanda…Il termine ‘l’Occidente’ viene oggi universalmente impiegato per indicare quella che una volta si soleva definire Cristianità occidentale. Quella occidentale è dunque l’unica civiltà identificata da un punto cardinale anziché dal nome di un particolare popolo, religione o area geografica…Il termine ‘Occidente’ ha inoltre generato il concetto di ‘occidentalizzazione’, promuovendo un’ingannevole sinonimia tra occidentalizzazione e modernizzazione” (op.cit., pp. 53-55) 454 op.cit., p. 55 455 “Nel XX secolo, i rapporti tra le varie civiltà sono…passati da una fase caratterizzata dall’influenza unidirezionale di una civiltà su tutte le altre a una serie di interazioni variegate e multidirezionali tra tutte le civiltà…In primo luogo…l’‘espansione dell’Occidente’ è terminata, ed è iniziata la ‘rivolta contro l’Occidente’. Seppur in modo lento, con pause e inversioni di rotta, il potere dell’Occidente è diminuito in rapporto a quello di altre civiltà…L’Occidente ha continuato a esercitare un’influenza significativa su altre società, ma i rapporti tra la civiltà occidentale e le altre civiltà sono stati sempre 453 207 Come risultato di tali sviluppi, “il sistema internazionale si è espanso oltre i confini occidentali e ha inglobato in sé una pluralità di civiltà”456, ridefinendo a sua volta quella Occidentale, ossia unendone le sue due componenti principali, Europa e Nord America, in un unico “stato universale”, tenuto insieme da “una rete straordinariamente fitta di vincoli istituzionali formali e informali”457 Il modello elaborato da Huntington si propone dunque di delineare un assetto geo-politico suddiviso in diverse civiltà, ammettendo come un “simile approccio” non sacrifichi affatto “il realismo alla norma come fanno i modelli del mondo unico o dei due mondi” ovvero “la norma al realismo, come fanno i modelli statalista e del caos”. Esso offre all’opposto “una cornice concettualmente semplice per comprendere il mondo”458. In altri termini, Huntington evidenzia come il suo modello comprende, e al contempo supera le altre teorie in quanto riesce a includere e spiegare tutte quelle tendenze considerate rilevanti nella definizione di uno scenario mondiale, quali ad esempio: l’esistenza di un “impulso all’integrazione”, sostenuto dalle teorie che “predicano” l’avvento di un “mondo unico”459; la suddivisione del pianeta in un Nord e Sud in lotta fra loro, proposto dalle teorie “dei due mondi”; la persistenza degli stati nazionali come attori rilevanti della politica internazionale, difesa dalle teorie stataliste; l’“anarchia” infine della situazione mondiale, come risultato dei più pericolosi conflitti tra stati o gruppi appartenenti a civiltà diverse. più caratterizzati dalle reazioni degli occidentali agli sviluppi occorsi in tali civiltà. Lungi dall’essere semplicemente oggetti passivi di una storia forgiata dall’Occidente, le società non occidentali stanno diventando in misura sempre maggiore, artefici e protagoniste tanto della propria storia quanto di quella dell’Occidente” (op.cit. p. 64) 456 op.cit., p. 65 457 op.cit., p. 65 458 op.cit., p 37 208 Come si sviluppano le identità collettive e il processo di identificazione di un popolo? Per Huntington “Popoli e nazioni tentano di rispondere alla più basilare delle domande che un essere umano possa porsi: chi siamo? E lo fanno..facendo riferimento alle cose che per lui hanno maggiore significato”. Pertanto l’uomo si definisce per lo studioso di Harvard “in termini di progenie, religione, lingua, storia, valori, costumi e istituzioni”, identificandosi “con gruppi culturali”, quali “tribù, gruppi etnici, comunità religiose, nazioni e, al livello più ampio, civiltà”460. L’identità e il processo di identificazione paiono dunque legati per il politologo americano al concetto di ethnos, senza che quest’ultimo prenda però in considerazione altri fattori, propri dell’identità di una civiltà, come l’ideologia politica, anch’essa importante elemento di orientamento culturale. Per Huntington, inoltre, “sappiamo chi siamo solo quando sappiamo chi non siamo e spesso solo quando sappiamo contro chi siamo”461. In tal caso sembrerebbe quasi inevitabile che durante il proprio processo di identificazione, un individuo, e una collettività, siano costretti a passare lungo una fase di confronto/scontro con l’altro-da-se. Come si strutturano al loro interno le civiltà? Ciacuno stato appartenente a una civiltà si definisce innanzitutto in qualità di “Stato membro”, cioè “paese pienamente identificato dal punto di vista culturale con una civiltà”. Dopodiché è possibile per Huntington stabilire una vera e propria classificazione all’interno della civiltà stessa. Abbiamo quindi “Stati guida”, vale a dire gli “stati più potenti e culturalmente più influenti”. 459 ibidem op.cit., p. 16 461 ibidem 460 209 Momentaneamente essi sono la Cina per la civiltà sinica, l’India per l’Indù, la Russia per l’Ortodossa, “gli Stati Uniti” e l’“asse francotedesco…con la Gran Bretagna nel ruolo di centro di potere aggiunto” per quella Occidentale. Per quanto rigurda invece l’Islam non si può parlare di un vero e proprio stati guida, ma di stati fra loro in competizione per la conquista di tale titolo462. Ci sono poi “Paesi isolati”, vale a dire paesi privi “di legami culturali con altre società”, come l’Etiopia e il Giappone463, che da soli costituiscono vere e proprie civiltà distinte rispetto a tutte le altre. Un “Paese diviso” é al contrario “un paese che presenta ampi raggruppamenti sociali appartenenti a civiltà diverse”. In questa tipologia di stati Huntington ricomprende il Sudan, la Tanzania, le Filippine, l’Indonesia, lo Sri Lanka, la Malaysia e Singapore, la ex Unione Sovietica e la ex Jugoslavia464. Infine un “Paese in bilico” appare come uno Stato che “possiede una sola cultura dominante…ma (che) i suoi leader politici…collocano coattivamente all’interno di una civiltà diversa”. Ciò sarebbe accaduto nella Russia di Pietro il Grande e dei suoi successori, nella Turchia di Ataturk, nel Messico e recentemente in Australia. Mentre i primi tre hanno cercato, pur non appartenendovi, di entrare a far parte della civiltà Occidentale, l’Australia starebbe invece tentando di separarsi dalla “sua” civiltà, appunto occidentale, per collocarsi in quella asiatica465. 462 op.cit., p. 193 op.cit., p. 194 464 op.cit., p. 196 465 op.cit., p. 198 463 210 6.1.3 La civiltà occidentale in rapporto alle altre civiltà del pianeta Quali sono i caratteri dominanti della civiltà occidentale? Per Huntington essi sono identificabili nei “lasciti della civiltà classica”, vale a dire “filosofia e razionalismo greci, diritto romano, latino, cristianesimo”. Se poi il “cristianesimo occidentale…rappresenta storicamente l’elemento distintivo più importante della civiltà occidentale”, “la lingua è seconda soltanto alla religione” e l’“Occidente differisce da buona parte delle altre civiltà per il gran numero di idiomi utilizzati”466. Un altro aspetto dominante della cultura occidentale è dato dalla separazione tra autorità spirituale e temporale. Nel corso della storia occidentale, la Chiesa prima, e molte chiese poi, hanno difatti condotto un’esistenza separata dallo Stato. “Il dualismo tra Dio e Cesare, Chiesa e Stato, autorità spirituale ed autorità temporale è sempre stato un elemento prevalente nella cultura occidentale”. L’Occidente si distinguerebbe poi dalle altre civiltà del pianeta per essere uno “Stato di diritto”467, per una sorta di genetico “carattere pluralista”, tradottosi nel corso della storia in “pluralismo di classi”, per l’esistenza di “corpi rappresentativi”, capaci di incarnare “forme di rappresentanza che in seguito si sono evolute nelle istituzioni della democrazia moderna”468, e infine per un “forte senso individualista e…una tradizione di diritti e libertà individuali assolutamente senza eguali tra le società civili”469 466 