4 Il sovraccar - il Contesto Quotidiano

INTRODUZIONE ---------------------------------------------------------------------------------------------------- 4
Il sovraccarico istituzionale nella riflessione di S.P.Huntington -------------------------------------------- 4
L’istituzionalizzazione della modernizzazione: società civile e società pretoriana----------------------11
Disfunzione multipla e crisi di trasformazione potenziale --------------------------------------------------17
Logica di conservazione e spontaneità programmata --------------------------------------------------------20
1. MODERNIZZAZIONE SOCIO-ECONOMICA E ORDINAMENTO POLITICO ---------------- 30
1.1 L’analisi della modernizzazione socio-economica nella teorizzazione di Samuel P. Huntington
--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------30
1.1.1 Modernizzazione socio-economica e modernizzazione politica -------------------------------------33
1.1.2 Gli effetti della modernizzazione socio-economica sulla cultura politica --------------------------37
1.1.3 La centralità delle istituzioni politiche nell’analisi delle trasformazioni indotte dalla
modernizzazione socio-economica -----------------------------------------------------------------------------42
1.2 La crescita della partecipazione politica come conseguenza della modernizzazione socioeconomica -------------------------------------------------------------------------------------------------------------46
1.2.1 La crescita della partecipazione politica nel passaggio dalla società industriale alla società
postindustriale -----------------------------------------------------------------------------------------------------50
2. SOVRACCARICO E “PROCESSI DI ISTITUZIONALIZZAZIONE POLITICA” -------------- 58
2.1 Modernizzazione e sovraccarico istituzionale ------------------------------------------------------------58
2.1.1 Mobilitazione sociale e partecipazione politica come fonti di sovraccarico istituzionale -------61
2.1.2 Le conseguenze dello sviluppo economico sull’aumento dell’instabilità politica ----------------63
2.1.3 Diseguaglianza economica e sovraccarico istituzionale ----------------------------------------------64
2.2 “Istituzionalizzazione” e modernizzazione del sistema politico --------------------------------------65
2.2.1 I “criteri di istituzionalizzazione politica” --------------------------------------------------------------69
2.2.2 Il Partito politico come “strumento di istituzionalizzazione” ----------------------------------------74
3. LA CRISI DA SOVRACCARICO DEL SISTEMA POLITICO E LE SUE POSSIBILI
CONSEGUENZE -------------------------------------------------------------------------------------------------- 78
3.1 La coincidenza fra interesse istituzionale e interesse pubblico ---------------------------------------78
3.2 Lo Stato keynesiano come paradigma della riflessione politica di Samuel P. Huntington -----81
3.3 La rivoluzione come possibile conseguenza della crisi da sovraccarico istituzionale ------------88
3.3.1 Rivoluzione e sistema politico occidentale -------------------------------------------------------------90
3.3.2 Gruppi urbani e alleanza rivoluzionaria -----------------------------------------------------------------96
3.3.3 Egemonia, legittimità ed efficacia nei processi rivoluzionari ----------------------------------------99
3.4 Strategia e tattica delle riforme politiche --------------------------------------------------------------- 102
3.4.1 “Strategia fabiana” e “blitzkrieg” ---------------------------------------------------------------------- 105
3.5 La “corruzione politica” come strumento di “assimilazione irregolare di nuovi gruppi nel
sistema politico” --------------------------------------------------------------------------------------------------- 108
3.5.1 Funzioni e cause della corruzione politica ------------------------------------------------------------ 110
3.6 Crisi da sovraccarico e istanza dominativa sovrana -------------------------------------------------- 112
4. COLPO DI STATO E “PERFORMANCE” MILITARE ---------------------------------------------115
4.1 Sovraccarico e sbocco nelle “società pretoriane”: il possibile ruolo di “legislatore” delle forze
armate --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 115
4.1.1 Il colpo di stato militare come strumento d’intervento --------------------------------------------- 118
4.1.2 Le possibili conseguenze del colpo di stato militare ------------------------------------------------ 120
4.1.3 L’intervento dei militari come strumento di istituzionalizzazione -------------------------------- 122
4.1.4 “Performance” e legittimità del colpo di stato militare --------------------------------------------- 125
4.1.5 Il “dilemma della performance” e la riconsegna del potere ai civili: la “terza ondata di
democratizzazione” --------------------------------------------------------------------------------------------- 131
5. IL “LIMITE” ALL’ESPANSIONE DELLA DEMOCRAZIA E LE RISPOSTE ALLA
POTENZIALE DERIVA VERSO UNA “CRISI DI TRASFORMAZIONE POTENZIALE” -----140
5.1 L’“ingovernabilità” della democrazia nella riflessione politica di S.P.Huntington: il rapporto
alla Commissione Trilaterale del 1975 ----------------------------------------------------------------------- 140
5.2 Il “gruppo di privati cittadini” della Commissione Trilaterale ------------------------------------ 141
5.2.1 Il Rapporto del 1975 sulla crisi della democrazia --------------------------------------------------- 145
5.3 La teoria dell’“ingovernabilità” delle democrazie occidentali ------------------------------------- 150
5.3.1 La teoria del sovraccarico nell’interpretazione di C.Offe ------------------------------------------ 151
5.3.2 Contraddizioni e crisi di razionalità del capitalismo nell’analisi di D.Bell e J.Habermas ----- 155
5.3.3 “Meccanica paradossale” e Welfare come fattore di sovraccarico istituzionale delle società
industriali: la riflessione di G.Marramao e N.Luhmann --------------------------------------------------- 158
Il governo sovraccarico. Un punto di vista conservatore ----------- Errore. Il segnalibro non è definito.
Il governo sovraccarico. Un punto di vista marxista ---------------- Errore. Il segnalibro non è definito.
5.4 Fattori di sovraccarico nel rapporto di S.P.Huntington sugli Stati Uniti ------------------------ 163
5.4.1 Crescita e radicalizzazione della partecipazione politica americana durante gli “anni delle due
S” ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ 171
5.4.2 Mass-media e “politica di denuncia degli abusi d’autorità” durante gli “anni delle due S” --- 175
5.4.3 I limiti auspicabili all’ampliamento indefinito della democrazia ---------------------------------- 183
5.5 “Nuove istituzioni per la promozione cooperativa della democrazia”: le “conclusioni generali”
del Rapporto della Commissione Trilaterale --------------------------------------------------------------- 187
5.6 Dagli “anni delle due S” agli anni ottanta: l’uscita dalla crisi da sovraccarico della
democrazia americana ------------------------------------------------------------------------------------------- 193
2
6. LO “SCONTRO DELLE CIVILTÀ” ----------------------------------------------------------------------197
6.1 Lo scontro delle civiltà nella recente opera di S.P. Huntington ------------------------------------ 198
6.1.1 Il ruolo della modernizzazione nello scontro delle civiltà ------------------------------------------ 201
6.1.2 Dalla Civiltà al singolare alla civiltà al plurale ------------------------------------------------------ 203
6.1.3 La civiltà occidentale in rapporto alle altre civiltà del pianeta ------------------------------------- 211
6.1.4 Ordine delle civiltà e rinascita di una cultura antioccidentale ------------------------------------- 217
6.1.5 Lo scontro delle civiltà: i conflitti di faglia ----------------------------------------------------------- 222
6.1.6 La “guerra strisciante” tra Islam e Occidente e la variabile asiatica ------------------------------ 228
6.1.7 Lo scontro delle civiltà: il conflitto globale e le “regole” per impedirlo ------------------------- 233
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------237
3
Introduzione
Il sovraccarico istituzionale nella riflessione di S.P.Huntington
Dopo l’attentato terroristico alle “Torri gemelle” di New
York dell’11 settembre 2001, il libro The Clash of Civilizations
(1996) di Samuel Paul Huntington, scritto già cinque anni prima, è
tornato agli onori delle cronache e del dibattito politico
internazionale, e la sua opera è divenuta quasi una sorta di
paradigma di ogni discussione sulla situazione geo-politica
contemporanea.
La maggior parte dei commentatori ha peraltro tralasciato di
rilevare come l’opera di Huntington non si concluda soltanto con
questo ultimo lavoro, ma si articoli in una serie di altri scritti che
hanno attraversato, con grande continuità tematica, gli ultimi
trent’anni, pur rimanendo, almeno in Italia, sostanzialmente al di
fuori del raggio d’attenzione sia nella stampa, sia anche nella
letteratura scientifica1.
1
La Rivista Italiana di Scienza Politica dedicò invece al tema della crisi della
democrazia, dietro cui si celava una forte critica alle teorie del sovraccarico istituzionale,
un intero anno (1975) della sua produzione. A tal proposito possono essere citati i saggi:
P.Farneti, La crisi della democrazia italiana e l'avvento del fascismo: 1919-1922,
“Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 1, Il Mulino, Bologna 1975;
D.Fisichella, La società postindustriale tra sviluppo e crisi, “Rivista Italiana di Scienza
politica”, vol. V, n. 2, Il Mulino, Bologna 1975; J.J. Linz, La caduta dei regimi
democratici, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 1, Il Mulino, Bologna 1975;
L.Morlino, Misure di democrazia e di libertà: discussione di alcune analisi empiriche,
“Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 1, Il Mulino, Bologna 1975; L.Morlino,
Categorie e dimensioni del mutamento politico, “Rivista Italiana di Scienza politica”,
4
Per il passato, questa riluttanza a prendere in esame la
riflessione politica di Huntington, poteva essere imputata, a detta
del professor Leonardo Morlino2, al concetto di “sovraccarico
istituzionale” delle democrazie, proposto negli anni Settanta come
cruciale oggetto di indagine da parte del politologo americano, in
parallelo, sia pur con approcci diversi, con altri studiosi, quali
Habermas3, Offe4 e O’Connor5.
Una delle conclusioni cui approda la presente tesi di laurea
appare caratterizzata, proprio in connessione al concetto richiamato
da Morlino, da una linea tematica che attraversa tutta l’opera, sino a
giungere alla sua più recente produzione: The Third Wave (1991) e
The Clash of Civilizations.
Il sovraccarico, sotto la spinta delle dinamiche socioeconomiche e della crescita della partecipazione politica che ne
vol. V, n. 2, Il Mulino, Bologna 1975; L.Morlino, Crisi e mutamento politico: il nuovo
contributo politico di Almond, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 3, Il
Mulino, Bologna 1975; G.Pasquino, Crisi della DC e evoluzione del sistema politico,
“Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 3, Il Mulino, Bologna 1975; S.Rokkan, I
voti contano le risorse decidono, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 1, Il
Mulino, Bologna 1975; R.Rose, Risorse del governo e sovraccarico di domande,
“Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. V, n. 2, Il Mulino, Bologna 1975;
A.Valenzuela, Il controllo della democrazia in Cile, “Rivista Italiana di Scienza
politica”, vol. V, n. 1, Il Mulino, Bologna 1975. Ad essi possono aggiungersi, sempre
sulla stessa rivista, i contributi di G. Pasquino, L'opposizione difficile, in “Rivista
Italiana di Scienza politica, vol. IV, n. 2, Il Mulino, Bologna 1974; G.Pasquino,
Interpretazioni del sistema politico italiano, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol.
IV, n. 3, Il Mulino, Bologna 1974; L.Pellicani, Verso il superamento del pluralismo
polarizzato?, “Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. IV, n. 3, Il Mulino, Bologna
1974; G.Sartori, Il caso italiano: salvare il pluralismo e superare la polarizzazione,
“Rivista Italiana di Scienza politica”, vol. IV, n. 3, Il Mulino, Bologna 1974
2
“Mentre nella Rivista Italiana di Scienza politica un’eco di Huntington c’è, perché è
ripreso da Rose, nelle altre pubblicazioni sulla crisi non c’é. Al livello poi politico, di
commento politico e di commenti nell’ambiente di studiosi – quindi niente di pubblicato
– la ricezione di Huntington è stata vista negativamente, perché era una ricezione di
destra. La critica maggiore che veniva fatta ad Huntington era di essere di destra, cioè
era di non riconoscere che il discorso non era tanto un discorso di sovraccarico, ma di
diversa distribuzione delle risorse. Quindi metterla in termini di sovraccarico era una
visione ideologica”. Il Professor Leonardo Morlino, intervistato nell’aprile del 2001, è
Docente di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Firenze
3
Cfr. J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Bari 1975
4
Cfr. C. Offe, Ingovernabilità e mutamento nella democrazia, Il Mulino, Bologna 1982
5
Cfr. J.O’Connor, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi, Torino 1977
5
consegue, trasforma il sistema istituzionale in un oggetto del
contendere politico, ponendo in crisi non solo la forma di governo,
ma gli stessi rapporti di dominio che la sottintendono, suggerendo
percorsi fino ad allora imprevisti, e a volte imprevedibili, per
l’intero sistema politico.
Huntington non elabora una personale definizione del
concetto di sovraccarico. Quella che, comunque, le si avvicina più
di tutte ci è fornita da Richard Rose in un articolo apparso nel 1975
sulla Rivista Italiana di Scienza politica: “Siamo in presenza di
sovraccarichi quando le aspettative popolari sono superiori alle
risorse nazionali, alle capacità di elaborazione del governo,
all’impatto che gli outputs governativi possono realizzare. Un tale
sovraccarico deriva dalla decisione dei cittadini di chiedere al
governo più di quanto esso, nel suo insieme, possa dare”6.
È possibile individuare nell’opera di Huntington due diversi
aspetti del sovraccarico: uno quantitativo, dovuto alla distanza
intercorrente tra domande e risorse nazionali, e l’altro qualitativo,
che chiama in causa le capacità di elaborazione del governo, cioè
tutti quei mezzi necessari per neutralizzare le aspettative alle quali il
sistema non può dare un’adeguata risposta senza dover mettere in
discussione le sue stesse fondamenta. La crisi da sovraccarico si
verifica pertanto all’incrocio fra una crescita qualitativa e
quantitativa della domanda e alla sua disposizione a ridosso delle
articolazioni del sistema politico. Maggiore é il quantitativo di
domanda politica, nonché il livello qualitativo che l’accompagna,
più elevata la probabilità che esso coinvolga i punti nevralgici del
sistema, avviando, in presenza di circostanze particolari, quella che
6
R.Rose, Risorse del governo e sovraccarico di domande, “Rivista Italiana di Scienza
politica”, vol. V, n. 2, Il Mulino, Bologna 1975, p. 189
6
David Held ha definito “crisi di trasformazione potenziale” 7, i cui
contenuti possono addirittura sovvertire l’insieme dei rapporti di
dominio di un ordinamento politico.
Come impedire che la modernizzazione conduca al sovraccarico
istituzionale? Qualora questo si realizzasse, come ostacolarne il
possibile decorso in una crisi di trasformazione potenziale?
L’obiettivo di Huntington sembra dunque quello di fornire al
sistema politico gli strumenti per gestire e istituzionalizzare la
modernizzazione, impedendole di innescare dinamiche di potenziale
trasformazione dell’intero ordinamento socio-politico.
L’elaborazione teorica dello studioso americano è inoltre
strettamente legata al problema della sovranità politica e al ruolo
che il sovrano è chiamato a giocare all’interno dei singoli contesti
istituzionali.
Huntington tematizza a fondo il nesso intercorrente tra
mutamento socio-economico e sovranità politica. La sovranità
costituisce infatti per Huntington il centro simbolico di uno
specifico contratto sociale, in base al quale gli uomini hanno
concentrato il proprio diritto d’agire, vale a dire il monopolio della
violenza legittima, in un unico punto: lo Stato. È oltretutto presente,
nell’interpretazione del politologo americano, un’impostazione
analitica che sembra avere come punto di riferimento la riflessione
politica di Hobbes. Traendo infatti spunto dal Cristallo di Hobbes di
7
“Che cosa è una crisi? È necessario distinguere tra una crisi parziale (o fase di limitata
instabilità) e una crisi che potrebbe condurre alla trasformazione della società. La prima
si riferisce a fenomeni quali il ciclo politico-economico, che implica fasi di boom e
recessioni nell’attività economica, che sono state una caratteristica cronica nelle
moderne economie capitalistiche (e socialiste). La seconda si riferisce all’indebolimento
del nucleo o principio di organizzazione di una società; cioè all’erosione o distruzione di
quelle relazioni societarie che determinano l’ambito e i limiti di cambiamento delle
attività politiche ed economiche, e non solo di queste. Questo secondo tipo di crisi, che
chiameremo ‘crisi di trasformazione potenziale’, significa che è attaccato il cuore
dell’ordinamento politico e sociale” (D. Held, Modelli di Democrazia, Il Mulino,
Bologna 1997, p. 337)
7
Carl Schmitt8, possiamo sostenere che lo Stato per Huntington si é
sviluppato in una serie di istituzioni, chiamate a loro volta a
preservare i patti nell’ambito di preesistenti rapporti di interazione
sociale in cui il dominio politico é assicurato soltanto a chi ha quella
potestas in grado di garantire l’obbedienza dei consociati in cambio
della sola protezione, e di impedire al corpo sociale di precipitare
nel precedente stato di natura, da cui aveva tratto origine.
La potestas, permettendo al gruppo dominante di costituirsi in
Stato, cioè auctoritas, garantisce anche l’appropriazione del
monopolio della violenza legittima, legittimata a sua volta dal
rapporto protectio-oboedientia, oltre che dal diritto di interpretare i
fondamenti di valore posti alla base del contratto.
L’azione della potestas non si limita poi alla sola fase di
costituzione dello Stato, ma continua a giocare un ruolo
determinante nel mantenimento dei rapporti di dominio, garantendo
a tal fine l’efficacia del diritto d’agire dell’auctoritas, in vista della
loro riproduzione all’interno del sistema politico e dell’insieme dei
rapporti di interazione sociale.
Huntington presenta un’esplicita concezione della causalità
interna ai rapporti di potere, i quali possono a loro volta incamerare,
col trascorrere del tempo, elementi di novità capaci sia di indurne il
passaggio da una forma di governo all’altra sia, in presenza di
soggetti politici che il sovraccarico istituzionale può porre in
evidenza, di provocare una pressione tale sull’insieme del sistema
politico, fino a minacciarne l’esistenza stessa, lasciando così
scoperti e privi di protezione gli assetti dominanti.
Le preoccupazioni dello studioso di Harvard si concentrano poi
sul sistema democratico, dato che esso si basa su un contratto che,
8
cfr. C.Schmitt, Il Cristallo di Hobbes, in Scritti su Hobbes. Giuffré Editore, Milano
8
facendo della piena partecipazione politica uno dei suoi aspetti
principali, può accelerare il decorso della causalità interna ai
rapporti di potere, innescando processi di trasformazione degli
assetti istituzionali.
La democrazia appare infatti a Huntington come un sistema
alimentato da un forte coinvolgimento dei suoi membri nella vita
dello Stato e ispirato a una logica che oltre all’obbedienza, implica
pure una presenza attiva e partecipe dei cittadini. Questa si realizza,
per un verso, nell’ampia diffusione di procedure di selezione della
classe dirigente, legate all’idea di rappresentanza e basate
sull’assioma dell’eguaglianza dei soggetti; per un altro verso, nel
diffuso impegno civico, assunto da una larga parte della
cittadinanza, in funzione del bene comune.
La partecipazione politica democratica si presenta dunque
come la “partecipazione di tutti”, senza che quest’ultima sia poi
differenziata o gerarchizzata in alcun modo.
Contrariamente alle altre forme di governo, la democrazia
non é avvertita soltanto come il luogo del conflitto, in cui la lotta
politica delle forze in campo può generare una mutazione
istituzionale, assicurando al tempo stesso la stabilità dei rapporti di
dominio precedenti, ma diviene anche l’oggetto del conflitto e la
lotta che ne scaturisce può evidenziare di fatto uno scavo in
profondità nelle ragioni stesse del contratto che, una volta svelate,
possono correre il rischio di essere rovesciate.
L’invisibilità della potestas nella democrazia può pertanto
trasformarsi improvvisamente, dinanzi a circostanze favorevoli che
il sovraccarico istituzionale può produrre, in potestas democratica,
cioè sovranità diffusa a tutto il corpo politico che avrebbe in tal
1986, pp. 153-158
9
modo la possibilità di imporre il suo “sommo diritto naturale su
tutto”9, non ultimo quello di sovvertire i precedenti assetti
dominanti.
Per impedire questa evoluzione, che la modernizzazione può
sviluppare, se accompagnata da una crescita della partecipazione
politica, tale da determinare un sovraccarico istituzionale,
Huntington suggerisce di reintrodurre una gerarchizzazione interna
al sistema politico secondo relazioni di dominio e obbedienza,
assicurando così l’unità istituzionale dell’auctoritas.
La concordia sembra essere dunque l’espressione del vivere
civile, al di là della quale c’é solo il caos della società pretoriana.
Evitare questa deriva, significa per Huntington racchiudere il giuoco
democratico all’interno di una sfera esclusivamente procedurale, in
cui la democrazia sia solo un modo per selezionare l’autorità.
Ragione per cui quelle istituzioni, in cui la violenza legittima
dell’auctoritas è visibile, hanno un potere-dovere di intervento e
soccorso nei riguardi del sistema politico e del sovrano, qualora la
crescita della partecipazione politica sviluppasse una dinamica
democratica che si ponesse al di là dei suoi limiti procedurali.
9
Cfr. B.Spinoza, Trattato Teologico-Politico, Einaudi, Torino 1992, p. 383
10
L’istituzionalizzazione della modernizzazione: società civile e
società pretoriana
La democrazia huntingtoniana mostra così i caratteri di una
relazione di comando e obbedienza, da cui viene espunta una
partecipazione politica in grado di interrompere il circuito di
legittimazione dell’auctoritas. Essa deve sì valorizzare e utilizzare
le diversità esistenti nel tessuto sociale, ma le deve saper anche
trasformare, per mezzo di processi di istituzionalizzazione, in un
elemento d’ordine rispondente a una superiore istanza dominativa,
definita appunto dai rapporti di dominio vigenti.
È perciò che lo studioso americano fa coincidere lo sviluppo
politico con la creazione di istituzioni adattabili, complesse,
autonome e coerenti che permettano di concepire la riforma della
struttura politica come se si trattasse di un processo relativamente
indipendente da ogni forma di conflittualità sociale che possa porla
al di fuori di una logica prettamente istituzionale.
I concetti di governabilità e ordine vengono così a imporsi su
qualsiasi altro, dipendendo a loro volta dalla presenza di istituzioni
politiche capaci di riflettere il consenso e il mutuo interesse delle
persone chiamate a legittimarle. L’alternativa all’ordine é difatti
soltanto il disordine che porta alla disgregazione della comunità e
alla guerra di tutti contro tutti.
Il nucleo dell’analisi di Huntington si fonda pertanto sulla
nozione di istituzione e sul concetto di istituzionalizzazione.
L’istituzione è così una forma di comportamento stabile,
condiviso e ricorrente; mentre l’istituzionalizzazione un processo
tramite il quale le organizzazioni assumono validità e stabilità,
11
disponendo un “dominio istituzionalizzato” in grado di regolare
“l’interazione tra i vari gruppi in una società in direzione del
vantaggio sistematico del gruppo dominante”10.
Il termine istituzionalizzazione acquista due significati: il
primo fa riferimento alla crescita del grado di istituzionalità da un
dato momento a un altro, il secondo è invece connesso all’ampiezza
e all’efficacia di regolazione dei comportamenti.
Le istituzioni sono la manifestazione comportamentale del
consenso morale e del mutuo interesse che regnano tra i membri di
una collettività e, da un punto di vista storico, scaturiscono
dall’interazione
e
dalla
conflittualità
delle
forze
sociali,
rappresentando il graduale sviluppo di procedure e strumenti
organizzativi atti alla soluzione dei conflitti. Tanto più i gruppi
sociali sono forti, tanto più le istituzioni saranno deboli e viceversa.
Le
istituzioni
sono
inoltre
legittime
“non
in
quanto
rappresentano gli interessi del popolo o di un certo gruppo, ma in
quanto esse hanno propri interessi, distinte da quelli di tutti gli altri
gruppi”. Di conseguenza il potere di un governo non deriverebbe
“dal fatto che rappresenti gli interessi di una classe, di un gruppo, di
una regione o del popolo ma piuttosto dal fatto che non rappresenta
nessuno di questi interessi11…la sua autorità ha le radici nella sua
unicità”12.
10
S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political Development, in “Handbook of political
science”, Reading, Mass., vol. 3., 1975, p. 88, corsivo mio)
11
“L’esistenza di istituzioni politiche (come la presidenza o il comitato centrale) capaci
di incarnare l’interesse pubblico rappresenta l’elemento distintivo tra le società
politicamente sviluppate e quelle non sviluppate, e anche tra le comunità morali e le
società amorali. Un governo con un basso livello di istituzionalizzazione non è solo un
governo debole ma anche un cattivo governo. Se la funzione del governo è quella di
governare un governo debole, un governo che manca di autorità e non è in grado di
ottemperare alle proprie funzioni è tanto immorale quanto un giudice corrotto, un soldato
codardo o un insegnate ignorante. Nelle società complesse la base morale delle
istituzioni politiche si fonda sui bisogni degli uomini” (S.P.Huntington, Ordinamento
politico e mutamento sociale, cit., p. 40)
12
ibidem
12
La forza delle istituzioni dipende poi da due fattori: 1)
dall’ampiezza del sostegno, cioè dal grado in cui le istituzioni
riescono a regolare efficacemente il comportamento dei consociati,
2) dal loro livello di istituzionalizzazione, derivante da alcune
modalità di organizzazione e funzionamento delle procedure.
Il livello di istituzionalizzazione di un intero sistema politico
è connesso infine alla combinazione dei fattori dell’Adattabilità,
della Complessità, dell’Autonomia e della Coerenza.
Il concetto di adattabilità esplica la capacità di un’istituzione
di automodificarsi nei confronti di un cambiamento dell’ambiente,
rimodellandosi rispetto al passato. L’adattabilità è spesso funzionale
all’età dell’organizzazione stessa che può essere misurata in tre
diversi modi: in modo cronologico, richiamando il flusso delle
generazioni che si sono avvicendate al suo interno oppure
analizzando i mutamenti sociali avvenuti nel tempo.
La complessità può indicare sia la moltiplicazione di
settori organizzativi, sia la differenziazione in tipi diversi di
sottounità organizzative. Nel primo caso la differenziazione è
funzionale o gerarchica; nel secondo, equivale invece a una
proliferazione di unità che hanno autonomia di potere. In entrambe
le situazioni, la moltiplicazione delle sottounità assicura e mantiene
la
fedeltà
dei
un’organizzazione
membri
è
dell’organizzazione.
complessa,
tanto
più
Tanto
è
più
altamente
istituzionalizzata.
L’autonomia è il grado in cui le organizzazioni e le
procedure politiche hanno un’esistenza indipendente dalle forze
sociali e dalle altre istituzioni esistenti all’interno dello stesso
sistema politico. L’autonomia, rispetto alle forze sociali, implica
che organizzazioni e procedure non siano la semplice espressione di
13
interessi particolari, ma tendano ad articolare e aggregare interessi
di molteplici componenti della società. Una forma particolare di
autonomia è rilevabile anche nei rapporti tra Stati, evidenziando le
relazioni che un singolo Stato, o un complesso istituzionale,
intrattiene nei confronti dell’ambiente internazionale. Tanto più le
organizzazioni sono subordinate, cioè penetrabili da forze sociali
provenienti dall’interno della società, tanto più risultano vulnerabili
dall’esterno.
L’autonomia
di
un’istituzione
è
prodotta
da
meccanismi che limitano, moderandolo, l’impatto di nuove forze
sociali, controllandone in tal modo il progressivo inserimento.
La coerenza riguarda infine il grado di coesione e
compattezza interno ad un’organizzazione o ad una procedura.
Dunque, più un’organizzazione è unita e compatta, più il suo livello
di istituzionalizzazione è elevato.
Il principale strumento di istituzionalizzazione in una società
industriale è il partito politico che assume per Huntington un ruolo
chiave nei processi di istituzionalizzazione, presentandosi come uno
strumento di integrazione sia orizzontale, per quel che concerne i
gruppi comunitari, sia verticale, per quanto riguarda invece le classi
economiche e sociali, disciplinando in tal modo la partecipazione
politica e la sua eventuale crescita13.
L’approccio istituzionale consente inoltre ad Huntington di
tracciare alcune tipologie di sistemi politici. Una prima tipologia
scaturisce dalla combinazione tra livello di istituzionalizzazione e
livello di partecipazione politica. Huntington distingue pertanto
13
“I mezzi istituzionali più importanti per l’organizzazione della partecipazione politica
sono i partiti politici e in generale il sistema partitico. Una società che sviluppa partiti
politici abbastanza ben organizzati fin da quando il livello della partecipazione politica è
relativamente basso…ha migliori probabilità di affrontare l’allargamento della
partecipazione politica in modo stabile, rispetto a una società dove i partiti si
organizzano a processo di modernizzazione già avanzato.” (S.P.Huntington,
Ordinamento politico e mutamento sociale, Franco Angeli, Roma 1975, p. 424)
14
sistemi
che
hanno
raggiunto
un
grado
elevato
di
istituzionalizzazione e sistemi che si trovano a un livello basso.
Per quel che concerne la partecipazione politica, vengono
individuati invece tre livelli: un livello più basso in cui essa è
circoscritta
ad
una
ristretta
élite;
un
livello
intermedio,
corrispondente all’ingresso nella politica di ampi strati della
popolazione, e un livello più elevato, in cui le masse popolari
prendono parte alla vita politica.
Lo studioso americano prende poi le mosse da questa
riflessione per un’ulteriore suddivisione delle società in società di
massa e società a partecipazione totale. Il primo tipo di società è
caratterizzata da istituzioni deboli e presenta una partecipazione
politica non strutturata e disomogenea, il secondo è al contrario
contraddistinto dall’elevato livello di coinvolgimento popolare,
organizzato e disciplinato dall’azione di istituzioni politiche forti; in
questo contesto la partecipazione risulta continuativa, ampia e
solitamente incanalata mediante apposite organizzazioni, la più
importante delle quali è il partito politico di massa.
Una seconda tipologia consente invece di differenziare i
sistemi politici in ordine alla distribuzione e al grado di
accumulazione del potere. Il potere di un ordinamento politico può
essere misurato, per Huntington, secondo due diversi parametri: dal
punto di vista dell’accumulazione, cioè dall’assimilazione di nuovi
gruppi sociali o di nuove risorse, e dal punto di vista della quantità
del potere, vale a dire dal numero e dall’intensità dei rapporti in
grado di vincolare e mobilitare persone e risorse. Sotto il profilo
della distribuzione, il potere può essere concentrato o diffuso,
mentre rispetto alla quantità può invece essere più o meno ristretto.
15
I sistemi politici differiscono dunque per la loro capacità di
concentrare e diffondere il potere. Da ciò deriva per Huntington
un’ulteriore classificazione, quella cioè tra società civili e società
pretoriane.
Le società civili sono caratterizzate da un elevato grado di
partecipazione politica che convive però con un alto livello di
istituzionalizzazione, dunque di canalizzazione del conflitto
politico. Quindi, disponendo di istituzioni politiche efficaci ed
efficienti, le società civili sono capaci di realizzare sia una
concentrazione di potere necessaria per attuare le riforme, sia una
sua indispensabile diffusione per l’inserimento di nuovi gruppi nel
sistema: il potere può perciò essere tanto concentrato, quanto
diffuso, e tutto questo per un periodo di tempo piuttosto lungo.
Nelle società civili confluiscono, per lo studioso di Harvard,
tanto le democrazie costituzionali quanto le dittature totalitarie.
Al contrario le società pretoriane presentano bassi valori di
istituzionalizzazione, ma elevati livelli di partecipazione politica.
Difettano di istituzioni politiche efficaci ed efficienti, cioè in grado
di canalizzare e mediare il conflitto sociale e sono incapaci di
realizzare una concentrazione del potere necessaria per attuare le
riforme, nonché una diffusione dello stesso indispensabile per
l’inserimento di nuovi gruppi nel sistema. Il potere può essere
concentrato e diffuso solo temporaneamente. La caratteristica
distintiva delle società pretoriane è dunque la rapida oscillazione tra
concentrazione e diffusione, come pure tra concentrazione ed
espansione del potere.
La stabilità di un sistema politico dipende pertanto dal rapporto
esistente
tra
il
grado
di
partecipazione
e
il
livello
di
istituzionalizzazione. Per poterla ottenere è necessario che, via via
16
che
aumenta
la
partecipazione
politica,
aumentino
corrispondentemente la complessità, l’autonomia, la flessibilità e
l’unità delle istituzioni politiche, trasformando la modernizzazione
socio-economica in una corrispondente modernizzazione politica,
capace di esplicarsi in una istituzionalizzazione delle dinamiche
prodotte dalla prima in funzione dei rapporti di dominio che
sottintendono l’ordinamento politico; prima che quest’ultimi siano
posti in discussione dalle conseguenze derivanti da un sovraccarico
istituzionale.
Disfunzione multipla e crisi di trasformazione potenziale
L’espansione della partecipazione politica dipende, per
Huntington, dal rapporto tra mobilità sociale e sviluppo economico.
La mobilità, accrescendone le aspirazioni, alimenta le aspettative di
fasce sempre più ampie della popolazione, laddove lo sviluppo
economico fornisce le risorse e le condizioni necessarie a
soddisfarle. Se il rapporto tra mobilità e sviluppo evidenzia un
divario, anziché essere a saldo positivo, è probabile che da questo
scostamento sorgano frustrazioni sociali e insoddisfazione diffusa
che finirebbero col riversarsi sul sistema politico. La frustrazione
sociale porterebbe a sua volta ad avanzare ulteriori richieste nei
confronti del governo, mentre l’espansione della partecipazione
politica mirerebbe a rafforzarle. Ragione per cui, qualora le
istituzioni politiche esistenti non siano in grado di canalizzarne
l’espressione e disciplinarne le modalità, si andrebbe incontro a un
sovraccarico istituzionale e a un successivo, probabile, periodo di
17
ingovernabilità politica con il rischio di deistituzionalizzazione
dell’ordine costituito.
È a questo punto che, sotto la spinta del sovraccarico, si
potrebbe aprire per Huntington un vuoto d’autorità da cui potrebbe
scaturire una crisi di trasformazione potenziale del sistema politico
con inevitabili conseguenze per l’intero tessuto dei rapporti di
interazione sociale. Non ultima la possibilità di una rivoluzione,
qualora, una volta interrotto il circuito di legittimazione del potere,
vi siano gruppi sociali, fino ad allora esclusi dalla sua gestione, in
grado di concludere fra loro un’alleanza politica, centrata su una
ristrutturazione dei rapporti di dominio e sorretta da nuove fonti di
legittimazione, perciò in grado di farsi Stato, disponendo di
un’efficacia organizzativa tale da poter imporre il proprio
monopolio legale sull’uso della forza legittima.
La rivoluzione presenta dunque, agli occhi di Huntington, i
caratteri di una vera e propria disfunzione multipla; da un lato
l’incapacità
del
modernizzazione
sistema
istituzionale
socio-economica,
di
governare
traducendola
la
in
modernizzazione politica, dall’altro l’esistenza di gruppi esclusi
dalla gestione del potere, ma nelle condizioni di proporre un’elevata
capacità di interpretazione dello sviluppo politico, legittimandola
con la tendenza a una generale trasformazione dei rapporti di
dominio. Infatti, a differenza delle insurrezioni, delle ribellioni,
delle rivolte e dei colpi di stato, le rivoluzioni sono caratterizzate,
per il politologo americano, dalla creazione di nuove istituzioni
politiche “in grado di…promuovere un mutamento economico e
sociale all’interno della società”14, rendendo “impossibile la loro
14
op.cit., p. 287
18
assimilazione da parte delle istituzioni politiche esistenti”15,
sviluppando anzi una crescita esponenziale della partecipazione
politica in grado di suscitare “l’estensione della coscienza politica a
nuovi gruppi sociali e la loro mobilitazione nella vita politica”16.
Processi che un sistema democratico non farebbe altro che
favorire,
garantendo
un’illimitata
partecipazione
politica
e
permettendo quella libertà di pensiero che, in una società moderna,
con lo sviluppo delle comunicazioni di massa, comporterebbe
l’emergere di pericolose tendenze disgreganti, come più volte posto
in evidenza da Huntington sia nel rapporto alla Commissione
Trilaterale17 del 1975 che nell’opera American Politics del 1982.
La rivoluzione può divenire in tal modo “l’espressione
estrema della modernizzazione”18, manifestazione ultima della
“convinzione che sia nei poteri dell’uomo di controllare e cambiare
il suo ambiente”19, mediante un rapido sviluppo della coscienza e
della mobilitazione politica, in prospettiva di “un rapido, radicale e
violento cambiamento interno dei valori e dei miti di una società,
15
ibidem
ibidem
17
Il rapporto della Trilaterale del 1975 traeva spunto dalla crisi di governabilità che
aveva investito la democrazia dei paesi industrializzati tra la fine degli anni ’60 e l’inzio
degli anni ’70. I rapporti presentati da Crozier per l’Europa Occidentale, da Huntington
per il Nordamerica e da Watanuki per il Giappone, indicavano alcuni “tipi di minacce a
cui era esposto lo stato democratico: minacce contestuali (che derivano dall’ambiente
esterno a quello in cui operano le democrazie); minacce dipendenti dalla struttura e dalle
tendenze sociali (movimenti fascisti, partiti comunisti, intellettuali antagonisti,
mutamenti a livello dei valori sociali); e infine, e aspetto forse più grave,…minacce
intrinseche alla stessa vitalità del sistema democratico che sgorgano direttamente dal
funzionamento della democrazia”. Infatti, si sosteneva nel rapporto, un “governo
democratico non opera necessariamente secondo modi che regolino o mantengano
automaticamente l’equilibrio. E’ possibile, invece, che funzioni in modo tale da dare vita
a forze e tendenze le quali, se non controllate da qualche intervento esterno, finiscono
col condurre all’indebolimento della democrazia” (M.Crozier, S.P.Huntington,
J.Watanuki, La crisi della democrazia, cit., pp. 24, 110)
18
S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 287
19
op.cit, p. 286
16
19
delle sue istituzioni politiche, della struttura sociale, della
leadership, delle attività e delle politiche di governo”20.
Peraltro,
la rivoluzione non
significa
ancora,
secondo
Huntington, inevitabile vittoria della stessa, ma innanzitutto
confronto, in tempi e spazi coincidenti, fra differenti fonti di
legittimazione, nonché diverse forme di legalità ed efficacia
politica, che può a sua volta concludersi con una ristrutturazione
dell’insieme dei rapporti di interazione di una società, oppure
precipitare la stessa in un sistema di tipo pretoriano dove “i ricchi
sono pronti a corrompere, gli studenti tumultuano, i lavoratori
scioperano, le folle fanno dimostrazioni e i militari colpi di stato” 21.
Con la rivoluzione si aprirebbe pertanto un “periodo di anarchia
e di assenza dello stato successivo alla caduta del vecchio regime, in
cui i moderati, i controrivoluzionari e i radicali lottano tra di loro
per il potere”22, dando inizio ad un “prolungato periodo di dualismo
di potere, in cui i rivoluzionari espandono la partecipazione politica,
la portata e l’autorità dello loro istituzioni di governo mentre il
governo, legittimo in altre aree geografiche, continua ad esercitare il
proprio dominio”23.
Logica di conservazione e spontaneità programmata
Pertanto, dinanzi all’incapacità da parte delle istituzioni
esistenti
di
assorbire
i
processi
di
modernizzazione,
20
op.cit., p. 286
op.cit., p. 87
22
op.cit., p.290
21
20
funzionalizzandoli agli assetti dominanti, è opportuno per
Huntington interrompere fin dall’inizio ogni possibile sviluppo
delegittimante del sistema politico: “quando coloro che intendono
sfidare le istituzioni si pongono in contrasto con l’ideologia della
società esistente ed intendono affermare un sistema di valori
completamente diverso – sostiene il professore di Harvard –
l’ambito di discussione comune viene distrutto”. Ciò sta a
significare che il rifiuto “dell’ideologia corrente da parte di coloro
che intendono sfidare le istituzioni” costringe le stesse classi
dirigenti “ad abbandonarla”, dato che “la difesa di ogni sistema di
istituzioni di fronte ad una sfida posta alle fondamenta di esso deve
essere formulata in termini di logica di conservazione, di
inviolabilità e di necessità delle istituzioni a prescindere dal livello
di corrispondenza al carattere prescrittivo di una qualunque filosofia
ideazionale”24.