op.cit., p. 91 “Il concetto della centralità del diritto per un’esistenza civile fu ereditato dai romani” (op.cit., p. 92) 468 op.cit., p. 93 469 op.cit., p. 94 467 211 Ora tutti questi aspetti della cultura e civiltà occidentale, che in passato si era cercato di imporre a livello internazionale, sarebbero per il politologo americano la fonte da cui scaturisce il conflitto tra l’Occidente e le altre civiltà: “Due sono le immagini ricorrenti del potere dell’Occidente in rapporto alle altre civiltà. La prima è un’immagine di trionfante e pressoché totale dominio…L’Occidente è l’unica civiltà ad avere interessi sostanziali in tutte le altre civiltà o regioni del mondo nonché la capacità di influenzarne gli indirizzi politici, economici e di sicurezza”. La seconda immagine dell’Occidente sarebbe però completamente diversa. “È l’immagine di una civiltà in declino470, il cui potere politico, economico e militare in ambito internazionale va sempre più riducendosi rispetto a quello di altre civiltà”471. Tale scenario mostra per Huntington come la vittoria dell’Occidente nella Guerra fredda non abbia portato al suo trionfo, come sostengono invece le teorie di Fukuyama472 sulla “fine della storia”, ma al suo esaurimento473. La frattura principale a livello globale, dovuta alla “discrepanza esistente tra i tentativi dell’Occidente…di promuovere 470 “Il declino dell’Occidente presenta tre caratteristiche di fondo. Primo, è un processo lento. L’ascesa dell’Occidente durò quattrocento anni; la sua recessione potrebbe richiedere un tempo altrettanto lungo…Secondo, il processo di declino non è un moto uniforme, bensì un fenomeno fortemente irregolare con pause, inversioni e dimostrazioni di forza successive a manifestazioni di debolezza…Terzo, potere significa la capacità, di un gruppo o di un individuo, di modificare la condotta di un altro gruppo o individuo. Ciò può avvenire mediante induzione, costrizione o esortazione e richiede da parte di chi detiene il potere grandi risorse economiche, militari, istituzionali, demografiche, politiche, tecnologiche, sociali e via dicendo” (op.cit., pp. 112-113) 471 Ibidem 472 F.Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992 473 “Quale di queste due opposte immagini del futuro ruolo dell’Occidente nel mondo descrive la realtà? La risposta, naturalmente, è: entrambe. L’Occidente occupa oggi una posizione dominante e resterà il numero uno in termii di potere e influenza per buona parte del XXI secolo. Nel contempo, tuttavia, si sta verificando n graduale, inesorabile e fondamentale mutamento nei rapporti di forze tra le varie civiltà, e il potere dell’Occidente in rapporto a quello di altre civiltà continuerà a declinare. Via via che il primato dell’Occidente si riduce, buona parte del suo attuale potere finirà semplicemente 212 una cultura occidentale universale e la sua sempre minor capacità di realizzare questo obiettivo”474 è per Huntington individuabile nel confronto tra Occidente da una parte e stati islamici e asiatici dall’altra. Se in passato l’Occidente era riuscito a imporre globalmente il proprio sistema di valori, oggi i suoi tentativi di reiterare i risultati ottenuti, rivelano invece una minore capacità475 rintracciabile, da una parte, nella crescente rilevanza in campo economico delle civiltà non-occidentali, e dall’altra in un processo di “rinascita religiosa”, con la rivalutazione delle culture e tradizioni autoctone. Tutto ciò é poi accompagnato per Huntington da un tentativo di globale emancipazione dal dominio occidentale476, soprattutto in campo economico e militare, e non ultimo culturale. Questo comunque non toglie che l’Occidente continui “a tentare di preservare la propria posizione di preminenza e difendere i propri interessi identificandoli con quelli della comunità internazionale”. Tutto ciò potrebbe portare in futuro alla formazione di un “asse islamico-confuciano” in funzione anti-occidentale volto a controbilanciare innanzitutto la superiorità militare dell’Occidente, in vista di un eventuale conflitto militare. con lo svanire, e quella restante verrà distribuita su base regionale tra le altre grandi civiltà e i rispettivi stati guida” (S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà, op.cit., p. 111) 474 op.cit., p. 265 475 La “rinascita delle religioni non occidentali è la più possente manifestazione di antioccidentalismo esibita dalle società non occidentali. Non costituisce un rifiuto della modernità: è un rifiuto dell’Occidente e della cultura laica, relativista e degenerata ad esso associata. È un rifiuto di quella che è stata definita l’‘intossicazione occidentale’ delle società non occidentali. È una dichiarazione d’indipendenza culturale dall’Occidente, la fiera dichiarazione che ‘saremo moderni, ma non saremo come voi’” (op.cit., pp. 141-142) 476 “Indigenizzazione è stata la parola d’ordine in tutto il mondo non occidentale negli anni Ottanta e Novanta…Il processo di indigenizzazione è ulteriormente favorito dal processo della democrazia: l’adozione di istituzioni democratiche occidentali da parte delle società non occidentali consente lo sviluppo e finanche l’avvento del potere dei movimenti politici antioccidentali…La democratizzazione fa a pugni con l’occidentalizzazione, e quello democratico è per sua stessa natura un processo di provincializzazione anziché d’internazionalizzazione” (op.cit., pp. 128-129) 213 L’ostilità alla penetrazione dei modelli istituzionali e culturali occidentali si è peraltro intensificata negli ultimi anni, e questo dovrebbe spingere, per Huntington, gli stati europei e nordamericani a non forzare sulla questione dei diritti umani, al fine di salvaguardare i proficui rapporti finanziari e commerciali con le economie asiatiche, impedendo inoltre che queste possano coalizzarsi, coagulandosi attorno alla Cina, presentata come il più grande pericolo per l’Occidente e per i futuri assetti internazionali. Oltretutto la volontà occidentale di promuovere istituzioni democratiche in paesi esterni all’Occidente, potrebbe non dare i risultati sperati in termini di alleanze militari. Infatti, sostiene ancora Huntington, paesi al di fuori della sfera occidentale, divenuti democratici, hanno decisamente ostile “paradosso della poi sviluppato all’Occidente, democrazia”: “Il un’opinione pubblica evidenziando l’ennesimo superficiale presupposto occidentale secondo cui i governi democraticamente eletti saranno sempre cooperativi e filoccidentali non si dimostra necessariamente vero per le società non occidentali”477. Ancora una volta Huntington individua nelle istituzioni e nei valori democratici possibili fonti di sovraccarico. Ma se durante gli “anni delle due S” le società occidentali dovettero subire una pressione istituzionale proveniente dal loro interno, ora il sovraccarico sarebbe la conseguenza immediata di una pressione esercitata dall’esterno. Se il caos politico interno poteva condurre alla “società pretoriana”, quello fra civiltà potrebbe invece comportare l’esplodere di nuovo conflitto mondiale. Un modo suggerito dallo studioso americano affinché l’Occidente riesca a preservare la propria integrità, é quello di 477 op.cit., p. 289 214 sviluppare politiche di stretto controllo del fenomeno migratorio che, sin dai primi anni novanta, ha assunto una rilevanza sempre maggiore nell’agenda politica dei paesi occidentali, provocando un costante aumento dei fenomeni di rigetto delle stesse nei confronti degli stranieri. Per lo studioso americano il problema dell’immigrazione solleverebbe per l’Occidente una vera e propria sfida culturale, evidenziando un problema di integrazione degli immigrati, in quanto questi appaiono più portati a mantenere vivi non solo i legami con la loro patria, ma soprattutto con la loro cultura, e quindi a formare una comunità separata dal contesto sociale ospitante. Questo aspetto viene poi accentuato dagli “alti tassi di fertilità” che “rappresentano…il grosso della futura crescita demografica delle società occidentali”478. Quindi, accanto a quella culturale, l’immigrazione presenterebbe anche una sfida demografica479 che, oltre ad alimentarne le paure, rischia pure di produrre una spaccatura all’interno dell’Occidente stesso. “Il problema non è capire se l’Europa verrà islamizzata o gli Stati Uniti ispanizzati, ma piuttosto se Europa e Stati Uniti finiranno col diventare delle società divise, ciascuna costituita da comunità distinte e separate provenienti da due diverse civiltà; e ciò dipende a sua volta dal numero di immigrati presenti e dalla misura in cui essi verranno assimilati alle culture occidentali prevalenti in Europa e in America”480. 