Perciò, quando la crisi da sovraccarico degli assetti istituzionali
vigenti minaccia di evolvere in una delegittimazione degli stessi,
aprendo la strada a una potenziale, strutturale trasformazione degli
assetti dominanti, è opportuno per Huntington procedere a una
separazione “tra legittimità e potere”, ponendo quest’ultimo “al di
fuori della ratifica del primo”25, perché “quando le basi della società
vengono minacciate l’ideologia conservatrice ricorda agli uomini la
necessità di alcune istituzioni e la desiderabilità di quelle esistenti”.
Non tutte le ideologie debbono infatti “necessariamente essere dei
modelli
ideazionali”;
appunto
per
questo
la
“teoria
del
conservatorismo propone uno scopo ed un ordine differente rispetto
23
op.cit., p. 292
S.P. Huntington, Il conservatorismo come ideologia, in “American Political Science
Review”, vol. 51, 1957, trad.it. in C. Mongardini, Maria L. Maniscalco, Il pensiero
conservatore. Interpretazioni, giustificazioni e critiche, Franco Angeli, Roma 1999, p.
175
24
21
alle altre teorie politiche”, sviluppando un’“articolata, sistematica,
teoretica resistenza al cambiamento”26.
La soluzione prospettata da Huntington punta alla realizzazione
di “un modello decisionale di governo più efficace e…vincolante”,
in condizione cioè di garantire “una certa dose di autorità, deferenza
e gerarchia”, centrata sull’ “apatia e disimpegno da parte di certi
individui e gruppi”, e “una maggiore autolimitazione di tutti i
gruppi”, allontanando così “il pericolo di sovraccaricare il sistema
politico con richieste che ne allargano le funzioni e ne scalzano
l’autorità”27.
Il politologo statunitense non si limita a fare solo dichiarazioni
d’intenti, ma propone un percorso mediante cui renderle operative;
percorso che attraversa tutta la sua opera, da Political Order in the
Changing Societies, pubblicato per la prima volta nel 1968 e
tradotto in Italia soltanto nel 1975 con un titolo fuorviante che
sostituiva la parola e il concetto di Ordinamento a quello di Ordine,
nonché un sottotitolo che voleva ricondurne i contenuti addirittura
al “compromesso storico” fra Democrazia Cristiana e Partito
Comunista Italiano, allora in stato di avanzata elaborazione28, fino a
The Clash of Civilizations (1996), passando per Political
Development, scritto assieme a Dominguez nel 1975, il Rapporto
alla Commissione Trilaterale (1975), il saggio American Politics.
The Promise of Disarmony (1982) e The Third Wave (1991).
Se dunque ogni tentativo di salvaguardare il sistema politico
da una crisi di legittimazione, così come stava avvenendo durante
25
S.P.Huntington, American Politics. The promise of disharmony, cit., pp. 211-214
cfr. S.P. Huntington, Il conservatorismo come ideologia, cit.
27
S.P.Huntington, Stati Uniti, in M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La Crisi della
Democrazia, Rapporto alla Commissione Trilaterale, Kyoto, 31 maggio 1975, Franco
Angeli, Roma 1977, p. 110
28
Si poteva infatti leggere nella “fascetta” traduzione italiana del 1975: “Un politologo
di Harvard sostiene l’inevitabilità del ‘compromesso storico’”
26
22
gli anni compresi fra il 1968 e il 1978, risultasse vano, compreso il
ricorso alla corruzione, descritta come uno strumento di
“assimilazione di nuovi gruppi” all’interno del sistema politico, non
resterebbe per Huntington altra via se non quella di concentrare la
sostanza del potere politico nelle mani di un leader-legislatore che
si identifichi con l’esercito, per quel che riguarda le società in via di
sviluppo, in particolare quelle latinoamericane, ovvero un
rafforzamento del potere esecutivo, per quanto riguarda invece le
democrazie industriali (Europa, America settentrionale e Giappone),
da compiersi mediante una riduzione, seppur ricca di incognite e
dotata di una forte carica di opacità, della partecipazione politica.
Non solo, ma l’intervento del legislatore deve essere il più
possibile rapido e rivolto inizialmente a “impedire che gli oppositori
delle riforme abbiano lo stimolo o la capacità di mobilitare le masse
contro il cambiamento”, consapevole inoltre che “l’attuazione di
alcune riforme” risulterebbe impossibile “senza un certo livello di
violenza”. “L’efficacia della violenza nel promuovere le riforme –
prosegue Huntington – è direttamente proporzionale in quanto essa
appare come il sintomo della mobilitazione politica di nuovi gruppi
che adottano nuove tecniche politiche”. Non é infatti “la violenza di
per se, ma piuttosto lo shock e la novità dell’utilizzazione di una
tecnica politica sconosciuta e insolita”, nonché “la dimostrata
volontà di un gruppo sociale di travalicare gli schemi di azione
accettati”29.
È infatti il colpo di stato militare, escluso da Huntington per i
paesi occidentali, a causa delle disastrose conseguenze cui darebbe
luogo, il mezzo più idoneo in grado per garantire ai paesi in via di
29
S.P.Huntington, Stati Uniti, in M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La Crisi
della Democrazia, Rapporto alla Commissione Trilaterale, cit., p. 110
23
sviluppo la possibilità di uscire dalla crisi politica nel rispetto dei
rapporti di dominio costituiti.
Così come per le democrazie industriali, è solo una riduzione
della partecipazione politica, operata mediante un controllo e
depotenziamento dei mezzi di comunicazione di massa, oltre che un
accresciuto ruolo del potere esecutivo, a scongiurare il pericolo di
una possibile trasformazione potenziale della democrazia.
Quella che Huntington propone di limitare non è solo una
crisi di ingovernabilità, ma l’evoluzione stessa della democrazia,
intervenendo direttamente sulla sua causalità interna, cui va posto
un limite all’espansione, prima che diventi incontrollabile da parte
di ogni logica conservativa degli assetti dominati: la “vulnerabilità
del sistema democratico statunitense” durante gli anni ’70, derivava
per Huntington “non da minacce esterne, per quanto esse siano reali,
né dalla sovversione interna da sinistra o da destra, per quanto
entrambe queste evenienze possano darsi, bensì dalla dinamica
interna della stessa democrazia in una società altamente istruita,
mobilitata e partecipe”30.
Era questo il pericolo che Huntington avvertiva in rapporto alle
società industrializzate che, durante gli anni ’70, stavano assistendo
a un rapido processo di modernizzazione che le avrebbe condotte
verso un sistema politico-economico cosiddetto post-industriale.
Questo passaggio stava avvenendo, secondo l’opinione del
politologo americano, attraverso sei “soglie critiche di separazione”
caratterizzate dallo spostamento da un’ economia prevalentemente
industriale a un’economia in cui avrebbero predominato i servizi;
dall’aumento del numero degli impiegati e dalla corrispettiva
riduzione di quello degli operai; dalla crescita del livello di
30
cfr. S.P.Huntington, American Politics, cit., p. 110
24
istruzione scolastica; dal sempre maggior numero di persone che
frequentavano l’Università; dall’incremento della proporzione del
prodotto nazionale impiegata nella ricerca e nello sviluppo; e infine,
dallo spostamento di residenza della popolazione31.
La crescita della partecipazione politica che ne sarebbe derivata
avrebbe potuto provocare una probabile crisi di trasformazione
potenziale delle democrazie occidentale che si sarebbe potuta
sviluppare a sua volta lungo tre “linee fondamentali di frattura”32 –
sociale, istituzionale e ideologica –, comportando “un cambiamento
nell’ordine d’importanza dei valori fondamentali”33. Tale contesto
avrebbe potuto dare origine “a credenze e atteggiamenti politici e
sociali” tali da “sfidare molte delle stesse istituzioni”, spingendo
“qualcuno degli elementi più giovani delle classi generate proprio
dal postindustrialismo a ritirarsi dalla società” e a lasciare il posto ai
“ rampolli delle classi più povere…non ancora assorbiti dal milieu
postindustriale”34.
A sua volta la Commissione Trilaterale, nelle conclusioni del
rapporto del 1975 presentate da Huntington, Crozier e Watanuki,
individuava una via d’uscita da questa “vulnerabilità” nella
“creazione di nuove istituzioni per la promozione cooperativa della
democrazia”, dato che non era “più possibile…dare per scontato
l’efficace funzionamento dello stato democratico”. “Le crescenti
richieste e pressioni…e la crisi delle risorse e dell’autorità a sua
disposizione” esigevano dunque “una più precisa collaborazione”,
valutando “l’opportunità…di reperire, presso le fondazioni, le
società di affari, i sindacati, i partiti politici, le Associazioni civili e,
31
S.P.Huntington, La politica nella società postindustriale, “Rivista Italiana di Scienza
politica”, vol. IV, n. 3, Il Mulino, Bologna 1974, p.141
32
op.cit., p. 148
33
op.cit., p. 159
34
op.cit., p. 160
25
laddove sia possibile e opportuno, gli uffici governativi, gli appoggi
e le risorse finanziarie per la creazione di un organismo volto al
rafforzamento delle istituzioni democratiche”35.
Quello che ne emergeva era quindi una sorta di spontaneità
programmata
connaturata
agli
stessi
processi
di
istituzionalizzazione e caratterizzata dalla creazione di frontiere
mobili e gerarchie dinamiche all’interno del sistema politico, tese a
loro volta al “rafforzamento delle istituzioni democratiche”
nell’ambito di un’ottica conservatrice. Insomma, alle spalle di una
spontanea interazione democratica, avrebbe dovuto agire un
organismo in grado di saperne programmare gli sviluppi successivi
in un contesto, quello appunto degli anni settanta, in cui non era più
possibile dare per scontato l’efficace funzionamento dello stato
democratico. Anche Marramao notava già all’inizio degli anni ’80
che l’aspetto fondamentale della crisi che investiva allora i sistemi
politici democratici non consisteva tanto in una rottura strutturale
con vincoli e leggi, ma nel perseguimento da parte delle società
industriali di “due soluzioni idealtipiche”, vale a dire l’integrazione
sistemico-sociale e la violazione stessa dei vincoli strutturali,
sviluppando una paradossale meccanica36 che, possiamo dire,
tendeva a ricondurre la spontaneità della violazione nei vincoli
strutturali di una programmata integrazione sistemico-sociale.
Laddove poi le dinamiche legate alla necessità di impedire
l’emergere di una società pretoriana oppure l’avvio di un processo
rivoluzionario avessero condotto alla nascita di una dittatura
militare, questa avrebbe dovuto intendersi per Huntington come una
“performance” in vista di un generale ritorno al potere da parte dei
35
M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La Crisi della Democrazia, Rapporto alla
Commissione Trilaterale, cit., p. 169 (corsivo mio)
26
civili, una volta che tutte le tendenze disgreganti fossero scomparse
dalla scena politica e la modernizzazione resa compatibile con
l’autorità costituita. È questo il tema sottostante la Terza Ondata in
cui il politologo americano descrive il ritorno alla democrazia di
quei paesi che in passato avevano risolto la crisi delle loro rispettive
democrazie, mediante il ricorso a un regime militare. Non a caso
dalla trattazione sono stati espunti i regimi socialisti che, pur
vivendo anch’essi una fase di democratizzazione istituzionale, non
rientravano nel percorso evolutivo descritto da Huntington.
L’opera complessiva di Huntington delinea dunque un vero e
proprio
percorso
che
dall’analisi
delle
conseguenze
della
modernizzazione e dal possibile sovraccarico istituzionale (Political
Order in the Changing Societies), passa alle possibili soluzioni da
adottare (Political Order in the Changing Societies; Rapporto alla
Commissione Trilaterale; American Politics), fino al ritorno alla
democrazia in quei paesi in cui erano stati i militari a sciogliere il
nodo gordiano dell’ingovernabilità (The Third Wave).
Vista in questa luce, The Clash of Civilizations, non appare
come un cambiamento di rotta da parte del politologo di Harvard,
bensì come il tentativo di allargare il raggio interpretativo delle
possibili conseguenze di una modernizzazione non più limitata a
livello nazionale, ma estesa a livello planetario.
Sono essenzialmente due i punti di raccordo fra quest’ultima
opera e la restante saggistica di Huntington; innanzitutto, il rischio
di precipitare l’insieme delle relazioni internazionali in una sorta di
stato pretoriano globale, dovuto ad una illimitata crescita della
partecipazione alla gestione delle risorse mondiali da parte di
popolazioni finora escluse, legata a sua volta a processi di
36
cit. in AA.VV., Trasformazioni e crisi del Welfare State, De Donato-Regione
27
modernizzazione divenuti globali, infine il sospetto nei confronti di
una democrazia fonte di sovraccarico istituzionale sia a livello
nazionale
che
internazionale:
“Il
superficiale
presupposto
occidentale secondo cui i governi democraticamente eletti saranno
sempre cooperativi filoccidentali non si dimostra necessariamente
vero per le società non occidentali”37; il tutto in un contesto in cui
non sono più i mass-media ad incrementare il sovraccarico, ma lo
sviluppo della tecnologia e la sua diffusione presso popoli ostili al
modello di vita occidentale.
Pertanto la crescita della partecipazione alla gestione delle
risorse mondiali da parte dei paesi non-occidentali potrebbe
produrre anch’essa un sovraccarico globale di cui i “conflitti di
faglia”, così come durante gli anni ’70 le “linee fondamentali di
frattura”, costituiscono un importante campanello d’allarme di un
futuro conflitto mondiale che Huntington ritiene possa essere evitato
mediante la suddivisione del pianeta in “civiltà” incaricate di gestire
la loro rispettiva parte di popolazione mondiale sulla base del
proprio sistema di valori.
Anche in questo mutato contesto viene poi riproposta una
linea di analisi nella quale le sorti della governabilità sono decise “a
monte” dall’insieme dei gruppi dirigenti delle rispettive civiltà
nell’interesse dei rapporti di dominio internazionali, secondo regole
precise e, come Huntington stesso ha posto in evidenza nelle sue
Piemonte, Torino 1983, pp. 88-89
37
S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà, op.cit., p. 289. Concetto ribadido in
un’intervista rilasciata a una rivista francese nel 1998: “La démocratie serait à double
tranchant? - Eh bien, dans nombre de cas, nous voyons qu'elle peut porter au pouvoir des
gouvernements anti-occidentaux... Voyez la Turquie, où le parti islamiste, le Refah, est
devenu la principale force politique en 1995, avant d'être chassé du pouvoir par l'armée
et récemment dissous. La démocratie peut parfois devenir facteur de repli. Rappelezvous qu'en 1992, les fondamentalistes seraient arrivés au pouvoir en Algérie si l'armée
n'avait pas cassé les élections” (G.-F.Duval, in Construire, n. 7, 10 febbraio 1998)
28
recenti interviste38, senza escludere il ricorso alla guerra qualora gli
“interessi vitali” della civiltà occidentale siano posti in discussione
dai paesi appartenenti ad un’altra.
Il ruolo della politica nell’era della mondializzazioneglobalizzazione approda anch’essa a una programmazione della
spontaneità dove il gioco dei rapporti di interazione tra le civiltà,
pur apparentemente aperto e libero, resta di fatto sottoposto a una
impostazione funzionale ai rapporti di dominio internazionali.
Prima di concludere, volevo ringraziare la dottoressa Simona
Costaggini dell’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo per
aver effettuato delle preziose traduzioni dall’inglese di alcuni
importanti testi di S.P.Huntington non ancora tradotti in Italia.
Ringrazio anche Paul Révay (Direttore Europeo della Commissione
Trilaterale), il professor Leonardo Morlino (ordinario della cattedra
di Scienza politica presso la facoltà di Scienze Politiche
dell’Università degli Studi di Firenze) e il professor Gianfranco
Pasquino (ordinario della cattedra di Scienza politica presso la
facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Bologna)
per i colloqui avuti e la documentazione che mi hanno gentilmente
concesso.
Infine una dedica: ai miei genitori e a mio fratello. Questa
laurea è anche loro.
38
Si veda a tal proposito l’intervista rilasciata da Huntington a Nathan Garderls del
Global Viewpoint nell’ottobre del 2001 e pubblicata in Italia dal Corriere della Sera il 1
novembre 2001 (traduzione di Monica Levy, p. 6)
29
1.
Modernizzazione
socio-economica
e
ordinamento politico
1.1 L’analisi della modernizzazione socio-economica
nella teorizzazione di Samuel P. Huntington
Il tema della modernizzazione socio-economica riveste
notevole rilievo nella teorizzazione di Samuel P. Huntington39.
Huntington la considera infatti portatrice di profonde
implicazioni per quel che concerne sia la cultura sia la
partecipazione politica, al punto da poter determinare la probabile
conseguenza di quello che potrebbe definirsi un “sovraccarico”
39
Nato a New York nel 1927, Samuel Paul Huntington è professore di Scienza
dell’amministrazione alla Harvard University. Dopo aver conseguito il Bachelor of Arts
alla Yale University (1949), il Master of Arts alla University of Chicago (1949), il titolo
di Doctor of Philosophy alla Harvard University (1951), in cui svolse la sua prima
attività di insegnamento (1950-1958), e aver insegnato alla Columbia University (19591962), è stato di nuovo chiamato ad Harvard dove ha rivestito (1962) la carica di
Chairman del Dipartimento del Government, fondando e dirigendo anche il John Olin
Institute for Strategic Studies. Direttore della rivista “Foreign Policy”, Huntington è
stato eletto nel 1987 Presidente dell’American Political Science Association. Molteplici
sono stati gli incarichi svolti per il governo degli Stati Uniti, fra cui quelli di consigliere
del Policy Planning Council del Dipartimento di Stato, dell’Agency for International
Development, del National Security Council (1976-1980). Huntington è stato anche
consulente della Commissione Trilaterale.
30
delle istituzioni del sistema politico40 a causa di un eccesso di
domanda proveniente da settori sempre più ampi della società
civile.
La modernizzazione è per il politologo americano “un
processo multiforme che comporta mutamenti a tutti i livelli del
pensiero e dell’attività umana”, sostenendo inoltre che “gli aspetti
principali
della
modernizzazione”,
cioè
“l’urbanizzazione,
l’industrializzazione, la secolarizzazione, la democratizzazione,
l’istruzione, la partecipazione…non sono presenti casualmente e
in modo scollegato”41.
Lo sviluppo politico induce poi la trasformazione, a volte
radicale, della cultura e delle istituzioni di un ordinamento
politico-sociale, nonché della partecipazione al governo delle sue
risorse, provocando alcuni problemi di gestione, dalla cui
risoluzione dipendono gli esiti della conservazione politica dello
stesso
nel
rispetto
dei
rapporti
di
dominio
che
lo
contraddistinguono.
Non a caso la modernizzazione42 incide per Huntington43
su una collettività di persone sia a “livello psicologico”,
40
Parte integrante dell’ordinamento di una società, il sistema politico è, per S.P.
Huntington, l’insieme strutturato e organizzato dei valori e delle istituzioni del potere
politico, dell’apparato statuale e dei suoi mezzi di intervento
41
S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, Franco Angeli, Roma
1975, p. 45
42
Lo studio della modernizzazione socio-economica e politica prende avvio, secondo
G.Pasquino (Modernizzazione e sviluppo politico, Il Mulino, Bologna 1970) con l’opera
di G.A. Almond, A functional approach to comparative politics (in The politics of the
developing areas, a cura di G.A. Almond e J.S. Coleman, Princeton University Press,
1960). Sostituto moderno del concetto illuminista di progresso, lo studio dello sviluppo
politico è dato per Pasquino da: a) la comparsa sulla scena internazionale di nuovi stati
indipendenti e la loro crescente partecipazione a organismi quali le Nazioni Unite; b) la
necessità, da parte di Stati Uniti e Unione Sovietica, di conoscere questi nuovi soggetti
per adattarli alla propria sfera di influenza politica ed economica; c) la rivoluzione
comportamentista in scienza politica, i cui principi fondamentali sono la ricerca empirica
e il superamento dello studio istituzionale dei fenomeni politici per rivolgere
direttamente l’attenzione al comportamento dell’uomo; d) il movimento di riforma dello
studio della politica che va sotto il nome di politica comparata (cfr.R.C. Macridis, The
study of comparative government, Parte I Capitolo 1, Random House, New York, 1955;
31
R.C. Macridis, Comparative politics and the study of government. The search for
Focus”, in “Comparative politics”, I, 1968, pp. 79-90; T. Cole, (a cura di), European
Political system, Knopf, New York, 1953; G. Carter, J. Ranney, J. Herz, Major foreign
powers, Harcourt Brace and C., New York, 1952).
Se G.A Almond è da considerarsi, per il Professor Pasquino, il caposcuola della teoria
della modernizzazione politica, il Social Science Research Council con i suoi Comitati
per il Comportamento Politico (istituiti nel 1945) e per la Politica Comparata (istitutito
nel 1953 e che avrebbe dato origine a un Sotto-Comitato per lo Sviluppo Politico),
forniva la necessaria copertura finanziaria per queste ricerche. Una prima importante
definizione del concetto di sviluppo politico veniva elaborata proprio dal Comitato per la
Politica Comparata che nel 1965 identificava tre caratteristiche essenziali del processo
di sviluppo politico, eguaglianza, capacità e differenziazione, rappresentando, secondo
Pye, “rispetto alla popolazione…un mutamento da uno status generalizzato di suddditi a
un numero crescente di cittadini che collaborano fra di loro, accompagnato
dall’espansione della partecipazione di massa, da una maggiore sensibilità per i principi
di eguaglianza e da una più ampia accettazione di leggi universali…rispetto alle
prestazioni del governo e del sistema generale…un aumento della capacità del sistema
politico di dirigere gli affari pubblici, di controllare le controversie e di far fronte alle
domande del popolo;…rispetto all’organizzazione della sfera politica…una maggior
specificità funzionale e una maggiore integrazione di tutte le istituzioni e le
organizzazioni che ne fanno parte” (L.W. Pye, Introduction in Political culture and
political development, (a cura di L.W. Pye e S. Verba), Princeton University Press,
Princeton, 1965, p. 13).
43
Huntington applica le categorie elaborate dalla teoria dello sviluppo politico non solo
all’analisi delle società cosiddette del Terzo Mondo o “in via di sviluppo”, ma anche allo
studio dei processi di modernizzazione delle società industriali di tipo occidentale: “The
study of political development was, in its origins in the late 1950s, in some sense the
political science reflection of a broader interest among social scientists in the general
processes of societal change normally subsumed under the heading of “modernization”.
In fact, much of the early work identified political development with political
modernization, and almost all the work nonetheless focused on political development in
the context of the overall change from traditional, rural, agrarian society to modern,
urban, industrial society…The United States and some of the countries of Western
Europe were said to be making the transition from industrial to postindustrial society
with the growth of the service sector in their economies, the increasingly central role of
technology and theoretical knowledge in the functioning of society, the growing
preponderance of white-collar and particulary professional and scientific workers in the
labor force, and overall rising levels of education and affluence. If this transition from
industrial to postindustrial society was, indeed, of the same order as the transition from
agrarian to industrial society, then presumably the accompanying political problems,
dislocations, and needs might also be comparable in intensity and conceivably similar in
nature…And a theoretical base could, indeed, be made for this proposition, which the
political traumas and disruptions that characterized American and to some extent
Western European society in the late 1960s and early 1970s certainly did nothing to
disprove. In this sense the concepts and lessons that could be derived from the study of
political development in the modernizing countries of the Third World might be
applicable not just to the earlier history of the First World but to its contemporary and
future evolution as well. The identification of political development with the peculiar
historical process of modernization was thus loosened…Perhaps the most important
political differences between societies coincide not with differing levels of per capita
income but with the great cultural faults that divide men according to language, religion,
ethnicity, race, and historical experience…If the tradition-modernity dichotomy becomes
leses useful for political analysis, it seems likely that the study of political development
will become increasingly divorced from the study of modernization and more closely
indentified with the broader study of political change. In the late 1060s and early 1970s,
political scientists who had been talking about political development began to think in
32
implicando “un mutamento significativo nei valori, nelle
attitudini e nelle aspettative”, sia a livello intellettuale,
comportando “un enorme sviluppo della conoscenza dell’uomo
sul suo ambiente e alla diffusione di questa…all’interno della
società per mezzo di un incremento dell’alfabetizzazione, della
comunicazione di massa e dell’istruzione”44.
La modernizzazione tende infine “ad integrare la
famiglia e gli altri gruppi primari con ruoli diffusi in associazioni
secondarie consapevolmente organizzate e dotate di funzioni
molto più specifiche”45, determinando un’estensione delle
coscienze individuali e di gruppo e la conseguente crescita delle
capacità e aspirazioni, tanto individuali quanto collettive.
1.1.1 Modernizzazione socio-economica e modernizzazione
politica
Huntington
guarda
alla
modernizzazione
da
un’angolatura tanto economica, quanto politica.
Dal punto di vista economico, con la modernizzazione
“l’attività subisce una diversificazione in quanto si passa da
poche e semplici occupazioni a una pluralità di occupazioni di
tipo complesso; il livello di qualificazione professionale aumenta
in modo significativo; aumenta il rapporto tra capitale e lavoro;
l’agricoltura di sussistenza lascia il passo all’agricoltura di
more general terms about theories of political change. In some measure this meant a
focus on change in the particular components of the political system and on how change
in one component related to changes in other components” (S.P. Huntington, J.I.
Dominguez, Political development, in F.I. Greenstein, N.W. Polsby (a cura di),
Macropolitical Theory, vol. 3, Chapter 1, 1969, pp. 1-114)
44
S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 45
45
ibidem
33
mercato e la stessa agricoltura diminuisce di importanza rispetto
al commercio, all’industria e alle altre attività non agricole”46.
Da un punto di vista politico la modernizzazione
comporta invece “un mutamento degli atteggiamenti, dei valori, e
delle aspettative personali da modelli legati alla tradizione, verso
modelli propri del mondo moderno”, presentandosi come “il
risultato dell’alfabetizzazione, dell’educazione, dell’aumentato
livello di comunicazione, dell’introduzione dei mass-media e
dell’urbanizzazione”47.
Questi due aspetti della modernizzazione sono fra loro
complementari, innestandosi l’uno sull’altro per mezzo di
consone procedure di istituzionalizzazione tese, a loro volta, a
provocare una modernizzazione del sistema politico.
Quest’ultima deve poi condurre alla “razionalizzazione
dell’autorità”, nonché alla “sostituzione di gran parte delle
autorità politiche, religiose, familiari ed etniche di tipo
tradizionale
con
un'unica
autorità
politica
nazionale
e
secolare…il (cui) governo… prodotto dell’uomo e non di Dio o
della natura, deve avere una fonte (di legittimazione) umana e
definita…, l’obbedienza alla cui legge definitiva è prioritaria
rispetto agli altri obblighi”48.
È infine la sovranità dello stato-nazione l’istanza ultima
cui Huntington affida l’onere di sussumere i processi di
modernizzazione, stabilendo un ordinamento e, se necessario, un
ordine politico e sociale “la cui legge positiva (sia) prioritaria
rispetto agli altri obblighi”49.
46
ibidem
ibidem
48
S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 46
49
ibidem
47
34
La modernizzazione è inoltre strettamente connessa con
l’espansione della partecipazione politica e lo sviluppo delle
istituzioni politiche, oltre che, con la natura della stratificazione
sociale e le opportunità di mobilità al suo interno e verso
l’esterno, ponendo in evidenza l’influenza esercitata anche dai
ritmi stessi dello sviluppo e dalle influenze dell’ambiente
esterno50.
L’
ambiente
esterno
può
difatti
influenzare
la
modernizzazione di un ordinamento tramite la diffusione di
sistemi di valori, di tecniche e di risorse appartenenti a un’altra
società, ovvero mediante l’intervento di individui e gruppi sociali
esterni. Ma le influenze dell’ambiente esterno possono anche
condurre a una reazione da parte dei gruppi interni51, suscitando
quella
che
Huntington
definisce
una
“modernizzazione
difensiva”.
Un ruolo importante, sui processi di modernizzazione,
svolgono poi i “ritmi”52 con cui essa si determinano. Se infatti
uno sviluppo socio-economico accelerato può essere causa di
instabilità politica e violenza sociale, le società che si
50
“The principal variables affecting the political development of societies can thus be
analyzed in terms of the influence of a) the traditional, transitional, and modern phases
of development; b) cultural, social, economic, and political factors; c) domestic and
foreign environments; d) the early or late timing of modernization; e) the degree of
simultaneous or sequential change, and if the latter, the nature of the sequence; and (f)
the rates of change in the components of modernization” (S.P. Huntington, J.I.
Dominguez, Political development, cit., p. 15)
51
“Beyond this, external influences on political development may take the form of (a)
importation by individuals and groups within the society of ideas, models, techniques,
resources, and institutions from other societies; where importation is extensive and
unvoidable, except at high costs, the result is a state of dependence by the one society on
another, (b) intervention by individuals and groups from other societies through
political, military, economic, or cultural means to affect directly or indirectly the
political development of the society; (c) government by individuals and groups from
other societies (colonialism); and (d) reaction by individuals and groups within the
society against the threat of foreign intervention of rule (defensive modernization)
(op.cit., p. 13)
35
modernizzano con ritmi piuttosto lenti corrono invece il rischio di
registrare un eccessivo intervento da parte dell’apparato statale,
una debolezza organica delle classi dirigenti, una mobilità sociale
più elevata e infine una tensione strutturale che avrebbe come
conseguenza un’instabilità politica difficilmente gestibile53.
Infatti il sostanziale mutamento del sistema dei valori e
delle istituzioni politiche che lo rappresentano richiede per
Huntington un periodo di tempo compatibile con la capacità e
possibilità che il sistema politico ha di amministrarlo, adattandosi
ai cambiamenti che lo sviluppo socio-economico ha nel
frattempo indotto all’interno della società54.
E’ pertanto necessario che i vari aspetti dello sviluppo
politico si presentino in maniera “sequenziale”55, cioè in modo
graduale; gradualità assicurata solo dallo sviluppo di istituzioni
politiche capaci di rendere le dinamiche suscitate dai processi di
52
“The rates of change in the social, economic, cultural, and political components of
modernization clearly have important implications for political institutions, processes,
and participation” (op.cit., p. 15)
53
“For instance, in late developers as compared with early developers: (a) the state
normally plays a more important and more coercive role in the process of
industrialization; (b) the bourgeosie is likely to be weaker and hence, according to some
theories, democracy is less likely to emerge; (c) exogenous influences on political
development are likely to be more important; (d) rates of social mobilization are likely to
be high compared with rates of industrialization; (e) overall rates of socioeconomic
change are likely to be higher and hence social tension sharpened; (f) in part as a result
of these earlier factors, mass participation in politics is broader and popular demands on
the political system more intense in comparison with the level of economic development
and political institutionalization; and (g) in part as a consequence, violence and
instability are more likely to be prevalent…) (ibidem)
54
“Rapid rates of socioeconomic change are more likely than slower rates to lead to
social conflict and political disruption. Substantial changes in political values and
institutions normally require substantial periods of time, and hence adaptation of the
political system may lag behind broader changes in society” (ibidem)
55
“The extent to which various aspects and steps in development occur sequentially or
simultaneously is also of paramount importance: the appearance of problems or crises
sequentially is likely to promote peaceful change, stable government, and more
democratic institutions; the simultaneous appearance of problems or crises is likely to
“overload” the political system, producing sharp cleavages, violence, and repression”
(op.cit., p. 15)
36
modernizzazione compatibili con gli assetti dell’ordinamento
socio-politico56.
1.1.2 Gli effetti della modernizzazione socio-economica sulla
cultura politica
Huntington definisce la cultura politica di una società
come l’insieme delle “credenze empiriche riguardo i simboli e i
valori empirici espressivi e altri orientamenti dei membri della
società verso gli oggetti politici”, nonché il “prodotto della storia
collettiva di un sistema politico e della storia individuale di
coloro
che
hanno
creato
effettivamente
il
sistema…
(incorporando) i valori politici centrali di una società”57.
La cultura politica viene perciò considerata dal
politologo americano come un sistema di valori in grado di
costituire i ruoli che definiscono i comportamenti politici di una
collettività: per meglio dire, la fonte di legittimazione che ne
determina l’agire politico compatibilmente con la struttura del
56
La “difesa di ogni sistema di istituzioni di fronte ad una sfida posta alle fondamenta di
esso deve essere formulata in termini di logica di conservazione, di inviolabilità e di
necessità delle istituzioni a prescindere dal livello di corrispondenza al carattere
prescrittivo di una qualunque filosofia ideazionale. La forza sociale che intende sfidare
le istituzioni deve rappresentare un evidente ed effettivo pericolo per le
istituzioni…Secondo la definizione di Mannheim, il conservatorismo “diviene
consapevole e auto-riflettente quando appaiono sulla scena altri e differenti modelli di
vita e di pensiero, contro i quali esso è chiamato ad imbracciare le armi nella disfida
ideologica” (S.P. Huntington, “Il conservatorismo come ideologia”, in American
Political Science Review, vol. 51, 1957, trad.it. in C. Mongardini, Maria L. Maniscalco,
Il pensiero conservatore. Interpretazioni, giustificazioni e critiche, Franco Angeli,
Milano, 1999, p. 173)
57
“The political culture of a society consists of the empirical about expressive political
symbols and values and other orientations of the members of the society toward political
objects. It is the product of the collective history of a political system and the life
histories of individuals who corrently make up the system. It is rooted both in public
events and private experiences and in bodies a society’s central political values” (S.P.
Huntington, J.I. Dominguez, Political Development, cit., pp. 15-16)
37
suo ordinamento. Ed è proprio provocando l’instabilità del
rapporto tra valori culturali e struttura politica che la
modernizzazione socio-economica innesta un cambiamento nella
cultura politica58.
La modernizzazione trasformerebbe, cioè, la cultura di
un ordinamento, intervenendo sull’identità politica, vale a dire
sulla capacità dei singoli individui di considerarsi parte integrante
di una collettività59, sulla fiducia che essi nutrono nei confronti
degli altri appartenenti alla medesima collettività, sulla loro
capacità di associarsi60 e infine sulla loro convinzione di poter
partecipare
attivamente
all’
elaborazione
della
politica
nazionale61.
Cultura e struttura politica risultano congruenti, per
Huntington, soprattutto in presenza di un alto grado di
compatibilità tra ruoli e strutture sociali da un lato e valori
politici del sistema dall’altro62. Tant’è vero che per lo studioso
americano è il legame tra i valori e le strutture del sistema a
impedire, attraverso meccanismi di controllo, interiorizzati da
58
“Change in political culture arises out of instability between central values and
structures” (op.cit., p. 29)
59
“The most crucial political belief for political modernization is political identity: the
extent to which individuals consider themselves unambiguous members of a given
nation” (op.cit., p. 32)
60
“A second requisite is the ability to trust one’s fellow citizens and to work with them.
The capacity to trust has been described in many forms” (ibidem)
61
“Thirdly, individuals must believe that they can have an impact on politics and
government, that they can and should participate actively to do so, and that the output of
government – as a result of their and other people’s inputs – has relevance for their own
lives. A modern political system requires the active legitimation of its acts by its citizens
and the ability to reach them authoritatively and with significant impact” (ibidem)
62
“Political culture and political structures are congruent when there is a high degree of
compatibility between political roles and structures on the one hand, and the central
political values of the system on the other…The individual can use the available political
opportunities with adequate gratification and can accept demands with minimal pain and
anxiety. When demands exist they are kept from becoming disruptive by control
mechanisms (governement, civic organizations, churches, etc.) that the individual
perceives as legitimate. Political cognition must be accurate, and affect to and avaluation
of political roles and structures must be positive”(op.cit., pp. 16-17)
38
gruppi e individui, che le domande rivolte al sistema politico
possano determinare problemi di governabilità.
Il teorico americano distingue le culture politiche in
riceventi (recipient political cultures), in quanto subiscono un
cambiamento per opera di un altro sistema di valori, e donanti
(donor political cultures), ossia sistemi di valori che si
porrebbero e imporrebbero come fonti di legittimazione
alternative rispetto alla cultura politica vigente.
Le culture politiche riceventi si differenziano poi in
consumatrici e strumentali. Le culture consumatrici associano la
maggior parte delle relazioni sociali a una dimensione religiosa,
legando la gratificazione a valori trascendentali senza rilevare
alcuna visibile diversificazione fra sfera religiosa, culturale,
politica e scientifica, tendendo inoltre a resistere a tutti i
cambiamenti, ovvero trasformandosi totalmente e rapidamente
quando tutto risulti essere sul punto di cambiare.
Viceversa le culture strumentali non valutano la condotta
sociale in termini di significati trascendentali, derivando la
gratificazione sociale da un immediato fine pratico raggiunto da
un atto. Le culture strumentali sono di fatto più sensibili ai
mutamenti adattati e reinterpretati in funzione delle strutture
politiche vigenti63, e più disposte ad un cambiamento sequenziale
63
“Political cultures can be classified as consummatory or instrumental according to
their response to cultural change, including but not limited to acculturation.
Consummatory cultures link most social relationship with the religious sphere and
ascribe religious meanings or value to most behavior patterns. Instrumental cultures do
not evalutate social conduct in terms of wider, transcendental meanings but only in terms
of more narrow and particular ones. Gratification in consummatory cultures follows
from the transcendental values associated with and act; gratification in instrumental
cultures follows from the immediate practical ends achieved by the act. In an
instrumental culture there are tendencies toward differentiation among the religious,
cultural, political, economic, and scientific spheres; in consummatory cultures there is
little in any differentiation among these spheres. Acculturation through syncretism is
likely to proceed in a gradual and orderly fashion in instrumental cultures that are
confronted with European culture; consummatory cultures, on the other hand, will either
39
che, rispetto a quelle consumatrici, le rendono, per Huntington,
meno esposte al rischio di una crisi strutturale dell’ordinamento
politico6465.
Le
culture
politiche
donanti
si
strutturano
in
agglomeranti e assimilative. La cultura politica agglomerante66 è
corporativa e gerarchica e quando stabilisce delle relazioni con
una cultura diversa impone relazioni superordinate e subordinate
all’interno di un nuovo contesto gerarchico67.
resist all change (a change in one sphere is very threatening because it affects everything
else) or, when they change, change totally and rapidly: They may reappear, therefore, in
revolutionary form. Instrumental cultures can perceive localized similarities with other
cultures and can reinterpret and adopt them; consummatory cultures are much less
capable of following the syncretic route ” (op.cit., pp. 18-19)
64
“The inability to engage in instrumental, syncretic change leads to resistence and often
to breakdown” (op.cit., p. 21)
65
“There are also, therefore, mixed cultures – partly instrumental, partly consummatory”
(op.cit., p. 19)
66
“There are two main patterns of reponse: agglomerative and assimilative. The
agglomerative political culture is corporative and hierarchical; when it encounters a
different culture, it proceeds to establish superordinate and subordinate relationships
within a new single hierarchical context. Everyone’s basic humanity is asserted in
various degrees; groups within the new hierarchy have indipendently defined privileges
and jurisdictions which are protected by the general system, no matter how lowly the
groups may be” (op.cit., p. 22)
67
“Agglomerative patterns can be generalized beyond cases of acculturation: in
traditional agglomerative cultures, change is slow, but continuous, and proceeds
according to the norms of sanskritization. Sanskritization in India is the process by
which a low Hindu caste or tribal or other group changes its customs, ritual, ideology,
and way of life in the direction of a higher and, frequently, “twice-born” caste……As a
general process, sanskritization has eight major charactericstics… 1. Groups and strata
have well-defined traditional rights and prohibitions, at least at the local level, which
encompass most or all aspects of social life. 2. Mobility that results from sanskritization
is in no sense a “new” pattern of behavior dependent on modernization. 3. The political
system makes the process possible and plays a crucial legitimating role. 4. The upwardly
mobile take on the traditional perquisites of hight-status groups in the system. The
structure of the system remains unaffected. Change is positional, not structural. 5.
Mobility occurs in reponse to local conditions, challenges, and opportunities. It is a
local, not a national or systemwide, group or stratum that is positionally mobile. The
positional change process is fragmented. 6. It has mixed goals. The claim to higher
status relies on a restored recognition of alleged ancestral high status; as such it looks to
the past. But in terms of actual social relations it seeks to adjust real relations with other
groups; as such it looks to the present and the future. 7. The process is essentially an
exchange of one kind of status for another. Though it may lead to more wealth and there
may be some bribery, the process does not depend on the legal public purchase of higher
status. 8. The behavior depends on organization. It is a group, not an individual, process;
the society has established procedures that can be seized on to press the claims” (op.cit.,
pp. 25-26)
40
La cultura assimilativa è invece egualitaria, legittimando
un ordinamento con poche differenziazioni sociali68.
Lo studioso statunitense sostiene anche che l’interazione
non si svolge soltanto fra due culture prese nel loro insieme, ma
anche fra il sistema di valori di una cultura politica e
“frammenti” del sistema di un’altra che, “staccatisi” da una
qualsiasi cultura donante, tracciano sentieri diversi da quelli della
cultura d’origine.
I mutamenti di una cultura politica sono anche il frutto di
una forte e costante mobilità sociale. Per mobilità sociale
Huntington
intende
“il
processo
per
cui
i
maggiori
raggruppamenti dei vecchi valori sociali, economici e psicologici
vengono erosi e le persone diventano disponibili ad acquisire
nuovi modelli di socializzazione e di comportamento, rendendosi
più consapevoli del governo e della politica. Perciò più aspetti
della cultura tendono a diventare politicizzati”69.
In tale prospettiva, la scolarizzazione è vista come la
possibilità di acquisire, ampliare e consolidare le proprie
conoscenze, costituendo un’ importante fonte di cambiamento
delle culture politiche.
Non solo, ma modificando i valori politici centrali di una
cultura,
la
mobilità,
sollecitata
da
un’estensione
della
scolarizzazione superiore può condurre alla nascita di nuovi
soggetti culturali pronti per nuove esperienze politiche, più aperti
68
“The assimilative political culture is egalitarian; consequently, when it encounters
persons of a different culture it must either accept or reject their humanity. There are few
gradations of rank and privilege in the new context: one either is a member of the
society, with full rights and privilege, or is denied membership altogether”(op.cit., p. 22)
69
“the process by which major clusters of old social, economic, and psychological
commitments are eroded or broken and people become available for new patterns of
socialization and behavior. Social mobilization makes a people for more aware of
government and politics. Therefore more aspects of the culture tend to become
politicized” (op.cit., p.27)
41
verso l’innovazione e il cambiamento e più convinti infine che le
istituzioni possano essere poste nella condizione di assolvere i
loro obblighi e le loro responsabilità70.
1.1.3 La centralità delle istituzioni politiche nell’analisi delle
trasformazioni indotte dalla modernizzazione socio-economica
Secondo Huntington, la modernizzazione tende ad
accompagnarsi a forme di istituzionalizzazione politica, ossia
all’elaborazione di procedure71
in grado
di rendere
le
trasformazioni indotte dallo sviluppo funzionali agli assetti
dominanti di un ordinamento politico.
Nello studio delle dinamiche della modernizzazione le
istituzioni politiche rivestono dunque un ruolo chiave per
comprendere le modalità attraverso cui gestirle, senza provocare
cambiamenti radicali e irreversibili delle strutture di un
ordinamento.
L’osservazione delle dinamiche istituzionali implica tre
dimensioni: il livello di istituzionalizzazione delle organizzazioni
e delle procedure, cioè la loro capacità di interpretare e
funzionalizzare i mutamenti socio-economici; il grado di
modernità o di tradizione del sistema politico chiamato a gestire
le problematiche dello sviluppo; la misura in cui le istituzioni del
70
“In sum, modern political man, according to Inkeles, is identified with and allegiant to
leaders and organizations that transcend the parochial and primordial. He is interested in
and informed about public affairs. He participates in politics. He is positively oriented
and knowledgeable about recognizable political and governmental processes, and he
accepts a rational structure of rules and regulations as desirable. Modern political man is
politically active, involved, and rational” (op.cit., p. 28)
71
“Politics – that is, deciding who gets what, when, and how for a society – often, but
not always, takes place through formal organizations and procedures. To the extent that
these organizations and procedures become stable, recurring, and valued patterns of
behavior, they become political institutions” (op.cit., p. 47)
42
sistema tendono alla concentrazione o alla ripartizione del potere
all’interno dell’ordinamento72.
L’incognita più rilevante della modernizzazione è data
dal livello di partecipazione politica suscitato che il sistema
politico deve essere in grado di rendere compatibile con gli
assetti della società.
Pertanto le istituzioni politiche sono chiamate a
interpretare le trasformazioni prodotte dalla modernizzazione,
adattandovisi
in
coincidenza
con
l’espandersi
della
partecipazione politica73.
Huntington distingue tre istituzioni tipiche di un
ordinamento politico: istituzioni di governo, che costituiscono
essenzialmente, ma non solo, il “potere esecutivo” all’interno di
un ordinamento politico, ricomprendenti anche organizzazioni
politiche che vi partecipano senza farne ufficialmente parte;
istituzioni partecipative, che elaborano le regole e le forme della
partecipazione all’organizzazione e alla gestione del potere
politico, garantendone il legame funzionale con le strutture
portanti
dell’ordinamento;
istituzioni
amministrative,
che
72
“In analyzing the relations between political institutions and socioeconomic
modernization, three dimensions of the former are of critical importance. 1. The level of
institutionalization of the organizations and procedures. This can measured in terms of
their adaptability, autonomy, complexity, and coherence…2. The degree of modernityor
tradition of the organization, procedure, or political system. Modern political system
differ from traditional ones in their (a) bases of legitimacy and nature of governing
authority, (b) scope and nature of arrangements for political participation (input
institutions), and (c) scope and complexity of bureaucracy (output institutions) 3. The
extent to which the institutions provide for concentration or pluralism in the distribution
of power. Traditional political systems differ from modern systems in the amount of
power in the system; in each, however, the power that exists can be concentrated or
dispersed. A democratic political system is one in which there is a large amount of
power (broad participation in politics) and in which power is also dispersed rather than
concentrated” (ibidem)
73
“In fact, modernization often expands political participation more rapidly than it leads
to the development of modern participatory political institutions. This procedures a
praetorian condition of disorder, violence, and the lack of legitimate political procedures
for resolving political issues. Political instability is the likely political fruit of
socioeconomic modernization” (op.cit., p. 48)
43
garantiscono l’applicazione in seno all’ordinamento sociopolitico delle decisioni adottate 74.
Il politologo di Harvard distingue inoltre tre differenti
fonti di legittimazione di un sistema politico. Abbiamo così una
legittimità elettorale, in cui i rapporti di dominio di un
ordinamento politico ottengono obbedienza in quanto selezionati
tramite un procedimento elettorale libero e competitivo; una
legittimità rivoluzionaria, i cui vincoli devono essere rispettati in
quanto costituiscono lo strumento per creare un ordine sociale
migliore; e infine una legittimità nazionalista in base alla quale le
istituzioni
di
un
ordinamento
incarnano
l’identità
e
l’indipendenza di una collettività nazionale75.
Ognuna delle fonti di legittimità descritte implica poi un
diverso tipo di istituzioni di governo. La legittimità elettorale
presuppone un sistema elettorale e partiti politici competitivi;
quella rivoluzionaria, un sistema ideologico ben sviluppato,
portavoce del quale è il partito dominante; mentre la legittimità
nazionalista presenta aspetti che sono propri sia della legittimità
elettorale che di quella rivoluzionaria76.
74
“In some instances, however, mdernization can lead to the creation of modern political
institutions by the adaptation of traditional ones or the generation of new institutions out
of a revolutionary process. In general the emergence of a modern society functionally
requires the rationalizationj of authority, the expansion of political participation, and the
differentiation of structures. In institutional terms this means the development of (a)
governing institutions that embody new sources of legitimacy, (b) participatory
institutions that provide channels for relating the newly participant groups to the
governing institutions, and (c) bureaucratic institutions that provide structures for the
discharge of those administrative functions that modern society requires of its political
system”, (op.cit., p. 48-49)
75
“The commonly accepted sources of legitimacy in modern societies are electoral,
revolutionary, and nationalist. According to the first, governments are to be obeyed
because they have been selected by popular vote throught a reasonably open and
competitive electoral process. According to the second, governments are to be obeyed
because they embody the will of one community (usually ethnic and linguistic) of people
to assert their separate identity and establish their indipendence from control by the
agents of other communities of people” (op.cit., p. 49)
76
“Each of these three sources of legitimacy implies distinctive types of governing
institutions. Electoral legitimacy requires an electoral system and, usually, competitive
44
Le istituzioni sono oltretutto lo strumento principale con
cui un sistema politico capta le trasformazioni determinate dalla
modernizzazione, cercando di adeguarvisi.
In un primo momento, dinanzi ai cambiamenti indotti
dallo sviluppo socio-economico, il sistema istituzionale avverte
di fatto il bisogno di rompere le procedure tradizionali per
avviare riforme modernizzanti al fine di razionalizzarsi e
sviluppare un’efficiente burocrazia. Le riforme promosse
comportano in tal modo la crescita della coscienza politica e
sociale tra gruppi esistenti e gruppi emergenti.
Successivamente le istituzioni puntano a rendere la
coscienza politica e sociale dei gruppi compatibile con i rapporti
di dominio che reggono l’ordinamento politico, divenendo,
infine, più disponibili ai bisogni e alle domande dei gruppi,
mediante la negoziazione e redistribuzione del potere all’interno
dell’ordinamento77. Comunque sia, ciò avviene anche mediante
un’estensione
del
controllo
delle
istituzioni
governative
all’economia, alle risorse disponibili, alla produzione, alle risorse
finanziarie e a quella militare della società78.
political parties. Revolutionary legitimacy usually requires a well-developed ideology,
the carrier of which is the dominant political party in the system. The institutions for
nationalist legitimacy are less distinct, and this legitimacy is often combined with
electoral or revolutionary legitimacy” (ibidem)
77
“In a very general sense modernization poses, more or less in sequence, three major
challenges to political systems…In the first phase the need exists to break down
traditional institutions and practices and to inagurate modernizing reforms designed to
razionalize and secularize the system of authority, to develop an efficient bureaucracy
and military force, to equalize the relations of citizens to government, and to extend the
effective reach of the state…In a second phase, consequently, the major challenge to the
political system is to extend its scope so as to relate these groups to the system…In a
third phase these patterns of influence tend to become more reciprocal, and a dispersion
of power takes place as the political system becomes more responsive to the needs and
demands of those groups newly incorporated into it” (op.cit., p. 53)
78
“The expansion of governmental functions and of the bureaucracies to perform them
usually takes place in five areas. 1. Regulative. The government extends its controls over
the economy, particularly as the economy becomes less agricultural and more
commercial and industrial…2. Distributive. In due course the gouvernment not only
regulates the activities of others but also plays a significant role in distributing benefits
45
Quando il sistema politico non risulta più in grado di
istituzionalizzare le dinamiche politico-sociali, prodotte dalle
trasformazioni
economiche,
si
verifica
una
“crisi
nella
modernizzazione”79 di cui altri singoli e i gruppi si faranno
interpreti.
Al contrario, i sistemi che riescono ad assorbire gli
impulsi modernizzatori tendono ad avere maggiori tassi di
crescita, fermo restando, secondo Huntington, che “società con
meno istituzioni politiche democratiche tendono ad avere
maggiori tassi complessivi di crescita economica rispetto a
società con maggiori istituzioni politiche democratiche”80.
1.2 La crescita della partecipazione politica come
conseguenza della modernizzazione socio-economica
“La partecipazione politica può essere definita in vari
modi. Il termine è qui usato per riferirsi all’attività di privati
cittadini destinata ad influenzare il potere decisionale del
governo…essa comprende …tutti gli sforzi…leciti o illeciti,
violenti o pacifici, con esito positivo o negativo. Inoltre essa non
comprende solo attività programmate dal singolo per influenzare
directly through transfer payments and by other means…3. Productive. In varying
degrees governments undertake to perform productive functions in the economy…4.
Extractive. To carry out their other functions governments have to increase their ability
to remove money, resources, and, at times, labor from the society…5. Protective. The
defense and war-making capabilities of governments often increase in conjunction with
but at a faster rate than the economic development of their societies” (op.cit., p. 52)
79
“Crises in political modernization occur when the development of society imposes
new demands on political institutions which those institutions are unable to meet”
(ibidem)
46
il potere decisionale del governo, ma anche attività programmate
da qualcun altro”81.
La modernizzazione socio-economica comporta “una
maggiore partecipazione politica dei gruppi sociali in tutta la
società”; e “l’accresciuta partecipazione politica può accrescere il
controllo del popolo da parte del governo, come negli stati
totalitari, o il controllo del governo da parte del popolo, come in
certi stati democratici”82.
Huntington distingue così la partecipazione politica in
partecipazione autonoma, cioè condotta dal singolo individuo, e
partecipazione mobilitata, ossia organizzata dai gruppi83.
Gli strumenti della partecipazione politica includono il
voto e altre attività elettorali, attività lobbistiche individuali e
collettive, e azioni violente. Ma la partecipazione politica in
grado di produrre duraturi e migliori risultati, è quella
organizzata dall’attività di un gruppo sulla base dell’appartenenza
a un sistema di bisogni e di valori che possa identificarsi con una
classe sociale, con un gruppo locale, con i rapporti di vicinato o
con un partito politico.
Le ragioni per cui lo sviluppo socio-economico accresce
la
partecipazione
politica
vanno
ricercate
innanzitutto
nell’espandersi della conoscenza scolastica di tipo superiore, da
cui consegue una crescita dello status sociale e della coscienza
80
“Societies with less democratic political institutions tend to have higher overall rates
of economic growth than societies with more democratic political institutions” (op.cit.,
p. 59)
81
“Political participation may be defined in various ways. The term is here used to refer
to the activity of private citizens designed to influence government decisionmaking…it…includes all efforts…legal or illegal, violent or peaceful, successful or
unsuccessful. Moreover it also includes not only activity designed by the actor him or
herself to influence governmental decision-making but also activity designed by
someone other” (op.cit., p. 33)
82
Cfr. S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 48
47
politica di settori sempre più consistenti della popolazione: più
persone
studiano
e
hanno
la
possibilità
di
migliorare
finanziariamente, maggiore é per Huntington il bisogno di
partecipare all’attività politica al fine di condizionare il governo
della società84.
La modernizzazione estende poi la partecipazione
politica moltiplicando le organizzazioni in grado di coinvolgere
un numero sempre maggiore di individui85. Un’organizzazione, e
in primo luogo un partito politico, sviluppando e consolidando la
coscienza politica dei suoi appartenenti, contribuisce a produrre
alti livelli di coinvolgimento organizzativo e quindi di
partecipazione politica86.
L’emergere di un crescente numero di gruppi, dovuto
appunto alla modernizzazione, può provocare anche forti tensioni
tra gli stessi, contribuendo ad intensificare il conflitto sociale 87.
Infatti, mentre i nuovi gruppi minacciano l’egemonia di altri già
da tempo stabilizzatisi, collettivi di livello sociale più basso
83
“The former may be termed autonomous participation, the latter mobilized
participation” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political Development, cit., p. 33)
84
“Why do status variables tend to produce greater political participation? The
overwhelming evidence from a variety of studies indicates that high status is associated
with feelings of political efficacy and competence and that those who feel politically
efficacious are much more likely to participate in politics than those who do not. The
status variables, in short, are relatede to participation through attitudinal variables”
(op.cit., p. 34)
85
“Socioeconomic develpoment also promotes political participation because it leads to
a multiplication of organizations and associations and the involvement of larger numbers
of people in such groups” (op.cit., p. 35)
86
“In societies in which another factor may be responsible for organizational
involvement, that variable may tend to counterbalance the effects of social status on
political participation. Class or group consciousness may produce high levels of
organizational involvement and of political participation” (op.cit., p. 36) .
87
“Economic and social modernization produces tensions and strains among social
groups, new groups emerge, established groups are thereatened, lowstatus groups seize
opportunities to improve their lot. As a result conflict multiply between social classes,
regions, and communal groups. Social conflict intensifies and, in some cases, virtually
creates group consciousness, which in turn leads to collettive action by the group to
develop and protect its claims vis-à-vis other groups. The group, in short, is forced to
turn to politics” (op.cit., p. 37)
48
cercano invece di migliorare le loro condizioni a danno delle
élites che detengono il potere politico ed economico.
Questi processi possono imporre “effetti di integrazione e
di disintegrazione del sistema sociale88”. Pertanto, per il
politologo americano, più che una tensione alla competitività vi è
spesso “erosione della democrazia” e tendenza a regimi
autocratici e a partito unico”, così come, invece della stabilità
“continui colpi di stato e rivolte”89. Ma il grado di instabilità
politica è anche correlato al grado di modernizzazione90; più
rapida è quest’ultima, maggiore il livello di instabilità politicosociale91.
Ma un’eccesso di partecipazione e di instabilità sociale
possono provocare anche l’affievolirsi dell’efficacia politica della
stessa. In tal modo le ampie opportunità di mobilità sociale, frutto
della modernizzazione, tendono a ridurre invece che a incentivare
la partecipazione politica, aprendo occasioni più attraenti verso
altri obiettivi che non siano quelli del prender parte alla gestione
del potere92.
Comunque, nella maggior parte dei casi, lo sviluppo
socio-economico tende, secondo Huntington, ad aumentare
88
“In certa misura la modernizzazione sociale è un dato di fatto in Asia, in Africa e in
America Latina: l’urbanizzazione procede rapidamente, si verifica un lento incremento
dell’alfabetizzazione, c’è una spinta all’industrializzazione; il prodotto nazionale lordo
pro capite progredisce gradualmente; la circolazione dei mezzi di comunicazione di
massa è in espansione. Tutto ciò è una realtà. Per contro, i progressi verso molti degli
altri obiettivi che ricercatori hanno identificato con la modernizzazione politica, la
democrazia, la stabilità, la differenziazione strutturale, i modelli acquisitivi,
l’integrazione nazionale – nella migliore delle ipotesi sono spesso dubbi. Tuttavia c’è la
tendenza a ritenere che dal momento che si verifica un processo di modernizzazione
sociale, debba necessariamente intervenire un processo di modernizzazione politica”
(S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 48)
89
ibidem
90
op.cit., pp. 56-57
91
Cfr. S.P. Huntington, Gli Stati Uniti, in S.P. Huntington, M. Crozier, J. Watanuki, cit.,
p. 85
49
anziché ridurre la coscienza individuale e di gruppo e la
partecipazione politica dei singoli attraverso i gruppi.
Oltre al resto, la modernizzazione fa dei gruppi la base
per la partecipazione politica93. Essi possono di conseguenza
renderla funzionale ai rapporti di dominio dell’ordinamento
oppure incanalarla in direzione di una ristrutturazione degli stessi
sulla base di fonti di legittimità alternative a quelle vigenti.
Il
politologo
americano
sostiene
infine
che
la
strutturazione della politica su basi comunali produce livelli più
alti di partecipazione politica, rispetto ad una strutturazione
politica di tipo classista funzionale invece ai processi di
istituzionalizzazione. Non solo, ma l’articolazione della politica
su basi comunali può contribuire ad accrescere anche
l’antagonismo e la violenza dei gruppi, determinando alcune serie
minacce per l’intero ordinamento politico-sociale.
A causa di ciò “i governi possono tentare di ridurre sia la
partecipazione politica sia l’ostilità dei gruppi comunali a causa
della stretta relazione tra le due cose”94.
1.2.1 La crescita della partecipazione politica nel passaggio dalla
società industriale alla società postindustriale
In un articolo, apparso sulla Rivista Italiana di Scienza
Politica nel 197495, Huntington forniva un’analisi della politica
92
“More generally, in Hirschman’s terms, the multiplication of the opportunities for and
incentives to “exit” reduces the probability that people will resort to “voice” (Hirschman,
1970)” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political Development, cit., p. 43)
93
cfr. op.cit.., p. 46
94
“governments may attempt to reduce both political participation and communal group
hostility because of the close relationship between the two” (ibidem)
50
statunitense in termini di transizione dalla società industriale alla
società post-industriale. La sua analisi ravvisava in questa
transizione i caratteri di una vera e propria modernizzazione con
tutti i possibili risvolti per le strutture dell’ordinamento sociale e
politico.
Huntington affermava che la transizione dalla società
industriale a una postindustriale stava avvenendo, durante gli
anni ’70, attraverso sei “soglie critiche di separazione”
consistenti:
a)
nello
spostamento
da
un’
economia
prevalentemente industriale a un’economia in cui avrebbero
predominato i servizi; b) nell’aumento del numero degli
impiegati e riduzione di quello degli operai; c) nella crescita del
livello di istruzione scolastica; d) in un numero sempre maggiore
di persone che frequentavano l’Università; e) nell’incremento
della proporzione del prodotto nazionale impiegata nella ricerca e
nello sviluppo; f) infine, nello spostamento di residenza della
popolazione96.
Il superamento di queste “soglie critiche di separazione”
avrebbe condotto gli abitanti dell’occidente capitalistico, in
particolar modo negli Stati Uniti, ad un più elevato status socioeconomico, a una maggiore complessità organizzativa e a
un’accresciuta partecipazione politica. Oltretutto tra le variabili
di status, l’istruzione sarebbe stata quella che ha avuto maggior
peso: “nella società post-industriale i livelli di istruzione saranno
molto più alti, una notevole porzione di popolazione avrà
95
S.P. Huntington, La politica nella società post-industriale, in “Rivista Italiana di
Scienza Politica”, I, Il Mulino, Bologna, 1974
96
op.cit., p.141
51
frequentato l’Università e un’enorme maggioranza avrà un
diploma di scuola superiore”97.
In seguito l’espandersi della cultura avrebbe dato come
risultato una partecipazione e un interesse troppo grandi, che a
loro volta avrebbero portato ad una situazione di stasi politica.
Perciò nella società post-industriale, a fronte di un rapido
e radicale rinnovamento delle strutture socio-economiche, il
sistema politico si sarebbe trovato a dover gestire la
partecipazione politica in un contesto molto più complesso
rispetto a quello della società industriale; contesto in cui il livello
intellettuale e tecnologico avrebbe condotto ad una crescita
esponenziale della domanda politica, cui le élites dirigenti non
sarebbero state più in grado di far fronte tramite appropriate
procedure di istituzionalizzazione.
Questa situazione era per Huntington ancora più grave
dato
che
il
partito
istituzionalizzazione
politico,
nell’ambito
principale
della
strumento
società
di
industriale,
sembrava “sull’orlo del disfacimento istituzionale politico” 98.
Se inoltre la relazione tra status e partecipazione politica
fosse restata invariata, soprattutto negli Stati Uniti, i livelli di
partecipazione politica avrebbero continuato a salire in modo
significativo, con il pericolo, in assenza di procedure di
istituzionalizzazione appropriate, di disordini e di violenze99.
“Privati di procedure istituzionalizzate e senza un
accordo sulla legittimità di tali procedure” non sarebbe stato
affatto inverosimile che i gruppi sociali venutisi a formare,
avrebbero agito “ciascuno per proprio conto e con le proprie armi
97
ibidem
op.cit., pp. 144-147
99
ibidem
98
52
politiche”100, così come era avvenuto nel corso delle prime fasi
della transizione al sistema industriale.
L’aumento della partecipazione politica aveva inoltre per
conseguenza tre “linee fondamentali di frattura”101: sociale,
istituzionale e ideologica.
La “frattura sociale” si sarebbe potuta produrre lungo tre
diverse traiettorie: “tra forze sociali in declino e forze in ascesa,
all’interno delle forze in declino e infine all’interno delle forze
emergenti”102; tra gli abitanti delle città, alleati con gli operai e
“le forze sociali delle categorie impiegatizie e delle periferie
residenziali in via di espansione”; tra “impiegati del settore
pubblico e impiegati del settore privato. I primi vorranno aumenti
di paga e altri benefici economici, i secondi non vorranno essere
loro a pagarli attraverso una tassazione più elevata. L’interazione
tra proprietari e lavoratori nel settore privato della società
industriale potrebbe così ripetersi nella interazione tra impiegati
della burocrazia e impiegati contribuenti nella società postindustriale. Questo conflitto sottoporrà a enorme tensione i
leaders politici a tutti i livelli di governo. Per mezzo
dell’associazione in sindacati e di minacce di interruzioni nei
servizi essenziali, gli impiegati del settore pubblico (potranno)
esercitare pressioni e indurre o forzare i leaders politici a
soddisfare le loro richieste.”103
La “spaccatura istituzionale”, che avrebbe avuto “un
ruolo di primaria importanza politica”104, si sarebbe verificata
invece “tra burocrazia esecutiva e mezzi di informazione di
100
ibidem
op.cit., p. 148
102
ibidem
103
op.cit.., p. 151
104
op.cit.., p. 155
101
53
massa”. Infatti, precisava Huntington, il “Presidente (degli Stati
Uniti n.d.a.) e i suoi collaboratori alla Casa Bianca” si sono
trovati “di fronte alla necessità di usare i media per creare un
appoggio politico per sé stessi e per le loro scelte politiche e di
usare la burocrazia per metterle in atto”. Sarebbero nondimeno
stati posti “nella necessità di controbilanciare sia la forza della
burocrazia che quella dei media i quali” avrebbero potuto agire
“nel proprio interesse in conflitto con gli interessi del Presidente
e della Presidenza”105.
Nella società postindustriale il potere sarebbe andato “ai
leaders politici” che avrebbero avuto accesso “ai mezzi
d’informazione”106,
costruendosi
un
“ascendente
sulla
burocrazia”; la “capacità di riuscire nel primo intento” avrebbe
stabilito quali élites sarebbero state chiamate a gestire il potere
politico in una società107.
Huntington sosteneva inoltre, a proposito del ruolo dei
mass-media, che, così come le “grandi società emerse dalla
transizione precedente si erano impadronite di una clausola del
Quattordicesimo Emendamento della Costituzione – il ‘due
process of law’ – per difendersi dal controllo del governo…nella
transizione
alla
società
postindustriale
i
mezzi
di
105
ibidem
Huntington notava inoltre come nei media vi fosse stata “una tendenza predominante
verso una ridefinizione del loro ruolo, da quello relativamente distaccato di “reporters” a
quello più impegnato di “modellatori” degli avvenimenti”. Ciò era “il risultato della
crescente influenza sia dei media che della buracrazia governativa…I media hanno
interresse a denunciare, criticare, sottolineare e incoraggiare il disaccordo e
l’insoddisfazione entro l’esecutivo, mentre i leaders dell’esecutivo hanno interesse alla
segretezza, alla gerarchia, alla disciplina, alla soppressione delle critiche. La funzione
della stampa e quella di allargare il dibattito e l’impegno politico, l’istinto naturale della
burocrazia è quello di limitarlo…Come gli industriali, la stampa identifica l’interesse
pubblico con il proprio interesse ed elabora interpretazioni della Costituzione per
promuoverlo” facendo quadrato “ intorno al “diritto di conoscere” (op.cit., p. 157)
107
op.cit., p. 155
106
54
d’informazione”108 avrebbero tentato “di sfruttare in modo simile
la clausola della “libertà di stampa” del Primo Emendamento”.
Però, così come “a suo tempo gli industriali furono
frenati dal potere controbilanciante del governo…a tempo
debito” anche “alla stampa (sarebbe toccato) un destino
analogo.”109.
La “frattura ideologica” avrebbe consentito da parte sua
“un
cambiamento
nell’ordine
d’importanza
dei
valori
fondamentali, come risultato del più alto tenore di vita e di una
maggiore diffusione della cultura”. Come conseguenza di queste
trasformazioni anche la classe media sarebbe diventata “radicale”
e “il movimento generale della società” si sarebbe indirizzato
“verso sinistra”110.
Infine, Huntington faceva notare come la società postindustriale, più che il prodotto di un determinato insieme di
“ideologie postindustriali”, appariva al contrario come “la
conseguenza di un insieme di processi sociali ed economici
sviluppatisi negli ultimi anni della società industriale, in un
periodo che fu considerato l’epitome della fine dell’ideologia”111.
108
ibidem
op.cit., p. 157
110
op.cit., p. 159
111
Le teorie sulla “fine dell’ideologia” emergono, riscuotendo un discreto successo,
durante gli anni ’60, trovando in Lipset, Bell e Marcuse i principali sostenitori.
Gli anni a cavallo fra i ’50 e i ’60 sono anni di straordinaria crescita economica che,
sotto la spinta delle logiche Keynesiane adottate a Bretton Wood (1944) e gli aiuti del
Piano Marshall (1948), sembrava dovesse dar luogo ad una più equa redistribuzione dei
redditi. Dopo le fortissime tensioni sociali dell’immediato dopoguerra, il movimento
operaio sembrava non volesse o dovesse più esprimere una visione alternativa al
capitalismo. La paura di un’imminente conflitto atomico, seppur viva e presente (crisi di
Berlino, 1961, ottobre Cubano, 1962), stava lentamente perdendo i tratti più irrazionali a
favore del raggiungimento di un vero e proprio “equilibrio” del terrore, fra le due
Superpotenze (USA e URSS).
Il confronto fra i due Blocchi si spostava sempre più dal piano militare a quello
tecnologico, dal Pentagono al MIT (Massachussets Institute of Technology); dopo le
imprese sovietiche dello Sputnik e di Y.Gagarin, gli USA investivano, infatti, numerosi
capitali nella ricerca scientifica e tecnologica che, nonostante fosse momentaneamente
confinata nei labirinti del settore bellico, mostrava all’uomo quali “sorti magnifiche e
109
55
La società postindustriale avrebbe potuto in tal modo
dare origine “a credenze e atteggiamenti politici e sociali che”
avrebbero potuto sfidare “molte delle stesse istituzioni” e tutto
ciò “avrebbe potuto indurre “qualcuno degli elementi più giovani
delle classi generate proprio dal postindustrialismo a ritirarsi
dalla società”, subentrando ad essi “i rampolli delle classi più
progressive” dovessero attenderlo in un futuro molto vicino. La rappresentazione del
mito consumistico dell’”American Way of life”, sostenuta dal “boom economico” che si
verificava in quegli anni, sembrava aver spazzato via ogni volontà anticapitalistica.
“L’America come modello, come rassegna e sistema di merci, come influenza politica,
come immagine veicolata dai mass-media…investe la vita, dal chewing-gum ai dischi,
sino allo sviluppo della motorizzazzione e alla TV" (U. Eco, La rinascita culturale
all’insegna dell’America, in O. Calabrese (a cura di), L’Italia moderna: immagini e
storia di un’identità nazionale, Electa, Milano 1983).
Quella che si presentava agli occhi degli analisti politici era dunque una società in cui la
fabbrica Fordista sembrava essersi radicata nelle coscienze politiche dei gruppi che
agivano all’interno dell’ ordinamento politico e sociale. Non si presentava ancora come
il migliore dei mondi possibile, ma si mostrava sicuramente come una società del
consenso ovvero come un perfetto paradigma capace, riproducendo tecnicamente ogni
cosa (cfr.W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,
Einaudi, 1955), di sussumere tutto ciò che le era alieno. E’ in questo contesto che si
inseriscono gli studi sulla “fine dell’ideologia”.
Inoltre la Sinistra sembrava oramai essersi assimilata alla Destra conservatrice nella
logica di gestione, e non più trasformazione, dell’ordine politico esistente. Il tentativo di
spiegare l’armonia politica imposta del capitalismo caratterizzava anche l’opera di H.
Marcuse (cfr. H. Marcuse, L’Uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1968). Per H.
Marcuse, lo straordinario sviluppo delle forze di produzione, la crescente concentrazione
del capitale, i radicali cambiamenti nella scienza e nella tecnologia, l’espansione della
burocrazia con la costituzione di enormi organizzazioni pubbliche e private, avevano
come conseguenza la spoliticizzazione, cioè l’eliminazione delle questioni politiche e
morali dalla vita pubblica a causa dell’ossessione per la tecnica, la produttività e
l’efficienza.
Infatti la spoliticizzazione non solo limitava fortemente l’agenda politica dei governanti,
indaffarati a garantire la produzione per il profitto in nome della crescita economica, ma
appariva anche come la diretta conseguenza della massificazione della ragione
strumentale, vale a dire della diffusione dell’interesse per l’efficienza di mezzi differenti
rispetto a fini pre-determinati. Questo stato di cose veniva rafforzato dai mass-media
che, distruggendo tutte le particolarità culturali insite in una collettività nazionale,
creavano una cultura unidimensionale, la cui conseguenza era il sorgere di una falsa
coscienza, cioè di uno stato di consapevolezza in cui la gente non prendeva più in
considerazione i suoi reali interessi e bisogni. Secondo H. Marcuse, nella società
capitalistica dei primi anni ’60 non si realizzava una semplice “fine della ideologia”, ma
un vero e proprio livellamento di tutti quei sistemi di valori, quindi di bisogni,
contrastanti con l’ideologia capitalistica, l’unica ad essere accettata e propugnata. In
questo contesto il vero soggetto rivoluzionario non era più rintracciato nella classe
operaia, oramai integrata nei meccanismi della società capitalistica moderna, ma nella
figura dell’emarginato che, escluso dalla società del consenso, poteva ancora svolgere
una funzione realmente rivoluzionaria.
56
povere, della classe lavoratrice e della bassa borghesia non
ancora assorbiti dal milieu postindustriale”.
Insomma “l’immaturità della gioventù”, in particolar
modo quella dei ceti medi, protagonista dei movimenti di
contestazione, rischiava, nel passaggio dalla società industriale a
quella post-industriale, di “determinare un infiltrarsi di tute blu
nell’establishment”112, con conseguenze destabilizzanti per
l’insieme dei rapporti di dominio vigenti.
112
S.P. Huntington, La politica nella società post-industriale, op.cit., p. 160
57
2. Sovraccarico e “processi di istituzionalizzazione
politica”
2.1 Modernizzazione e sovraccarico istituzionale
Come già evidenziato nel capitolo precedente, la
modernizzazione,
per
Huntington,
produce
degli
effetti
sull’intero ordinamento sociale, coinvolgendone la cultura, le
istituzioni
e le
modalità
attraverso
cui
si esprime la
partecipazione politica.
Nell’analisi dello studioso di Harvard viene inoltre posto
in evidenza come gli anni a cavallo fra la fine dei ’60 e la prima
metà dei ’70 del XX secolo fossero appunto anni di
modernizzazione sociale ed economica i cui effetti erano già
evidenti all’interno del panorama politico occidentale.
Questa modernizzazione che, per lo studioso americano,
avrebbe condotto dalla società industriale a quella postindustriale, richiedeva la predisposizione di adeguati processi di
“istituzionalizzazione” che dovevano rendere le dinamiche
compatibili con gli sviluppi del sistema politico.
58
I timori di Huntington erano legati alla crescita della
partecipazione politica “dei gruppi sociali in tutta la società” che,
conseguenza della modernizzazione, avrebbero potuto condurre
ad un “controllo del popolo da parte del governo, come negli stati
totalitari, o…(ad un) controllo del governo da parte del popolo,
come in certi stati democratici”113.
Abbiamo già visto nel precedente capitolo le ragioni per
cui lo sviluppo socio-economico comporta un aumento della
partecipazione politica (espandersi della conoscenza scolastica,
moltiplicazione delle organizzazioni in grado di coinvolgere un
numero sempre maggiore di individui). Si tratta ora di
considerare le possibili conseguenze, già in parte accennate, della
crescita della partecipazione al di là di un suo possibile controllo
istituzionalizzante.
Difatti la partecipazione politica, la cui crescita è per
Huntington direttamente proporzionale allo sviluppo socioeconomico, può determinare “effetti di integrazione e di
disintegrazione del sistema sociale” con una possibile “erosione
della democrazia e tendenza a regimi autocratici e a regimi a
partito unico”114.
L’erosione dell’ordinamento sociale e politico é dovuta
soprattutto a una eccessiva pressione, determinata da un
accumulo di domanda politica, cui il sistema non riuscirebbe più
a far fronte, a causa della quantità e qualità degli inputs cui è
sottoposto.
Come detto, Huntington non elabora una personale
definizione del concetto di sovraccarico. La definizione che,
comunque, le si avvicina più di tutte è quella fornitaci da Richard
113
S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 48
59
Rose: “Siamo in presenza di sovraccarichi quando le aspettative
popolari sono superiori alle risorse nazionali, alle capacità di
elaborazione del governo, all’impatto che gli outputs governativi
possono realizzare. Un tale sovraccarico deriva dalla decisione
dei cittadini di chiedere al governo più di quanto esso, nel suo
insieme, possa dare”115.
È possibile individuare nell’opera di Huntington due
diversi aspetti di sovraccarico: uno quantitativo, dovuto alla
distanza intercorrente tra domande e risorse nazionali, e l’altro
qualitativo, che chiama in causa le capacità di elaborazione del
governo, cioè tutti quei mezzi necessari per neutralizzare
aspettive alle quali il sistema non può dare un’adeguata risposta
senza dover mettere in discussione le sue stesse fondamenta. La
crisi da sovraccarico è dovuta pertanto dall’incontro fra l’aspetto
quantitativo e quello qualitativo, nonché dalla disposizione delle
domande che ne derivano lungo le articolazioni principali del
sistema politico.
In tal modo le istituzioni governative si troverebbero a
dover fronteggiare non solo una domanda quantitativamente
eccessiva, ma anche qualitativamente, tale da imporre una
risposta volta a mettere in discussione i rapporti di dominio di un
ordinamento.
Come impedire che
la modernizzazione politica,
accrescendo la partecipazione dei cittadini, possa condurre ad un
sovraccarico istituzionale ?
Qualora questo si realizzasse, come ostacolarne il
decorso nell’ambito dell’ordinamento stesso? Insomma, quali
114
115
ibidem
R.Rose, Risorse dei governi e sovraccarico di domande, op.cit.
60
criteri adottare per gestire la trasformazione degli assetti sociali,
politici ed economici dovuta alla modernizzazione?
L’obiettivo di Huntington è quello di fornire al sistema
politico gli strumenti per gestire ed “istituzionalizzare” la
modernizzazione ovvero, se ciò non fosse possibile, la crisi di
sovraccarico che ne deriverebbe, impedendole di innescare
dinamiche di “potenziale trasformazione” dell’ordinamento
socio-politico.
Questi interrogativi erano per Huntington tanto più
pressanti durante gli anni ’70, quando i rapidi processi di
modernizzazione, coincidenti con una drammatica congiuntura
economica,
stavano
producendo
un
elevato
livello
di
partecipazione che, soprattutto in Occidente, sembrava sul punto
di sfuggire al controllo del sistema politico, suscitandone una
crisi da sovraccarico, le cui potenzialità di trasformazione
dell’intero assetto socio-economico coincidevano con la presenza
di fonti di legittimazione alternative, legate alla presenza dei
partiti comunisti, in grado di dirigere le dinamiche della
modernizzazione verso una riorganizzazione dei rapporti di
dominio all’interno dei singoli ordinamenti, e dell’U.R.S.S. il cui
modello esercitava un forte richiamo per i paesi in via di sviluppo
sul piano internazionale.
2.1.1 Mobilitazione sociale e partecipazione politica come fonti
di sovraccarico istituzionale
Le principali fonti di sovraccarico istituzionale sono per
Huntington
le
seguenti:
la
mobilitazione
sociale,
la
61
partecipazione politica, le conseguenze dello sviluppo e la lotta
contro le diseguaglianze economiche. Fonti che, connesse l’una
all’altra,
condurrebbero
ad
una
crescita
della
“vitalità
democratica”, rendendo “il governo meno potente e più attivo”
con la conseguente crescita delle funzioni e riduzione della sua
attività116.