478 S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà, cit. p. 291 “Dal punto di vista quantitativo…gli occidentali rappresentano una minoranza sempre più esigua della popolazione mondiale. Anche dal punto di vista qualitativo, tuttavia, gli equilibri tra l’Occidente e le altre popolazioni stanno mutando. I popoli dei paesi non occidentalizzati stanno diventando più agiati, più urbanizzati, più alfabetizzati, meglio istruiti”, op.cit., p. 115 480 op.cit., p. 298 479 215 Anche la stessa supremazia militare dell’Occidente481 parrebbe poi messa in discussione dalla rinascita asiatica e islamica. Tale sfida é soprattutto evidente nei tentativi delle società non occidentali di sviluppare arsenali di armi non convenzionali, in particolare armamenti nucleari, tentando di recuperare nel più breve tempo possibile il gap di potenza che li separerebbe dall’Occidente. Se nella prospettiva dei paesi non occidentali, la strategia di proliferazione costituisce un potenziale deterrente all’intervento occidentale in questioni regionali, dal punto di vista occidentale, una politica di contro-proliferazione sarebbe invece funzionale al mantenimento di un pacifico ordine internazionale. È quindi opportuno, per Huntington, che europei e americani abbandonino ogni politica di disarmo, perché soltanto da un nuovo “equilibrio del terrore” potrebbe dipendere il mantenimento di uno stabile equilibrio internazionale482. L’offensiva delle civiltà non occidentali si sviluppa anche in ambito economico. Difatti “la percentuale occidentale dell’attività economica mondiale…dalla Seconda guerra mondiale ha iniziato a 481 “Oggi soltanto l’Occidente è in grado di dislocare ingenti forze militari convenzionali in ogni angolo del globo. Che continui a mantenere tale capacità non è affatto sicuro, ma appare ragionevolmente certo, tuttavia, che nessuno stato o gruppo di stati non occidentale svilupperà una capacità comparabile per i prossimi decenni. Nel complesso, per quanto riguarda l’evoluzione delle capacità militari a livello globale gli anni successivi alla Guerra fredda sono stati dominati da cinque tendenze fondamentali. 1) le forze armate sovietiche sono state smantellate subito dopo che l’Unione Sovietica ha cessato di esistere…2) La precipitosa contrazione dell’apparato militare russo ha stimolato una più lenta ma significativa riduzione delle spese, dei contingenti e del potenziale militare dell’Occidente…3) Le tendenze in atto in Asia orientale sono molto diverse da quelle prevalenti in Russia e in Occidente. Aumenti delle spese militari e rafforzamento dell’apparato militare sono all’ordine del giorno…4) Gli arsenali militari, comprese le armi di distruzione di massa, si stanno diffondendo in tutto il mondo. Di pari passo con lo sviluppo economico, i vari apesi acquisiscono la capacità di produrre armi…5) tutte queste linee di sviluppo indicano nella regionalizzazione latendenza principale della strategia e del potere militare nel mondo post-Guerra fredda. Esso fornisce la giustificazione logica per la riduzione del potenziale militare russo e americano e la crescita di quello di altri stati…La sicurezza militare del mondo dipende sempre più non dalla distribuzione globale del potere e dalle azioni delle superpotenze, ma bensì dalla distribuzione del potere all’interno di ciascuna regione del mondo e dal modo in cui gli stati guida delle diverse civiltà si muoveranno” (op.cit., pp. 120-123) 216 declinare”. Nonostante l’“Occidente e il Giappone” dominino “quasi completamente le industrie a tecnologia avanzata”, quest’ultime, starebbero tuttavia “sempre più diffondendosi nel mondo e l’Occidente…se intende preservare la propria superiorità”, dovrà fare di tutto per contenere il più possibile tale processo di diffusione. Ma proprio a causa degli stretti legami che lo stesso Occidente ha stabilito, rallentare la diffusione di tecnologia nelle altre civiltà appare impresa sempre più ardua, tanto più in assenza di una specifica e ben riconosciuta minaccia – come durante la Guerra fredda – che consentiva un (seppur modesto) controllo del patrimonio tecnologico”483 Comunque sia, nel complesso, secondo l’ipotesi di Huntington, “l’Occidente resterà la civiltà più potente fino ai primi decenni del XXI secolo. In seguito, continuerà probabilmente a detenere un sostanziale vantaggio nel campo del personale scientifico, della ricerca e sviluppo e dell’innovazione tecnologica militare e civile”. Tuttavia ciò avverrebbe in un contesto internazionale in cui il controllo sulle altre fonti di potere starebbe “sempre più suddividendosi tra gli stati guida e i principali paesi delle civiltà non occidentali”484. 6.1.4 Ordine delle antioccidentale civiltà e rinascita di una cultura Huntington sostiene che nello scenario politico internazionale che va emergendo, “le due superpotenze dell’epoca della Guerra fredda vengono sempre più soppiantate, nel loro ruolo di polo 482 483 cfr., p. 280 op.cit., pp. 117-119 217 d’attrazione e repulsione, dagli stati guida delle maggiori civiltà del pianeta”485. Questo nuovo scacchiere internazionale comporta inoltre una redistribuzione dei singoli stati “secondo cerchi concentrici intorno allo stato o agli stati guida, in base al grado di identificazione e di integrazione con essi”486 La comunanza culturale tra stato guida e singoli stati nell’ambito di ogni civiltà legittima poi il ruolo di leadership del primo agli occhi delle potenze e istituzioni esterne, garantendo al tempo stesso ai secondi un ruolo di modernazione della politica internazione del proprio stato guida487. Per cui laddove non esiste uno stato guida, i rapporti con le altre civiltà risultano più difficili da mantenere o addirittura stabilire, come nel caso della civiltà islamica. Dunque, se il mondo futuro sarà organizzato per civiltà488, quest’ultime tenderanno comunque a strutturarsi attorno al proprio stato guida a seconda del loro grado di identificazione e integrazione. Quali sono i confini geografici delle più importanti civiltà del pianeta? Se l’Islam presenta una “coscienza senza coesione”489, occupando un territorio che dal medioriente si estende su tutta l’Africa settentrionale e gran parte dei Balcani, cingendo d’assedio l’Occidente che comprende invece la zona Nordamericana e l’Europa dell’Unione, compresi i paesi ex comunisti della parte centrale del continente (Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Ungheria), la civiltà sinica, principale motivo di 484 op.cit., p. 123 op.cit., p. 224 486 ibidem 487 cfr. p. 225 488 op.cit., p. 224 485 218 preoccupazione per il futuro dell’Occidente, riunisce per Huntington “il nucleo centrale della Cina han, le province periferiche che fanno parte della Cina ma godono di una considerevole autonomia, le province che fanno legalmente parte della Cina ma sono abitate prevalentemente da popolazioni non cinesi appartenenti ad altre civiltà (Tibet, Xinxiang), società cinesi che diventeranno o è probabile che diventino parte della Rpc a determinate condizioni (Hong Kong, Taiwan), uno stato di razza prevalentemente cinese sempre più orientato verso Pechino (Singapore), comunità cinesi molto influenti