Il politologo di Harvard definisce mobilità sociale quel
processo mediante il quale tutto un sistema di valori si disgrega,
perdendo la propria egemonia all’interno dell’ordinamento
sociale, mentre le persone, alle quali si rivolgeva, divengono
disponibili a seguire nuovi modelli di comportamento e
socializzazione117.
“Il rapporto tra la mobilitazione e l’instabilità politica
sembra essere abbastanza diretto”. Infatti “l’urbanizzazione,
l’aumento dell’alfabetizzazione, l’educazione e le sollecitazioni
dei mezzi di comunicazione di massa”, elementi cioè che
favoriscono la mobilitazione sociale, danno “origine ad
accresciute aspirazioni e apettative che, se non soddisfatte
stimolano gli individui e i gruppi verso l’azione politica”118.
Dunque la mobilitazione sociale dei gruppi e dei singoli è
uno dei fattori principali del sovraccarico istituzionale e della
conseguente instabilità politica119. Essa costituisce a sua volta la
116
S.P. Huntington, Gli Stati Uniti, in S.P. Huntington, M.Crozier, J.Watanuki, op.cit., p.
75
117
“Social mobilization is the process by which major clusters of old social, economic,
and psychological commitments are eroded or broken and people become available for
new patterns of socialization and behavior” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political
Development, op.cit., p. 68)
118
S.P. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 59
119
Huntington delinea due modelli di stratificazione: sistemi sociali verticali o gerarchici
in cui la “mobilità politica e sociale è spesso bloccata da criteri di carattere ascrittivo”
(“In vertical, or hierarchical, structures social class stratification is synonimous with
ascriptive strata membership”) e sistemi orizzontali o paralleli nei quali “esistono
strutture parallele, ognuna con i suoi criteri di stratificazione di classe” (“In horizontal,
or parallel, systems parallel structures exist, each with its own criteria of social class
62
premessa alla crescita della partecipazione politica all’interno
delle società moderne, percorso principale “per l’avanzamento
degli individui socialmente mobilitati”120.
Quindi,
conclude
Huntington,
l’incremento
della
partecipazione, determinando instabilità politica, implica i
seguenti rapporti: lo sviluppo economico genera condizioni di
mobilità sociale da parte dei gruppi che a loro volta contribuisce
ad accrescere la partecipazione politica che, ove non sia resa
funzionale con le strutture dell’ordinamento, mediante appositi
processi di istituzionalizzazione, porta a un sovraccarico
istituzionale con la conseguente instabilità dell’intero sistema121.
2.1.2 Le conseguenze dello sviluppo economico sull’aumento
dell’instabilità politica
Un
rapido
sviluppo
economico
contribuisce
per
Huntington a incrementare il sovraccarico istituzionale: a)
favorendo la mobilitazione e la partecipazione politica, tramite la
disgregazione dei “raggruppamenti tradizionali”; b) accrescendo
stratification”). Per Huntington, pur essendo caratterizzati, i sistemi gerarchici, da una
maggiore coesione sociale rispetto a sistemi cosiddetti paralleli, possono purtuttavia
subire le conseguenze peggiori dalle conseguenze di un rapido processo di
modernizzazione socio-economica, in termini di delegittimazione dei suoi apparati di
governo fino all’estrema via d’uscita di una rivoluzione sociale: “Hierarchical systems,
therefore, may possess more ‘social cement’ and more normative justification than do
parallel systems. When the cement cracks, however, the result is typically a social
revolution. In parallel systems there is intermittent conflict but not necessarily of the
kind that may lead to major social transformations” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez,
Political Development, op.cit., p. 67)
120
“La base politica della ‘svolta sasistenziale’ (negli Stati Uniti) fu l’espandersi della
partecipazione politica e l’intensificarsi dell’impegno per modelli democratici e
egualitari esistenti negli anni 1960. I livelli di partecipazione politica alle campagne
elettorali si sono stabilizzati e sembrerebbe che le altre forme di partecipazione politica
si siano molto attenuate” (S.P. Huntington, Gli Stati Uniti, in S.P. Huntington,
M.Crozier, J.Watanuki, op.cit., p. 75)
63
il numero degli individui ‘déclassés’ che si troverebbero in tal
modo
in
una
situazione
di
propensione
alla
protesta
rivoluzionaria”; c) determinando la creazione di “nuovi ricchi che
solo parzialmente si adattano e vengono assimilati dall’ordine
esistente e che richiedono comunque potere politico e status
sociale commisurati alla loro nuova posizione economica”; d)
suscitando un incremento della mobilità geografica che a sua
volta minaccia “i legami sociali”, incoraggiando “rapidi flussi
migratori dalle aree rurali verso le città”.
Inoltre lo sviluppo economico aumenta il “numero di
persone con livello di vita in diminuzione”, ampliando per tanto
il divario tra ricchi e poveri, rendendo “necessaria una restrizione
generale del consumo per promuovere gli investimenti”.
I conflitti relativi alla distribuzione degli investimenti e
dei consumi risultano inoltre accentuati dalla diffusione
dell’istruzione e dei mezzi di comunicazione di massa, dato che
quest’ultimi comporterebbero un aumento122 della “capacità di
organizzazione dei gruppi sociali e conseguentemente della loro
forza rivendicativa nei confronti del governo”123
2.1.3 Diseguaglianza economica e sovraccarico istituzionale
Un’altra fonte di sovraccarico istituzionale è costituita
dalla diseguaglianza economica.
121
cfr.S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 69
“In America Latina ci sono stati più frequenti colpi di stato negli anni in cui si
registrava un peggioramento delle condizioni economiche, pittosto che in quelli
caratterizzati da un incremento dei redditi reali prop-capite” (ibidem)
123
op.cit., p. 61
122
64
La modernizzazione, secondo quanto sostenuto da
Huntington, influisce “sulla diseguaglianza economica e quindi
sull’instabilità politica”124, sviluppando la mobilitazione politica
e la partecipazione, fino ad accrescere “la coscienza della
diseguaglianza…(mettendo) in discussione”, mediante “l’influsso
delle nuove idee”, “la legittimità della vecchia distribuzione dei
redditi…(suggerendo
così) un
rapido
cambiamento nella
distribuzione” degli stessi125. E il mezzo più semplice per
giungervi è quello di spingere il governo in tale direzione. Ma
siccome “coloro che controllano la ricchezza, in genere
controllano anche il governo”, una mobilità sociale diretta lungo
la traiettoria della lotta alla diseguaglianza economica, si
tradurrebbe
pertanto
in
una
incontenibile
“spinta
alla
ribellione”126.
Dunque per Huntington la modernizzazione aumenta “la
diseguaglianza economica nello stesso momento in cui la
mobilitazione sociale ne diminuisce la legittimità”. Entrambi
questi aspetti finirebbero poi col combinarsi, generando uno
slancio e una vitalità democratica in grado di suscitare una forte
instabilità politica.
2.2 “Istituzionalizzazione” e modernizzazione del sistema
politico
124
op.cit., p. 69
ibidem
126
ibidem
125
65
Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come i processi
di
modernizzazione
socio-economica
producano
delle
conseguenze sull’intero ordinamento sociale che il sistema
politico è chiamato a gestire per evitare che la crescita della
mobilitazione, l’aumento della partecipazione politica, la lotta
contro le disuguaglianze economiche e l’incremento della
“vitalità democratica” che ne deriva possano essere fonte di
sovraccarico127.
L’istituzionalizzazione
dei
fenomeni
connessi
alla
modernizzazione, vale a dire la loro funzionalizzazione alle
strutture portanti dell’ordinamento sociale vigente, assume così,
per lo studioso americano, una valenza paradigmatica. Egli infatti
tenta di elaborare una serie di strumenti che possano far
coincidere modernizzazione socio-economica e trasformazione
del sistema politico128, cosicché lo “sviluppo dello stato” non
resti “indietro rispetto all’evoluzione della società”129
127
L’attenzione di Huntington si rivolge essenzialmente agli ordinamenti sociali e
politici dell’Occidente capitalistico o a quelli dei Paesi del cosiddetto Terzo Mondo che,
dopo la fase di decolonizzazione, ne hanno imitato i rapporti di produzione. Infatti
Samuel P. Huntington si rivolgerà ai paesi del “Blocco Comunista” in maniera
approfondita nello studio sulla Terza Ondata e soltanto per analizzarne l’adozione di
sistemi politici di tipo occidentale nel passaggio dal “comunismo alla democrazia”.
128
Foucault stesso nel suo celebre saggio Sorvegliare e Punire faceva notare come la
società moderna fosse caratterizzata da un “potere discliplinare”. “In effetti, il potere
disciplinare è un potere che, in luogo di sottrarre e prevalere, ha come funzione
principale quella di “addestrare” o, piuttosto, di addestrare, per meglio, prelevare e
sottrarre di più. Non incatena le forze per ridurle, esso cerca di legarle facendo in modo,
nell’insieme, di moltiplicarle e utilizzarle. Invece di piegare uniformemente e in massa
tutto ciò che gli è sottomesso, separa, analizza, differenzia, spinge i suoi processi di
scomposizione fino alle singolarità necessarie e sufficienti. Esso “addestra” le
moltitudini, confuse, inutili, di corpi e di forze in una molteplicità di elementi individuali
– piccole celleule separate, autonomie organiche, identità e continuità generiche,
segmenti combinatori. La disciplina fabbrica degli individui; essa è la tecnica specifica
di un potere che si conferisce gli individui sia come oggetti sia come strumenti del
proprio esercizio. Non è un potere trionfante, che partendo dal proprio eccesso può
affidarsi alla propria sovrapotenza: è un potere modesto, sospettoso, che funziona sui
binari di un’economia calcolata, ma permanente. Modalità umili, procedure modeste, se
confrontate ai rituali maestosi della sovranità od ai grandi apparati dello Stato…Il
successo del potere disciplinare deriva senza dubbio dall’uso di strumenti semplici: il
controllo gerarchico, la sanzione normalizzatrice e la loro combinazione in una
66
Il ruolo che dunque, possono assumere le istituzioni
politiche durante la modernizzazione socio-economica è appunto
fondamentale, tanto da permettere al sistema politico di
governarne le dinamiche e le problematiche che ne possono
emergere anche là dove esse si facciano portatrici di tendenze
politico-sociali devianti che la crescita della partecipazione
politica e la presenza di organizzazioni capaci di recepirla,
potrebbero incanalare lungo traiettorie in contrasto con quelle del
sistema politico vigente.
Per Huntington la “principale distinzione politica
applicabile ai diversi paesi non è tanto quella relativa alla loro
forma di governo, bensì quella relativa alla loro capacità di
governare”130 i processi di modernizzazione socio-economica.
Egli sottolinea inoltre come da “un punto di vista storico,
le istituzioni politiche siano scaturite dall’interazione e dal
disaccordo tra le forze sociali e dal graduale sviluppo di
procedimenti e di strumenti organizzativi atti alla soluzione di
questo disaccordo”131
Un sistema politico non deve, quindi, prescindere dal
conflitto suscitato dai processi di modernizzazione, ma recepirli,
procedura che gli è specifica: l’esame” (M.Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi,
Torino, pp. 186-187
129
S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 13
130
ibidem
131
Huntington proseguiva la sua analisi affermando che “attività finalizzate
all’elaborazione di una costituzione sembrano essere iniziate nel mondo mediterraneo
quando l’organizzazione del clan cominciò ad indebolirsi ed il conflitto tra i ricchi e i
poveri divenne un fattore politico significativo”. Senza poi tralasciare che gli “ateniesi si
rivolsero a Solone per avere una costituzione quando il loro sistema minacciò di
disgregarsi, in quanto vi erano ‘tanti partiti quante erano le diverse posizioni presenti nel
paese’ e ‘il divario tra il ricco e il povero aveva raggiunto la sua punta massima’. Erano
necessarie istituzioni politiche maggiormente sviluppate per mantenere in vita la
comunità politica ateniese, dal momento che la società ateniese era diventata più
complessa”. Per concludere infine che è “proprio questo processo che non si è
manifestato durante il ventesimo secolo in molti paesi in via di modernizzazione. A
forze sociali forti corrispondevano istituzioni politiche deboli; i poteri legislativi ed
67
evitando che la crescita della partecipazione politica non lo trovi
impreparato per quel che riguarda la risposta e la selezione delle
domande rivolte ai suoi apparati di governo, facendo inoltre
attenzione a dissociarne i protagonisti, soprattutto quelli che
rivestono un ruolo fondamentale nell’ambito del sistema
economico, dalla richiesta di riforme sovvetitrici.
Pertanto “in una società complessa il livello comunitario
dipende dalla forza delle procedure e delle organizzazioni
politiche presenti nella società. Questa forza a sua volta è legata
all’ampiezza del sostegno di cui godono le organizzazioni e le
loro procedure e al loro livello di istituzionalizzazione”132.
L’ampiezza del sostegno indica oltretutto la misura in cui
le organizzazioni e le procedure politiche regolano l’attività
sociale, in quanto “modelli di comportamento stabili, validi e
ricorrenti”133.
L’istituzionalizzazione è dunque per Huntington, “il
processo tramite il quale organizzazioni e procedure acquistano
validità e stabilità”, disponendo un “dominio istituzionalizzato”
in grado di regolare “l’interazione tra i vari gruppi in una società
in direzione del vantaggio sistematico del gruppo dominante”134.
Il livello di istituzionalizzazione di qualsiasi sistema politico può
pertanto essere definito “sulla base della flessibilità, complessità,
autonomia e coerenza delle sue organizzazioni e delle sue
esecutivi, le autorità pubbliche e i partiti politici rimanevano fragili e disorganizzati; lo
sviluppo dello stato restava indietro all’evoluzione della società” (ibidem)
132
op.cit., pp. 24-25
133
ibidem
134
“A variant within this family of solutions is the instituzionalization of the dominance
of the leading sociocultural or communal group or stratum. This institutionalized
dominance regulates interaction among the various groups in a society to the systematic
advantage of the dominant group” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political
Development, op.cit., p. 88, corsivo mio)
68
procedure. Così pure il livello di istituzionalizzazione di qualsiasi
organizzazione o procedura specifica”135.
2.2.1 I “criteri di istituzionalizzazione politica”
Huntington sembra porsi la seguende domanda: come è
possibile impedire che la modernizzazione socio-economica,
accrescendo la partecipazione politica, nonché il numero e la
consistenza delle organizzazioni in grado di sostenerla ed
organizzarla, possano indurre un sovraccarico istituzionale?
Come è possibile accompagnare la modernizzazione del sistema
politico, scongiurando nel contempo il pericolo che lo sviluppo
dello Stato resti indietro rispetto all’evoluzione della società?
Huntington ammette che un sistema politico, per poter
rispondere alla domande appena formulate, deve essere in grado
di sostenere lo sviluppo di organizzazioni caratterizzate da criteri
di adattabilità, complessità, autonomia e compattezza136.
135
ibidem, corsivo mio
Accanto ai processi di istituzionalizzazione, Huntington elenca anche altre soluzioni,
adottate in passato e adottabili in futuro, seppur sconsigliabili per gli effetti nient’affatto
positivi in termini di coesione sociale, quali l’ingegneria sociale, l’assimilazione, il
genocidio e la separazione: “At least five different types of responses to the problem of
national integration can be identified: social engineering, assimilation, institutional,
genocide, and partition. Social engineering is the effort to submerge the cleavages of
national integration into the cleavages of something else, typically but not only those of
social class. This requires either the elimination of national integration cleavages, often
by ignoring them, or their containment through cross-pressures, crosscutting cleavages,
136
69
Per
quel
che
concerne
l’adattabilità,
“più
un’organizzazione o una procedura sono adattabili, più è elevato
il loro livello di istituzionalizzazione; più rigide sono, più è
basso”137. Inoltre l’adattabilità costituisce una caratteristica
organizzativa acquisita che dipende sia dalle sollecitazioni
esterne, sia dall’età dell’organizzazione stessa. Sono tre, per
Huntington, i modi per calcolare l’età di un’organizzazione.
Il primo è puramente cronologico: “quanto più a lungo
un’organizzazione o una procedura restano in vita tanto più
elevato è il loro livello di istituzionalizzazione”. Insomma “più
un organizzazione è vecchia e più è probabile che continui ad
esistere nel futuro”138.
Il secondo si basa invece sull’età generazionale, cioè sul
presupposto che finchè “un’organizzazione ha ancora il gruppo
dirigente originario, finchè una procedura viene eseguita da
coloro che per primi l’hanno messa in atto, la sua adattabilità è
ancora
dubbia”.
Infatti
tanto
“più
frequentemente
un’organizzazione ha superato il problema di una successione
pacifica ed ha sostituito un gruppo dirigente con un altro, tanto
più elevato è il suo grado di istituzionalizzazione”139.
or political culture…Social engineering has more often failed than not; when it seems to
suceed, it is typically because it has been mixed with another type of conflict regulating
solution. Social mobilization is likely to yield an increase in the probability of conflict in
unintegrated societies. Hypotheses about cross-pressures, crosscutting divisions, and
political culture do not help to explain long-term successful conflict regulation in
societies deeply troubled by cleavages of national integration…The second type of
solution is the effort to induce assimilation of the politically subordinate subcultural
group into the politically dominant cultural group…The fourth and fifth types of
solutions are also tragic outcomes. The fourth specifies that members of the dominant
cultural group perceive the subcultural group as an international enemy, unfortunately
and perhaps accidentally located within the same state boundaries. Genocidal war or
forced emigration may then be tried. Rwanda, Burundi, Biafra, Northern Ireland, and
Bangladesh are but recent names in this tragic and criminal story. The fifth solution is
territorial partition into two independent states.” (op.cit., pp. 83-89)
137
S.P.Huntington, Ordinamento politico emutamento sociale, cit., p. 27
138
ibidem
139
ibidem
70
Il terzo è quello funzionale: questa è la situzione cui si
perviene quando un’organizzazione, creata soprattutto per
espletare una particolare funzione, “adattandosi ai mutamenti
intervenuti nell’ambiente è sopravvissuta ad uno o più mutamenti
nella sue funzioni principali”, e di conseguenza ha acquisito “un
livello
di
istituzionalizzazione
molto
più
elevato
di
un’organizzazione che non ha vissuto questo processo”140.
Molto importante risulta inoltre l’elasticità funzionale di
un’organizzazione, dato che da essa deriva la sua adattabilità
funzionale alle trasformazioni indotte dalla modernizzazione.
Dall’analisi del criterio della complessità Huntington
ricava poi la conclusione che tanto “più un’organizzazione è
complessa tanto più il suo livello è elevato”, così come tanto
“maggiore è il numero e la varietà delle unità organizzative tanto
maggiore è la capacità dell’organizzazione di rafforzare e di
mantenere
la
fedeltà
dei
propri
membri”141.
Infatti
un’organizzazione o un sistema politico dotato di un apparato
multifunzionale sviluppa una forza istituzionale superiore,
avendo una probabilità maggiore di adattarsi alle nuove
esigenze142.
Ciò induce a pensare che la complessità istituzionale di
cui un sistema politico dispone, può garantire a quest’ultimo una
maggiore capacità di risposta agli inputs della modernizzazione,
140
ibidem
op.cit., p. 30
142
“La caduta dello shogun non implicò la perdita dell’ordine politico, ma la
‘restaurazione’ dell’imperatore. Il sistema politico più semplice, ma anche il meno
stabile, è quello che dipende da un solo individuo: Aristotele sottolineava che di fatto i
tiranni hanno avuto tutti ‘vita breve’. Per contro un sistema politico articolato in
istituzioni diverse è molto più facilmente in grado di trovare successivi adattamenti”
(op.cit., p. 31)
141
71
fornendo loro una disciplina che possa in tal modo facilitarne la
collocazione all’interno del sistema stesso143.
Il terzo criterio, quello dell’autonomia, verifica “quanto
le organizzazioni e le procedure politiche sono indipendenti da
altri
raggruppamenti
sociali
e
da
altre
modalità
di
comportamento”144. Infatti per Huntington “un’organizzazione
politica strumento di un gruppo sociale – una famiglia, un clan, o
una classe – manca di autonomia e di istituzionalizzazione”145.
Inoltre, così come le organizzazioni politiche, anche le
procedure esplicano livelli variabili di autonomia. Infatti “un
sistema politico altamente sviluppato possiede delle procedure
atte a minimizzare, se non a eliminare, il ruolo della violenza
nella società, ed altre atte a limitare entro canali chiaramente
definiti l’influenza che la ricchezza esercita nel sistema…Le
organizzazioni e le procedure che mancano di autonomia
vengono chiamate, nel linguaggio corrente, corrotte”146.
Oltre a ciò il politologo americano sottolinea come la
vulnerabilità del sistema politico nei confronti di agenti ad esso
esterni potrebbe condizionarne lo sviluppo147. “Pertanto un colpo
143
Huntington sottolinea, rivolgendo la propria attenzione alle Francia della IV
Repubblica che quando “negli anni cinquanta l’assemblea si dimostrò incapace di far
fronte al declino dell’impero francese, non c’era nessuna altra istituzione, ad esempio un
esecutivo indipendente, in grado di entrare in campo. Conseguentemente una forza extracostituzionale, quella militare, intervenne nella vita politica, il che condusse alla
creazione di una nuova istituzione, la presidenza di De Gaulle, in grado di affrontare il
problema” (op.cit., p. 31)
144
op.cit., p. 32
145
Se “lo stato, secondo la visione marxista tradizionale, fosse veramente il ‘comitato
esecutivo della borghesia’, allora non potrebbe essere considerato una istituzione”
(ibidem)
146
ibidem
147
“However, one key variable that may undermine institutionalization in these political
systems is precisely the ‘growing importance of ethnically ‘foreign’ elements in the
costitution of different elites’. The task of the rulers of bureaucratic empires in balancing
the traditional and more modern feautures of these systems is, ceteris paribus, more
difficult in ethnically or religiously heterogeneous systems than in ethnically or
religiously homogeneous systems. The elite is not the sole source of difficulty for
72
di stato attuato in un sistema politico, può facilmente ‘far
scattare’ altri colpi di stato di gruppi simili, in altri sistemi
politici meno sviluppati” 148.
Con l’ultimo criterio, quello cioè della compattezza, si
mostra poi come “più un’organizzazione è unita e compatta e più
il suo livello di istituzionalizzazione è elevato: maggiore invece è
la
sua
frammentazione
e
minore
il
suo
grado
di
istituzionalizzazione”.
Se, infatti, “un certo livello di consenso è un prerequisito per qualsiasi gruppo sociale, un’organizzazione
efficiente richiede un consenso sostanziale sui confini funzionali
del gruppo e sulle procedure dirette a risolvere le controversie
all’interno di questi confini. Il consenso – prosegue Huntington deve essere esteso a tutti coloro che sono attivi all’interno del
sistema; chi non partecipa, o chi partecipa alla vita del sistema
solo in modo sporadico e marginale, non deve necessariamente
esprimere il consenso e infatti di solito non lo esprime allo stesso
livello di chi partecipa attivamente”.
Da tutto ciò si capisce come un rapido allargamento della
partecipazione
potrebbe
conseguentemente
indebolire
la
compattezza149 di un sistema politico.
La compattezza, cioè “l’unità, lo spirito di corpo, il
morale e la disciplina”, sono per Huntington “altrettanto
necessari nei governi quanto lo sono nell’esercito…La capacità
di coordinamento e di disciplina sono fattori essenziali sia in
national integration in traditional political systems. Upheavals have also occurred from
below” (S.P. Huntington, J.I. Dominguez, Political Development, op.cit., p. 74)
148
S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p.34
149
“Ad esempio il governo dell’impero Ottomano, conservò la sua vitalità e la sua
compattezza istituzionale finchè i nuovi adepti furono ‘sottoposti ad un’educazione
molto complessa, con selezione e specializzazione ad ogni livello’. L’istituzione venne
73
guerra che in politica: storicamente è dimostrato che le società
che si sono dimostrate in grado di organizzare l’una, sono state in
grado di organizzare anche l’altra”150.
2.2.2
Il
Partito
istituzionalizzazione”
politico
come
“strumento
di
Nel contesto della società moderna il partito politico
assume per Huntington un ruolo chiave nei processi di
istituzionalizzazione, presentandosi come uno strumento di
integrazione sia orizzontale, per quel che concerne i gruppi
comunitari, sia verticale, per quanto riguarda invece le classi
economiche e sociali.
Il
partito
politico
si
presenta
quindi
come
l’organizzazione capace di disciplinare la partecipazione politica
e
la
sua
eventuale
crescita
dovuta
ai
processi
di
modernizzazione151.
Pertanto
“minimizzare…la
il
politologo
possibile
americano
instabilità
al
politica
fine
di
derivante
dall’estensione della coscienza e del coinvolgimento politico, è
necessario creare istituzioni politiche moderne, cioè creare i
meno quando ‘tutti vi si precipitarono per condividerne i privilegi…il numero di persone
aumentò; la disciplina e l’influenza diminuirono” (op.cit., p. 35)
150
ibidem
151
“I mezzi istituzionali più importanti per l’organizzazione della partecipazione politica
sono i partiti politici e in generale il sistema partitico. Una società che sviluppa partiti
politici abbastanza ben organizzati fin da quando il livello della partecipazione politica è
relativamente basso…ha migliori probabilità di affrontare l’allargamento della
partecipazione politica in modo stabile, rispetto a una società dove i partiti si
organizzano a processo di modernizzazione già avanzato.” (op.cit., p. 424)
74
partiti
politici,
fin
dall’inizio
del
processo
di
modernizzazione”152.
Il
partito,
“istituzione
distintiva
di
una
società
moderna”153, ha così il compito di strutturare la partecipazione
politica di massa, senza tuttavia presentarsi solo come una
semplice organizzazione integrativa, ma assumendo anche un
ruolo “di legittimità e di autorità”154 all’interno del sistema
politico155.
Sarebbe proprio la cultura e la tradizione marxistaleninista a fornire i modelli che Huntington propone per la
creazione di un sistema partitico capace di istituzionalizzare la
partecipazione politica, senza che da essa generi un sovraccarico
istituzionale156.
La novità del leninismo non consiste per lo studioso di
Harvard nell’aver inventato la rivoluzione, ma nell’aver elaborato
un’organizzazione, il partito bolscevico, di “rivoluzionari di
professione”, dotati di una ferrea disciplina organizzativa, con il
compito di “distogliere la classe operaia da una preoccupazione
semplicemente materiale e creare una coscienza politica più
152
op.cit., p.425
op.cit., p. 100
154
Riemerge nell’analisi di Huntington la figura gramsciana del partito come
intellettuale collettivo intento non solo a gestire e disciplinare la partecipazione politica
di massa secondo una welthangschuung elaborata dai suoi intellettuali organici, ma ad
esercitare anche un’egemonia culturale sull’intera società, conducendola verso la
costruzione – per quel che riguarda invece Huntington, conservazione – di nuovi rapporti
di interazione fra gli individui e le forze di produzione
155
S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, p. 161
156
“Diversi motivi hanno portato sia i comunisti che i non comunisti a sottolineare il
carattere rivoluzionario del comunismo. Ma non sono stati i comunisti ad inventare
l’idea della rivoluzione…La teoria comunista della rivoluzione è semplicemente una
generalizzazione dell’esperienza della rivoluzione francese successivamente modificata
dalle esperienze della rivoluzione russa e di quella cinese…Prima della rivoluzione
bolscevica nessuna rivoluzione fu completa dal punto di vista politico in quanto nessun
capo rivoluzionario aveva formulato una teoria che spiegasse come realizzare ed
istituzionalizzare l’espansione della partecipazione politica che è l’essenza della
rivoluzione. Lenin risolse questo problema è così facendo attuò una delle più importanti
innovazioni politiche del XX secolo” (op.cit., p.353)
153
75
ampia” in grado di garantire l’espansione della partecipazione
politica, “essenza della rivoluzione”, e nel medesimo tempo di
indirizzarla a sostegno dell’organizzazione stessa157.
Insomma il partito bolscevico, concentrando sul suo
gruppo dirigente la direzione dei processi politici, economici e
sociali in corso durante la Rivoluzione russa, sarebbe stato in
grado di proporsi in veste di sistema politico, al fine di sostituirsi
a quello dell’impero che non aveva retto all’urto dei processi di
modernizzazione innescati dallo scoppio della Guerra mondiale.
Dinanzi dunque, al crollo dell’impero zarista, i
bolscevichi avrebbero trionfato perché sarebbero stati in grado di
produrre non solo delle fonti di legittimazione alternative, ma
anche un’organizzazione capace di incanalarle all’interno di un
progetto di generale trasformazione dei rapporti di dominio.
Siffatta organizzazione si sarebbe infine inserita nel vuoto
d’autorità provocato dal crollo dell’apparato istituzionale russo,
sviluppando un’insieme di istituzioni, le quali avrebbero
sostituito quelle precedenti e permesso anche il riflusso della
partecipazione politica.
Dunque, per Huntington, mentre il “marxismo, come
teoria dell’evoluzione sociale, venne dimostrato falso dai fatti; il
leninismo come teoria dell’azione politica si dimostrò giusto”158 ,
suggerendo il modello e i criteri organizzativi ideali per
157
“Più precisamente, Lenin sosteneva che il proletariato non poteva raggiungere da solo
la coscienza di classe, questa coscienza doveva essere portata dall’esterno dagli
intellettuali. La coscienza rivoluzionaria è un prodotto di intuizione teorica e un
movimento rivoluzionario è un prodotto dell’organizzazione politica. I socialdemocratici, diceva Lenin, devono tendere ‘a creare un’organizzazione di rivoluzionari,
che guidi la lotta del proletariato’…L’organizzazione dei rivoluzionari inoltre può
attingere a tutti gli strati sociali. Essa ‘deve essere innanzitutto composta da quelle
persone la cui professione è quella di rivoluzionari…essendo questa la caratteristica
comune dei membri di una simile organizzazione, devono cadere tutte le distinzioni tra
lavoratori e intellettuali e certamente le distinzioni di mestiere e di professione’’’
(op.cit., p.355)
76
disciplinare la partecipazione politica in una società di massa in
corso di modernizzazione159.
Il modello bolscevico suggerirebbe allora ad Huntington
un’organizzazione partitica costituita da un gruppo dirigente
fortemente selezionato e capace di espandersi gradualmente,
guadagnandosi infine il sostegno e la partecipazione di altri
membri160.
In conclusione il partito apparirebbe ad Huntington come
una sorta di intellettuale collettivo che, dotato di un progetto
politico elaborato e sostenuto dai suoi organici, infonde nelle
masse la coscienza politica, al fine di legittimare nuovi rapporti
di dominio oppure di conservare quelli già esistenti. Comunque
sia, esso si presenta come l’istituzione principale di una società
industriale, perché in grado di integrare nel sistema politico,
disciplinandone la partecipazione, interessi e gruppi.
Nella
società
industriale
il
partito
è
dunque
“un’istituzione di gran lunga più flessibile e di più ampia portata
rispetto alla modernizzazione”161, e in quanto tale, la sola che, per
Huntington, presenta quei criteri di adattabilità, complessità,
autonomia e compattezza essenziali per permettere al sistema
politico di guidare la modernizzazione socio-economica e
procedere lungo la strada di quella politica; istituzione partitica
158
op.cit., p.357
“Trotsky sbagliava quando diceva ‘sono le classi che decidono e non i partiti’. Lenin
e Mao avevano ragione quando sottolineavano la supremazia di una organizzazione
politica indipendente dalle forze sociali in grado di manovrarle per raggiungere i propri
fini. Invero il partito deve fare appello a tutti i gruppi della popolazione… ‘il nostro
metodo di lotta è l’organizzazione’ diceva ancora (Lenin) ‘dobbiamo organizzare tutto’’’
(ibidem)
160
“Il marxismo è una teoria della storia. Il leninismo è una teoria dello sviluppo politico
che tratta della base, della mobilitazione politica, dei metodi dell’istituzionalizzazione
politica, delle fondamenta dell’ordine pubblico. La teoria della supremazia del partito è,
come abbiamo precedentemente accennato, la controparte del ventesimo secolo della
monarchia assoluta del diciassettesimo secolo. I modernizzatori del XVII secolo
canonizzarono il re, quelli del XX secolo il partito” (op.cit., p. 358)
159
77
che, comunque, durante gli anni ’70, stava subendo per il
politologo di Harvard una profonda crisi strutturale, accentuando
il sovraccarico dei sistemi politici occidentali e spingendo
contemporaneamente le élites dirigenti ad elaborare strumenti di
istituzionalizzazione alternativi alla forma partito, ma non di
meno dotate della stessa efficacia.
3. La crisi da sovraccarico del sistema politico e le
sue possibili conseguenze
3.1 La coincidenza fra interesse istituzionale e interesse
pubblico
Huntington considera la politica come un mondo di
inesorabile concorrenza tra le forze sociali, traendone la
conclusione che in “assenza di istituzioni politiche forti, alla
società” mancherebbero “gli strumenti per definire e realizzare i
suoi interessi comuni”. “La capacità di creare istituzioni
politiche” equivale quindi “alla capacità di fare gli interessi
pubblici”162.
Le istituzioni si presentano dunque come una necessità
intrinseca
a ogni sistema politico che ha bisogno di
organizzazioni autonome, complesse, adattabili, compatte,
161
162
ibidem
S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p.36
78
funzionalizzando le dinamiche dei processi di modernizzazione,
rendendole in tal modo compatibili con i rapporti di dominio
vigenti.
Come abbiamo avuto modo di vedere nel capitolo
precedente, il partito è, per Huntington, l’organizzazione che più
di ogni altra può garantire con le sue procedure la
modernizzazione del sistema politico, facendo in modo che,
attraverso “la salvaguardia dell’interesse istituzionale, si possa
garantire anche l’interesse pubblico”163
L’interesse pubblico164 è così “tutto ciò che rafforza le
istituzioni pubbliche…è l’interesse delle istituzioni pubbliche; è
qualcosa
che
viene
creato
e
mantenuto
in
vita
dall’istituzionalizzazione delle organizzazioni di governo…in un
sistema politico complesso”165
Huntington sottolinea come gli “interessi istituzionali
differiscono da quelli individuali di coloro che operano
all’interno
delle
istituzioni”,
essendo
quelli
individuali
“forzatamente degli interessi di breve periodo”. Dunque la
necessità di elaborare delle istituzioni che possano “durare nel
tempo”, comporta anche “una limitazione degli obiettivi
immediati”166
Da dove traggono la loro legittimità le istituzioni? Le
istituzioni sono legittime “non in quanto rappresentano gli
interessi del popolo o di un certo gruppo, ma in quanto esse
163
ibidem
“Tradizionalmente il problema dell’interesse pubblico è stato affrontato in tre modi. È
stato identificato con valori ideali, norme astratte e concrete, come le leggi naturali, la
giustizia e il buon senso; oppure con l’interesse specifico (‘L’état, c’est moi’), di un
determinato gruppo, di una determinata classe (marxismo), o maggioranza; o con il
risultato di un processo di concorrenza tra gli individui (liberalismo classico) o tra
gruppi (bentleismo). In ognuna di queste diverse impostazioni il problema è di arrivare
ad una definizione che sia concreta” (ibidem)
165
op.cit., p. 37
164
79
hanno propri interessi, distinte da quelli di tutti gli altri gruppi”.
Di conseguenza il potere di un governo non deriverebbe “dal
fatto che rappresenti gli interessi di una classe, di un gruppo, di
una regione o del popolo ma piuttosto dal fatto che non
rappresenta nessuno di questi interessi167…la sua autorità ha le
radici nella sua unicità”168.
In tal senso riveste un ruolo centrale il rapporto
d’interazione esistente tra la cultura della società e le sue
istituzioni politiche. E’ pertanto necessario, per Huntington, che
esista una fiducia reciproca tra la società e le istituzioni politiche:
per “contro l’assenza di fiducia nella cultura della società
produce enormi ostacoli alla creazione di istituzioni pubbliche. In
quelle società in cui manca un governo stabile ed efficiente
manca anche la mutua fiducia tra i cittadini, la fedeltà nazionale e
pubblica, l’abilità e capacità organizzativa169…In queste società il
prevalere della sfiducia limita l’estrinsecarsi della lealtà
individuale ai soli gruppi intimamente collegati fra loro”170.
166
ibidem
“L’esistenza di istituzioni politiche (come la presidenza o il comitato centrale) capaci
di incarnare l’interesse pubblico rappresenta l’elemento distintivo tra le società
politicamente sviluppate e quelle non sviluppate, e anche tra le comunità morali e le
società amorali. Un governo con un basso livello di istituzionalizzazione non è solo un
governo debole ma anche un cattivo governo. Se la funzione del governo è quella di
governare un governo debole, un governo che manca di autorità e non è in grado di
ottemperare alle proprie funzioni è tanto immorale quanto un giudice corrotto, un soldato
codardo o un insegnate ignorante. Nelle società complesse la base morale delle
istituzioni politiche si fonda sui bisogni degli uomini” (op.cit., p. 40)
168
ibidem
169
“La gente può essere leale nei confronti del suo clan, forse della sua tribù ma non nei
confronti delle istituzioni politiche più ampie. In società politicamente sviluppate, la
lealtà nei confronti di questi raggruppamenti sociali più immediati è subordinata e
compresa nella fedeltà nei confronti dello stato…Tuttavia, in una società in cui sia
carente l’aspetto di comunità sociale, la lealtà nei confronti dei raggruppamenti sociali
ed economici più primordiali – la famiglia, il clan, la tribù, la religione o la classe sociale
– è in concorrenza e spesso sostituisce la fedeltà nei confronti di autorità politiche più
ampie” (op.cit., p. 42)
170
ibidem
167
80
Sfiducia reciproca e limitati rapporti di fedeltà sono
anche indici di un basso livello di organizzazione171.
Le conseguenze dell’assenza di uno stretto rapporto di
fiducia tra istituzioni e società e il basso livello di sviluppo
organizzativo che ne deriva sono in ogni modo caratteristici di
“quelle società in cui la sfera politica è confusa e caotica” 172 e un
“vuoto organizzativo e motivazionale” può costituire il terreno
adatto per l’emergere di nuove fonti di legittimazione politica
alternative a quelle vigenti173, tali da produrre una crisi di
trasformazione potenziale dell’insieme dei rapporti di dominio di
un ordinamento politico-sociale.
Con quali possibili conseguenze?
Huntington ne suggerisce tre: rivoluzione, reazione e
riforma del sistema politico, reazione da parte dell’istanza
dominativa sovrana e corruzione politica.
3.2 Lo Stato keynesiano come paradigma della riflessione
politica di Samuel P. Huntington
171
“In termini di comportamento osservabile, la discriminante fondamentale tra una
società politicamente sviluppata ed una sottosviluppata risiede nel numero, nella
dimensione e nella efficienza delle sue organizzazioni. Se i mutamenti sociali ed
economici minano o distruggono le basi associative tradizionali, il raggiungimento di un
alto livello di sviluppo politico dipende dalla capacità di sviluppare nuove forme di
associazione. Nei paesi moderni, facendo nostre le parole di de Tocqueville, ‘la scienza
dell’associazione è la madre delle scienze; il progresso di tutto il resto dipende dal
progresso acquisito in questo campo’” (op.cit., 43)
172
In America Latina, un grande problema sottolineato da George Lodge, è
“un’organizzazione sociale relativamente bassa rispetto a quella esistente negli Stati
Uniti”. Il risultato di questa situazione è un “vuoto organizzativo e motivazionale” che
rende difficile la democrazia e lento lo sviluppo economico…Lucian Pye… “La prova
definitiva dello sviluppo è la capacità di un popolo di creare e di mantenere forme
organizzative vaste e complesse e nel contempo flessibili”. La capacità di creare simili
istituzioni, tuttavia, è difficilmente rintracciabile nel mondo odierno” (ibidem)
81
Prima ancora di dedicarci all’analisi delle possibili
conseguenze derivanti da una crisi da sovraccarico istituzionale, è
opportuno fare qualche accenno al tipo di istituzioni politiche alle
quali il teorico americano fa riferimento nel momento in cui
sviluppa la propria riflessione politica.