in Thailandia, Vietnam, Malaysia, Indonesia e Filippine, e società di razza non cinese (Corea del Nord e del Sud, Vietnam) che tuttavia condividono buona parte della cultura confuciana prevalente in Cina”490. La preoccupazione principale del politologo americano, testimoniata dal futuristico scenario di guerra tratteggiato dall’autore nelle pagine finali di The Clash of Civilizations, deriva proprio dalla composizione eterogenea della civiltà sinica, la quale potrebbe indurre la Cina, stato guida, a risolvere con la forza ogni tentativo di metterne in discussione la leadership in un area, quella del Pacifico, in cui gli interessi degli Stati Uniti, paese guida di un’altra civiltà, sono ancora molto forti. Questo fatto potrebbe da solo bastare per suscitare una risposta armata statunitense, provocando l’intervento di uno stato guida negli affari di un’altra civiltà, preludio ad una guerra ben più vasta che vedrebbe, secondo lo studioso americano, il sorgere di una coalizione tra civiltà islamica e civiltà sinica in funzione prettamente anti-occidentale. Oltretutto, gli esiti inevitabilmente catastrofici di un simile conflitto garantirebbero l’affermarsi di tutte quelle civiltà rimaste fuori dalla 489 op.cit., p. 223 219 guerra, che avrebbero così l’opportunità di colonizzare la terra con la loro cultura, spartendosi ciò che è restato in piedi dell’Islam, della Cina e dell’Occidente. Dunque la rinascita491 delle civiltà islamica492 e asiatica493, incentrata quest’ultima sulla Repubblica Popolare Cinese, sembra avere, per il teorico americano, come unico comun denominatore l’antioccidentalismo. Non solo, ma questa contrapposizione con l’Occidente potrebbe esprimersi secondo livelli identificabili: 1) nel “Rifiuto totale”, oramai “pressoché impossibile in un mondo che va diventando sempre più moderno e sempre più interconnesso”494; 2) nel “Kemalismo”, modernizzazione caratterizzato sia dall’apertura all’occidentalizzazione”495; “sia alla 3) nel 490 op.cit., p. 243 “Come sempre accade in tutti i movimenti rivoluzionari, il suo (della rinascita n.d.a.) nucleo centrale è costituito da studenti e intellettuali”(op.cit., p. 159). È interessante notare come in Huntington sia sempre viva la convinzione, già espressa in The Political Order in the changing societies (1968) e nel rapporto alla Commissione Trilaterale (1975), secondo la quale studenti e intellettuali rappresentano la componente sociale attorno alla quale verrebbe a strutturarsi ogni tentativo rivoluzionario. Non solo, ma lungi dall’essere una caratteristica prettamente occidentale, lo studioso americano sembrerebbe considerarla una costante sociale presente in ogni tipo di civiltà 492 “1) I giovani sono i protagonisti di fenomeni quali movimenti di protesta, instabilità, riforme e rivoluzioni. L’esperienza dimostra come l’esistenza di un ampio segmento di popolazione giovane abbia coinciso con il manifestarsi di tali fenomeni. 2) I giovani islamici si stanno rivelando l’asse portante della Rinascita islamica…3) Popolazioni più numerose richiedono maggiori risorse, cosicché le società densamente popolate o in rapido sviluppo demografico tendono a proiettarsi all’esterno, a occupare territorio e a esercitare pressione su altri popoli demograficamente meno dinamici. La crescita della popolazione islamica è dunque un’importante causa di esasperazione dei conflitti emergenti lungo i confini del mondo islamico tra musulmani ed altre popolazioni. La pressione demografica unita alla stagnazione economica stimola l’emigrazione musulmana nelle società occidentali e non musulmane in generale, determinando un inasprimento del problema dell’immigrazione” (op.cit., pp. 168, 171-172) 493 “1) Gli asiatici ritengono che il rapido sviluppo economico dell’Asia li porterà ben presto a sorpassare l’Occidente in termini di attività economica e ad acquisire perciò un potere sempre maggiore in campo internazionale rispetto a quello dell’Occidente..2) Secondo, per gli asitici il successo economico conseguito è in gran parte un prodotto specifico della cultura asiatica, superiore a quella decadente dell’Occidente…3) Pur riconoscendo le differenze esistenti tra le società e civiltà asiatiche, gli est-asiatici propugnano al contempo l’esistenza di significativi valori comuni…4) Gli est-asiatici affermano che lo sviluppo e i valori asiatici sono modelli che altre civiltà non occidentali dovrebbero emulare per poter raggiungere l’Occidente, e che l’Occidente dovrebbe fare propri al fine di rinnovarsi” (op.cit., pp. 150-153) 494 op.cit., p. 96 495 op.cit., p. 97 491 220 “Riformismo”, consistente all’opposto “nel tentativo di unire modernizzazione e preservazione dei valori, costumi e istituzioni autoctoni di una data società”496. Anche quest’ultimi due livelli, più aperti verso l’Occidente rispetto al primo, finirebbero, via via che il ritmo della modernizzazione aumenta, con il ridurre il tasso di occidentalizzazione culturale a vantaggio della cultura autoctona, che tornerebbe così ad emergere. Di seguito, l’ulteriore modernizzazione comporta, per Huntington, un’alterazione degli equilibri di potere tra l’Occidente e la società non occidentale, alimentando il potere e l’autostima di quella società e rafforzando in essa il senso di appartenenza alla propria cultura. Pertanto, se nelle loro rispettive prime fasi del processo di mutamento, il “Kemalismo” e il “Riformismo” utilizzerebbero l’occidentalizzazione come stimolo per la modernizzazione, nelle ultime, la modernizzazione finirebbe col promuovere “la deoccidentalizzazione e la rinascita della cultura autoctona in due modi: al livello sociale, accrescendo il potere economico, militare e politico della società nel suo complesso e stimolando i membri di quella società ad avere fiducia nella propria cultura e a rivendicare la propria autonomia culturale; al livello individuale, man mano che i tradizionali legami e rapporti sociali vengono a lacerarsi, generano sentimenti di alienazione e anomia, che scatenano crisi di identità alle quali la religione offre una risposta”497 Ciò sta a dimostrare per Huntington che in definitiva, modernizzazione non significa necessariamente occidentalizzazione”, come sembrano ritenere molti fautori di una democrazia internazionale, credono “e che società non occidentali 496 op.cit., p. 98 221 possono pure modernizzarsi “senza abbandonare la propria cultura e senza adottare in blocco valori, istituzioni e costumi occidentali”498, assumendo anzi un atteggiamento spiccatamente antioccidentale, accentuato dal ricordo ancora vivo dell’imperialismo europeo. 6.1.5 Lo scontro delle civiltà: i conflitti di faglia Alla luce dell’analisi di Huntington sulla ristrutturazione delle relazioni internazionali operatasi successivamente alla Guerra fredda, diviene ora possibile lo “scontro di civiltà” vero e proprio e le sue possibili linee di sviluppo. Innanzitutto, per il teorico di Harvard, lo “scontro” si articola sostanzialmente su due livelli499: un livello “regionale”, e un livello “globale”. Il primo livello é caratterizzato dai cosiddetti “conflitti di faglia”, cioè conflitti “tra stati limitrofi appartenenti a civiltà diverse, tra gruppi di civiltà diverse che vivono all’interno di una stessa nazione, e tra gruppi che…tentano di costruire nuovi stati dalle macerie di quelli vecchi”500. 497 op.cit., pp. 100-101 op.cit., p. 105 499 La prima guerra di civiltà fu per Huntington la guerra combattuta in Afghanistan dal 1979 al 1989; la seconda quella del Golfo del 1991: “La guerra afghana divenne una guerra di civiltà perché tale la considerarono i musulmani di ogni parte del mondo facendo quadrato contro l’Unione Sovietica. La guerra del Golfo divenne una guerra di civiltà perché l’Occidente intervenne militarmente in un conflitto musulmano, perché i paei occidentali appoggiarono a larga maggioranza l’intervento, e perché i musulmani di tutto il mondo la interpretarono come una guerra contro di loro, schierandosi compattamente contro quella che considerarono una nuova manifestazione dell’imperialismo occidentale…La democrazia costituì ‘il grande paradosso di questo conflitto’: il sostegno a Saddam Hussein fu più ‘fervente e diffuso’ in quei paesi arabi il cui sistema politico era più aperto e la libertà di espressione soggetta a minori restrizioni” (op.cit., pp. 366-367) 500 op.cit., p. 304. 498 222 Il secondo livello coinvolge invece gli “stati guida” delle diverse civiltà, sviluppandosi, in determinate circostanze, in un vero e proprio conflitto globale501. Nel modello huntingtoniano i conflitti di faglia rivestono maggiore importanza, dato che sono più probabili e frequenti rispetto ad un conflitto globale, estrema ratio cui ricorrere una volta che siano state tentate tutte le strade possibili per risolvere la diatriba tra gli stati guida postisi in contrasto fra loro. Oltretutto i “conflitti di faglia” possono a loro volta essere causa di un conflitto più ampio, grazie proprio alla loro capacità di estendersi a un numero sempre crescente di stati fino a coinvolgere le “guide” delle rispettive civiltà di appartenenza. Pertanto, conoscendo e intervenendo sulla prima forma di conflitto si potrebbe evitare il manifestarsi della seconda. Quali sono gli aspetti principali di un conflitto di faglia? Per prima cosa, come si è già detto, si sviluppano essenzialmente a livello regionale, o addirittura subnazionale: sono quindi conflitti localizzati e ben definiti. In secondo luogo, tali conflitti avvengono tra stati o gruppi appartenenti a diverse civiltà, tendendo ad essere molto violenti e sanguinosi. Inoltre i conflitti di questo genere 501 “La conflittualità tra civiltà diverse assume due forme distinte. A livello locale, o microlivello, si verificano i cosiddetti conflitti di faglia (fault line conflicts) tra stati limitrofi appartenenti a civiltà diverse, tra gruppi di civiltà diverse che vivono all’interno di una stessa nazione, e tra gruppi che, come nel caso della ex Unione Sovietica e Jugoslavia, tentano di costruire nuovi stati dalle macerie di quelli vecchi. I conflitti di faglia sono prevalenti soprattutto tra musulmani e non musulmani…Al livello globale, o macrolivello, i conflitti tra stati guida coinvolgono gli stati principali delle diverse civiltà. I motivi che stanno alla base di questi conflitti sono quelli classici della politica internazionale: 1. grado di influenza relativa nella determinazione degli sviluppi planetari e delle iniziative delle organizzazioni nazionali di livello globale…2. potere militare…3. potere e benessere economici…4. il fattore umano, che comporta i tentativi di uno stato appartenente ad una determinata civiltà di proteggere popoli ad esso affini residenti in paesi di diversa civiltà…5. valori e cultura…6. occasionalmente, questioni territoriali (p. 304)…solo altre due circostanze possono provocare una guerra tra due stati guida. 1) Essa potrebbe scaturire dalla graduale escalation di un conflitto di faglia tra gruppi locali…2)…da un mutamento degli equilibri di potere a livello globale tra le diverse civiltà” (op.cit., p. 305) 223 durano a lungo e sono difficilmente risolvibili per via diplomatica. Spesso è possibile solo “congelarli”, senza farsi comunque troppe illusioni dato che queste “guerre a singhiozzo” possono riprendere da un momento all’altro e ancor più violentemente di prima. Le guerre di faglia attraversano per Huntington “processi di intensificazione, espansione, contenimento, interruzione e, raramente, soluzione502. Iniziano solitamente in ordine sequenziale, ma spesso si sovrappongono e possono anche ripetersi. Una volta iniziate…al pari di altri conflitti tra gruppi rivali, tendono ad assumere vita propria e a sviluppare un precipuo modello di azione/reazione. Identità fino ad allora sfumate e occasionali vengono a precisarsi e irrigidirsi, tanto che i conflitti tra gruppi rivali vengono appropriatamente definiti ‘guerre di identità’. Col crescere della violenza, le vertenze iniziali tendono a cristallizarsi in un perentorio ‘noi contro loro’ e il livello di coinvolgimento e coesione di gruppo diventa sempre più alto”503. Tuttavia anche una guerra di faglia può terminare, purché intervengano “due fattori. Il primo è l’esaustione delle parti belligeranti”, il secondo, il coinvolgimento dei “partecipanti degli altri livelli”, sempre che questi abbiano “l’interesse e l’autorevolezza necessari per riuscire a mettere le parti belligeranti intorno a un tavolo”504 Rispetto ai normali conflitti locali, con i quali presentano delle analogie, le guerre di faglia scaturiscono “quasi sempre tra popoli di 502 “Le guerre di faglia sono caratterizzate da frequenti tregue e armistizi, ma non da trattati di pace globali capaci di risolvere i nodi politici di fondo. Ciò dipende dal fatto che queste guerre affondano le proprie radici nei rapporti antagonistici tra gruppi di civiltà diverse e nei conflitti culturali che li sottintendono” (op.cit., p. 435) 503 “Emerge così un ‘dinamica dell’odio’ paragonabile al ‘dilemma della sicurezza’ nelle relazioni internazionali, dove paura, sfiducia e odio si alimentano reciprocamente. Ciascuna parte accentua e drammatizza la distinzione tra forze del bene e forze del male, e tanta infine di trasformala nella distinzione ultima tra chi deve vivere e chi deve morire” (op.cit., p. 395) 504 op.cit., p. 436 224 religione diversa”505, provocando la “chiamata a raccolta” dei paesi delle reciproche civiltà di riferimento506: “Quando coinvolgono gruppi appartenenti a civiltà diverse, i conflitti locali tendono ad espandersi e a crescere d’intensità. Ciascuna parte tenta di conquistarsi il sostegno di paesi e gruppi appartenenti alla propria civiltà….A causa di questa ‘sindrome dei paesi fratelli’507, i conflitti di faglia presentano un rischio di escalation molto maggiore rispetto ad un conflitto tra paesi appartenenti a una stessa civiltà e il loro contenimento e soluzione finale richiede solitamente la cooperazione delle rispettive civiltà d’appartenenza. A differenza di quanto accaduto ai tempi della Guerra fredda, la conflittualità non filtra dall’alto verso il basso, ma trasuda dal basso verso l’alto”508. In tal modo il conflitto di faglia presenta una complessità di gran lunga maggiore, rispetto a un qualsiasi altro conflitto locale. Tant’è vero che lo studioso americano distingue tre livelli secondo i quali si posizionano gli attori rilevanti: un primo livello in cui si collocano gli attori direttamente coinvolti nel conflitto, i contendenti 505 op.cit., p. 377 “I conflitti di faglia sono conflitti tra stati o gruppi appartenenti a diverse civiltà, e assumono carattere violento. Simili guerre possono verificarsi tra stati, tra gruppi non governativi, oppure tra stati e gruppi non governativi. I conflitti di faglia all’interno di uno stato possono coinvolgere gruppi prevalentemente localizzati in aree specifiche del paese, nel qual caso il gruppo che non controlla il governolotta solitamente per la propria indipendenza e può essere disposto (ma può anche non esserlo) a sedare il conflitto per un obiettivo un po’ inferiore. I conflitti di faglia all’interno di uno stato possono anche coinvolgere gruppi geograficamente interconnessi, nel qual caso rapporti costantemente tesierompono di tanto in tanto in scontri violenti…oppure possono sfociare in guerre globali…dando luogo a tentativi violenti di separazione coatta di popolazioni. A volte i conflitti di faglia riguardano lotte per il controllo di popolazioni. Più di frequente, la posta in palio è il controllo di territorio. Obiettivo di almeno uno dei belligeranti è conquistare territorio e liberarlo da chi vi abita mediante espulsione coatta, eliminazione fisica, o entrambe le cose, vale a dire mediante operazioni di ‘pulizia etnica’…Spesso il territorio di