Il punto di riferimento politico-istituzionale della
teorizzazione del politologo di Harvard é il “sistema industriale”,
ossia lo Stato cosiddetto keynesiano che nel corso degli anni ’70
stava vivendo una progressiva trasformazione che faceva
presagire il passaggio verso un nuovo sistema di relazioni
politiche e sociali che si tendeva a definire con il termine di postindustriale; trasformazione che i sistemi politici erano chiamati a
gestire, cercando di garantirne la transizione, nell’ambito di un
contesto sociale caratterizzato da un alto livello di conflittualità e
partecipazione politica, accentuate dalle conseguenze economicosociali derivanti dalla crisi petrolifera del 1973.
Lo Stato keynesiano174 appariva come un apparato
istituzionale caratterizzato da una vasta responsabilità nei
confronti della società e dell’economia, non solo mediante un
insieme di programmi di protezione sociale, ma anche di una
particolare relazione tra sub-sistemi sociale, economico e
politico175.
Lo Stato diveniva in tal modo promotore di un “progetto
unificato di orientamento, controllo e gestione della stessa
173
“Ed è soprattutto questa capacità di far fronte a necessità morali e di dar vita ad un
ordine pubblico legittimo che i comunisti offrono ai paesi in via di modernizzazione”
(ibidem)
174
AA.VV., Trasformazioni e crisi del Welfare State, De Donato-Regione Piemonte,
Torino, 1983, p. 388
175
S.Fabbrini, Politica e mutamenti sociali. Alternative a confronto sullo stato sociale, Il
Mulino, Bologna 1988, pp. 15-24
82
accumulazione capitalistica”176, mantenendo ben fermi i rapporti
economici dominati; rendendone comunque universali i benefici
per mezzo di una più equa redistribuzione177 della produzione178.
Si passava così da una fase di “intervento pubblico” a
una di “politica pubblica” in cui, secondo Fabbrini, non si
trattava “più di risolvere situazioni particolari o di intervenire,
appunto, post-factum, sulla base delle difficoltà che il sistema
economico e sociale” poteva evidenziare, quanto piuttosto di
“condurre ad un quadro stabile di comportamenti e ad una
direzione unitaria di intervento sia la crescente estensione dei
compiti statali che la complessità delle condizioni che il sistema
economico e sociale”179 mostrava.
Nel contesto dell’economia keynesiana180 nascevano e si
affermavano nuovi attori collettivi dotati di notevoli risorse
organizzative181.
176
op.cit., p. 57
“Vorrei vedere che lo Stato – che è in condizioni di calcolare l’efficienza marginale
di beni capitali in base a considerazioni di lunga portata e in vista del vantaggio sociale
generale – si assumesse una sempre maggiore responsabilità” (J.M.Keynes, Teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, UTET, 1978, p. 324)
178
Con Keynes si realizzerebbe per Minsky una sorta di socializzazione del processo di
accumulazione degli investimenti, separando nettamente “l’utilizzazione delle risorse
esistenti dalla creazione di nuove risorse” (MINSKY, cit. in AA.VV. Trasformazioni e
crisi del Welfare State, cit., p. 71)
179
S.Fabbrini, Politica e mutamenti sociali, op.cit., p. 62
180
La teoria keynesiana si articola per Fabbrini su tre diversi livelli: sul piano della
politica monetaria, l’obiettivo è quello di influire, attraverso l’offerta della moneta,
sull’andamento del saggio d’interesse; sul piano della politica fiscale, incidere
direttamente sul reddito individuale disponibile; in politica della spesa pubblica,
controbilanciare la spesa privata per consumi ed investimenti, dimostratasi insufficiente
rispetto alle esigenze richieste da un equilibrio di piena occupazione. Lo Stato, con il
sistema keynesiano, assume una funzione d’ordine e di organizzazione del sistema
economico e sociale “poiché la sua logica di comportamento non è informata dalla
ricerca del profitto, bensì dall’esigenza di preservare l’interesse generale del sistema”
(op.cit. p.68)
181
Alber distingue, partendo dall’analisi dei dodici paesi che facevano parte allora della
cosiddetta “Europa occidentale”, tre diversi modelli di mobilitazione dei partiti operai:
un gruppo di paesi con una percentuale di voti cresciuta per la sinistra rispetto
all’anteguerra e sempre più alta, un gruppo in cui i partiti operai ristagnavano (Belgio,
Finlandia, Olanda, Svizzera), un terzo gruppo (Italia, Germania, Austria) dove l’avvento
del Fascismo aveva messo i partiti della sinistra fuori gioco. Fra il 1915 e il 1940 questi
tre gruppi si mossero molto diversamente per quanto riguardava la sicurezza sociale. Il
177
83
Il paradigma keynesiano si presentava dunque come il
“luogo naturale della legalità…e della legittimità”182, chiamato a
determinare, attraverso le sue istituzioni, l’evoluzione economica
e politica dell’intera società, e a fissare i confini dell’azione
collettiva.
Pur originando dalla Grande Crisi del 1929, lo Stato
keynesiano faceva tesoro dell’esperienza maturata durante la
guerra tanto da un punto di vista solidaristico quanto
organizzativo: la guerra aveva accresciuto infatti le capacità degli
apparati statali nella mobilitazione e gestione dell’intera
popolazione. La militarizzazione della società sarebbe continuata
sotto altre forme dopo la fine della guerra, beneficiando di una
forte legittimazione da parte dei lavoratori, dato che lo Stato
appariva anche come il prodotto della lotta di liberazione contro
il nazismo e il fascismo. Così facendo, lo Stato keynesiano
assumeva
le
vesti,
secondo
Myrdal183,
di
uno
“Stato
primo gruppo ampliò i propri sistemi in misura maggiore rispetto al secondo gruppo
(34,5% contro 25,5%). L’espansione dei partiti operai e risultava inoltre proporzionale
all’espansione dei sistemi di sicurezza sociale già a partire dal primo dopoguerra e fino
allo scoppio della seconda Guerra Mondiale: fino “alla fine della seconda guerra
mondiale, la crescita dei programmi successivamente ad un successo elettorale delle
sinistre in Europa occidentale era pari al doppio di quanto registrato in periodi in cui tale
successo era mancato” (J.Alber, Dalla carità allo stato sociale, Il Mulino, Bologna
1987, p. 193-195). Una crescita comparativamente più bassa dei sistemi di sicurezza
sociale si registra invece nei regimi fascisti del terzo gruppo. (cfr.op.cit., p.189-190).
Mentre la crescita della sicurezza sociale nel primo dopoguerra e tra le due guerre
sembrava per Alber influenzata dalla pressione politica esercitata dai partiti operai, “la
crescita dei programmi nel (secondo) dopoguerra è stata largamente indipendente dalla
forza dei partiti operai…La crescente spoliticizzazione dello sviluppo delle assicurazioni
sociali può essere eventualmente spiegata con la trasformazione politico-strutturale dei
partiti di classe in partiti pigliatutto in un contesto sociale mutato. La trasformazione
della struttura sociale della popolazione attiva ha aumentato il peso politico dei
lavoratori dipendenti non in grado di provvedere da sé alla propria sicurezza, cosicché
anche i partiti liberali e conservatori sono stati obbligati a perseguire in misura crescente
obiettivi sociali per non soccombere nella competizione elettorale. E, d’altro canto, il
crescente peso dei ceti medi dipendenti impiegatizi spinge gli stessi partiti operai
tradizionali verso scelte programmatiche più simili a quelle dei partiti borghesi” (op.cit.,
p. 191)
182
op.cit., p.74
183
cit. in in F.Caffè, La fine del Welfare State come riedizione del “crollismo”(AA.VV.,
Trasformazioni e crisi del Welfare State, op.cit., p. 123)
84
organizzatore” in grado di determinare il “gioco della domanda,
dell’offerta e dei prezzi”. In tal modo le regole del gioco
sarebbero state stabilite dallo Stato avvalendosi non soltanto della
sua legislazione e amministrazione, bensì anche di organizzazioni
e grandi imprese, semi-pubbliche e private, che avrebbero
operato entro la sua struttura e sotto il suo controllo184
Lo sviluppo dello Stato keynesiano era accompagnato
per De Swaan da una vera e propria “hyperbole de
l’expansion”185, vale a dire una forte crescita della produzione
durata per oltre un ventennio.
De Swaan individua due momenti o épisodes critiques186
di questa espansione: un primo, che dalla fine degli anni ’40
giunge sino all’inizio degli anni 50, e un secondo che dalla metà
dei ’60 arriva fino a quella dei ’70.
Questa économie de croissance, come l’ha definita
Castel187, oltre alla formazione di una ramificata e solida
propriété
sociale188,
aveva
comportato
anche
una
“trasformazione radicale dei comportamenti delle popolazioni nei
paesi corrispondenti” che, certe dell’intervento dello Stato in caso
di perdita del reddito, nutrivano una maggiore fiducia nel futuro,
accompagnata da una crescente presa di coscienza delle
interdipendenze189 caratterizzanti la società190.
Se da una parte, tutto ciò suscitava, secondo de Swaan, la
necessità di dover disporre di una classe d’esperti e di
184
cit. in F.Caffè, cit. in AA.VV., Trasformazioni e crisi del Welfare State, cit., p. 123
A.Swaan (de), Sous l’aile protectrice de l’Etat, PUF, Paris 1995, pp.296
186
op.cit., p.211
187
R.Castel, Les metamorphoses de la question sociale, Fayard, Paris1995
188
Castel definisce la propriété sociale come “un patrimoine dont l’origine et les règles
de fonctionnement sont sociales, mais qui fait fonction de patrimoine privé” (op.cit., p.
310)
189
A.Swaan (de), Sous l’aile protectrice dell’Etat, op.cit., p. 301
185
85
amministratori
di
professione
in
grado
di
gestire
quest’espansione, dall’altra, secondo il giudizio di Morra,
l’hyperbole dello Stato aveva come conseguenza, da un lato,
“l’accentuazione della dicotomia e della reciproca mescolanza e
invasione tra pubblico e privato e dall’altro”, la narcisizzazione
della società civile191, la crescita dei desideri192 e infine la
deresponsabilizzazione dei cittadini193.
La maggior parte degli osservatori, secondo Offe,
“concorda sul fatto che gli effetti delle logiche politicoeconomiche del sistema keynesiano abbiano apportato…un
esteso sviluppo economico senza precedenti che ha finito
coll’interessare le economie di tutti i paesi a capitalismo
avanzato; e…la trasformazione del modello del conflitto
industriale e di classe secondo modalità che indebolivano sempre
di più le posizioni politiche radicali o rivoluzionarie”,
conducendo a “un conflitto di classe prettamente economicistico,
oltre
che
centrato
sui
problemi
della
distribuzione
e
istituzionalizzato”194.
Bowles sottolinea poi come alla base di questo sviluppo
vi sarebbe stato un “accordo di classe politico, che “rappresentò,
190
Inoltre, secondo de Swaan, le “conséquences de l’expansion de l’Etat-providence
contribuèrent elles-memes à son développement” (op.cit.,p. 301)
191
I “gruppi e le istituzioni del sociale, si rinchiudono in se stessi e si realizzano come il
luogo dell’intimità e dell’espressività, di contro alla sfera personale e strumentale del
pubblico (G.Morra, Stato sociale e società civile, in I.Colozzi (a cura di), La riforma
dello Stato sociale. Un confronto europeo, Franco Angeli, 1987, p.36)
192
“Posta ormai alle spalle la soddisfazione dei bisogni, l’uomo assistito si volge alla
soddisfazione dei desideri…Non è un caso che lo stato sociale assista ad una diffusione
di comportamenti ignoti, nella stessa misura, alle società tradizionali e tutti volti a
soddisfare non bisogni, ma desideri: viaggi, licenza sessuale, pornografia, hobby, fumo,
tossicodipendenze, audiovisivi, motori, sport, ecc.” (op.cit., p.37)
193
“Nella misura in cui il welfare tutto assicura e tutti sostituisce, esso produce
inevitabilmente deresponsabilizzazione. La responsabilità (dal latino respondeo) è la
risposta ad una autorità, che ha il diritto di chiedermi ragione di ciò che ho fatto…la
responsabilità, che è la molla fondamentale della produttività e della crescita, si affloscia
nella tranquilla e rassegnata certezza che tutto mi è dovuto e che nulla mi è dato in
conseguenza del mio impegno e della mia iniziativa” (op.cit., p.37)
86
da parte della classe lavoratrice, l’accettazione della logica del
profitto e del mercato come principi guida della allocazione delle
risorse, delle relazioni economiche internazionali, del progresso
tecnologico,
localizzazione
dello
sviluppo
delle
della
industrie”,
produzione
ottenendo
in
e
della
cambio
“l’assicurazione che gli standard minimi di vita, i diritti sindacali
e i diritti democratici sarebbero stati garantiti, la disoccupazione
di massa evitata e…i redditi reali…cresciuti compatibilmente con
l’aumento della produttività…il tutto, se necessario, attraverso
l’intervento dello Stato”195.
Tale accordo contribuiva, secondo Offe, a rendere
compatibili tra loro capitalismo e democrazia. Infatti, accettando
i termini dell’accordo, le organizzazioni della classe lavoratrice
avrebbero inserito le loro domande e i loro progetti entro
programmi che differivano profondamente da quelli sia della
Terza che della Seconda Internazionale.
Vi sarebbe stato così “un consenso di fondo sulle
priorità, i valori e i vantaggi fondamentali dell’economia politica,
soprattutto dello sviluppo economico e della sicurezza sociale
(ma anche militare)”196.
Per Marramao sul “piano della teoria politica e
costituzionale, le tecniche regolative in cui si realizzano i rapporti
tra Costituzione e sistema rappresentativo” all’interno dello Stato
194
C.Offe, cit. in AA.VV., Trasformazioni e crisi del Welfare State, cit., pp. 388-397
Ibidem
196
“Questa forma di alleanza interclassista ha, in effetti, una base pratica nella teoria
economica di Keynes. Applicata alla pratica essa insegna a ciascuna classe a
‘immedesimarsi nell’altra’…Quindi, ciascuna classe deve tener conto degli interessi
dell’altra: i lavoratori devono tener conto delle esigenze del profitto, perché solo un
livello sufficiente di profitti e di investimenti assicurerà in futuro il livello occupazionale
e l’aumento dei redditi; i capitalisti devono tener conto delle esigenze dei salari e della
necessità di spesa dello Stato assistenziale, perché queste assicureranno la domanda
effettiva per l’economia e determineranno l’esistenza di una classe operaia sana, bene
addestrata e bene alloggiata” (ibidem)
195
87
keynesiano, hanno “condotto a un sensibile ridimensionamento
dei due concetti-cardine dello jus publicum europaeum: quello di
‘sovranità’ e quello di ‘popolo’”.
Il potere nel sistema keynesiano appariva pertanto come
un complesso sistema di checks and balances che si sottraeva a
qualsiasi definizione sintetica. In tale contesto la sovranità dello
Stato sembrava limitata per Marramao non solo da procedure che
garantivano “la supremazia della Costituzione (sia rispetto alle
norme ordinarie, sia rispetto al governo) ma anche dalla
costellazione dei ‘poteri di fatto’, dal diagramma degli interessi
che si costituiscono all’interno come all’esterno del pluralismo
politico-istituzionale”197 e che avrebbero comportato, così come
sostenuto da Kelsen198, una vera e propria desonstanzializzazione
e convenzionalizzazione del concetto stesso di democrazia.
3.3 La rivoluzione come possibile conseguenza della crisi
da sovraccarico istituzionale
La rivoluzione si configura per Huntington come una
delle possibili conseguenze della crisi da sovraccarico del sistema
politico. La rivoluzione consiste per il politologo statunitense in
“un rapido, radicale e violento cambiamento interno dei valori e
dei miti di una società, delle sue istituzioni politiche, della
struttura sociale, della leadership, delle attività e delle politiche di
governo”199. Le rivoluzioni200 sono poi “altra cosa dalle
197
AA.VV., Trasformazioni e crisi del Welfare State, cit., p. 344
cfr. H.Kelsen, Vom Wesen und wert der Demokratie, Tubingen, 1929
199
S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 286
198
88
insurrzioni , dalle ribellioni, dalle rivolte, dai colpi di stato e dalle
guerre di indipendenza”201. Infatti un colpo di stato, così come le
ribellioni e le insurrezioni, cambia “solo la dirigenza e forse le
decisioni politiche”, ma “non la struttura ed i valori sociali”202.
La rivoluzione203 si presenta inoltre come “l’espressione
estrema della modernizzazione”204, nel momento in cui sviluppa
“la convinzione che sia nei poteri dell’uomo di controllare e
cambiare il suo ambiente e che l’uomo non solo ha la capacità ma
anche il diritto di farlo”205
Potremmo quindi dire che le dinamiche politico-sociali,
innestate dalla modernizzazione, contengano in sé, qualora il
sistema politico non riuscisse a istituzionalizzarle, i rischi di una
rivoluzionaria
trasformazione
dei
rapporti
di
dominio
caratterizzanti l’ordinamento politico.
Ma in che modo la modernizzazione può determinare lo
sviluppo di processi politici rivoluzionari?206. L’essenza politica
della rivoluzione consiste per Huntington in un “rapido sviluppo
della coscienza e della mobilitazione politica dei nuovi
200
“Chiameremo semplicemente ‘rivoluzione’ quello che altri hanno definito come
grandi rivoluzioni, rivoluzioni totali o rivoluzioni sociali. Esempi insigni sono le
rivoluzioni francese, cinese, messicana, russa e cubana” (ibidem)
201
ibidem
202
ibidem
203
“Le rivoluzioni totali, sono come dice Friedrick ‘una caratteristica della cultura
occidentale’. Le grandi civiltà del passato - egiziana, babilonese, persiana, inca, greca,
romana, cinese, indiana, araba – sono passate attraverso esperienze di rivolte, di
insurrezioni e di mutamenti dinastici ma questi fenomeni non rappresentano nulla che
possa rassomigliare alle ‘grandi rivoluzioni dell’occidente’” (ibidem)
204
“La rivoluzione è quindi un aspetto del processo di modernizzazione; non è qualcosa
che può avvenire in una società qualsiasi, in un qualsiasi periodo della sua storia; non è
una categoria universale ma piuttosto un fenomeno limitato storicamente. Non avrà
luogo in società fortemente tradizionali, con livelli molto bassi di articolazione sociale
ed economica e neppure in società molto moderne. Come le altre forme di violenza e di
instabilità, è più probabile che intervenga in società che hanno sperimentato un certo
sviluppo economico e sociale e in cui i processi di modernizzazione politica e di
sviluppo politico sono rimasti indietro rispetto ai processi di mutamento sociale ed
economico” (op.cit., p. 287)
205
op.cit, p. 286
206
op.cit, p. 287
89
gruppi”207. Ma per potersi verificare il rovesciamento generale
delle strutture politiche di un ordinamento politico, ciò non basta:
è necessaria un’estensione della mobilitazione politica da parte di
nuovi gruppi coincidente con un altrettanto repentino sviluppo
della coscienza politica di tutti i gruppi. Questi nuovi gruppi
devono inoltre dimostrarsi capaci di proporre a loro volta
“istituzioni politiche sufficientemente flessibili, complesse,
autonome e compatte, in grado di assorbire e regolamentare la
partecipazione…e di promuovere un mutamento economico e
sociale all’interno della società”208, rendendo “impossibile la loro
assimilazione da parte delle istituzioni politiche esistenti”209.
3.3.1 Rivoluzione e sistema politico occidentale
La rivoluzione rappresenta perciò “l’estrema esplosione
della partecipazione politica”. Tuttavia una rivoluzione necessita
anche di quella che Huntington chiama la “seconda fase”, vale a
dire “la creazione e l’istituzionalizzazione di un nuovo
ordinamento politico”. Infatti una “rivoluzione riuscita associa ad
una
rapida
mobilitazione
politica
una
rapida
istituzionalizzazione”. Ciò significa che “non tutte le rivoluzioni
generano un nuovo ordinamento politico. La misura di quanto
una rivoluzione è rivoluzionaria sta nella rapidità e nell’ampiezza
dell’espansione della partecipazione politica”, così come la
207
ibidem
ibidem
209
ibidem
208
90
misura di quanto “sia riuscita sta invece nell’autorità e nella
stabilità delle istituzioni che genera”210.
Una rivoluzione comporta quindi “la rapida e violenta
distruzione delle istituzioni politiche esistenti, la mobilitazione
politica di nuovi gruppi e la creazione di nuove istituzioni
politiche”.
Dall’interazione fra questi tre elementi – rapida e
violenta
distruzione
delle
istituzioni
politiche
esistenti,
mobilitazione politica di nuovi gruppi e creazione di nuove
istituzioni – Huntington ricava un modello di rivoluzione
cosiddetto valido per i sistemi politici occidentali.
In Occidente “per rovesciare il vecchio regime è
sufficiente una azione limitata da parte di gruppi ribelli. La
rivoluzione…non inizia con l’attacco di una potente nuova forza
nei confronti dello stato, ma semplicemente dall’improvvisa
presa di coscienza di quasi tutti i membri passivi ed attivi della
comunità che lo stato non esiste più” Al crollo dell’apparato
statale segue così un vuoto d’autorità di cui profitterebbero i
“rivoluzionari” che, entrando “in scena non come eroi a
cavallo…ma come impauriti bambini che esplorano una casa
vuota ancora non sicuri che sia veramente vuota.”211 Sarebbe
infine la loro capacità di sviluppare, prima ancora di entrare nella
casa abbandonata, un proprio sistema di legittimazione,
alternativo ed egemone212 rispetto a quello dominante, che
determina poi la piena riuscita della rivoluzione.
210
op.cit., p. 288
ibidem
212
Gramsci sottolineava come il “fatto dell’egemonia presuppone indubbiamente che sia
tenuto conto degli interessi e delle tendenze dei gruppi sui quali l’egemonia verrà
esercitata, che si formi un certo equilibrio di compromesso, che cioè il gruppo dirigente
faccia dei sacrifici di ordine economico-corporativo, ma è anche indubbio che tali
sacrifici e tale compromesso non possono riguardare l’essenziale, poiché se l’egemonia è
211
91
Infatti i rivoluzionari, una volta preso il potere, si
troverebbero
comunque
di
fronte
delle
forze
contro-
rivoluzionarie interessate, “spesso con l’appoggio straniero”, a
“bloccare l’espansione della partecipazione politica”213 e a
“ristabilire un ordine politico basato su un potere ristretto e
concentrato”214.
L’intervento delle forze contro-rivoluzionarie darebbe
luogo in tal modo a un “periodo di anarchia e di assenza dello
stato successivo alla caduta del vecchio regime, in cui i moderati,
i controrivoluzionari e i radicali lottano tra di loro per il
potere”215. Quindi la presa della casa da parte dei rivoluzionari,
non costituisce affatto, per Huntington, la vittoria della
rivoluzione, ma l’inizio di un “prolungato periodo di dualismo di
potere, in cui i rivoluzionari espandono la partecipazione politica,
la portata e l’autorità dello loro istituzioni di governo mentre il
governo, legittimo in altre aree geografiche, continua ad
esercitare il proprio dominio”216.
etico-politica, non può non essere anche economica, non può non avere il suo
fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo decisivo
dell’attività economica” (A.Gramsci, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato
moderno, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 37)
213
“Kornilov, Yuan Shih-Kai, Huerta, e, in certo senso lo scià Reza e Mustafa Kemal
tutti giocarono questo ruolo all’indomani della caduta rispettivamente del regime di
Porfirio, delle dinastie dei Romanov, dei Ch’ing, dei Quajar e degli ottomani. Questi
esempi confermano che i controrivoluzionari sono quasi sempre militari: la forza è una
fonte di potere ma può avere efficacia a lungo termine solo quando sia collegata ad un
principio di legittimità” (S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale,
op.cit., p. 290)
214
op.cit., p. 290
215
ibidem
216
“Nella rivoluzione occidentale le lotte principali avvengono tra gruppi rivoluzionari:
in quella orientale tra un gruppo rivoluzionario e l’ordine costituito. Nella rivoluzione
occidentale la caduta del vecchio regime, che segna l’inizio della lotta rivoluzionaria,
può essere datata in modo preciso, ma è quasi impossibile individuare la fine della
lotta…… Nella rivoluzione occidentale i rivoluzionari partono dalla capitale per
conquistare il controllo della campagna. Nella rivoluzione orientale essi partono dalle
remote regioni della campagna e alla fine conquistano il controllo della capitale. In
genere in una rivoluzione occidentale la conquista delle istituzioni centrali e dei simboli
del potere è molto rapida……… la rivoluzione occidentale, in un certo senso combina l’
92
Prerequisiti della rivoluzione sono per Huntington
“l’incapacità delle istituzioni politiche di offrire canali per la
partecipazione politica di nuove forze sociali e di nuove élites al
governo e, in secondo luogo, la spinta alla partecipazione da
parte di forze sociali, normalmente escluse dalla vita politica217.
Questa spinta, in genere, nasce dal fatto che il gruppo vuole
ottenere remunerazioni simboliche o materiali, che può
conquistare solo portando avanti le sue rivendicazioni nella sfera
politica”218.
La rivoluzione219 trae poi origine sia da istituzioni
politiche che rifiutano l’espansione della partecipazione a fronte
di gruppi sociali che invece la esigono. La negazione delle sue
rivendicazioni è l’impossibilità di partecipare al sistema politico
può rendere un gruppo rivoluzionario220.
“ esplosione urbana” della classe media e la “ rivoluzione verde” degli abitanti della
campagna in un unico convulso processo rivoluzionario” (op.cit., p. 292, corsivo mio)
217
“Le rivoluzioni sono improbabili nei sistemi politici moderni altamente
istituzionalizzati – costituzionali o comunisti – che sono quello che sono proprio perché
hanno sviluppato le procedure idonee ad assimilare nuovi gruppi sociali e nuove élites
desiderose di partecipare alla vita politica. Le grandi rivoluzioni della storia si sono
verificate in monarchie tradizionali fortemente centralizzate (Francia, Cina, Russia), o in
dittature militari a base ristretta (Messico, Bolivia, Guatemala, Cuba) o in regimi
coloniali (Vietnam, Algeria). Tutti questi sistemi politici dimostravano poca, e spesso
nessuna, capacità di espandere il loro potere e di offrire canali alla partecipazione
politica di nuovi gruppi” (op.cit., p. 296)
218
“In teoria ogni classe sociale, che non sia stata incorporata nel sistema politico, è
potenzialmente rivoluzionaria” (op.cit., p. 296)
219
“Forse l’elemento più importante e ovvio, ma anche più trascurato, relativamente alle
grandi rivoluzioni vittoriose è che esse non avvengono in sistemi politici democratici,
con ciò non si sostiene che i governi formalmente democratici sono immuni dalla
rivoluzione; infatti una democrazia oligarchica a base ristretta può essere altrettanto
incapace di provvedere all’espansione della partecipazione politica quanto una dittatura
oligarchica a base ristretta. Ciò non di meno, l’assenza di rivoluzioni vittoriose in paesi
democratici resta un fatto singolare e suggerisce che, mediamente, le democrazie hanno
maggiore capacità di assorbire nuovi gruppi all’interno dei loro sistemi politici di quanto
non ne abbiano quei sistemi in cui il potere è più concentrato. L’assenza di rivoluzioni
vittoriose contro dittature comuniste suggerisce che la discriminante tra loro e le più
tradizionali autocrazie può essere proprio questa capacità di assorbire nuovi gruppi
sociali. Se una democrazia agisce in modo “non–democratico”. Impedendo l’espansione
della partecipazione politica, può incoraggiare la rivoluzione” (op. cit., p. 296)
220
“In teoria ogni classe sociale, che non sia stata incorporata nel sistema politico, è
potenzialmente rivoluzionaria” (ibidem)
93
La rivoluzione si presenta dunque, agli occhi di
Huntington, come una sorta di disfunzione multipla; da un lato
l’incapacità
del
sistema
istituzionale
di
governare
la
modernizzazione, dall’altro l’esistenza di gruppi esclusi dalla
gestione del potere, ma capaci di proporre un’elevata capacità di
interpretazione dello sviluppo politico, intervenendo su di esso al
fine di trasformare, rovesciandoli, l’insieme dei rapporti di
dominio.
Ma non basta l’esistenza di gruppi disposti ad una rottura
sovvertitrice degli assetti sociali per suscitare una crisi
rivoluzionaria; è necessaria anche, per Huntington, l’alleanza221
fra questi gruppi222; alleanza che verrebbe cementata proprio
221
“Una rivoluzione comporta necessariamente l’esclusione di molti gruppi da parte
dell’ordine esistente: essa è il prodotto di una ‘disfunzione multipla’ all’interno della
società. Un gruppo sociale può essere responsabile di un colpo di stato, di una rivolta, o
di una insurrezione, ma solo un’alleanza di più gruppi può generare un rivoluzione”
(op.cit.p. 298)
222
E’ interessante sottolinerare una certa analogia tra la riflessione politica di Huntington
e l’elaborazione teorica di Gramsci a proposito delle condizioni essenziali per la
formazione di un partito rivoluzionario, il cosiddetto Nuovo Principe. I caratteri di
questa formazione rispecchierebbero per certi aspetti i tratti di quell’alleanza tra gruppi,
anch’essa probabilmente tesa alla formazione di un’organizzazione partitica, che in
presenza di certe circostanze (rapidi processi di modernizzazione e incapacità del
sistema politico di istituzionalizzarli) potrebbe determinare l’avvio di un vero e proprio
processo rivoluzionario. È proprio dalla lettura del seguente passo,tratto dall’opera di
Gramsci, che possiamo cogliere le analogie con la riflessione sull’alleanza tra gruppi e
la rivoluzione di S.P.Huntington: “Quando un partito diventa ‘necessario’ storicamente ?
Quando le condizioni del suo ‘trionfo’, del suo immancabile diventar Stato sono almeno
in via di formazione e lasciano prevedere normalmente i loro ulteriori sviluppi. Ma
quando si può dire, in tali condizioni, che un partito non può essere distrutto con mezzi
normali ? Per rispondere occorre sviluppare un ragionamento: perché esista un partito è
necessario che confluiscano tre elementi fondamentali (cioè tre gruppi di elementi). 1)
Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla
disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo. Senza di
essi il partito non esisterebbe, è vero, ma è anche vero che il partito non esisterebbe
neanche ‘solamente’ con essi. Essi sono una forza in quanto c’è chi li centralizza,
organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si
annullerebbero in un pulviscolo impotente…2) L’elemento coesivo principale, che
centralizza nel campo nazionale, che fa diventare efficiente e potente un insieme di forze
che lasciate a sé conterebbero zero o poco più; questo elemento è dotato di forza
altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche…inventiva…: è anche vero
che da solo questo elemento non formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe più che
non il primo elemento considerato. Si parla di capitali senza esercito, ma in realtà è più
facile formare un esercito che formare dei capitani…3) Un elemento medio, che articoli
il primo col terzo elemento, che li metta a contatto, non solo ‘fisico’ ma morale e
94
dall’azione degli intellettuali che ne renderebbero il sistema di
valori accessibile a tutti grazie alla diffusione delle informazioni,
soprattutto per mezzo dei mass-media, veri e propri focolai di
diffusione e amplificazione delle ideologie rivoluzionarie223.
L’alleanza che può dar vita ad una rivoluzione è inoltre
strettamente legata, per lo studioso americano, alla possibilità e
alla capacità da parte dei gruppi rivoluzionari di far incontrare sul
medesimo terreno politico i “gruppi rurali” e i “gruppi urbani”,
cioè la classe media cittadina, vera e propria testa dello
intellettuale. Nella realtà, per ogni partito esistono delle ‘proporzioni definite’ tra questi
tre elementi e si raggiunge il massimo di efficienza quando tali ‘proporzioni definite’
sono realizzate. Da queste considerazioni, si può dire che un partito non può essere
distrutto con mezzi normali, quando, esistendo necessariamente il secondo elemento, la
cui nascita è legata all’esistenza delle condizioni materiali oggettive (e se questo
secondo elemento non esiste, ogni ragionamento è vacuo) sia pure allo stato disperso e
vagante, non possono non formarsi gli altri due, cioè il primo che necessariamente forma
il terzo come sua continuazione e mezzo di esprimersi. Occorre che perché ciò avvenga
si sia formata la convinzione ferrea che una determinata soluzione dei problemi vitali sia
necessaria. Senza questa convinzione non si formerà il secondo elemento, la cui
distruzione è la più facile per lo scarso suo numero, ma è anche necessario che questo
secondo elemento, se distrutto, abbia lasciato in eredità un fermento da cui riformarsi. E
dove questo fermento sussisterà meglio e potrà meglio formarsi che nel primo e nel terzo
elemento che, evidentemente, sono i più omogenei col secondo? L’attività del secondo
elemento per costituire questo elemento è perciò fondamentale: il criterio di giudizio di
questo secondo elemento sarà da cercare: 1) in ciò che realmente fa; 2) in ciò che
prepara nell’ipotesi di una sua distruzione…Poiché nella lotta si deve sempre prevedere
la sconfitta, la preparazione dei propri successori è un elemento altrettanto importante di
ciò che si fa per vincere”(A.Gramsci, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato
moderno, op.cit., pp. 28-30)
223
Rispetto al ruolo dei mass-media, di avviso diametralmente opposto era invece
Débord, secondo il quale lo “spettacolo – quindi anche il sistema dei mass-media in
generale – (appariva)…come strumento di unificazione. In quanto parte della società, è
espressamente il settore che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto stesso
che questo settore è separato, esso è il luogo dello sguardo ingannato e della falsa
coscienza; e l’unificazione che realizza non è altro che il linguaggio ufficiale della
separazione generalizzata (3)…Lo spettacolo può essere compreso come l’abuso del
mondo del vedere, il prodotto delle tecniche di diffusione di massa delle immagini. È
piuttosto una Weltanschauung divenuta concreta e operante, materialmente tradotta. È
una visione del mondo che si è oggettivata (5)…Lo spettacolo, compreso nella sua
totalità, è allo stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione
esistente…E’ il cuore dell’irrealismo della società reale…costituisce il modello presente
della vita socialmente dominante…è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta
nella produzione…è anche presenza permanente di questa giustificazione in quanto
occupazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione
moderna (6)” (G.Débord, La società dello spettacolo, Stampa Alternativa, Viterbo,
1995, pp. 5-6)
95
schieramento rivoluzionario, e i piccoli e medi proprietari
terrieri224.
3.3.2 Gruppi urbani e alleanza rivoluzionaria
Quali
sono
per
Huntington
i
“gruppi
urbani”
rivoluzionari?
Non il sottoproletariato, estraneo a ogni processo
rivoluzionario a causa delle condizioni materiali in cui è costretto
a vivere225, né tantomeno i lavoratori industriali, troppo
224
“Teoricamente le alleanze possibili sono molte, ma in realtà l’alleanza rivoluzionaria
deve includere alcuni gruppi rurali ed alcuni gruppi urbani. L’opposizione dei gruppi
urbani al governo può generare una instabilità permanente, caratteristica dello stato
pretoriano, ma solo la combinazione dell’opposizione urbana con quella rurale può
portare ad una rivoluzione…È quindi improbabile la rivoluzione se ad una situazione di
frustrazione della classe media urbana non corrisponde una pari situazione dei contadini.
I due gruppi potrebbero trovarsi ad esprimere un conflitto con il sistema politico, in
momenti diversi: ciò tendenzialmente preclude un processo rivoluzionario. Un lento
processo generale di mutamento sociale tenderà a ridurre le possibilità che questi due
gruppi siano simultaneamente isolati e quindi in conflitto con il sistema esistente. Man
mano che nel tempo il sistema di modernizzazione socio – economica diventa più rapido
aumenta anche la probabilità della rivoluzione. Tuttavia perché abbia luogo una
rivoluzione importante la media classe urbana e i contadini non devono solo essere
alienati dall’ordine esistente ma devono anche avere la capacità e lo stimolo ad agire su
linee parallele, se non in stretta alleanza. Se manca il giusto stimolo a unificare l’azione,
la rivoluzione può essere ancora evitata”, (S.P.Huntington, Ordinamento politico e
mutamento sociale, op.cit., p. 298)
225
“In apparenza le fonti più probabili di rivolte urbane sono i quartieri poveri, le
baraccopoli generate dalla immigrazione dei contadini. Come può essere spiegato questo
apparente conservatorismo e consenso? Quattro fattori sembrano rivestire una certa
importanza in questo fenomeno. Prima di tutto gli immigrati dalle campagne hanno
sperimentato la mobilità geografica e, in generale, essi hanno senza dubbio migliorato le
loro condizioni di vita passando alla città. L’immigrato paragonando il suo status
economico urbano con quello precedente prova un “ sentimento di relativa ricompensa.
Questo può accadere anche se si trova ai gradini più bassi della stratificazione urbana”.
In secondo luogo gli immigrati portano con sé valori e atteggiamenti rurali, ivi compresi
schemi di comportamento consolidati di rispetto sociale e di passività politica. La
maggior parte dei sobborghi urbani sono caratterizzati da basso livello di coscienza e di
informazione politica. La politica non è un problema seriamente sentito: meno di un
quinto di un campione tratto dai sobborghi di Rio risultava essersi impegnato in una
seria discussione politica nell’arco di sei mesi. Nella città vengono mantenuti i modelli
rurali di dipendenza e, conseguentemente, rimangono bassi i livelli di aspirazione e di
aspettativa politica. Diversi studi dimostrano che ‘i poveri delle città e delle campagne
dell’America Latina non si aspettano davvero che il loro governo faccia qualcosa per
migliorare la situazione’. Nella città di Panama, il 60% degli studenti provenienti dalle
96
omologati e garantiti dal sistema politico vigente226, bensì la
classe media: “La vera classe rivoluzionaria nella maggior parte
delle società in via di modernizzazione, è certamente la classe
media che costituisce la fonte principale di opposizione urbana al
governo. Gli atteggiamenti ed i valori politici di questo gruppo
dominano la vita politica della città”227 Se infatti “un’ampia
classe media, proprio come la prosperità, è una forza di
moderazione politica: il processo di formazione della classe
media”228, costituisce tuttavia, “conseguentemente ad un rapido
classi lavoratrici riteneva che ‘ciò che il governo fa non avrebbe influenzato molto la sua
vita’. Questo atteggiamento di indifferenza e di distacco rispetto alla politica e alla
possibilità di mutamento politico costituisce la base dell’atteggiamento conservatore dei
poveri…Un terzo fatto a cui far risalire la debolezza del radicalismo politico tra gli
abitanti dei quartieri poveri, è il loro naturale interesse per vantaggi immediati in termini
di cibo, di lavoro e di abitazione, vantaggi che possono essere ottenuti meglio
inserendosi piuttosto che contrastando il sistema esistente…Infine i modelli di
organizzazione sociale nei sobborghi possono essere un ulteriore elemento che scoraggia
il radicalismo politico. Nell’America Latina, prevale nei sobborghi urbani un elevato
livello di sfiducia reciproca e di antagonismo: questo rende difficile la cooperazione
organizzata diretta a formulare rivendicazioni e a impegnarsi nell’azione politica…È
tuttavia probabile che ad un certo punto questa situazione cambi e che il miglioramento
nelle condizioni dei baraccati arrivi a generare maggior irrequietezza e violenza politica.