contesa è per uno o per entrambi i contendenti un simbolo vitale della propria storia ed identità, terra santa sulla quale vantano un diritto inviolabile…Le guerre di faglia…Si tratta di conflitti prolungati nel tempo…Poiché implicano questioni fondamentali quali l’identità e il potere dei gruppi che ne sono coinvolti. In conseguenza del loro carattere prolungato, le guerre di faglia, al pari altre guerre tra gruppi rivali, tendono a produrre un elevato numero di vittime e di rifugiati” (op.cit., pp. 375-376) 507 “Fitte reti internazionali di sostegno, le quali consentono a loro volta ai belligeranti di prolungare il conflitto”, op.cit., p. 378 506 225 veri e propri, insieme a una categoria altrettanto fondamentale di attori, vale a dire le diaspore dei partecipanti di primo livello; un secondo livello, i cui protagonisti sono invece quelli culturalmente più vicini agli attori principali; infine un terzo livello comprendente gli stati che, pur avendo legami culturali con le parti belligeranti, rimangono esterni al conflitto, intervenendovi soltanto indirettamente509. Sono poi gli ultimi due livelli a giocare un ruolo determinate nei conflitti di faglia, in quanto “hanno interesse a contenere lo scontro e a non farvisi coinvolgere direttamente. Perciò, pur sostenendo i protagonisti di primo livello, essi tentano di frenarli e indurli a moderare i loro obiettivi. Essi inoltre tentano di negoziare con le controparti di secondo e terzo livello e impedire così l’escalation di un conflitto locale in una guerra generale che coinvolga gli stati guida.”510 Teatro di un “complesso, confuso e variegato intreccio di guerre di faglia” è stato per Huntington il conflitto che tra il 1991 e il 1999 ha portato allo smembramento dello Stato jugoslavo511: “Al livello 508 op.cit., p. 405 “Nelle guerre di faglia, i vari stati e gruppi hanno livelli di coinvolgimento diversi. Al livello principale troviamo i contendenti veri e propri, quelli che si uccidono a vicenda…Vi sono poi i partecipanti di secondo livello, solitamente gli stati più intimamente legati agli attori principali…Seguono poi gli stati di terzo livello, ancor più defilati rispetto al conflitto vero e proprio, ma che vantano legami culturali con le parti belligeranti…Questi partecipanti di terzo livello sono spesso gli stati guida delle rispettive civiltà. Laddove esistono, le diaspore dei partecipanti di primo livello svolgono spesso anch’esse un ruolo attivo” (op.cit., p. 405) 510 “complessi sono invece gli interessi dei governi di secondo e terzo livello. Anch’essi forniscono di norma sostegno alle parti belligeranti, e anche laddove ciò non avviene essi sono comunque sospettati di farlo dai gruppi rivali, che in questo modo si sentono legittimati a intervenire a loro volta. Al tempo stesso, tuttavia, i governi di secondo e terzo livello hanno interesse a contenere lo scontro e a non farvisi coinvolgere direttamente. Perciò, pur sostenendo i protagonisti di primo livello, essi tentano di frenarli e indurli a moderare i loro obiettivi. Essi tentano inoltre di negoziare con le controparti di secondo e terzo livello e impedire così l’escalation di un conflitto locale in una guerra generale che coinvolga gli stati guida” (op.cit., p. 406) 511 Ricordiamo che nell’anno in cui The Clash of Civilizations veniva dato alle stampe (1996) non era ancora iniziata la cosiddetta “guerra del Kosovo”. Per quest’ultima sarà 509 226 primario, in Croazia governo e popolo croato hanno combattuto contro i serbi di Croazia, mentre in Bosnia-Erzegovina il governo bosniaco si è opposto a serbi bosniaci e croati bosniaci, che a loro volta si combattevano reciprocamente. Al secondo livello, il governo serbo propugnava la creazione di una ‘Grande Serbia’ aiutando i serbi bosniaci e serbi croati, mentre il governo croato aspirava a una ‘Grande Croazia’ e sosteneva i croati bosniaci. Al terzo livello si è verificato un massiccio schieramento di civiltà: Germania, Austria, il Vaticano, altri paesi e gruppi cattolici nonché, successivamente, gli Stati Uniti, dalla parte della Croazia; Russia, Grecia e altri paesi e gruppi ortodossi dalla parte dei serbi; Iran, Arabia Saudita, Turchia, Libia, Internazionale islamica e paesi islamici in generale dalla parte dei musulmani bosniaci. Questi ultimi hanno ottenuto il supporto anche dagli Stati Uniti: un’anomalia in uno schieramento che per tutti gli altri aspetti riflette appieno le diverse civiltà di appartenenza”512. La guerra di Jugoslavia costituisce per lo studioso di Harvard il paradigma di riferimento cui volgere lo sguardo, qualora si abbia l’intenzione di capire e analizzare gli sviluppi di un possibile conflitto di faglia riguardante da vicino la civiltà occidentale e i rapporti di quest’ultima con l’islamica513. necessario attendere ancora tre anni. Pertanto gli eventi cui si si riferisce Huntington giungono sino alla conclusione del conflitto bosniaco, avvenuta nel 1995 512 S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà, op.cit., p. 419 513 “Nel complesso, le lezioni da trarre dalla guerra di Bosnia sono: primo, che i partecipanti diretti alle guerre di faglia possono contare sull’aiuto, anche consistente, dei paesi appartenenti alla propria stessa civiltà; secondo, che quest’aiuto può influenzare in modo anche significativo il corso della guerra; terzo, che i governi e i popoli di una civiltà non versano sangue o denaro per aiutare a combattere una guerra di faglia un popolo appartenente a una diversa civiltà. L’unica parziale eccezione è costituita dagli Stati Uniti. In linea di principio, i suoi dirigenti si schierano dalla parte dei musulmani, anche se in pratica il sostegno musulmano fu limitato…Una possibile spiegazione è che non si sia trattato affatto di un’anomalia, ma piuttosto di una forma attentamente calcolata di realpolitik culturale. Schierandosi a fianco dei bosniaci e proponendo, senza successo, la fine dell’embargo, gli Stati Uniti tentarono di ridurre l’influenza di paesi 227 In quest’ottica la ex Jugoslavia è per Huntington “la Spagna di tutti”. Infatti, così come la guerra civile spagnola “fu un conflitto tra sistemi politici e ideologie; la guerra bosniaca è stata una guerra tra civiltà e religioni”. Perciò, come democratici, comunisti e fascisti combatterono in Spagna a fianco dei rispettivi compagni di ideologia, anche la guerra jugoslava “ha visto una eguale, massiccia mobilitazione di aiuto esterno da parte di cristiani occidentali, cristiani ortodossi e musulmani in difesa dei rispettivi compagni di civiltà. Tutte le principali potenze del mondo ortodosso, di quello islamico e di quello occidentale ne sono state coinvolte”. Infine se la guerra civile spagnola “fu un preludio alla Seconda guerra mondiale”, la guerra bosniaca potrebbe invece essere “un ulteriore episodio di sangue di un interminabile scontro di civiltà”514 6.1.6 La “guerra strisciante” tra Islam e Occidente e la variabile asiatica “Gli scontri più pericolosi del futuro nasceranno probabilmente dall’interazione tra l’arroganza occidentale, l’intolleranza islamica e l’intraprendenza sinica”515. Non solo, ma se “al livello globale, o macrolivello, il principale scontro tra civiltà è tra l’Occidente e gli altri, al livello locale, o microlivello lo scontro è tra l’Islam e gli altri”516, in particolar modo tra mondo islamico e mondo occidentale. musulmani fondamentalisti come l’Iran e l’Arabia Saudita sui bosniaci, un popolo fino ad allora di inclinazione laica e filoeuropea” (op.cit., pp. 432-433) 514 op.cit., p. 435 515 op.cit., p. 265 516 op.cit., p. 379 228 È dunque la linea di faglia517 fra Islam e Occidente a preoccupare più di ogni altra cosa i destini del mondo, perché proprio lungo questo “confine insanguinato”518, correranno per Huntington i futuri conflitti armati tra stati appartenenti alle due diverse civiltà: “In qualsiasi punto dell’Islam si guardi, i musulmani sembrano far fatica a vivere in pace con i propri vicini….I musulmani costituiscono circa un quinto della popolazione mondiale, ma negli anni novanta la loro percentuale di coinvolgimento in atti di violenza tra comunità locali è superiore a quella di qualsiasi altra civiltà.”519. Da ciò emerge come conclusione che i “confini dell’Islam grondano sangue”, poiché “sanguinario è chi vive al loro interno”520 Tre sono le cause che per Huntington spiegano la bellicosità della popolazione islamica: storiche, demografiche e politiche. Le prime rappresentano poi il substrato su cui si innestano le ultime due, legittimando “una lunga tradizione di violenza” alla quale chiunque può attingere”521. Per quanto riguarda l’aspetto demografico, Huntington sottolinea come l’“espansione numerica di un gruppo genera pressioni politiche, economiche e sociali sugli altri”, inducendo a contromisure di carattere militare sui gruppi demograficamente meno dinamici522. Ancor più rilevante é poi la composizione della popolazione, e in particolare la presenza o meno di un’elevata 517 Confine che intercorre tra due diverse civiltà Per Huntington i confini insanguinati dell’Islam si situerebbero geograficamente in Kosovo, Cipro, Caucaso, Turchia e Armenia, Caucaso settemtrionale, Cecenia, bacino del Volga, Asia centrale, Afghanistan, Tagikistan, Xinjiang, Pakistan, India, Bangladesh, Birmania, Malaysia, Indonesia, Thailandia, Filippine, Israele, Libano, Africa occidentale, Sudan, Nigeria, Ciad, Kenya, Tanzania (cfr. S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà, op.cit., p. 378 e sgg. 519 op.cit., p. 381 520 op.cit., p. 383 521 op.cit., p. 384 522 op.cit., p. 385 518 229 percentuale di giovani compresi tra i 15 e i 24 anni, serbatoio da cui attingerebbero i movimenti nazionalisti ed etnici. A queste tre cause fondamentali, Huntington ne associa altre sei di minore importanza, ma pur sempre idonee a spiegare la propensione alla violenza del mondo islamico523. Si passa pertanto da una forte componente bellicista presente in gran parte della cultura islamica524, all’espansione via terra delle popolazioni musulmane che ha portato a una situazione di contiguità dell’Islam con una pluralità di civiltà diverse525; dalla presenza di una popolazione “indigeribile”, vale a dire scarsamente integrabile in altri contesti526, all’ “imperialismo occidentale”527; dall’assenza di 523 “Rimane il quesito del perché, sul finire del secolo, i musulmani risultino coinvolti molto più di altre civiltà in scontri violenti con altre comunità. È sempre stato così? In passato, i cristiani sterminarono intere popolazioni, cristiane e non. Valutare la propensione alla violenza delle civiltà nel corso della storia richiederebbe una ricerca approfondita che non è possibile effettuare in questa sede. Possiamo invece identificare le possibili cause della violenza, sia interna sia nei confronti di altri gruppi, che caratterizza i musulmani oggi e distinguere tra quelle che spiegano la loro propensione alla conflittualità in chiave storica (sempre che questa chiave ci sia)…sei cause. Tre spiegano soltanto la violenza tra musulmani e tre anche anche quella nei confronti di altre civiltà. Inoltre, tre di esse spiegano solo l’attuale propensione dei musulmani alla violenza, mentre altre tre ne spiegano anche le radici storiche, sempre che esistano. Se però la propensione storica non esiste, allora le sue presunte cause, se non possono spiegare qualcosa che non esiste, non possono spiegare neanche la palese e dimostrata propensione contemporanea dei musulmani alla violenza” (op.cit., pp. 390-391) 524 “E’ stato sostenuto che l’islamismo è sempre stato, sin dalle origini, una religione bellicista, che glorifica le virtù militari” (ibidem) 525 “Sin dalle sue origini, l’Islam si diffuse rapidamente in Africa settentrionale e in gran parte del Medio Oriente, e successivamente in Asia centrale, nel subcontinente indiano e nei Balcani. L’espansione portò i musulmani a contatto diretto con molte e variegate popolazioni che furono conquistate e convertite, un processo il cui lascito si può chiaramente avvertire ancora oggi…L’espansione via terra di popolazioni musulmane e non musulmane produsse una stretta contiguità fisica tra musulmani e non musulmani in tutta l’Eurasia. Viceversa, l’espansione via mare dell’Occidente non creò di norma situazioni di stretta convivenza tra popoli occidentali e non occidentali” (ibidem ) 526 “Una terza possibile fonte di conflittualità tra musulmani e non musulmani chiama in causa quella che uno statista, riferendosi al proprio paese, ha definito l’‘indigeribilità’ dei musulmani. Questo fenomeno tuttavia, è a doppio senso: i paesi musulmani manifestano nei confronti delle minoranze non musulmane problemi paragonabili a quelli che i paesi non musulmani hanno con le minoranze musulmane. Ancor più del cristianesimo, l’Islam è una fede assoluta” (op.cit., p. 392). E’ interessante evidenziare anche un’ affermazione che può sembrare marginale: “Confuciani, buddisti, induisti, cristiani occidentali e cristiani ortodossi hanno meno difficoltà ad adattarsi gli uni agli altri e a vivere fianco a fianco di quante ne abbiano ad adattarsi e a convivere con i musulmani.” (op.cit., p. 392) 230 uno stato guida fattore di sostanziale instabilità528, all’esplosione demografica con la presenza di moltissimi maschi giovani e disoccupati529. Nell’ambito di quest’ultime sei cause, “militarismo, indigeribilità e contiguità”, spiegano per Huntington la propensione storica alla conflittualità, mentre “imperialismo occidentale, assenza di uno stato guida e esplosione demografica” aiutano a comprendere la “violenza islamica” in tempi più recenti e la “guerra strisciante” in corso con l’Occidente530. Le cause di quest’ultima, cominciata con la “Rivoluzione iraniana del 1979”531, andrebbero ulteriormente ricercate: “1) (nella) crescita della popolazione musulmana…2) (nella) Rinascita islamica (che) ha dato ai musulmani nuova fiducia nella prosperità della propria civiltà e dei propri valori rispetto a quelli dell’Occidente…3) (nei) paralleli tentativi dell’Occidente di 527 “Tre altri fattori, più limitati dal punto di vista temporale, possono però ulteriormente spiegare l’esplosione della violenza islamica in questo tardo XX secolo. Una prima motivazione, avanzata dai musulmani, è che l’imperialismo occidentale e l’asservimento delle società musulmane nel XIX e XX secolo hanno prodotto un’immagine di debolezza militare ed economica dei musulmani inducendo i gruppi non islamici a vedere nei musulmani un facile bersaglio. Questi ultimi, secondo tale interpretazione, sono vittime di un diffuso pregiudizio antimusulmano paragonabile all’antisemitismo” (op.cit., p. 393) 528 “Un elemento più convincente, che potrebbe spiegare sia la conflittualità interna che quella rivolta all’esterno, è l’assenza nel mondo islamico di uno o più stati guida…I paesi che aspirano al ruolo di leader dell’Islam, quali ad esempio l’Arabia Saudita, l’Iran, il Pakistan, la Turchia e potenzialmente l’Indonesia, sono in competizione per la leadership nel mondo musulmano; nessuno di essi è però in posizione sufficientemente forte” (ibidem ) 529 “Infine, cosa più importante, l’esplosione nelle società musulmane e la presenza di moltissimi maschi, spesso disoccupati, di età compresa tra i quindici e i trent’anni è una naturale fonte d’instabilità e di violenza sia all’interno dell’Islam sia contro i non musulmani” (op.cit., p. 394) 530 “Strisciante per tre motivi. 1) Non si tratta di uno scontro tra tutto l’Islam e tutto l’Occidente…2) E’ una guerra strisciante perché, a eccezione della guerra del Golfo del 1990-91, è sempre stata combattuta con mezzi limitati: terrorismo da una parte e raid aerei, operazioni segrete e sanzioni economiche dall’altra. 