La prima generazione di baraccati importa gli atteggiamenti rurali tradizionali di rispetto
sociale e di passività politica; ma i loro figli crescono in un ambiente urbano e fanno
propri gli obbiettivi e le aspirazioni della città; mentre i genitori si accontentano della
mobilità geografica i figli richiedono una mobilità verticale” (op.cit., p. 301)
226
“Nei paesi di recente modernizzazione una fonte meno probabile di attività
rivoluzionaria è costituita dal proletariato industriale…Il lavoratore industriale nella
maggior parte dei paesi in via di modernizzazione è praticamente un membro dell’élite;
egli usufruisce di condizioni economiche nettamente migliori di quelle della popolazione
rurale e in genere, viene favorito dalle scelte politiche del governo. Nei paesi attualmente
in via di modernizzazione, ha osservato Fallers il lavoratore si inserisce nell’ambiente
industriale “ in circostanze che generano in misura molto inferiore tutte le frustrazioni e
le ansietà, che Marx riassumeva nel termine “ alienazione” , rispetto ai pionieri
occidentali del lavoro industriale. Non manca certo la gente alienata, negli stati di nuova
formazione, ma i lavoratori industriali non ne rappresentano la parte più importante, sia
perché il settore industriale resta piccolo, sia perché i lavoratori tendono ad essere in una
situazione relativamente sicura e agiata se paragonata con quella dei contadini” (op.cit.,
p. 308)
227
op.cit., p. 304
228
“L’evoluzione della classe media può essere suddivisa in diverse fasi: di solito le
prime figure della classe media che compaiono sulla scena sociale sono gli intellettuali,
ricchi di radici tradizionali e di valori moderni. Ad essi seguono poi in graduale
proliferazione i funzionari pubblici, i militari, gli insegnanti e gli avvocati, gli ingegneri
e i tecnici, gli imprenditori e i dirigenti. I primi sono anche i più rivoluzionari: man
mano che la classe media diventa più ampia essa diventa anche più conservatrice”
(op.cit., p. 309)
97
processo di modernizzazione socio-economica”, anche “un
fattore fortemente destabilizzante”229. Di tutti i settori della classe
media, quello più disposto a sbocchi rivoluzionari è inoltre quello
degli intellettuali230, la cui diserzione231 costituirebbe “un
preavviso della rivoluzione”232. All’interno del gruppo degli
intellettuali, gli studenti sono poi “i rivoluzionari più uniti e
efficaci”233
Comunque sia, per assicurare l’avvio di uno sviluppo
rivoluzionario la classe media intellettuale necessita per
Huntington dell’attiva partecipazione dei gruppi rurali234.
Pertanto i “gruppi dominanti nella campagna” divengono
“il fattore critico che determina la stabilità o la fragilità del
governo. Se invece la campagna sostiene il governo”235, questo
ha il potenziale per isolare e contenere una rivoluzione.
229
ibidem
“L’intellettuale rivoluzionario è un fenomeno quasi universale nelle società in via di
modernizzazione…… La città è il centro dell’opposizione all’interno del paese; la classe
media è il centro dell’opposizione all’interno della città; gli intellettuali rappresentano il
gruppo di opposizione più attivo all’interno della classe media; e questo non significa
necessariamente che la maggioranza degli studenti, come la maggioranza della
popolazione in generale, non sia politicamente indifferente” (op.cit., p. 310)
231
“In realtà non si tratta di un problema di diserzione degli intellettuali, bensì di
formazione degli intellettuali in quanto gruppo distinto, che può essere foriero della
rivoluzione. Infatti nella maggior parte dei casi, gli intellettuali non disertano l’ordine
esistente per la semplice ragione che non ne hanno mai fatto parte. Essi sono nati
all’opposizione ed è la loro stessa comparsa sulla scena sociale, ad essere responsabile
del loro ruolo potenzialmente rivoluzionario” (ibidem)
232
op.cit., p. 310
233
ibidem
234
“Confinata nella città (la classe media intellettuale) può opporsi al governo, può
fomentare disordini e dimostrazioni, può a volte ottenere il sostegno della classe
lavoratrice e del sottoproletariato. Se riesce anche a ottenere la cooperazione di alcuni
elementi all’interno dell’esercito può anche rovesciare il governo. Tuttavia, in genere, il
rovesciamento di un governo da parte di gruppi urbani non comporta il rovesciamento
del sistema politico e sociale. È un cambiamento interno al sistema e non del sistema.
Fatte rare eccezioni non preannuncia l’inizio della ricostruzione rivoluzionaria della
società. In breve, i gruppi di opposizione nelle città, da soli, possono destituire dei
governi ma non possono fare una rivoluzione, che richiede l’attiva partecipazione di
gruppi rurali” (op.cit., p. 311)
230
98
3.3.3 Egemonia,
rivoluzionari
legittimità
ed
efficacia
nei
processi
La rivoluzione si presenta dunque agli occhi del
politologo statunitense come una possibile conseguenza dei
processi di modernizzazione. Quest’ultima infatti muta “la natura
della città e l’equilibrio città campagna. Nelle città le attività
economiche si moltiplicano e portano alla formazione di nuovi
gruppi sociali ed allo sviluppo di una nuova coscienza sociale
all’interno dei vecchi gruppi. Fanno la loro apparizione nella città
le nuove idee e le nuove tecniche importate dall’esterno. In molti
casi, specialmente dove la burocrazia tradizionale è discretamente
sviluppata, i primi gruppi a subire l’influenza della modernità
sono i funzionari militari e civili. A tempo debito entrano in
scena gli studenti, gli intellettuali, i mercanti, i dottori, i
banchieri, gli artigiani, gli imprenditori, gli insegnanti, gli
avvocati e gli ingegneri. Questi gruppi sviluppano una sensibilità
politica e richiedono una qualche forma di partecipazione al
sistema politico. Il ceto medio urbano, in breve, fa la sua
apparizione nella politica e crea nelle città agitazioni e
opposizione al sistema politico e sociale ancora dominato dalla
campagna…Per ricreare la stabilità politica si rende necessaria
un’alleanza fra alcuni gruppi urbani e le masse rurali. Una svolta
determinante nell’espansione della partecipazione politica in una
235
ibidem
99
società in via di modernizzazione è segnata dall’ingresso delle
masse rurali nella vita politica nazionale”236
La modernizzazione interviene così sulla strutturazione
dei rapporti di dominio, suscitando l’emergere di nuovi gruppi
che potrebbero a loro volta mobilitare la crescente partecipazione
politica della classe media, che sarebbe spinta ad avanzare
richieste volte alla promozione del proprio status sociale.
Qualora il sistema politico vigente non riuscisse però a
istituzionalizzarne la domanda politica, la contemporanea
esistenza di nuovi gruppi politici, la loro possibile alleanza in un
unico partito politico, la capacità di quest’ultimo di legare
assieme e mobilitare gli interessi politici delle classi urbane e di
quelle rurali, nonché di sviluppare un sistema di legittimazione
egemone, porrebbe la problematica dell’esistenza e del confronto
all’interno di una stessa collettività nazionale di due diverse fonti
di legittimazione politica, l’una complessivamente legale e
formalmente dominante, ma non più pienamente legittima, e
l’altra in parte legittima, perché complessivamente egemone ed
efficace237 nei confronti di numerosi settori della popolazione, ma
236
op.cit., p. 84
Il concetto di efficacia cui mi riferisco è quello sviluppato da H.Kelsen. Per lo
studioso cecoslovacco “l’esistenza dell’ordinamento giuridico o…l’esistenza del potere
statale è condizionata dall’efficacia complessiva, dal fatto cioè che le sue norme vengano
abitualmente osservate da chi ne è il destinatario. Come Atlante, un tale potere non
riposa che su se stesso, sulla sua sola capacità di farsi valere. Pertanto, chi accampa il
diritto di insignorirsi legittimamente le leve del comando, deve possedere la forza
necessaria per spezzare la resistenza dei recalcitranti ed imporre la propria volontà. Il
diritto di comandare nasce dal fatto di esercitare con successo il comando stesso, e in
questo contesto nulla esclude che dalla forza, dalla nuda e cruda forza, tale diritto derivi
la sua fonte. Legittimo è il comando forte, o meglio, il comando del più forte, il
comando efficace. E comando efficace è quello imperante, attualmente esistente, che
nessuno riesce ancora a scardinare. In questo senso è lecito dire che il diritto è
l’espressione di un potere efficace. Anche il bandito, però, possiede gli strumenti per
piegare la nostra volontà e può forzarci a eseguire i suoi ordini. E quello del bandito è
anch’esso un potere. E allora, considerato che il diritto è l’emanazione del potere e che il
potere è tale se e finchè produce gli effetti desiderati, ciò considerato occorre chiedersi:
come distinguere l’intimidazione del malvivente dalla prescrizione del legislatore ? La
vessazione illecita dall’imposizione autorizzata ? La risposta non è difficile purchè si
237
100
non ancora formalmente legale. Se oltretutto la nuova alleanza si
proponesse di sostituire le élites dominanti, disponendo della
legittimità e dell’efficacia per poterlo fare, ciò provocherebbe il
passaggio da una crisi di razionalità del sistema politico, dovuta
al sovraccarico
istituzionale,
a una crisi di legittimità
dell’apparato statale che aprirebbe un vuoto d’autorità, al tempo
stesso politica e istituzionale, che, se fosse riempito dall’alleanza
prima ricordata, avvierebbe un vero e proprio processo
rivoluzionario, ovverosia “la distruzione delle vecchie istituzioni
e dei modelli di legittimità politica, la mobilitazione di nuovi
gruppi, la redifinizione della comunità, l’accettazione di nuovi
valori e nuove concezioni di legittimità, la conquista del potere
da parte di una nuova élite più dinamica e la creazione di
istituzioni nuove e più forti”238.
Ma la rivoluzione, non significherebbe ancora, secondo
Huntington, l’inevitabile vittoria della stessa. Tutt’altro, vi
sarebbe al quel punto il confronto fra coloro che sono riusciti a
conquistare la casa abbandonata e coloro che l’hanno
abbandonata, ma per farvi ritorno quando i tempi, e magari
l’aiuto da parte di un paese straniero, lo avessero di nuovo
permesso.
A questo punto differenti fonti di legittimazione politica,
diverse forme di legalità e di efficacia si confronterebbero in
tempi e spazi coincidenti, ristrutturando definitivamente i
rapporti di dominio, oppure precipitando la società in un
rammenti che, appunto, di imposizione autorizzata si tratta. E dunque di norma che
muove dalla volontà di chi è legittimato a emanarla. E chi è legittimato a emanarla altro
non è che il destinatario di una norma ulteriore che autorizza lui e soltanto lui a creare il
diritto in date circostanze e solo in date circostanze” (H.Kelsen, Diritto, Stato e giustizia
nella teoria pura del diritto, in La teoria politica del bolscevismo, cit., p. 153, cit. in
G.Pecora, Introduzione, in H.Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Etas
Libri, Milano, 1994, XLI-XLII)
101
ordinamento politico di tipo pretoriano dove i ricchi sono pronti
a corrompere, gli studenti tumultuano, i lavoratori scioperano, le
folle fanno dimostrazioni e i militari colpi di stato 239.
Se si riuscisse invece a evitare “la rivoluzione, a tempo
debito il ceto medio urbano” muterebbe “in modo significativo”,
diventando “più conservatore man mano che si ingrandisce” e “la
classe lavoratrice urbana” inizierebbe “ad inserirsi nella
politica…, permettendo alla città di “giocare un ruolo politico più
efficace” in termini di conservazione dello status quo240.
3.4 Strategia e tattica delle riforme politiche
Se le “rivoluzioni sono rare. Le riforme sono forse
ancora più rare, ed entrambe non sono indispensabili”241. Così
Huntington esprime il proprio giudizio sulle riforme politiche
che, rispetto alle rivoluzioni, si differenziano “in termini di
velocità, ampiezza e direzione del cambiamento dei sistemi
politici e sociali”242. Infatti mentre una rivoluzione comporta un
rapido e totale cambiamento delle strutture culturali, politiche e
238
S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 85
“L’instabilità della città ( rivolte, sommosse e dimostrazioni) è in qualche misura una
caratteristica inevitabile del processo di modernizzazione. Il grado di questa instabilità
che si manifesta dipende dall’efficienza e dalla legittimità delle istituzioni politiche della
società. Nella città l’instabilità può essere contenuta ma è universale; l’instabilità nelle
campagne può essere più grave, ma è evitabile. Se le élite urbane che si identificano con
il sistema politico non riescono a egemonizzare la rivoluzione verde, si apre la
possibilità, per un gruppo di opposizione, di prendere il potere con la rivoluzione con
l’appoggio dei contadini e di creare un nuovo tessuto istituzionale monopartitico atto a
colmare il divario tra città e campagna” (op.cit., p. 87)
240
ibidem
241
op.cit., p. 367
242
ibidem
239
102
sociali243, le riforme appaiono invece come “mutamenti della
dirigenza, della linea politica e delle istituzioni politiche di
ampiezza limitata244 e non molto rapidi”245, ma che possono
comunque contribuire ad accrescere la richiesta di una maggiore
eguaglianza sociale ed economica, e conseguentemente estendere
la partecipazione politica246.
Quali sono, per Huntington, gli obiettivi delle riforme?
Mentre le finalità di una politica rivoluzionaria conducono verso
una polarizzazione politica, semplificando e drammatizzando i
problemi sociali, una rottura dello status quo e un ampliamento
della partecipazione politica, gli obiettivi del riformatore mirano
invece, attraverso l’abile “manipolazione delle forze sociali” 247, a
un “più sottile…controllo del mutamento sociale…che non sia
però…totale”, ma “graduale (e) non…convulso”248. Per questa
ragione una politica riformatrice, rispetto a una rivoluzionaria,
deve essere “molto più” selettiva “e discriminante249; deve cioè
243
“Più questi cambiamenti sono completi e più globale è la rivoluzione. Una
rivoluzione “ totale” o “ sociale” implica mutamenti significativi in tutte queste
componenti del sistema sociale e politico”, (ibidem)
244
“Tuttavia non tutti i cambiamenti parziali sono riforme. Il concetto di riforma implica
una certa direzione del cambiamento. Come dice Hirschman, una riforma è un
mutamento in cui il potere di gruppi fino a quel momento privilegiati, viene frenato
mentre viene migliorata la posizione economica e lo stato sociale di gruppi meno
privilegiati” (ibidem)
245
ibidem
246
“La riforma implica cioè un mutamento verso una maggiore uguaglianza sociale,
economica o politica e un allargamento della partecipazione politica e sociale” (ibidem)
247
op.cit., p. 368
248
ibidem
249
“In primo luogo egli necessariamente si trova a combattere una guerra su due fronti,
cioè sia contro i conservatori che contro i rivoluzionari. Per riuscire a vincere, si deve
impegnare su molti fronti, contro una molteplicità di avversari che spesso sono nemici su
un fronte e diventano alleati su di un altro….scopo del rivoluzionario è quello di
giungere ad una polarizzazione politica; egli tenta quindi di semplificare, drammatizzare
e sintetizzare i problemi politici secondo discriminati precise tra le forze del “ progresso”
e quella della “ reazione”. Egli mette l’accento sulle divisioni, mentre il riformatore deve
tentare di dipanare e risolvere le divisioni. Il rivoluzionario favorisce un irrigidimento
politico, il riformatore favorisce la fluidità e la capacità di adattamento. Il rivoluzionario
deve essere capace di dicotomizzare le forze sociali, il riformatore di manipolarle.
Conseguentemente è necessario che il riformatore possegga un livello più elevato di
abilità politica rispetto al rivoluzionario. Le riforme sono un fatto raro se non altro
103
dedicare molta più attenzione ai metodi, alle tecniche e ai tempi
del cambiamento”250.
Dovendo mantenere intatto il delicato equilibrio fra le
forze sociali coinvolte nella politica riformatrice, conciliando
nello stesso tempo la conservazione dei rapporti di dominio
vigenti e la progressiva trasformazione della strutturazione dei
rapporti di interazione sociali, il riformatore può adottare, per
Huntington, due tipi di strategie: l’una “lo porta a far conoscere
subito i suoi obbiettivi e a tentare di perseguirne il maggior
numero, spingendoli tutti contemporaneamente”, l’altra lo
indirizza invece a “tenere nascosti gli obiettivi pur tenendo aperte
tutte le porte e di portare avanti le riforme separatamente,
affrontando un cambiamento alla volta. La prima strategia
rappresenta un approccio ‘radicale’ o a blitzkrieg, la seconda
rappresenta un approccio incrementale cioè ‘settoriale’251 ovvero
fabiano”252.
perché è raro il talento politico necessario per realizzarle. Se un rivoluzionario vittorioso
non è necessariamente un grandissimo politico, un riformatore di successo lo è sempre…
Infine il problema della priorità e delle scelte tra diversi tipi di riforme è molto più acuto
per il riformatore che non per il rivoluzionario. Il rivoluzionario punta innanzi tutto
all’espansione della partecipazione della forza politica: le forze che emergono, vengono
poi impiegate per produrre mutamenti nella struttura sociale ed economica” (ibidem)
250
ibidem
251
Huntington si riferisce esplicitamente alla strategia temporeggiatrice adottata alla fine
dell’ottocento appunto dalla Società Fabiana della quale traiamo una descrizione
direttamente da uno dei suoi iscritti, W.Clarke. “Nata nell’autunno 1883 dalla
Democratic Federation. Fra gli altri, vi facevano parte anche “Walter Crane, il pittore;
Stopford Brooke, predicatore e letterato; Grant Allen, uno degli uomini più versatili e
dotati di oggi; George Bernard Shaw, estroso ma eccellente critico musicale, la signora
Willard, una delle riformatrici d’America; il professor Shuttleworth, uno dei più noti e
capaci ministri di Londra della Chiesa Latitudinaria; D.G. Ritchie, di Oxford, preminente
fra i pensatori inglesi in campo filosofico; la signora Wright, una delle nostre attrici più
valenti; Sergius Stepniak, secondo solo a Tolstoj fra i russi viventi; Alfred Hayes,
giovane poeta fra i primi del nostro paese; il Dr. Furnival, studioso inglese insigne per
dottrina e operosità: ecco alcuni dei suoi membri…Pochi lettori non hanno sentito
parlare di quel generale romano, Quinto Fabio Massimo, qui cunctando restituit rem, e
che di conseguenza ebbe il titolo di Cunctator, ossia di Temporeggiatore. Questo illustre
personaggio è il santo patrono della nostra Società, per il cui tramite, benchè morto, egli
parla tuttora. La Società fabiana si propone, dunque, di vincere temporeggiando; di
attuare i suoi programmi non con impeto precipitoso, ma col metodo più lento, e a suo
giudizio più sicuro, della discussione, esposizione e azione politica paziente di persone
104
3.4.1 “Strategia fabiana” e “blitzkrieg”
La strategia fabiana “tende ad isolare un gruppo di
problemi da un altro”, riducendo “al minimo l’opposizione che di
volta in volta il riformatore si trova di fronte”253. La fabiana è
dunque una politica dei piccoli passi, tendente ad affrontare la
trasformazione sociale, vale a dire l’istituzionalizzazione non
rivoluzionaria
delle
problematiche
suscitate
dalla
modernizzazione, delimitando di volta in volta il campo politico
delle richieste provenienti sia dalle élites dominanti, sia dai
gruppi emergenti.
La politica riformatrice di blitzkrieg trova invece nella
“rapidità e…sorpresa, due antichi principi della guerra” le sue
“necessità tattiche”254. In questo caso il “potere esistente nel
sistema politico” viene “concentrato nelle mani del leader
sorrette da convinzioni saldissime. Come motto adeguato la Società ha assunto la
massima seguente: ‘Siate pazientissimi nell’aspettare il momento giusto, come fu Fabio
guerreggiando contro Annibale, sebbene molti lo biasimassero per i suoi indugi; ma
quando arriva il momento colpite con forza, come Fabio, o l’attesa sarà stata vana e
infruttuosa’ (il corsivo è di chi scrive). Questa duplice linea di condotta, aspettare e
colpire, è dunque l’idea generale della società. E quali sono gli scopi della Società? Cito
dal programma ufficiale: ‘La Società fabiana è composta da socialisti. Vuole pertanto
riorganizzare la società mediante l’emancipazione del capitale terriero e industriale dalla
proprietà individuale e di classe, e il suo conferimento alla comunità per beneficio di
tutti. Solo in questo modo i vantaggi naturali e acquisiti del paese saranno equamente
condivisi da tutta la popolazione. La Società quindi lavora per l’eliminazione della
proprietà privata della terra e della conseguente appropriazione individuale, sotto forma
di rendita, del prezzo pagato per il permesso di usare la terra, e per i vantaggi di suoli e
siti migliori. La Società inoltre lavora per il trasferimento alla comunità
dell’amministrazione del capitale industriale che può essere gestito socialmente”
(W.Clarke, La società fabiana, in AA.VV. Saggi fabiani, Editori Riuniti, 1990, pp. 241242)
252
S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 368
253
op. cit., p. 375
254
cit., p. 375
105
riformatore”255 cui si affida il compito “di mettere in atto le sue
riforme prima che l’opposizione possa mobilitare i suoi
sostenitori…(e) allargare il numero dei partecipanti (nonché) il
livello di potere all’interno del sistema, con la possibilità di
bloccare i cambiamenti”256.
Pertanto la tecnica riformista appare come un’arma a
doppio taglio. Da una parte può essere indirizzata alla
progressiva trasformazione del sistema politico, implicante pure
la strutturazione dei rapporti di dominio che lo sottendono;
dall’altra può essere al contrario volta alla difesa delle istituzioni
contro il pericolo di una loro radicale metamorfosi, tale da
metterne in discussione gli assetti dominanti. Non a caso, come
vedremo nel capitolo successivo, Huntington, dipingendo il colpo
di stato militare come un’efficace risposta al progressivo
scivolamento verso una società di tipo pretoriano ovvero verso
processi rivoluzionari, invita le forze conservatrici a sviluppare
una politica che sappia coniugare fabianesimo e blitzkrieg per
portare a termine un’azione di riduzione del sovraccarico
istituzionale e di conservazione del sistema politico.
255
Il leader-legislatore di Huntington, oltre a rifarsi alla celebre figura del legislatore
roussoiano del Contratto Sociale, richiama anche quella del Nuovo Principe descritta da
Gramsci: “Il moderno principe, il mito-principe non può essere una persona reale, un
individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel
quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi
parzialmente nell’azione”; “elemento complesso” che Huntington individua nei militari
o comunque nelle istituzioni governative. Anche Gramsci sottolineava l’efficacia di una
tattica alla “blitzkrieg”: “Nel mondo moderno solo un’azione politica immediata e
imminente, caratterizzata dalla necessità di un procedimento rapido e fulmineo, può
incarnarsi miticamente in un individuo concreto: la rapidità non può essere resa
necessaria che da un grande pericolo imminente”. Lo studioso italiano sottolineava
tuttavia che “un’azione immediata…sarà quasi sempre del tipo restaurazione e
riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture
nazionali e sociali” (A.Gramsci, Note sul Machiavelli, op.cit., p.6). Come il Principe di
Gramsci, anche il legislatore di Huntington, non deve confondersi con l’azione di
un’unica persona, ma si manifesta “come coscienza operosa della necessità storica”
(op.cit., p.7)
256
S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, op.cit., p. 375
106
Mostrando, infatti, la fabiana i caratteri di una vera e
propria strategia, portatrice di obiettivi che possono essere
realizzati soltanto nel lungo periodo, e la blitzkrieg quelli di una
tattica tesa a eliminare dal gioco politico tutte quelle forze
d’opposizione che possano intralciare il cammino delle riforme,
Huntington propone di sintetizzare le due diverse metodologie in
un'unica combinazione politica, affinché l’azione politica sia la
più incisiva possibile257.
È possibile realizzare efficacemente questo tipo di
combinazione in difesa delle istituzioni senza ricorrere alla
violenza, soprattutto nella fase detta di blitzkrieg, quando cioè
l’intervento del leader riformatore deve essere il più possibile
rapido e volto a “impedire che gli oppositori delle riforme
abbiano lo stimolo o la capacità di mobilitare le masse contro il
cambiamento”258 ?
È Huntington stesso a dissipare ogni dubbio, rilevando
come “nella maggior parte delle società, la pace sociale non è
possibile senza l’attuazione di alcune riforme e le riforme sono
impossibili senza un certo livello di violenza”259.
“L’efficacia della violenza nel promuovere le riforme –
prosegue Huntington – …appare come il sintomo della
mobilitazione politica di nuovi gruppi che adottano nuove
tecniche politiche”. Inoltre, l’efficacia della violenza dipende
“dall’esistenza o meno di strumenti politici alternativi la cui
attuazione può tendenzialmente ridurre i disordini. Se (infatti) la
violenza assumerà solo il significato di risposta alienata ad una
257
“La combinazione della strategia fabiana con tattiche di blitzkrieg è diretta a ridurre
questo pericolo e a diminuire la probabilità che gli oppositori delle riforme abbiano lo
stimolo o la capacità di mobilitare le masse contro il cambiamento” (ibidem)
258
ibidem
259
ibidem
107
situazione generale difficile ed avrà obiettivi imprecisati ed
incerti, contribuirà ben poco a promuovere delle riforme. Per
questo fatto, sia i riformatori che i conservatori, devono percepire
che il ricorso alla violenza è direttamente collegato ad una
richiesta su un particolare problema politico. La violenza,
altrimenti, sposta l’interesse dal merito delle riforme alla
necessità di ordine pubblico”, quando invece “la necessità delle
riforme è più forte e convincente che mai quando viene espressa
come necessità di preservare la pace interna”, spostando “a
favore delle riforme i conservatori interessati al mantenimento
dell’ordine pubblico”.
Comunque, per il politologo americano, non è tanto la
violenza di per sé a rendere efficace un’agire politico teso alla
conservazione del sistema istituzionale, quanto il fatto che essa
assuma i caratteri di “una tecnica politica sconosciuta e
insolita”260, di cui le forze conservatrici devono farsi interpreti261.
3.5 La “corruzione politica” come strumento di
“assimilazione irregolare di nuovi gruppi nel sistema
politico”
260
ibidem
Tuttavia Huntington rileva come non sempre la strategia riformista dia i frutti sperati
in termini di conservazione dello status quo. Infatti si “può sostenere che le riforme
contribuiscono non alla stabilità politica ma ad una ancora maggiore instabilità e perfino
alla stessa rivoluzione”. Le riforme possono così “diventare un catalizzatore della
rivoluzione piuttosto che un suo surrogato” (op.cit., p.385)
261
108
Per Huntington la “corruzione è il comportamento dei
funzionari pubblici262 che deviano dalle norme riconosciute, al
fine di conseguire obiettivi privati”263. Anch’essa, così come la
rivoluzione e le riforme, é “correlata abbastanza strettamente con
un rapido processo di modernizzazione”264, e con l’assenza di un
efficiente processo di istituzionalizzazione da parte del sistema
politico.
Secondo lo studioso americano “La corruzione nelle
società in via di modernizzazione non è tanto il risultato di
deviazioni di comportamento, che vengono definiti corrotti e
condannati secondo nuovi parametri e nuovi criteri di ciò che è
giusto e di ciò che è sbagliato…(ma) un prodotto della
distinzione tra benessere pubblico e interesse privato”265. Inoltre
la modernizzazione stessa contribuisce alla corruzione creando
nuove sorgenti di ricchezza e di potere, non più definite dalle
tradizionali norme, ma non ancora regolabili con nuove
disposizioni accettate dai gruppi sociali dominanti ed emergenti.
Non solo, ma la modernizzazione
implica pure
un’“espansione dell’autorità governativa e una moltiplicazione
delle attività soggette alla sua regolamentazione”266. È proprio
per questa ragione che la corruzione può essere gestita in termini
di “assimilazione irregolare” dei gruppi emergenti, “quando il
262
I “funzionari pubblici mancano di autonomia e di coesione, e subordinano i loro ruoli
istituzionali alle richieste esterne” (ibidem)
263
“Se è vero che la corruzione esiste in tutte le società, è altrettanto vero che è più
diffusa in alcune società e in certi periodi dell’evoluzione di una società” (ibidem)
264
“Sembrerebbe che la vita politica americana del XVIII e del XX secolo fosse meno
corrotta che nel XIX secolo. Lo stesso si può dire della vita politica dell’Inghilterra nel
XVII secolo e alla fine del XIX secolo rispetto a quella del XVIII secolo. È solo un caso
che questo elevato livello di corruzione nella vita pubblica inglese e americana abbia
coinciso con l’impatto della rivoluzione industriale, lo sviluppo di nuove fonti di
ricchezza di energia e l’apparizione di nuove classi e di nuove rivendicazioni nei
confronti del governo?” (op.cit, p. 390)
265
Ibidem. Il corsivo è di chi scrive
266
ibidem. Il corsivo è di chi scrive
109
sistema si sia dimostrato incapace di modificarsi abbastanza
velocemente da predisporre strumenti legittimi e idonei a questo
fine”267.
Pertanto la corruzione politica e istituzionale può avere
per Huntington anche conseguenze positive, presentandosi
appunto come strumento irregolare di assimilazione dei nuovi
gruppi
nel
sistema
politico,
affinché
quest’ultimi,
istituzionalizzati tramite questo tipo di procedura, non sviluppino
una pressione tale da indurre un sovraccarico, divenendo invece
indirettamente parte
di quelle
istituzioni che
intendono
contrastare268.
3.5.1 Funzioni e cause della corruzione politica
Per Huntington le “funzioni ed anche le cause della
corruzione sono simili a quelle della violenza. Entrambe vengono
incoraggiate dal processo di modernizzazione; entrambe sono
267
“Nella società in via di transizione, l’adesione di un gruppo sociale a valori moderni
spesso assume forme drastiche. Gli ideali di onestà, integrità, universalismo, e merito
diventano spesso dominanti che gli individui e i gruppi arrivano a condannare come
corrotte pratiche che sono accettate come normali e perfino legittime in società più
moderne” (op.cit. p. 391)
268
Per la Zincone un processo analogo si sarebbe sviluppato in Italia durante l’ultima
fase dell’Unità (1860-1865) (G.Zincone, Da sudditi a cittadini, Il Mulino, Bologna,
1992). Infatti per la studiosa italiana “il regime liberale” avrebbe scelto, soprattutto nel
meridione, di “comprare la lealtà delle élites locali disponibili all’accordo utilizzando
soprattutto risorse economiche locali”, abbandonando così “il costoso progetto di
integrazione delle classi subalterne”, mettendo “al contempo…le proprie istituzioni al
riparo dai gruppi sleali” (op.cit., p. 146).
La stessa impressione si ricava da Ferrajoli (L.Ferrajoli, La crisi dello Stato di diritto
nella crisi dello Stato sociale, in AA.VV., Trasformazioni e crisi del welfare state, cit.)
che nel 1983 scrisse a proposito dell’uso sistematico della corruzione a fini di
integrazione, verificatasi in Italia a cavallo fra gli anni ’70 e ’80. Tutto ciò sarebbe
avvenuto “nella dissoluzione ulteriore dei tre connotati dello Stato di diritto…:
precisamente, nell’incremento dell’illegalità del sistema politico, nello sviluppo
rigoglioso del segreto entro l’apparato statale, nell’accresciuta irresponsabilità del ceto
di governo” (op.cit., p. 422)
110
sintomatiche
della
debolezza
delle
istituzioni
politiche…entrambe sono strumenti con cui gli individui e i
gruppi si rapportano al sistema politico e, in realtà, vi partecipano
in modi che violano le norme del sistema stesso”269.
Quindi
“una
predisposizione alla
società
corruzione
che
possiede
possiede pure
un’elevata
un’elevata
predisposizione alla violenza”270.
Tuttavia “il prevalere della violenza rappresenta una
minaccia maggiore al funzionamento del sistema di quanto non lo
sia la corruzione”271. Infatti, pur essendo entrambi “strumenti
illegittimi per avanzare richieste nei confronti del sistema”, la
prima procedura sarebbe da preferirsi alla seconda in quanto,
lungi dall’essere “un sintomo di alienazione…profonda”, colui
“che corrompe un funzionario pubblico del sistema si identifica
probabilmente con il sistema molto più di colui che prende
d’assalto un posto di polizia”272.
Ciò significa che la corruzione si configura come una
procedura istituzionalizzante per offrire “vantaggi immediati,
specifici
e
concreti
a
gruppi
che
altrimenti
sarebbero
profondamente alienati dalla società. Per questo – ammette
Huntington –
la corruzione può essere funzionale al
mantenimento del sistema politico”273, oppure esserne addirittura
un sostituto274, riducendo sia “le pressioni dei gruppi sociali
269
S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, p. 391
ibidem
271
ibidem
272
ibidem
273
Ibidem. Il corsivo è di chi scrive
274
“Il grado di corruzione prodotto dalla modernizzazione in una società è chiaramente
funzione della natura sia della società tradizionale che del processo di modernizzazione.
In una società tradizionale, la compresenza di culture differenti e di vari sistemi di valori
è un elemento che incoraggia la corruzione…Nella maggioranza dei casi la corruzione
implica uno scambio di azione politica contro ricchezza economica. La forma particolare
prevalente in una data società dipende dalla facilità di accesso all’una o all’altra. In una
270
111
verso cambiamenti politici”, sia “la pressione di classe in favore
di mutamenti strutturali”275.
3.6 Crisi da sovraccarico e istanza dominativa sovrana
La modernizzazione provoca dunque, per Huntington,
dei cambiamenti all’interno di un ordinamento socio-politico,
suscitando delle trasformazioni soprattutto nel sistema di
legittimazione dei rapporti di dominio che lo sottendono. Essa
definisce oltretutto l’immissione sulla scena politica di nuovi
gruppi sociali che, non trovando un’adeguata risposta alle proprie
richieste, potrebbero scegliere di mobilitare, al fine di realizzare i
loro obiettivi, settori fino ad allora esterni al sistema, proponendo
loro un programma di trasformazione delle strutture politiche
esistenti in grado di determinare una ristrutturazione dei rapporti
di dominio.
La mobilitazione da parte dei nuovi gruppi si tradurrebbe
in tal modo in una crescita della partecipazione politica, spesso
non compatibile con gli assetti sociali vigenti, in quanto sospinta
da fonti di legittimazione e da prospettive differenti rispetto a
quelle definite dallo status quo.
Qualora
il
sistema
politico
non
riuscisse
a
istituzionalizzare la crescita e gli inputs politici, frutto
dell’accresciuta partecipazione, il prezzo di questa inadeguatezza
istituzionale potrebbe condurre ad una crisi da sovraccarico in
società che offre molte occasioni di accumulazione di ricchezza e poche posizioni di
potere politico di modello più ricorrente sarà quello di utilizzare la prima per acquistare
il secondo” (ibidem)
112
grado di coinvolgere la razionalità ovvero la legittimità del
sistema a seconda che al vuoto di autorità, provocato dal
sovraccarico, faccia riscontro o meno un’alleanza politica fra i
gruppi sociali esclusi dalla gestione del potere e in grado di
mutare la crisi in una trasformazione potenziale degli assetti
istituzionali.
La capacità dell’alleanza di proporre una nuova
distribuzione dei rapporti di dominio, sorretta da fonti di
legittimazione proprie e da un sistema politico in grado di porsi
come complessivamente legittimo, legale ed efficace, darebbe
infine luogo ad un processo rivoluzionario che farebbe leva sulla
disfunzione multipla del sistema istituzionale al fine di provocare
un radicale mutamento dell’insieme dei rapporti di interazione
dell’ordinamento politico.
Inoltre sia l’inizio di una rivoluzione non significherebbe
automaticamente la perdita di potere per le élites dominanti, ma
l’avvio di un vero e proprio dualismo di potere che si
svilupperebbe attraverso la crescita illimitata della partecipazione
politica da parte dei gruppi rivoluzionari e la corrispettiva
concentrazione della totalità del potere politico nelle mani di un
unico leader-legislatore, posto a difesa dei rapporti di dominio,
da parte invece dell’istanza formalmente dominativa e sovrana.
È possibile impedire che il sovraccarico istituzionale
inneschi dinamiche di potenziale trasformazione degli assetti
dominanti, culminante in un processo rivoluzionario e in un
successivo dualismo di potere? Per Huntington la risposta risiede
nella capacità del sistema politico di saper anticipare ed
ostacolare, seppur in presenza di inadeguate procedure di
275
Ibidem. Il corsivo è di chi scrive
113
istituzionalizzazione, determinate conseguenze, quali appunto la
rivoluzione o l’emergere di una società pretoriana. Questa
capacità di contrasto si esplicita infine in due prospettive, diverse
per quanto riguarda la tecnica adottata, ma simili per le finalità
perseguite e il contesto di generale “restringimento della
legittimità all’interno del regno del potere”276 che realizzano: il
colpo di stato militare e un “modello decisionale di governo più
efficace e…vincolante”277.
276
277
S.P.Huntington, American Politics, cit., p. 211
M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, cit., p. 110
114
4. Colpo di stato e “performance” militare
4.1 Sovraccarico e sbocco nelle “società pretoriane”: il
possibile ruolo di “legislatore” delle forze armate
Nel capitolo precedente abbiamo analizzato le possibili
conseguenze derivanti, per Huntington, da una crisi da
sovraccarico. Abbiamo anche supposto che questa crisi può
comportare una messa in discussione della stessa legittimità
dell’apparato
istituzionale
inducendo
una
trasformazione
potenziale nel tessuto politico-sociale fino alla conseguenza
estrema di una rivoluzione.
Nel capitolo che segue cercheremo invece di mettere in
luce le soluzioni che il professore di Harvard suggerisce nel caso
in cui la crisi da sovraccarico, implicando una trasformazione
potenziale del sistema, minacci l’avvio di un processo
rivoluzionario ovvero il precipitare dell’ordinamento politico
nello stato pretoriano.
L’analisi di Huntington segue due diverse direzioni, a
seconda che si tratti dei sistemi politici dei paesi in via di
sviluppo, in particolar modo l’America latina della fine degli anni
’60, ovvero delle democrazie occidentali.
115
Una possibile via d’uscita dalla deriva pretoriana,
caratteristica delle democrazie dei paesi in via di sviluppo278,
consiste per Huntington nell’intervento politico delle forze
militari. Tant’è vero che “gli interventi militari costituiscono un
elemento non dissociabile dal processo di modernizzazione
politica, qualsiasi sia il continente o il paese in cui
avvengono”279. Non solo, ma le “stesse cause che generano gli
interventi militari in politica sono parimenti responsabili
dell’impegno politico dei sindacati, degli imprenditori, degli
studenti e del clero”. Queste cause non risiedono nella natura dei
gruppi militari, bensì “nella struttura della società”, ossia
278
Il pretorianesimo, cioè la tendenza verso un sistema di tipo pretoriano, è per
Huntington un “risultato particolarmente endemico presso certe culture (ad esempio
quella spagnola e quella araba) con la tendenza a mantenersi parallelamente
all’espansione della partecipazione politica e all’emergere di una struttura sociale
moderna più complessa”, le cui “origini…vanno ricercate nell’assenza di una qualsiasi
eredità di istituzioni politiche del periodo coloniale e inoltre nel tentativo di introdurre,
nella società fortemente oligarchica dell’America Latina dell’inizio del XIX secolo, le
istituzioni repubblicano-borghesi della Francia e degli Stati Uniti” 278. Ragion per cui in
queste società l’intervento dei militari può rivestire un indiscutibile ruolo
modernizzatore: “A queste domande non esistono risposte ovvie. Tuttavia, forse si
possono fare due generalizzazioni relativamente al passaggio delle società dalla
disunione pretoriana all’ordine civile. Innanzitutto, più presto avviene questo sviluppo
all’interno del processo di modernizzazione e di allargamento della partecipazione
politica, più bassi sono i costi che vengono a gravare sulla società. Al contrario, più
complessa è la società e più difficile diventa la creazione di istituzioni politiche di
integrazione. In secondo luogo, ad ogni stadio dello sviluppo della partecipazione
politica le occasioni di azione politica feconda sono legate a differenti gruppi sociali e a
differenti tipi di dirigenti politici. Quanto alle società che si trovano nella fase pretoriana
radicale, la leadership, nel processo di creazione di durature istituzioni politiche, deve
ovviamente provenire dalle forze sociali della classe media e deve fare appello ad esse.
Alcuni hanno sostenuto che una leadership eroica, carismatica può essere in grado di
esercitare questo ruolo. Dove le istituzioni politiche tradizionali sono deboli, o in
decadenza, o distrutte, l’autorità spesso finisce col dipendere da questi leader
carismatici, che tentano di colmare il divario tra la tradizione e la modernità attraverso
una forte carica personale. Nella misura in cui questi leader sono in grado di concentrare
in sé il potere, è probabile che si vengano a trovare in una posizione tale da promuovere
lo sviluppo istituzionale e da esercitare il ruolo di ‘grande legislatore’ o di ‘padre
fondatore’…Per la loro stessa natura gli studenti sono contro l’ordine costituito e, in
genere, sono incapaci di costituire l’autorità e di stabilire principi di legittimità. Vi sono
molti casi di dimostrazioni, disordini e rivolte religiose e studentesche, ma nessun
esempio di governo studentesco e pochi esempi di governi religiosi” (S.P.Huntington,
Ordinamento politico e mutamento sociale, cit., p. 248)
279
op.cit., p. 211
116
“nell’assenza…di efficaci istituzioni politiche all’interno della
società stessa”280.
Come si verrebbe a configurarsi una società pretoriana?
“In un sistema pretoriano – secondo l’ipotesi dello
studioso americano – le forze sociali” si confronterebbero “l’una
con l’altra in modo diretto; nessuna istituzione politica, nessun
corpo di dirigenti politici di professione” verrebbe “riconosciuto
o accettato come intermediario legittimo per moderare i conflitti
di gruppo…Ogni gruppo” utilizzerebbe “così gli strumenti che
riflettono la sua particolare natura e le sue capacità: la forte
corruzione, i disordini studenteschi, gli scioperi dei lavoratori e le
dimostrazioni di massa”281. L’assenza di istituzioni politiche
efficaci in una società pretoriana implicherebbe pertanto un
potere frammentato, esercitato in molte forme e in piccole
quantità. L’autorità sul sistema nel suo complesso finirebbe così
coll’essere transitoria e la debolezza delle istituzioni politiche
definirebbe autorità e cariche facilmente acquisite e perdute.
Nelle “società pretoriane la partecipazione di gruppi nuovi alla
vita politica” acutizzerebbe “le tensioni piuttosto che ridurle”,
moltiplicando “le risorse e i metodi impiegati nell’azione
politica”,
contribuendo,
pertanto,
“alla
disgregazione
dell’ordinamento politico”. Nuovi gruppi verrebbero mobilitati,
ma non assimilati. Insomma, in una società che rischia di
precipitare in un simile contesto, le “tecniche dell’intervento
militare” sarebbero “solamente più drammatiche ed efficaci delle
280
281
op.cit., p. 214
op.cit., p. 215
117
altre in quanto, come dice Hobbes, ‘quando non viene girata la
carta i fiori sono briscole’”282.
4.1.1 Il colpo di stato militare come strumento d’intervento
Per Huntington lo “strumento estremo” per impedire il
precipitare del sistema politico in una società pretoriana è dunque
“il colpo di stato militare”283.
Nelle intenzioni del professore di Harvard il colpo di
stato militare è tanto un tipo di intervento, al tempo stesso
drammatico ed efficace, quanto “il risultato e il prodotto di altri
tipi di azione politica condotti da altri gruppi284. “L’intervento dei
militari nella vita politica non è una deviazione isolata rispetto a
una situazione politica normalmente pacifica: è un elemento
particolare all’interno di una complessa situazione di azioni
dirette messe in atto da diversi gruppi della classe media in
conflitto tra loro…l’assenza di canali istituzionali riconosciuti per
l’espressione degli interessi, comporta che le rivendicazioni nei
282
“È dunque chiaro che la stabilità di un ordinamento politico civile è direttamente
proporzionale all’ampiezza della partecipazione politica, mentre la stabilità di una
società pretoriana è inversamente proporzionale all’ampiezza della partecipazione
politica. Le oligarchie pretoriane possono durare secoli; i sistemi pretoriani della classe
media decenni, i sistemi pretoriani di massa in genere solo pochi anni. O il sistema
pretoriano di massa viene trasformato con la conquista del potere da parte di un partito
totalitario come nella Germania di Weimar, oppure le élites più tradizionali tentano di
ridurre il livello della partecipazione attraverso strumenti autoritari, come in Argentina.
In una società senza istituzioni politiche efficienti ed incapace di svilupparle, il risultato
finale del processo di modernizzazione sociale ed economica è il caos politico” (ibidem)
283
“Anche in una società pretoriana la partecipazione politica tende ad aumentare o a
decrescere simultaneamente in tutti i gruppi sociali. Tuttavia l’azione politica di un
gruppo provoca una forma di azione differente da parte di un altro gruppo, che, a sua
volta può suscitare altre modalità di comportamento politico” (op.cit., p. 217)
284
“Rispetto agli altri gruppi sociali impegnati in particolari forme di azione diretta, il
tipo d’intervento dei militari è il più drammatico e il più efficace: esso tuttavia è in
genere il risultato e il prodotto di altri tipi di azione politica condotti da altri gruppi”
(ibidem)
118
confronti del governo vengano portate avanti ‘con i meccanismi
della violenza civile e dell’intervento militare’”. Pertanto
“l’intervento
dei
militari
è
in
genere
una
risposta
all’acutizzazione del conflitto sociale tra i diversi gruppi e partiti
che accompagna una diminuzione di efficacia e di legittimità
delle istituzioni politiche esistenti. L’intervento militare serve ad
arrestare la rapida mobilitazione politica di piazza delle forze
sociali…e
a
disinnescare
l’esplosiva
situazione
politica,
rimuovendo l’obiettivo e lo stimolo immediato di questa
escalation. In breve l’intervento dei militari spesso segna la fine
di una serie ininterrotta di violenze”285.
Il dato interessante della riflessione di Huntington è il
fatto che il colpo di stato militare risulta essere anche il prodotto
di una serie ininterrotta di azioni violente, alcune delle quali
appositamente predisposte per acutizzare il clima di tensione
politico-sociale e sollecitare in tal modo un più rapido intervento
delle forze armate; per cui è probabile che l’intervento dei
militari, coerentemente alla tattica di blitzkrieg esposta nel
capitolo precedente, debba essere anticipato da una serie di atti
terroristici che contribuiscano ad accrescere il disordine politicosociale al fine di dirigere l’attenzione dell’opinione pubblica
verso una necessità d’ordine, legittimando il colpo di stato come
una soluzione necessaria.
285
“In questo senso esso è molto diverso dalle tattiche impiegate da altri gruppi sociali:
sebbene i disordini, gli scioperi, le dimostrazioni possano costringere direttamente o
indirettamente un governo a modificare la sua politica, essi non sono in grado da soli di
far cadere la forza che detiene il potere governativo. Il colpo militare invece, è una
azione diretta che cambia non solo la politica del governo al potere, ma il governo
stesso. Paradossalmente la dirigenza militare non ha a disposizione strumenti di
intervento diretto per il raggiungimento di obiettivi politici parziali. L’esercito può
minacciare il governo di intervento se non cambia la sua politica, ma non può esercitare
pressioni sul governo eseguendo un colpo di stato. Nei confronti di questo obiettivo le
forze sociali civili e i soldati semplici (che possono scioperare o ribellarsi) hanno
119
4.1.2 Le possibili conseguenze del colpo di stato militare
Il colpo di stato militare è dunque, per Huntington, il
mezzo più idoneo per arrestare i processi di disgregazione
politica.
Le sue “caratteristiche politiche” sono: (a) il tentativo da
parte di una coalizione di sostituire illegalmente i capi del
governo per mezzo della violenza o della minaccia di violenza;
(b) il ristretto numero di persone implicate; (c) il controllo da
parte dei promotori di basi istituzionali di potere all’interno del
sistema politico prima che il colpo di stato abbia luogo.
Ma quale ruolo rivestono i militari in una società
coinvolta in un rapido processo di modernizzazione?
“Se la società cambia – sostiene Huntington – cambia il
ruolo dei militari. Nel mondo dell’oligarchia il militare è un
radicale; nel mondo della classe media egli è membro e arbitro;
quando appare all’orizzonte la società di massa egli diventa il
custode conservatore dell’ordine esistente”
Pertanto in una società industriale o in via di sviluppo,
percorsa da un rapido processo di modernizzazione, i militari
appaiono come l’istituzione conservatrice per eccellenza dei
rapporti di dominio esistenti.
Tant’è vero che “più una società è arretrata, più
progressista è il ruolo dei suoi militari; più avanzata diventa, più
il ruolo dei suoi militari diventa conservatore e reazionario”.
possibilità di azione più adatte degli ufficiali. Questi ultimi si devono limitare ad usare o
a minacciare l’uso di un arma estrema” (op.cit., p. 234)
120
Secondo quest’ottica il colpo di stato militare riveste
dunque una funzione di “sbarramento”286 degli effetti prodotti dal
sovraccarico istituzionale, quando questi siano tali da mettere a
repentaglio l’esistenza stessa del sistema politico, riflettendo la
crescita non istituzionalizzata della partecipazione287.
Questo intervento si presenta però come temporaneo e
non permanente. Deve pertanto svolgere, nelle intenzioni di
Huntington, una funzione di ripristino e non di gestione dello
status quo, quindi vertere verso una riconsegna del potere alle
istituzioni civili, dopo averle adeguatamente depurate da tutti
quei fattori che ne avevano provocato la crisi. L’intervento dei
militari è di conseguenza “stimolato dalla corruzione, dalla
stagnazione, dalle situazioni di stallo, dall’anarchia, dalla
sovversione del sistema politico costituito. Una volta che questi
elementi siano eliminati, i militari ritengono di poter restituire la
vita politica purificata nelle mani dei dirigenti civili. Il loro
compito è semplicemente quello di eliminare il disordine e poi
tornare al proprio posto. La loro è una dittatura temporanea – in
una certa misura una dittatura di modello Romano”288.
286
“Più precisamente gli interventi di sbarramento in genere avvengono in presenza di
due circostanze. Una è la reale o prevista vittoria elettorale di un partito o di un
movimento a cui i militari si oppongono o che rappresenta gruppi che i militari
desiderano escludere dal potere politico…L’impegno dei militari nella vita politica è
saltuario e limitato ad obiettivi specifici, i militari non considerano se stessi né come i
modernizzatori della società, né come i creatori di un nuovo ordine politico, ma piuttosto
come i guardiani e forse i moralizzatori dell’ordine esistente”, (op.cit., p. 241)
287
“Gli interventi militari di questo tipo cioè di ‘sbarramento’; riflettono quindi
direttamente una crescente partecipazione politica delle classi inferiori. Il momento in
cui i militari argentini giocarono un ruolo più attivo coincise col raddoppiamento del
proletariato industriale da mezzo milione a un milione di lavoratori in poco più di un
decennio. Analogamente in Brasile ‘il rumoreggiare delle masse urbane e la
proliferazione di politici che sollecitavano demagogicamente i loro voti riportarono nel
1950 i militari nella vita politica’. Nel 1954 i militari si rivoltarono contro Vergas
quando egli cominciò a comportarsi come Peron ‘nel sollecitare una rapida ripresa del
sostegno popolare al governo, facendo sconsiderate promesse ai lavoratori’” (op.cit. p.
244)
288
“Come ha detto un generale argentino, l’esercito dovrebbe intervenire nella vita
politica per affrontare ‘le sventure che possono mettere in pericolo la stabilità e integrità
121
Dunque, “se l’esercito giudica che la repubblica è in
pericolo, e prevede disordini, ha l’obbligo di intervenire e di
ripristinare la costituzione”. Ma una volta “adempiuto questo
compito ha poi l’obbligo di ritirarsi e di ridare il potere ai
dirigenti civili normali”289.
Si potrebbe sostenere che il legislatore ipotizzato da
Huntington, cui spetterebbe il compito di realizzare le riforme
che
garantiscano
al
istituzionalizzare
sistema
le
politico
gli
trasformazioni
strumenti
indotte
per
dalla
modernizzazione, finisca coll’incarnarsi nelle forze armate,
assumendo le vesti di istituzione di “sbarramento”, cioè di
“conservazione” del sistema politico; istituzione pronta ad
intervenire in circostanze che potrebbero essere a loro volta
amplificate artificialmente290.
4.1.3 L’intervento
istituzionalizzazione
dei
militari
come
strumento
di
nazionale, senza invece prendere in considerazione le piccole sventure contro le quali
ogni tentativo di porvi rimedio serve solo a separarci dalle nostra missione e ad offuscare
la percezione del nostro dovere’. Molte costituzioni della America Latina riconoscono
implicitamente o esplicitamente questa funzione di custodia ai militari” (ibidem)
289
“L’esercito secondo le parole del presidente boliviano (e generale dell’aviazione)
Barrientos dovrebbe essere la ‘istituzione tutelare del paese… che sorveglia con zelo il
rispetto delle leggi e le prerogative del governo’” (op.cit., p. 243)
290
“Il presidente Castello Branco diceva ‘i militari devono essere pronti ad agire al
momento opportuno e di comune accordo quando ci sia l’assoluta necessità di assicurare
al Brasile una appropriata direzione. La necessità e l’opportunità non corrispondono
semplicemente al desiderio di essere i tutori della nazione ma derivano
dall’individuazione di una situazione che richiede un’azione di emergenza al servizio
della nazione’. Questa dottrina, un tempo denominata ‘super – missione’, forse è definita
in modo più appropriato come ‘civismo’. Questa ideologia riflette la diffidenza
dell’esercito nei confronti del culto della personalità che si sviluppa intorno alle figure di
forti leader popolari eletti dalle masse come Getulio, Janio, Jango o Juscellino.
‘L’esercito non vuole un sistema peronista, non vuole un partito popolare che possa
minacciare la posizione dominante dell’esercito in quanto interprete e custode
dell’interesse nazionale’. L’esercito accetterà i leader popolari solo finché essi non
122
Il colpo di stato militare si configura quindi come
l’estrema ratio di un sistema politico intento a garantire la propria
conservazione. Esso è la conseguenza diretta di una particolare
situazione socio-politica: rapidi processi di modernizzazione,
crescita della partecipazione politica, incapacità del sistema
politico di assorbirla all’interno delle sue istituzioni.
Huntington sottolinea inoltre che una società percorsa da
una crisi istituzionale tenda inevitabilmente alla conservazione e
che, in quest’ottica, il colpo di stato militare abbia come sua
diretta conseguenza il quasi spontaneo coagularsi di gran parte
della popolazione attorno alle forze armate: l’assenza di
“efficienti istituzioni politiche ostacola lo sviluppo della
comunità. Ne risulta che…esistono forti tendenze che agiscono a
favore di una sua conservazione”291.
Il colpo di stato dipende anche “dalla composizione delle
forze sociali all’interno della società”. Infatti, per Huntington,
“l’influenza dei militari varia con il livello della partecipazione”.
Minore è il livello di organizzazione della partecipazione
popolare da parte delle forze politiche di opposizione, maggiore
sarà la possibilità che il colpo di stato militare riesca, minore è il
livello di alleanza raggiunto dalle forze di opposizione, più facile
sarà consolidare il ruolo di una dittatura militare di transizione
verso un governo composto da civili in grado a sua volta di
garantire l’ordine politico292. Di conseguenza, le possibilità di
cominceranno ad organizzare un proprio seguito di massa con cui minacciare la
posizione dell’esercito di arbitro dei valori nazionali” (op.cit., p. 244)
291
op.cit., p. 221
292
“Nella fase oligarchica, in genere è difficile distinguere tra capi militari e civili e la
scena politica è dominata da generali o, quantomeno, da individui che ne portano il
titolo. Quando una società entra nella fase borghese, radicale in genere il corpo degli
ufficiali si è ormai nettamente delineato come istituzione a sé; l’autorità si suddivide tra i
123
creare istituzioni politiche sotto gli auspici dei militari sono
maggiori durante le prime fasi di una società a tendenza
pretoriana. In tal caso, la “strada verso un governo stabile passa
per la coalizione dei fucili e del numero contro i cervelli. Questa
è, per i militari, l’occasione che consente di trasformare la loro
società dal pretorianismo…all’ordine civile”293.
Anche se l’intervento iniziale può apparire “illegittimo”,
esso acquisterebbe comunque legittimità una volta trasformatosi
nella “partecipazione e nell’assunzione di responsabilità in vista
della creazione di nuove istituzioni politiche che renderanno
impossibili e inutili futuri interventi sia dei militari che di altre
forze sociali”294.
Di conseguenza, una volta preso il potere, i militari
hanno il dovere di avviare una rapida politica di riforme che
comporti l’uscita dal pretorianesimo e la realizzazione dell’ordine
politico, necessario ad un successivo ritorno dei civili. Sarebbe
dunque necessario, secondo Huntington, che l’élite militare
svolga il suo ruolo istituzionale predisponendo “istituzioni
politiche che riflettano la distribuzione di potere esistente ma che,
allo stesso tempo, siano in grado di attrarre e assimilare nuove
forze sociali man mano che emergono, in modo che la loro
esistenza diventi indipendente dalle forze che inizialmente le
crearono”295. Una volta realizzato questo obiettivo, deve poi
separare “le funzioni politiche dagli organismi burocratici” in
militari e le altre forze sociali e può allora avvenire un certo grado di
istituzionalizzazione politica all’interno della struttura di un sistema politico
rigorosamente definito e non elastico. L’intervento dei militari spesso è saltuario, alterna
giunte militari e giunte civili ed è soggetto al ‘graduale emergere di gruppi civili più
potenti che controbilanciano il poter militare’. Infine nella fase pretoriana di massa,
l’autorità dei militari viene ad essere circoscritta dalla nascita di grandi movimenti
popolari” (ibidem)
293
op.cit., p. 234
294
ibidem
124
modo tale da “mantenere questi ultimi all’interno dei propri
compiti specialistici”, disponendo infine le “istituzioni…capaci
di regolamentare la successione e di provvedere al trasferimento
del potere da un leader o da un gruppo di leader ad un altro senza
il ricorso all’azione diretta sotto forma di colpi di stato, rivolte od
altri interventi violenti”296.
Inoltre l’intervento dei militari in una società a tendenza
pretoriana è necessario, anche perché da essa può sorgere il
pericolo di una rivoluzione: “in molte società l’intervento dei
militari nella creazione di strutture politiche può essere l’ultima
concreta opportunità di istituzionalizzazione politica all’infuori
del totalitarismo. Se i militari non colgono questa occasione
l’allargamento della partecipazione trasforma la società in un
sistema pretoriano di massa. In questo sistema la possibilità di
creare istituzioni politiche passa dai militari, gli apostoli
dell’ordine, agli altri dirigenti della classe media che sono gli
apostoli della rivoluzione”297.
4.1.4 “Performance” e legittimità del colpo di stato militare
295
op.cit., p. 255
op.cit., p. 234
297
“Tuttavia in questa società la rivoluzione e l’ordine possono benissimo diventare
alleati. I gruppi, gli schieramenti e i movimenti di massa lottano direttamente l’uno
conto l’altro, ognuno con armi particolari. La violenza si sostituisce alla politica, la
società lotta contro sé stessa. L’ultimo prodotto della degenerazione è una strane
inversione nei ruoli politici. La società veramente debole non è una società minacciata
dalla rivoluzione, ma da una società incapace di rivoluzione. Nell’ordinamento politico
normale il conservatore si interessa alla stabilità e alla conservazione dell’ordine, mentre
il radicale minaccia questi stessi con cambiamenti improvvisi e violenti. Ma che
significati hanno i concetti di conservatorismo e radicalismo in una società totalmente
caotica, dove l’ordine può essere creato solo da una precisa volontà politica? In questa
società chi è poi il radicale? Chi è il conservatore? Il solo vero conservatore non è forse
il rivoluzionario?” (op.cit., p. 260)
296
125
Vent’anni dopo dalla sua prima analisi dei regimi
pretoriani e dalla proposta avanzata per poterne uscire,
salvarguardando l’insieme dell’ordinamento e del sistema
politico, Huntington, con The Third Wave. Democratization in
the Late Twentieth Century (1991)298, tornava nuovamente sul
tema delle dittature militari, affrontanto questa volta la
problematica del passaggio alla democrazia dei regimi dittatoriali
che tra gli anni sessanta e settanta avevano visto le forze armate
dei rispettivi paesi impadronirsi del potere.
È interessante notare come le dittature militari degli anni
settanta, soprattutto quelle latino-americane, prendano le mosse
proprio da colpi di stato e da progetti riformistici volti a
scongiurare il disordine sociale, considerato ormai inevitabile, e
il conseguente rischio di una rivoluzione, nonché a porre le basi
politiche e sociali per il ritorno di un governo civile depurato
però delle sue componenti più estremiste; insomma una
operazione di chirurgia politica destinata a colpire tutti quei
gruppi d’opposizione che in alcuni casi, come in Cile, erano
riusciti a costruire un’alleanza politica in grado di conquistare la
maggioranza parlamentare e procedere legalmente a una
trasformazione della struttura socio-economico.
Con la “terza ondata” Huntington presenta l’intervento
dei militari, come una “performance” volta a ristabilire, con la
violenza, laddove fosse necessaria, l’ordine politico in difesa
dello status quo, adottando altresì tutte quelle riforme che
possano renderlo capace di istituzionalizzare le trasformazioni
prodotte dallo sviluppo socio-economico, nonché risolvere il
contrasto tra sistema politico e forze sociali dovuto a processi di
298
S.P. Huntington, The Third Wave. Democratization in the Late Twentieth Century,
126
modernizzazione
troppo
rapidi299.
Insomma
un’intervento
temporaneo, legittimato proprio dalla necessità di preservare quei
rapporti di dominio che il sovraccarico e la sua distribuzione
lungo le strutture portanti del sistema possono mettere in
discussione, lasciando aperto il campo a una trasformazione
rivoluzionaria degli assetti socio-economici o a una strisciante e
infinita guerra civile con possibili effetti anche al di fuori
dell’area geo-politica considerata300.
La presa del potere da parte dei militari, arreca comunque
“solo un sollievo temporaneo al sistema politico”, in quanto i
“gruppi che partecipano al colpo”, essendo “in genere…uniti solo
dal loro desiderio di bloccare o di invertire le tendenze che
considerano sovversive dell’ordine politico”, una volta al potere,
cominciano “a spaccarsi”, frazionandosi “in molte piccole cricche
ognuna delle quali” tenta “di portare avanti i propri obiettivi”. Più
frequentemente il potere militare si divide “in due grosse fazioni:
i radicali e i moderati, i fautori della linea dura e i fautori della
linea conciliante…La lotta tra moderati e radicali può
concentrarsi su un certo numero di problemi ma il problema
chiave è il ritorno al potere dei civili”301.
Norman-London, London, 1991, trad.it. Il Mulino, Bologna 1993
299
Se per Maffeo Pantaleoni “la creazione di un ordine, o di un ordinamento, è appunto
ciò stesso che esclude il caso, l’arbitrio o il capriccio, l’incalcolabile, l’insaputo, il
mutevole senza regola” (M.Pantaleoni, Erotemi di Economia, Laterza, Bari 1925, vol. I,
p. 112), per Max Rheinstein “la legge giusta è quella che la ragione ci mostra essere in
grado di facilitare, o almeno di non impedire, il raggiungimento e la salvaguardia di un
ordine sociale pacifico” (M.Rheinstein, The Relations of Morals and Law, in “Journal of
Public Law”, I, 1952, p. 298)
300
cfr.S.P.Huntington, La terza ondata, op.cit., p. 80
301
“Invariabilmente la giunta che giunge al potere con un colpo di sbarramento promette
una veloce rassegna dei poteri a un normale governo civile: ma i fautori della linea dura
sostengono che i militari debbono rimanere al potere per tenere lontani i gruppi civili che
essi hanno destituito dal potere e per imporre riforme strutturali al sistema politico; si
tratta in genere di forze militari che appoggiano l’intervento statale in economia e
l’autoritarismo in politica. I moderati per contro attribuiscono in genere al colpo di stato
obiettivi più limitati. Una volta rimossi i dirigenti politici sgraditi e introdotti alcuni
cambiamenti politici e amministrativi, essi ritengono di aver adempiuto al loro compito e
127
Il “problema della legittimità dei regimi militari e delle
dittature personali”302 poggia dunque le proprie fondamenta sul
fatto che la “fine del sistema democratico e la sua sostituzione
con uno autoritario” é “salutata per lo più dalla popolazione con
un senso di sollievo e approvazione”, permettendo in tal modo
una sorta di “legittimazione negativa, derivante dal fallimento
dell’esperienza democratica e dalle sue differenze con questa.
Questi nuovi regimi si giustificavano con la lotta al comunismo e
alla sovversione interna attraverso la riduzione del grado di
agitazione sociale, il ristabilimento della legge e dell’ordine,
l’eliminazione della corruzione e il rafforzamento dei valori
nazionali”303.
Si può anche sostenere che per Huntington l’intervento
dei militari sia legittimo non solo dal punto di vista prettamente
politico, ma anche giuridico. È infatti l’esistenza stessa
dell’istituzione militare a giustificare e conferire validità
giuridica ad un intervento coercitivo a salvaguardia del
ordinamento socio-politico. Essendo infatti una delle più
sono pronti a ritirarsi ad attività politiche secondarie. Come nei colpi di stato di rottura,
che segnano l’ascesa della classe media all’attività politica, anche nei colpi di
sbarramento i moderati in genere giungono per primi al potere. Essi sono moderati non
perché desiderosi del compromesso con la oligarchia esistente, ma perché sono
disponibili a trattare con i nascenti movimenti di massa: i radicali invece si oppongono
all’espansione della partecipazione politica…I radicali non giungono a compromessi con
l’oligarchia; nello stesso modo, nei colpi di sbarramento, essi non arrivano a
compromessi con le masse. Gli uni accelerano la storia; gli altri si oppongono alla storia.
La divisione tra moderati e radicali implica che spesso gli interventi di sbarramento,
come quelli di rottura, avvengano a coppia: il colpo di stato iniziale è seguito da un
colpo di stato di consolidamento, in cui i fautori della linea dura tentano di rovesciare i
moderati e di impedire il ritorno al potere dei civili. Tuttavia in questo caso il colpo di
consolidamento ha minori possibilità di riuscire di quanto non avesse nel caso
dall’allargamento della partecipazione politica alla classe media…Il dilemma
fondamentale proprio del ruolo di guardiano è insito nella due affermazioni che
l’esercito è al disopra della politica e che l’esercito dovrebbe intervenire nella vita
politica per impedire cambiamenti nel sistema politico. Il ruolo di guardiani si basa sulla
premessa che le cause dell’intervento dei militari derivano da una disgregazione
temporanea e straordinaria del sistema politico”, (op.cit., p. 72)
302
ibidem
303
ibidem
128
importanti garanti dell’efficacia (potestas directa) dello Stato, il
suo intervento viene probabilmente inteso come una forma
estrema di riduzione del disordine politico, prodotto dai processi
di
modernizzazione.
L’intervento
dell’istituzione
militare,
mediante la procedura del colpo di stato, risulta perciò l’estrema
ratio cui un sistema politico ricorre per imporre il monopolio
della forza da parte delle istituzioni statali, prima che un’alleanza
politica rivoluzionaria possa a sua volta sviluppare i medesimi
livelli di legittimità ed efficacia, ponendone in discussione
l’esistenza304.
Huntington sembra confermare questo aspetto quando
afferma che “la legittimazione negativa” dei militari tendeva “a
304
L’asserzione che ogni Stato, purchè sia valido, cioè legittimo ed efficiente, è uno
stato di diritto, è ripetuta frequentemente anche in tutta l’opera di Kelsen
(Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, Tubinga, 1911, p. 249; Der soziologische und
der juridische Staatsbegriff, Tubinga 1922, p. 190; 1935, p. 486; 1960, p. 314, cit.
F.A.von Hayek, Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1989, p. 247, nota
56). Questo tuttavia comportava per Hayek che non si sarebbe potuta più fare “nessuna
distinzione tra un sistema giuridico in cui prevale il dominio della legge (ovvero il
principio del governo sottoposto alla legge, o Rechtsstaat) e dove ciò non avviene;
quindi ogni ordinamento giuridico sarebbe un esempio del principio di legalità, persino
quando i poteri dell’autorità sono totalmente illimitati” (op.cit., pp. 246-247). Tant’è
vero che Kelsen stesso arrivò a sostenere che “dal punto di vista della scienza giuridica,
il diritto (Recht) durante il governo nazista era diritto (Recht). Possiamo dispiacercene,
ma non possiamo negarlo” (H.Kelsen, in Das Naturrecht in der politischen Theorie, a
cura di F.M. Schmoelz, Salisburgo, 1973, p. 148, cit. in op.cit, p. 254). “E’ questa –
proseguiva Hayek – la concezione secondo cui la coercizione è legittima soltanto se
usata per far osservare norme di mera condotta ugualmente applicabili a tutti i cittadini.
Lo scopo del positivismo giuridico è di rendere l’uso della coercizione al servizio di fini
particolari, ovvero di qualsiasi interesse speciale, altrettanto legittimo dell’uso fattone
per preservare le basi di un ordine spontaneo” (op.cit., p. 247). Infatti Kelsen sosteneva
che “dal punto di vista della conoscenza razionale, vi sono unicamente interessi di esseri
umani e quindi conflitti d’interessi. La soluzione di questi ultimi può avvenire soltanto
soddisfacendo un interesse a spese di un altro, o tramite un compromesso tra interessi
conflittuali. È impossibile dimostrare che l’una o l’altra delle due soluzioni è giusta”
(H.Kelsen, Vom Wesen und Wert der Demokratie, Tubinga 1920, cit. in op.cit., p. 251).
Di fatto “…per coloro che rendono il potere del legislatore necessariamente illimitato, la
libertà individuale diventa un qualcosa che va al di là di quel che può essere salvato, e la
libertà politica finisce col diventare la libertà collettiva della comunità, cioè la
democrazia. Di conseguenza il positivismo giuridico è diventato anche il supporto
ideologico principale dei poteri illimitati della democrazia” (op.cit., pp. 250-251)
Pertanto proponeva che “l’asserzione…che ogni legge valida è una legge stabilita
dall’autorità” fosse da ritenersi accettabile soltanto se “si sostituisce ‘resa valida’ a
‘stabilita’, e ‘di fatto applicata dall’autorità’ a ‘resa valida’” (op.cit., p. 249)
129
decadere con il tempo”, costringendo “questi regimi autoritari” a
cercare “nella efficacia della loro azione una delle principali basi,
se non la principale, della loro legittimazione”305.
Ciò sta a indicare che, svanito il pericolo di una
prospettiva pretoriana, ovvero una successiva trasformazione
rivoluzionaria degli assetti sociali (legittimazione negativa), i
militari devono inevitabilmente cedere il governo ai civili oppure
sviluppare un apparato istituzionale che sia in grado di basare il
proprio potere sulla sola potestas directa, dunque su un possibile
controllo coercitivo dei rapporti di interazione sociale (efficacia
dell’azione come principale base della legittimazione).
Comunque sia, laddove i colpi di stato hanno avuto
successo, i militari hanno spesso optato per l’efficacia
dell’azione, piuttosto che per un ritorno al potere dei civili,
strutturando longeve e sanguinarie dittature che in fin dei conti
sono risultate incapaci di risolvere le problematiche di fondo dei
paesi che hanno governato, primi fra tutti quelli latino-americani.
Sono purtuttavia riuscite a sradicare dal territorio tutte quelle
organizzazioni politiche capaci di proporre un progetto di
potenziale trasformazione del sistema politico306. Tant’è vero
305
“Nelle democrazie la legittimazione dei governanti dipende da quanto costoro sono in
grado di rispondere alle aspettative dei gruppi chiave di elettori, vale a dire della loro
performance, la legittimazione del sistema dipende invece dalle procedure e dalla
capacità degli elettori di scegliere i propri governanti con il voto. Se i governanti
falliscono, perdono in legittimazione, sono sconfitti alle elezioni e sostituiti da una
nuova classe dirigente. In questo modo la perdita di legittimazione a causa di una scarsa
performance dei capi porta alla riaffermazione della legittimazione procedurale
dell’intero sistema. Nei sistemi autoritari diversi da quelli monopartitici non è possibile
la distinzione fra la legittimazione del governo e quella del sistema” (S.P.Huntington,
Ordinamento politico e mutamento sociale, p. 72)
306
Questo pericolo veniva avvertito dallo stesso Hayek quando sosteneva che il “fatto
che il contenuto di un sistema di norme alle quali il legislatore conferisce validità, possa
non essere un prodotto del suo disegno ma esistere indipendentemente dalla sua volontà,
e che egli non si sia mai considerato capace di, né abbia mirato a sostituire il sistema
vigente di norme riconosciute con uno completamente nuovo, ma accetti alcune norme
stabilite senza metterle in discussione, ha una importante conseguenza. In molti casi in
cui vorrebbe ridefinirle egli non potrà emanare le norme che preferisce, ma sarà
130
che, in poco meno di vent’anni, dai primi colpi di stato alla fine
degli anni ‘80, un’intera generazione è stata ridotta al silenzio,
attraverso il sistematico uso della repressione delle libertà
democratiche, della tortura e dell’omicidio politico307 in nome di
una superiore istanza dominativa, e non tanto quella della
democrazia, la cui crisi venne risolta imponendo l’ordine militare
e dei militari.
4.1.5 Il “dilemma della performance” e la riconsegna del potere
ai civili: la “terza ondata di democratizzazione”
Durante gli anni ottanta, tutti i regimi militari lasciavano
finalmente il posto ad un governo civile formato in gran parte da
forze politiche conservatrici. I militari si ritiravano nelle caserme,
lasciando il potere nelle mani di civili a loro graditi.
vincolato dai requisiti di quella parte del sistema che gli è dato. In altri termini, l’intero
complesso di norme di fatto osservate in una società determina quale norma particolare
sia razionale applicare o si dovrebbe applicare”. (F.A.von Hayek, Legge, legislazione e
libertà, cit., p. 248). Ciò starebbe a significare che una volta al potere i militari
costituirono un sistema di norme che ben presto si autolegittimarono indipendentemente
dalla volontà di quelle forze civili e politiche che ne avevano invocato l’intervento.
307
La “Comisiòn Nacional sobre la Desaparicion de Personas”, istituita dal governo
argentino, pubblicò già nel 1984 un dossier, Nunca Mas, ora giunto alla sua quinta
edizione (Eudeba, Buenos Aires 1999), in cui si ricostruiva dettagliatamente il dramma
dei desaparecidos argentini e le tecniche di repressione attuate dal governo militare tra il
1976 e il 1982 nell’ottica del già menzionato Piano Condor. Recentemente un articolo
apparso sul giornale “Internacionales” del 2 settembre 2001 (p.30), dava la notizia del
ritrovamento di importanti documenti presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti
d’America in cui vi sarebbero le prove di una “alianza de Uruguay y los EE.UU (Stati
Uniti n.d.a.) en el Plan Còndor”: “Segùn los nuevos documentos, el Organismo
Coordinador de Operaciones Antisubversivas (OCOA) de Uruguay…comenzaron a
desarrollar operaciones de inteligencia de una manera sistemàtica en la Argentina a
partir de junio 1976. uno de los documentos revela que Campos Hermida fue entrenado
por la Oficina de Securidad Pùblica de EE.UU. (un departamento vinculado con la
CIA)” (ibidem). Ringrazio la signora Franca Lepori e il giornalista argentino Jorge
Casal, all’epoca dei fatti (1973-1982) sindacalista, nonché fotografo per l’agenzia Reuter
e testimone diretto dei drammatici eventi che coinvolsero la quasi totalità del continente
sudamericano, per avermi inviato il materiale appena citato
131
Così come vent’anni prima aveva analizzato le vicende e
le strategie socio-politiche che dal disordine pretoriano e dal
pericolo rivoluzionario portavano all’Ordine politico, ora
Huntington con The third wave. Democratization in the late
twentieth century (1991), analizzando la cosiddetta terza ondata
di democratizzazione, che, fra il 1974 e il 1990 ha assistito al
passaggio alla democrazia di ben ventinove paesi, descrive le
diverse fasi della riconsegna del potere ai “civili” da parte dei
militari, ponendo fine alla “performance” dittatoriale.
Se la democrazia è definita dal politologo di Harvard
come una procedura di base per l’istituzione dei governi308, la
democratizzazione consiste invece in “una serie di passaggi da
regimi autoritari309 a regimi democratici, concentrati in un
periodo di tempo ben determinato”310. Nel corso della storia si
308
“La democrazia può essere definita come fonte di autorità per i governi, come fine
ultimo perseguito e servito dai governi stessi e come procedura di base per l’istituzione
dei governi” (S.P.Huntington, La terza ondata, op.cit., p. 28)
309
In Authoritarian politics in Modern society. The dynamics of established One-Party
systems (Harvard University Press, Harvard, 1970), curato assieme a C.H. Moore,
Huntington analizza il processo di istituzionalizazzione da parte di un unico partito. Il
sistema a partito unico non è, per Huntington, né il prodotto di una società senza classi
né di una società troppo eterogenea e con tendenze centrifughe dove il partito unico
costituirebbe l’unico strumentoper mantenerne la coesione. Il partito unico è invece la
conseguenza di un accumularsi di cleavages (fratture) che conducono alla formazione di
gruppi fortemente differenziati. Il sistema monopartitico nascerebbe per Huntington da
“biforcazioni” di tipo religioso, linguistico, etnico, razziale e socio-economico che non
possono essere risolte per mezzo di secessioni e divisioni territoriali. L’emergenza del
partito unico è più frequente nelle fasi iniziali e intermedie della modernizzazione ed è di
solito frutto della coalizione delle forze socili più modernecontro le forze più
tradiazionali. Una volta giunto al potere, il partito unico ridefinisce le basi della
comunità in modo tale da presentarsi come l’”eletto” che deve assimilare gli altri
raggruppamenti sociali o escluderli in maniera permanente. Secondo Huntington, in base
alla scelta dell’una o dell’altra tattica si hanno i sistemi di partito esclusivisti e i sistemi
di partito rivoluzionari: i primi accettano la biforcazione della società, i secondi cercano
o di liquidare le forze sociali antagonistiche in modo completo o di assimilare più o
meno rapidamente glia ltri gruppi sociali. Se i partiti unici esclusivisti resistono alle sfide
della modernizzazione socio-economica, allora si mantengono al potere, se li accettano,
il sistema tende a mutare e a provocare nuovi allineamenti politici. Invece i partiti
rivoluzionari che accettano i mutamenti introdotti dalla modernizzazione riescono a
riunificare il sistema sociale senza perdere il potere anzi, consolidandolo fino a riflettere,
secondo Huntington, i bisogni di una società relativamente “consensuale” anziché quelli
di una società divisa.
310
S.P. Huntington, La terza ondata, op.cit. p. 36
132
sono verificate per Huntington tre ondate di democratizzazione
(1828-1926; 1943-1962; 1974-1990), due delle quali seguite da
altrettante ondate di riflusso (1922-1942; 1958-1975).
Fra il 1828 e il 1926 si poteva parlare di democrazia
soltanto se si fossero registrati i seguenti indicatori: 1) almeno il
50% degli adulti maschi doveva esercitare il diritto elettorale
attivo, 2) doveva esservi un esecutivo responsabile che deteneva
la fiducia di una maggioranza all’interno di un parlamento scelto
attraverso consultazioni elettorali periodiche. La prima ondata
registrò lo sviluppo della democrazia in Italia, Argentina,
Svizzera, Gran Bretagna, Francia, Irlanda, Islanda, Germania e
nei Dominions inglesi.
L’ondata di riflusso (1922-1942) prese avvio con la
marcia su Roma del 1922, seguita nei dieci anni successivi dalla
nascita di governi autoritari in Polonia, Lituania, Lettonia,
Estonia, Austria, Germania, Cecoslovacchia, Grecia, Portogallo,
Argentina, Cile, Spagna e Giappone.
La seconda ondata di democratizzazione fu piuttosto
breve. Durò infatti appena 19 anni (1943-1962) e fu
essenzialmente dovuta alla vittoria degli Alleati nella Seconda
Guerra Mondiale e al rapido processo di decolonizzazione che ha
provocato la nascita di numerosi Stati indipendenti.
Oltre al ritorno alla democrazia in numerosi Stati
europei, molti cambiamenti di regime si verificarono nel
continente
asiatico
(Pakistan,
India)
e
latino-americano
(Colombia, Venezuela, Perù). Anche questa ondata fu seguita da
un periodo di riflusso che dal 1958 si protrasse fino al 1975.