3) E’ una guerra strisciante perché gli atti di violenza, pur ripetuti, non sono continui…Tuttavia, una guerra strisciante è pur sempre una guerra…il numero dei morti e delle vittime in generale è nell’ordine delle migliaia” (op.cit., pp. 316-317) 531 op.cit., p. 316 231 universalizzare i propri valori532 e le proprie istituzioni, di mantenere la propria superiorità militare ed economica e di intervenire nei conflitti del mondo musulmano…4) (nel) crollo del comunismo (che) ha eliminato un nemico comune dell’Islam e dell’Occidente, rendendo più acuta in entrambi la percezione della reciproca minaccia…5) (nei) sempre maggiori contatti e rapporti tra musulmani e occidentali (che) stimolano in ciascuna delle due parti un senso tutto nuovo della propria identità e delle differenze che le separano”, mettendo “altresì in evidenza la disparità circa i diritti di coloro che vivono in un paese che appartiene alla civiltà avversa”533 Non meno problematico per l’Occidente risulta poi lo “sviluppo economico dell’Asia e la sempre maggiore autostima delle società asiatiche” che, secondo Huintington, starebbero “disgregando l’ordine politico internazionale”, promuovendo un proprio potenziale militare, nonché rafforzando l’influenza cinese nella regione al punto da fare della Repubblica Popolare Cinese la maggiore potenza asiatica, oltre che la più probabile candidata alla leadership mondiale534 . Oltretutto l’enorme sviluppo economico della Cina, costringerà in futuro il Giappone, finora vicino all’Occidente, ad accostarsi diplomaticamente alla civiltà sinica, recidendo i suoi legami con Europa e USA535. Soltanto una maggiore “capacità globale degli Stati Uniti di sostenere il ruolo di unica superpotenza mondiale e di guida dinamica delle relazioni internazionali”, assieme ad un più 532 “Il problema dell’Islam non è la Cia o il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ma l’Occidente, una civiltà diversa le cui popolazioni sono convinte del carattere universale della propria cultura e credono che il maggiore – seppur decrescente – potere detenuto imponga loro l’obbligo di diffondere quella cultura in tutto il mondo. Sono questi gli ingredienti di base che alimentano la conflittualità tra Islam e Occidente” (op.cit., p. 319) 533 op.cit., pp. 309-310 534 op.cit., p. 320 535 cfr. p. 343 232 accentuato “impegno americano a mantenere la propria presenza in Asia e a contrastare fattivamente i tentativi cinesi di espandere la propria influenza”536, potranno trattenere in futuro l’impero del Sol Levante da una simile scelta. Se infatti Asia e Islam, singolarmente presi, costituiscono un problema per l’Occidente, peggio ancora sarebbe se quest’ultimi riuscissero nell’impresa di stringere un’“alleanza islamico- confuciana”537, mettendo Europa e Nordamerica addirittura in una posizione di subordinazione economica e militare in vista di un conflitto armato in cui la civiltà occidentale partirebbe in una situazione di sostanziale svantaggio. 6.1.7 Lo scontro delle civiltà: il conflitto globale e le “regole” per impedirlo Come si svolge, invece, la dinamica dei rapporti tra civiltà a livello globale? Per Huntington i rapporti tra le civiltà si configureranno in futuro o come una “pace fredda” o come una “guerra fredda”538. I motivi di questi due possibili sviluppi risiederanno: a) nelle “iniziative delle organizzazioni internazionali di livello mondiale”539; b) nel potere militare, così come in quello economico; c) nei tentativi di proteggere popoli appartenenti alla stessa civiltà, 536 op.cit., p. 349 op.cit.,p. 354 538 op.cit., p. 303 539 op.cit., p. 304 537 233 discriminando ed espellendo “dal proprio territorio popoli di altre civiltà”540; d) negli sforzi di imporre o promuovere i propri valori ed istituzioni a popoli appartenenti ad altre civiltà; e) infine, nelle questioni territoriali. Queste cause di conflittualità globale, pur essendo classiche della politica internazionale541, verrebbero tuttavia accentuate dalle differenze culturali tra civiltà che spingerebbero gli stati guida a chiamare a raccolta tutti i membri della propria civiltà, innescando il meccanismo di appello ai paesi fratelli e la conseguente escalation militare. Come impedire, da parte occidentale, un conflitto globale tra stati guida e la catastrofe che ne deriverebbe? L’Occidente, sempre più dipendente “dalla volontà degli americani di riconfermare la propria appartenenza alla civiltà occidentale”542 deve innanzitutto respingere, sul piano interno, “i canti di sirena disgregatori dei paladini del pluralismo culturale” e su quello internazionale la fede, “falsa”, “immorale” e “pericolosa”543, “nella validità universale della propria cultura”544. È poi “nell’interesse degli Stati Uniti e dei paesi europei: creare una maggiore integrazione politica, economica e militare”, incorporando nell’Unione europea e nella Nato “gli stati occidentali dell’Europa centrale” e incoraggiando nel medesimo tempo l’“occidentalizzazione” dell’America latina545. Dopodiché, una volta riusciti a “rallentare l’allontanamento…del Giappone e la sua politica di avvicinamento 540 op.cit., p. 304 op.cit., p. 304 542 op.cit., p. 458 543 “L’universalismo occidentale…è pericoloso per il mondo perché potrebbe portare a una grande guerra tra stati guida di civiltà diverse ed è pericoloso per l’Occidente perché da questa guerra potrebbe uscirne sconfitto” (op.cit., p. 463) 544 op.cit., p. 462 541 234 alla Cina”, e accettata “la Russia come stato guida dell’Ortodossia e come grande potenza regionale”546, l’Occidente deve pure sviluppare, nei confronti delle altre culture, una politica volta a mantenere la propria superiorità militare e tecnologica, e a riconoscere “che in un mondo composto da più civiltà, l’intervento occidentale negli affari delle altre civiltà è probabilmente la fonte più pericolosa di instabilità547 e di potenziale conflitto planetario”548 Huntington propone infine all’Occidente, il cui atteggiamento appare decisivo per il mantenimento della pace internazionale, tre regole per evitare in futuro un conflitto globale. Esse sono: la regola dell’astensione, “secondo la quale gli stati guida si astengono dall’intervenire in conflitti interni ad altre civiltà”549; la regola della mediazione congiunta, “secondo cui gli stati guida negoziano gli uni contro gli altri al fine di contenere o porre fine alle guerre di comunità tra stati o gruppi appartenenti alle rispettive civiltà”550; e infine la regola delle comunanze, in base alla quale “i popoli di tutte le civiltà dovrebbero cercare di trasmettere i valori, le istituzioni e le usanze condivise da popoli di altre civiltà”551 “Nell’epoca che ci apprestiamo a vivere – conclude Huntington552 – gli scontri di civiltà rappresentano la più grave 545 cfr. p. 465 ibidem 547 “Una guerra planetaria (potrebbe essere la conseguenza dell’) escalation di una guerra di faglia tra gruppi appartenenti a civiltà diverse, presumibilmente tra musulmani e non musulmani. Le probabilità di escalation aumentano se più aspiranti stati guida musulmani competono nel fornire assistenza ai propri correligionari belligeranti, mentre vengono ridotte dall’interesse dei paesi fratelli di secondo e terzo livello a non farsi coinvolgere eccessivamente nel conflitto in atto. Un’altra e più pericolosa causa di guerra globale tra civiltà è il mutare degli equlibri di potere tra le diverse civiltà e i rispettivi stati guida. Se avrà seguito, l’ascesa della Cina e la crescente spavalderia culturale di questa ‘protagonista assoluta della storia umana’ produrranno nei primi anni del XXI secolo tensioni tremende sulla stabilità internazionale” (op.cit., p. 466) 548 op.cit., p. 465 549 Ibidem 550 op.cit., p. 472 551 op.cit., p. 477 552 op.cit., p. 479 546 235 minaccia alla pace mondiale, e un ordine internazionale basato sulle civiltà è la migliore protezione dal pericolo di una guerra mondiale”553 553 Ibidem 236 Bibliografia 1. 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