Drammatici rovesciamenti di regime si ebbero infatti in
America Latina (Cile, Ecuador, Argentina, Bolivia, Uruguay,
133
Brasile), mentre in Europa faceva la sua comparsa il “regime dei
colonnelli” (Grecia, 1967-1974).
Mentre la seconda ondata di democratizzazione appariva
soprattutto come la conseguenza di ragioni esterne agli
ordinamenti stessi, la terza (1974-1990), eccezion fatta per
Grenada e Panama, è stata essenzialmente generata da logiche
endogene che vanno dall’ “unica causa”311, verificatasi a
prescindere da qualsiasi altro evento occorso negli altri paesi,
oppure da “sviluppi paralleli”312, determinatesi in più paesi
contemporaneamente, fino a un “effetto valanga”, che ha
trasformato le cause immediate di una soluzione, divenuta
prevalente, in una risposta comune da parte delle élites dei diversi
paesi313.
Durante la terza ondata, avviatasi con la rivoluzione
portoghese (25 aprile 1974), hanno intrapreso la strada della
democratizzazione la quasi totalità dei regimi autoritari
dell’America Latina (Brasile, Perù, Cile, Uruguay, Argentina), i
vecchi sistemi autoritari dell’Europa meridionale (Portogallo e
Spagna) e infine, quasi tutte le Repubbliche Popolari dell’Europa
dell’Est, eccezion fatta per la Jugoslavia. Ben 29 Stati, di cui 24
avevano già conosciuto in passato la democrazia, portarono a
termine con successo, fra il 1974 e il 1990, il processo di
democratizzazione delle loro strutture di governo.
Le modalità seguite sono state essenzialmente tre:
trasformazione, transostituzione e sostituzione. Nel primo caso
sono state le élites al potere ad aver intrapreso la transizione
311
“Potrebbe trattarsi dell’ascesa di una nuova superpotenza o di qualche altro
mutamento nella distribuzione internazionale del potere, oppure dello scoppio di una
grande guerra o di qualche altro evento significativo” (op.cit., p. 55)
312
“Cause simili possono trovarsi all’opera più o meno simultaneamente in altri paesi
producendo effetti abbastanza uguali” (op.cit., p. 56)
134
democratica, nel secondo l’opposizione e il governo, nel terzo è
stata invece la sola opposizione, mentre il governo è rimasto fuori
da ogni gioco.
Inoltre Huntington, sulla base dei dati fornitigli dalla
terza ondata, propone addirittura delle “linee guida” per tutti i
gruppi politici che vogliano a loro volta intraprendere un
processo di democratizzazione.
Nel caso di “trasformazioni”, suggerisce di assicurarsi
una solida base politica, di operare i cambiamenti attraverso le
procedure stabilite dal regime autoritario, rassicurando i gruppi
conservatori intransigenti, senza dimenticare però di ridurne
gradualmente l’influenza. Egli invita anche a non perdere mai il
controllo del processo di democratizzazione, tenendo basse le
aspettative e gli obiettivi reali del cambiamento oltre ad
incoraggiare l’operato di un partito d’opposizione responsabile,
moderato e che sappia creare un senso di inevitabilità intorno al
processo di democratizzazione.
Le linee guida del politologo americano per i
democratizzatori che vogliano invece “sostituire”, rovesciandolo,
un regime autoritario, propongono che i gruppi politici
dell’opposizione, soprattutto quelli moderati, spingano l’opinione
pubblica verso la necessità di por fine alla “performance” del
regime autoritario, cercando di metterlo in difficoltà su questioni
di carattere generale. Sarebbe poi necessario persuadere il più
possibile figure fondamentali della società civile (uomini d’affari,
professionisti della classe media, figure religiose) della necessità
di avviare la democratizzazione del sistema politico. Huntington
raccomanda inoltre di adottare pratiche non violente, di cogliere
313
op cit., p. 57
135
ogni occasione per esprimere l’opposizione al regime, di
sviluppare contatti con i media mondiali e le organizzazioni
internazionali e soprattutto di essere pronti a riempire il vuoto di
autorità una volta che il regime sia caduto.
Le èlites dei regimi autoritari che abbiano inteso invece
l’intenzione
opposizioni,
di
negoziare
sostenendo
la
democratizzazione
una
“transostituzione”,
con
le
devono
innanzitutto isolare e indebolire al loro interno le fazioni
conservatrici, consolidando la propria presa sul governo al fine di
ottenere delle concessioni sempre più importanti, assicurandosi
nello stesso tempo l’approvazione dei negoziati da parte dei
generali più influenti.
Dal punto di vista dei militari la riconsegna del potere
può invece avvenire nei modi seguenti:1) “Restituzione e
contenimento....I militari possono restituire il potere ai civili dopo
un breve governo ed una purga dei funzionari governativi, ma
continuare a mantenere l’ascesa di nuovi gruppi al potere
politico. Quasi sempre, tuttavia, si ripresenta la necessità del loro
intervento”; 2) “Restituzione e espansione…I capi militari
possono restituire il potere ai civili e permettere ai gruppi sociali,
ai quali avevano precedentemente impedito l’accesso al potere, di
accedervi sotto nuove condizioni e in genere con una nuova
dirigenza”; 3) “Mantenimento e contenimento…I militari
possono
mantenere
il
potere
e
continuare
ad
opporsi
all’espansione della partecipazione politica. In questo caso,
nonostante le buone intenzioni, essi vengono inevitabilmente
trascinati ad attuare misure sempre più di repressione”; 4)
“Mantenimento ed Espansione…I militari possono mantenere il
136
potere e permettere, anzi promuovere l’espansione della
partecipazione politica”314.
E’ possibile per Huntington una quarta ondata di
democratizzazione?
Considerando che le risorse democratiche, liberate dal
crollo del comunismo sovietico, dall’azione svolta dagli Stati
Uniti e dalla Comunità Europea, nonché il ruolo assunto dal
cattolicesimo, punto di forza della terza ondata, sembrano ormai
essersi esaurite, una quarta ondata, se non impossibile,
sembrerebbe comunque essere quanto meno compromessa.
Fra gli ostacoli che vi si frappongono – avverte
Huntington – c’è anche il rischio di nuove forme autoritarie di
governo sottoforma di dittatura tecno-elettronica resa possibile
dalla manipolazione dell’informazione, dei media e di altri
sofisticati mezzi di comunicazione.
Dunque lo studioso americano, con la “terza ondata” non
si
limitava
soltanto
a
fornire
un’interpretazione
della
problematica della democratizzazione, ma elabora anche dei
suggerimenti per avviarla e condurla a buon fine, articolando gli
interventi a seconda che si tratti di una transformazione, di una
transostituzione o di una sostituzione.
Alla base del processo di democratizzazione suggerito si
colloca essenzialmente una crisi di legittimità dei regimi
autoritari, detta dall’autore “dilemma della performance”, sarebbe
314
“Questa è stata la strada seguita da Peron e in misura inferiore da Rojas Pinilla in
Colombia. I due ufficiali giunti al potere con un colpo di stato di impostazione diversa
dall’intervento di sbarramento ottennero l’appoggio di ampi forze che proprio dal colpo
di stato traevano la possibilità di intervenire nella vita politica. In genere il prezzo che si
paga in questo caso è doppio. Il leader militare si aliena la fonte originaria di sostegno,
cioè l’esercito, aumentando la sua vulnerabilità nei confronti di un colpo militare
conservatore. Inoltre si intensifica l’antagonismo tra la classe media conservatrice e le
masse radicali” (S.P.Huntington, Ordinamento Politico e mutamento sociale, cit., p.
250)
137
a dire il venir meno delle cause che a suo tempo ne avevano
richiesto la formazione al fine di garantire una fase di “ordine
politico”.
Quindi, se ci riallacciamo alla tematica del sovraccarico,
possiamo sostenere che Huntington delinea un vero e proprio
percorso circolare: la crisi da sovraccarico di un sistema politico,
se distribuita lungo le sue strutture portanti, determina una crisi di
legittimazione degli apparati istituzionali con la conseguente,
possibile,
trasformazione
radicale
dell’intero
ordinamento
politico-sociale, qualora intervengano, nel corso della crisi, dei
gruppi capaci di formare e mobilitare complessivamente la
volontà della collettività nazionale, indirizzandola verso forme
rivoluzionarie
di
istituzionalizzazione
dei
processi
di
modernizzazione, oppure lasciandola scivolare lungo il precipizio
della società pretoriana.
Per impedire che ciò accada, il sistema politico deve
lasciare spazio, soprattutto nelle società a tendenza pretoriana, a
una fase di ordine politico, imponendo una performance di tipo
autoritario, avvalendosi pertanto dell’intervento dell’istituzione
militare. Una volta eliminati i fattori di crisi del sistema, primo
fra tutti l’eccessiva partecipazione politica, ricondotta la
modernizzazione all’interno di procedure istituzionalizzanti più
consone alle strutture portanti dell’ordinamento socio-politico e
aver dato modo ai gruppi più radicali di “rivalutare le virtù
democratiche”, cioè di escludere definitivamente l’ipotesi di una
trasformazione rivoluzionaria delle strutture portanti della
138
società, solo a questo punto, si può pensare di proporre
un’evoluzione democratica315.
Il discorso si complica per quanto riguarda invece le
democrazie occidentali. Infatti, se possono suggerirsi “performance”
autoritarie per i sistemi politico-economici in via di sviluppo, non si
può,
per
Huntington,
fare
altrettanto
per
quelli
europei
o
nordamericani, dove le istituzioni democratiche sono ben più radicate
non soltanto nel tessuto politico-istituzionale, ma anche nelle singole
coscienze dei cittadini e nell’insieme della società civile. Era quindi
necessaria una diversa strategia di riduzione del sovraccarico
istituzionale. Quando Huntington parla di paesi in via di sviluppo fa
riferimento soprattutto ai paesi latino-americani, principale oggetto
d’indagine tanto in Political Order quanto in The Third Wave316.
Tornando alle soluzioni da adottare per scongiurare le
conseguenze di una crisi da sovraccarico istituzionale, dobbiamo ora
315
“Molti regimi autoritari hanno dovuto controllarsi con i problemi relativi alla
legittimazione negli anni settanta proprio in virtù delle loro passate esperienze con la
democrazia. In certo senso il corpo politico dei loro stati si era “ infettato” con il virus
della democrazia e, sebbene il precedente regime non avesse ottenuto successo,
rimaneva la convinzione che un regime effettivamente legittimato si dovesse basare su
istituzioni democratiche. In questo modo i governanti autoritari dovevano giustificare i
loro regimi con la retorica della democrazia asserendo di essere dei convinti democratici
o di trasformarsi in tali una volta risolti i problemi più impellenti della società…..Le
dittature di destra, come nel caso delle Filippine e del Salvador, spesso stimolano la
crescita di movimenti rivoluzionari di sinistra. In Sud America, tuttavia, la violenta
repressione dei regimi militari ha eliminato fisicamente molti estremisti, favorendo
anche presso i gruppi marxisti la rivalutazione delle virtù democratiche. Come osservato
da Juan Linz e da Alfred Stepan, negli anni ottanta la sinistra latino – americana ha
iniziato ha considerare la “ democrazia procedurale” come “una norma valida in se
stessa e come una soluzione politica in grado di offrire protezione contro il terrorismo di
stato e speranze di progredire verso una effettiva democrazia sociale ed economica”.
Uno dei padri della teologia della liberazione, padre Gustavo Gutiérrez del Perù, ha
osservato nel 1988 che “l’esperienza della dittatura ha reso i teologi della liberazione più
sensibili ai diritti politici” (op.cit., p. 80)
316
Questa suddivisione tra paesi europei-nordamericani e paesi latinoamericani,
entrambi parte di un’unica civiltà, seppur con alcune differenze che suggeriscono
appunto diverse strategie d’intervento, tornerà a emergere nell’ultmio lavoro di
Huntington: The Clash of Civilizations. Vi si precisa infatti che sebbene l’America latina
si è evoluta secondo un modello diverso da quello europeo e nord-americano, è pur
sempre “un’emanazione diretta della civiltà europea” di cui “può essere considerata o
una sottociviltà nell’ambito della civiltà occidentale, oppure una civiltà a se stante
strettamente associata all’Occidente e divisa in merito alla sua appartenenza o meno ad
esso” (S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti,
Milano 1997, pp. 52-53)
139
concentrare la nostra attenzione sulle proposte suggerite da Huntington
per uscire dalla “crisi della democrazia” occidentale durante gli anni
’70; suggerimenti che possiamo assumere a paradigma della riflessione
hungtintoniana
sulla
democrazia
nei
paesi
occidentali,
sulle
conseguenze di un suo sovraccarico istituzionale e sulle possibili
soluzioni da adottare qualora si verificassero.
5. Il “limite” all’espansione della democrazia e le
risposte alla potenziale deriva verso una “crisi di
trasformazione potenziale”
5.1 L’“ingovernabilità” della democrazia nella riflessione
politica di S.P.Huntington: il rapporto alla Commissione
Trilaterale del 1975
Huntington si occupò della problematica del sovraccarico
istituzionale in relazione anche alle democrazie occidentali, e alla
situazione critica che esse stavano vivendo durante gli anni
settanta, fornendone una significativa analisi nel rapporto sugli
“Stati Uniti”, preparato nel 1975 per la riunione di Kyoto
(Giappone) della Commissione Trilaterale. Questo rapporto era
parte di un’unico lavoro317, comprendente anche le relazioni
presentate da M.Crozier (Europa) e J.Watanukj (Giappone), che
abbracciava l’insieme delle democrazie facenti parte delle zone
317
M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, The Crisis of Democracy, Trilateral
Commission, New York, 1975, trad.it La crisi della democrazia, cit.
140
geo-politiche più industrializzate della Terra: Europa, Giappone,
Nord-America.
Prima di affrontare i temi analizzati da Huntington nel
suo rapporto, è opportuno dedicare parte della nostra attenzione
alla Commissione Trilaterale e alla riunione di Kyoto, nonché
agli sviluppi, contemporanei e successivi a tale riunione, della
cosiddetta
teoria
dell’ingovernabilità
o
della
crisi
da
sovraccarico delle democrazie occidentali durante gli anni
settanta.
5.2 Il “gruppo di privati cittadini” della Commissione
Trilaterale
La
Commissione
Trilaterale,
fondata
da
David
Rockefeller, nasceva nel 1973 a ridosso di un contesto politico
internazionale caratterizzato da un’allarmante crisi energetica e
dalla firma del trattato che sanciva la sconfitta Statunitense in
Vietnam318. La cosiddetta crisi del petrolio, dovuta alla guerra
del Kippur fra Israele e i paesi arabi319, aveva gettato le nazioni
dell’Occidente europeo in profonda crisi economica, provocando
un’accentuazione del conflitto sociale che si era esteso a settori
318
I negoziati, iniziati il 30 aprile 1968, si conclusero il 23 gennaio 1973 quando
Kissinger parafò l’“Accordo sulla cessazione delle ostilità e il ristabilimento della pace
in Vietnam e il presidente Nixon “annunciò che il cessate il fuoco entrava in vigore il 28
gennaio, che tutte le forze americane sarebbero state ritirate nei 60 giorni seguenti e i
prigionieri americani liberati” (cfr.J.-B.Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri
giorni, Led, Milano, 1998, p. 679). Era la “pace con onore” promessa alla fine degli anni
sessanta, in un contesto in cui, all’uccisione di Martin Luther King (aprile 1968) avevano
fatto seguito vere e proprie rivolte da parte della popolazione nera delle più importanti
città statunitensi e l’uccisione del candidato alla presidenza Robert Kennedy
319
Iniziata sabato 6 ottobre 1973, alle 13,50, quando consistenti truppe egiziane
attraversarono il canale di Suez e nello stesso momento l’esercito siriano, con l’aiuto di
141
sempre più ampi della popolazione. Mentre la Repubblica
Federale Tedesca procedeva al definitivo riconoscimento della
Repubblica Democratica e dei suoi confini orientali (OderNeisse), gli Stati Uniti, appresa la “lezione vietnamita”, come
l’aveva definita Kissinger, reimpostavano la propria politica
estera su logiche decisamente diverse rispetto al passato; logiche
che non avrebbero più visto gli Stati Uniti impegnati in prima
persona nei conflitti caratterizzanti certe aree del pianeta (Europa,
Asia).
La vietnamizzazione del conflitto veniva così imposta
dagli USA non più soltanto al Vietnam, ma anche ad altre realtà
geo-politiche, lasciando che l’intervento contro i pericoli che
minaccivano la democrazia venisse direttamente dall’interno
della singola realtà minacciata, la quale, tutt’al più, avrebbe
potuto usufruire di un coordinamento esterno esercitato da alcune
agenzie aventi per obiettivo quello di proporre soluzioni
equilibrate a problemi di attualità internazionale e di comune
interesse.
Non solo, ma la situazione sociale interna ad ogni
singolo stato, soprattutto europeo-occidentale, mostrava una
cronica instabilità, dovuta a processi di continuo allargamento
della partecipazione democratica e all’emergere impetuoso di
movimenti indirizzati verso un cambiamento più o meno radicale
della società. Tutto questo spingeva settori sempre più ampi della
popolazione a partecipare direttamente al “governo del potere
pubblico in pubblico”320, cioè alla gestione del potere
democratico.
unità irachene, penetrò nella zona di occupazione israeliana del Golan (cfr.J.B.Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, cit., p. 663)
320
N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, p.76
142
Quali erano le finalità della Commissione Trilaterale? La
Commissione veniva definita nel suo Statuto come “un gruppo di
privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti, delle
tre aree del mondo industrializzato (America Settentrionale,
Europa Occidentale, Giappone) che si riuniscono per studiare e
proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità
internazionale e di comune interesse”321. La nascita e la
strutturazione
di
questo
gruppo
prendeva
origine
dalla
consapevolezza dell’esistenza di una realtà internazionale
globale, suddivisa in tre sottosistemi regionali, interdipendenti e
cooperanti di fatto tra di loro, “nell’ambito di una complessa
dinamica…che si è venuta identificando in due flussi principali:
un flusso Est-Ovest e uno Nord-Sud”, cioè due flussi convergenti
in “‘linee di conflittualità’”322, quasi ad indicare come la
componente più forte delle relazioni internazionali fosse appunto,
la contrapposizione. Riconosciuta la divisione di fatto del sistema
internazionale in tre sotto-sistemi, si poneva il problema
essenziale della possibile identificazione di un “mondo
occidentale”, industrializzato e democratico, che si potesse
inserire nelle relazioni internazionali come forza ben definita,
tesa a sostenere i fondamentali principi della cooperazione nella
libertà internazionale degli scambi con l’obiettivo di uno
sviluppo equilibrato del pianeta. Per svolgere il suo compito, la
Commissione trilaterale, oltre agli incontri e alle discussioni a
livello globale, di gruppo o di comitato esecutivo, proponeva
periodicamente la pubblicazione di rapporti su argomenti
concordati in base al loro interesse ed alla loro attualità. La
321
Statuto della Commissione Trilaterale, New York 1973, art.1. Direttamente visionato
presso la sede di Parigi della Commissione Trilaterale per gentile concessione di
M.P.Révay, Direttore Europeo della Commissione Trilaterale
143
preparazione dei rapporti veniva affidata a tre esperti della
Commissione, uno per ciascuna area, i quali elaboravano bozze
successive che, dopo la discussione in una riunione plenaria della
Commissione e di gruppi di lavoro ad hoc, venivano pubblicati in
forma di volumi.
Come era strutturata la Commissione Trilaterale? La
Commissione poteva contare nel 1975 su 180 membri. Vi era un
primo livello formato da organi che esplicavano la loro azione in
ambito internazionale: un Presidente, seguito da un Direttore
Generale, un Comitato esecutivo e un’Assemblea plenaria
comprendente tutti gli iscritti. La Commissione era inoltre
suddivisa a seconda delle aree geografiche interessate (Gruppo
Nord America, Gruppo Europeo, Gruppo Giapponese). Ogni
gruppo era diretto da un Chairman, un Deputy Chairman e un
Director, affiancati da un Comitato Esecutivo regionale. A loro
volta i singoli Stati323 facenti parte di ciascun gruppo regionale,
avevano un proprio organigramma che ripeteva quello proprio
della struttura principale.
L’area europea comprendeva nel 1975 60 membri324,
tanti quanti ne disponevano quelle Nord-Americana e Asiatica325.
322
Cfr. M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, cit., p. 3
Durante gli anni ’70 non si discusse molto in Italia della Commissione Trilaterale e il
dibattito fu essenzialmente limitato agli organi di stampa che se ne occuparono
soprattutto in occasione dell’elezione alla Presidenza degli Stati Uniti di J.Carter,
membro della Trilaterale: Il Sole 24 Ore (15 ottobre 1975), La Repubblica (5 novembre
1976) Corriere della Sera (4 novembre 1976), La Stampa (4 novembre 1976), Il Sole 24
Ore (4 novembre 1976), Il Giorno (2 novembre 1976), L’Europeo (4 giugno 1976). Da
segnalare anche un incontro tra alcuni studenti dell’Università di Bologna e il direttore
della Stampa, Arrigo Levi, anch’egli membro della Commissione Trilaterale, trasmesso
da Rai Radio Due il 10 marzo 1977 alle ore 21:50, in cui, oltre all’elezione di Carter, si
discusse pure della Trilateral Commission
324
Nel 1975 facevano parte della Commissione Trilaterale anche Z.Brzezinski (Direttore
della Commissione Trilaterale), G.C.Smith (Direttore della deputazione nordamericana), M.Kohnstamm (Direttore della deputazione europea), T.Watanabe
(Direttore della deputazione giapponese), F.Duchene (European Deputy Chairman),
C.J.Makins (Deputy Director), G.S.Franklin (Segretario per il Nord-America),
T.Yamamoto (Segretario per il Giappone), James E.Carter (Governatore della Georgia e
323
144
5.2.1 Il Rapporto del 1975 sulla crisi della democrazia
Il Rapporto della Commissione Trilaterale sulla “crisi
della democrazia”, presentato all’Assemblea Plenaria di Kyoto
futuro Presidente degli Stati Uniti), Alden W.Clausen (Presidente della Banca
d’America), David Rockefeller (Presidente della Chase Manhattan Bank e membro del
Comitato esecutivo Nord-America), Raymond Barre (membro dell’Assemblea
Nazionale francese e futuro Presidente del Consiglio francese), Gerhard Schroder (futuro
cancelliere tedesco e allora membro del Bundestag). La componente italiana era invece
formata da: Giovanni Agnelli (Presidente della Fiat e membro del Comitato esecutivo
europeo), Piero Bassetti (Presidente della Regione Lombardia), Franco Bobba
(Company Director, Turin), Umberto Colombo (Direttore del Comitato per le politiche
scientifiche, OECD), Guido Colonna di Paliano (Presidente de La Rinascente e membro
della Commissione della Comunità Europea), Francesco Compagna (Sottosegretario di
Stato al Ministero del Mezzogiorno e membro del Comitato esecutivo europeo),
Francesco Forte (Professore di Scienza delle Finanze all’Università di Torino), Giuseppe
Glisenti (Director of General Affairs, La Rinascente), Arrigo Levi (Direttore del
quotidiano La Stampa, Torino), Cesare Merlini (Direttore dell’Istituto Italiano per gli
Affari Internazionali). Attualmente la Commissione Trilaterale può annoverare tra i suoi
iscritti: Zbigniew Brzezinski, Henry A.Kissinger, John D.Rockefeller, George Soros,
Bruce Babbit (ex-Segretario di Stato agli Interni), Stephen W.Bosworth (Ambasciatore
in Corea del Sud), Bill Clinton (ex-Presidente degli Stati Uniti), William S.Cohen (exSegretario di Stato alla Difesa), Thomas Foley (Ambasciatore in Giappone), Alan
Greenspan (Capo delle Federal Reserve), Richard Holbrooke (Ambasciatore alle Nazioni
Unite). Il gruppo italiano riporta invece i nomi di: Umberto Agnelli Presidente della
IFIL, Torino), Piero Bassetti (Membro del CNEL, Roma), Franco Bernabé (former Chief
Executive Officer, Telecom Italia, Roma), Boris Biancher Chiappori (Presidente
dell’Agensia ANSA di Roma), Umberto Capuzzo (membro del Senato), Salvatore
Carrubba (former Managing Editor de il Sole 24 Ore di Milano), Fausto Cereti
(Presidente dell’Alitalia), Gian Maria Gros-Pietro (Presidente dell’ENI), Andrea
Pininfarina (Managing Director, Industrie Pininfarina, Torino), Alessandro Profumo
(Managing Director, Unicredito, Milano), Gianfelice Rocca (Presidente della Techint
Group of Companies, Milano), Sergio Romano (Editorialista del Corriere della Sera ed
ex-ambasciatore in URSS), Renato Ruggiero (attuale Ministro degli Esteri), Silvio
Scaglia (Managing Director, e-Biscom, Milano; former Managing Director, Omnitel),
Marco Tronchetti Provera (Presidente della Pirelli, Milano), Gianni Zandano (Presidente
della Fondazione S.Paolo, Torino), Mario Monti (Membro della Commissione Europea).
La presente lista è aggiornata al 1 gennaio 2001. Si ringrazia M.P.Révay per la
disponibilità prestata nella consultazione della lista degli iscritti alla Commissione
Trilaterale
325
Gli Stati che oggi fanno parte della Trilaterale sono la Rep.Fed.Tedesca (20 membri),
la Francia (20), l’ Italia (20), il Regno Unito (20), la Spagna (14), l’ Olanda (9), il Belgio
(7), il Lussemburgo (7), l’Austria (5), la Danimarca (5), l’ Irlanda (5), la Norvegia (5), il
Portogallo (5), la Svezia (5), la Finlandia (4), gli Stati Uniti (75), il Canada (75) e il
Giappone (25), per un totale complessivo di 325 membri iscritti. Fonte: Commissione
Trilaterale, Parigi, rue de Téheran 5. Per gentile concessione di M.P.Révay, Direttore
Europeo della Trilateral Commission
145
(Giappone) il 31 maggio 1975, era stato preparato da un apposito
Gruppo di Studio, istituito nella primavera del 1974, i cui relatori
rispondevano ai nomi di Michel Crozier326 (Francia), Samuel P.
Huntington (USA) e Joji Watanuki327 (Giappone). Ogni relatore
doveva predisporre un rapporto riguardante una determinata area
geografica. Il Gruppo di Studio era inoltre composto da Robert
R. Bowie (Professore di affari internazionali alla Harvard
University), Zbigniew Brzezinski (Direttore della Commissione
Trilaterale), James Cornford (Professore di politica all’Università
di
Edimburgo),
George
S.
Franklin
(Segretario
della
Commissione Trilaterale per il Nord America), Donald M. Fraser
(Membro della Camera dei Rappresentanti degli Usa), Karl
Kaiser (Direttore dell’Istituto di ricerca della Società tedesca per
la politica estera), Seymour Martin Lipset (Professore di
sociologia alla Harvard University), John Meisel (Professore di
326
Michel Crozier, che si occupava dell’area Europeo-Occidentale, era fondatore e
Direttore del Centre de Sociologie des Organisations di Parigi e Direttore di Ricerca al
Centre Nationale de la Recerche Scientifique. Nato nel 1922, si era formato
all’Università di Parigi, svolgendo in seguito regolari funzioni di consigliere per il
governo francese in tema di pianificazione economica, istruzione ed amministrazione
pubblica. Aveva insegnato anche presso diverse università americane, lavorando tra
l’altro per tre anni alla Harvard University (1966-67 e 1968-70) e per due anni al Center
for Advanced study in the Behavioral Sciences di Stanford (1959-60 e 1973-74). Nel
1970-72 era stato Presidente della Société française de sociologie. Tra i suoi lavori di
maggior rilievo, spiccavano nel 1975: Le phénomène burocratique. Essai sur les
tendences bureaucratiques des systèmes d’organisation modernes et sur leurs relations
en France avec le système social et culturel (1963), Le monde des employes de bureau.
Rèsultats d’une enquetemenèes dans sept compagnies d’assurances parisiennes (1965) e
La société bloque (1970)
327
J.Watanuki, incaricato per l’Area Asiatica, era professore di sociologia alla Sophia
University di Tokyo, nell’ambito della quale collaborava all’Institute of International
Relations for Advanced Studies on Peace and Development in Asia. Nato nel 1931 a Los
Angeles, aveva portato a termine i suoi studi universitari all’Università di Tokyo. Dal
1960 al 1971 aveva insegnato nel Dipartimento di sociologia di questa Università,
trasferendosi poi alla Facoltà di Sociologia della Sophia University. Dopo aver trascorso
molti anni di insegnamento e di ricerca in università statunitensi (1962-63 Princeton
University con sovvenzioni della Rockfeller Foundation, 1963-64 University of
California nell’Institute of International Studies) nel 1969-70 era divenuto “professore
ospite” presso il Dipartimento di scienze politiche dell’University of Iowa e nel 1973
“Senior Scholar” nel il Comunications Institute dell’East-West Center di Honolulu. Nel
1975 i suoi lavori più importanti potevano considerarsi: Politica contemporanea e
mutamento sociale (1962) e La società politica giapponese (1967)
146
scienza politica alla Queen’s University), Erwin Scheuch
(Professore di scienza politica all’Università di Colonia), Arthur
M. Schlesinger Jr. (Professore di lettere classiche alla City
University di New York), Gerard C. Smith (Presidente della
Commissione Trilaterale per il Nord America), Yasumasa
Tanaka (Professore di scienza politica all’Università di
Gakushuin di Tokyo) e Tadashi Yamamoto (Segretario della
Commissione Trilaterale per il Giappone).
Il 21 aprile 1974 i relatori e Brzezinski si incontravano a
Palo Alto, in California, per elaborare lo schema generale del
rapporto, mentre il 12 novembre gli stessi si davano
appuntamento a Londra per esaminare le prime stesure dei
capitoli regionali e fissare i lineamenti più precisi dello studio. Il
23 febbraio 1975 i relatori si confrontavano invece con gli esperti
delle tre regioni della Commissione a New York, prendendo in
esame le seconde stesure dei capitoli regionali, nonché la bozza
dell’introduzione del rapporto approvato in via definitiva
dall’assemblea plenaria della Trilaterale, tenutasi a Kyoto il 31
maggio 1975, pochi giorni dopo la conclusione del Congresso
Mondiale del Petrolio, svoltosi anch’esso in Giappone (Tokio),
tra l’11 e il 16 maggio.
Il presidente della FIAT Giovanni Agnelli scriveva nella
sua prefazione all’edizione italiana del rapporto della Trilaterale
che, se c’era “molto di lodevole nei risultati conseguiti dal
sistema democratico di governo delle società della Trilaterale”,
esistevano comunque “settori di debolezza critica e di potenziale
fallimento” e che “il nocciolo del problema” stava nelle
contraddizioni intrinseche della stessa espressione “governabilità
della democrazia”. Il concetto di governabilità, precisava ancora
147
il Presidente della FIAT, vale a dire la capacità oggettiva e
soggettiva di un sistema di essere gestito, non doveva venire
inteso come un concetto statico e involutivo a lungo termine,
bensì in maniera dinamica ed evolutiva, “qual è nella sua vera
accezione democratica”328
Il rapporto della Trilaterale del 1975 traeva spunto dalla
crisi di governabilità che aveva investito la democrazia dei paesi
industrializzati tra la fine degli anni ’60 e l’inzio degli anni ’70. I
rapporti presentati da Crozier per l’Europa Occidentale, da
Huntington per il Nordamerica e da Watanuki per il Giappone,
“individuavano i diversi tipi di minacce a cui era esposto lo stato
democratico: minacce contestuali (che derivano dall’ambiente
esterno a quello in cui operano le democrazie); minacce
dipendenti dalla struttura e dalle tendenze sociali (movimenti
fascisti, partiti comunisti, intellettuali antagonisti, mutamenti a
livello dei valori sociali); “e infine, e aspetto forse più
grave,…minacce intrinseche alla stessa vitalità del sistema
democratico che sgorgano direttamente dal funzionamento della
democrazia”. Si sosteneva infatti nel rapporto che un “governo
democratico non opera necessariamente secondo modi che
regolino
o
mantengano
automaticamente
l’equilibrio.
E’
possibile, invece, che funzioni in modo tale da dare vita a forze e
tendenze le quali, se non controllate da qualche intervento
esterno,
finiscono
col
condurre
all’indebolimento
della
democrazia”329
La ragione della crisi della democrazia veniva pertanto
individuata
nella
ampiezza
con
cui
emergevano
contemporaneamente minacce contestuali, e minacce dipendenti
328
M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., p. 3
148
dalle tendenze sociali. Questi pericoli erano, per gli autori del
rapporto, la conseguenza diretta dell’ampliata partecipazione
politica che aveva fatto aumentare le richieste ai governi. Infatti
un “eccesso” di partecipazione aveva reso troppo pressanti le
rivendicazioni provenienti “dal basso”, finendo per avvicinare i
cittadini a quelle decisioni strategiche da cui andavano, invece,
tenuti a debita distanza330. Per contro, come evidenziava Crozier,
un sovraccarico di domande determinava un’elevata coesione
burocratica, necessaria per mantenere la possibilità di prendere e
attuare le decisioni. Da ciò scaturiva una forte difficoltà nel
dominare la complessità, incoraggiando invece l’irresponsabilità
politica e civica e la dissoluzione del consenso.
Per
quanto
riguardava
la
situazione
dell’Europa
occidentale, Crozier rintracciava le cause della crisi da
sovraccarico: a) nell’aumento dell’interazione sociale, la quale
rendeva sempre meno organizzabili e sempre più complesse le
collettività d’individui; b) nell’impatto della crescita economica
e nel conseguente progresso materiale il quale, invece di
acquietare le tensione, non faceva altro che esasperarla; c) nel
crollo
delle
istituzioni
tradizionali,
divenute
vincoli
insopportabili; d) nello straordinario aumento della libertà di
scelta dell’individuo per cui ogni cosa appariva possibile; e) nello
“sconvolgimento” del mondo intellettuale, i cui esponenti, in una
società dove il sapere tendeva a divenire sempre più la principale
risorsa dell’umanità, venivano sospinti all’avanguardia delle lotte
socio-politiche, mutando radicalmente i propri rapporti con la
società; f) nei mezzi di comunicazione di massa, che
329
op.cit., pp. 24, 110
Cfr. V.Sorrentino, Marx: corruzione e strategie occulte nella democrazia moderna, in
“Democrazia e diritto”, nn.2-3, aprile-settembre 1994, pp. 527-578
330
149
amplificavano
la
vulnerabilità
della
società
divenendo
un’immensa cassa di risonanza delle difficoltà e delle tensioni
sociali.
I relatori della Trilaterale ritenevano inoltre necessaria,
per garantire la governabilità della democrazia, una limitazione
delle sfere in cui venivano applicati i procedimenti democratici,
accompagnando tale limitazione da “una certa dose di apatia e
disimpegno da parte di certi individui e gruppi”331, evitando in tal
modo sia i pericoli provenienti dall’esterno (Mondo Sovietico)
come quelli derivanti dalla possibilità di un regresso politico e
sociale interno dovuto all’affermarsi di un eccessivo statalismo
che, pur di garantire i lavoratori e contribuire all’espansione
occupazionale, appariva di fatto come la soluzione più facile;
soluzione che non avrebbe però fatto altro che incrementare il
sovraccarico.
5.3 La teoria dell’“ingovernabilità” delle democrazie
occidentali
La tesi di base che sottintendeva la teoria del
sovraccarico, elaborata essenzialmente durante gli anni settanta,
consisteva in un’organica impotenza dello Stato, soprattutto
quello democratico, incapace di fronteggiare la pressione delle
aspettative eccedenti, producendo una sorta di gap tra volume
delle esigenze, emergenti dalla società civile, e capacità degli
apparati governativi di saperle soddisfare.
331
M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, cit., pp. 108-109
150
5.3.1 La teoria del sovraccarico nell’interpretazione di C.Offe
Claus Offe, analizzando le diverse teorie sulla crisi da
sovraccarico della democrazia notava l’esistenza di “affinità
strutturali” tra interpretazioni neoconservatrici e interpretazioni
marxiste332.
Infatti entrambe le posizioni convergevano sul fatto che
l’opposizione di classe e le lotte che ne derivavano avrebbero
condotto inevitabilmente ad una crisi della democrazia. Le due
soluzioni, notava ancora Offe, divergevano invece sulle soluzioni
da adottare per risolvere la “catastrofe della democrazia
capitalistica”333: superamento dell’assetto sociale capitalistico per
i marxisti, conservazione dello stesso e quindi drastico
“Molti regimi autoritari hanno dovuto controllarsi con i problemi relativi alla
legittimazione negli anni settanta proprio in virtù delle loro passate esperienze con la
democrazia. In certo senso il corpo politico dei loro stati si era “ infettato” con il virus
della democrazia e, sebbene il precedente regime non avesse ottenuto successo,
rimaneva la convinzione che un regime effettivamente legittimato si dovesse basare su
istituzioni democratiche. In questo modo i governanti autoritari dovevano giustificare i
loro regimi con la retorica della democrazia asserendo di essere dei convinti democratici
o di trasformarsi in tali una volta risolti i problemi più impellenti della società…..Le
dittature di destra, come nel caso delle Filippine e del Salvador, spesso stimolano la
crescita di movimenti rivoluzionari di sinistra. In Sud America, tuttavia, la violenta
repressione dei regimi militari ha eliminato fisicamente molti estremisti, favorendo
anche presso i gruppi marxisti la rivalutazione delle virtù democratiche. Come osservato
da Juan Linz e da Alfred Stepan, negli anni ottanta la sinistra latino – americana ha
iniziato ha considerare la “ democrazia procedurale” come “una norma valida in se
stessa e come una soluzione politica in grado di offrire protezione contro il terrorismo di
stato e speranze di progredire verso una effettiva democrazia sociale ed economica”.
Uno dei padri della teologia della liberazione, padre Gustavo Gutiérrez del Perù, ha
osservato nel 1988 che “l’esperienza della dittatura ha reso i teologi della liberazione più
sensibili ai diritti politici”.
332
Cfr.C.Offe, “Unregierbarkeit”. Zur Renaissance konservativer Krisentheorien, in
J.Habermas (a cura di), “Stichworte zur ‘Geistingen Situation der Zeit’”, vol. I: Nation
und Republik, Frankfurt am Main 1979, p. 525, trad.it. in C.Donolo, F.Fichera, Il
governo debole. Forme e limiti della razionalità politica, Laterza, Bari, 1981, p. 108
333
cfr.ibidem
151
ridimensionamento degli scenari che lo avevano messo in moto,
in primo luogo una partecipazione democratica divenuta ormai
insostenibile, secondo il giudizio dei neoconservatori. Pertanto se
per i marxisti la crisi della democrazia dipendeva dalla forza
esplosiva dei conflitti di classe, i teorici della destra neoconservatrice, pur partendo anch’essi dalla constatazione della
rilevanza dello scontro sociale che si stava vivendo in occidente,
individuavano
il
nodo
gordiano
nell’insufficiente
istituzionalizzazione dei fenomeni sociali da parte del sistema
politico, e nella democrazia, le cui strutture favorivano
inevitabilmente la partecipazione e la crescita esponenziale della
domanda politica, la causa stessa dell’ingovernabilità.
Per Offe il problema dell’“ingovernabilità” delle
democrazie occidentali, nasceva invece dal sovraccarico delle
aspettative a cui il potere dello stato si trovava esposto nelle
condizioni della concorrenza tra i partiti, del pluralismo dei
gruppi d’interesse e di mezzi di comunicazione di massa
relativamente indipendenti. Il carico costantemente crescente
delle aspettative, e di conseguenza degli obblighi e delle
responsabilità che il governo si trovava ad affrontare, senza
poterle, fra l’altro evitare, induceva lo studioso tedesco a credere
che “le società industriali di capitalismo sviluppato” non
disponevano di nessun meccanismo capace di rendere compatibili
le loro norme e i loro valori con le condizioni di funzionamento
sistemico a cui esse erano soggette. Ciò dava luogo ad
un’instabilità
e
ingovernabilità
strutturale
delle
società
occidentali334, nonché ad una loro crisi di governabilità e al
dissolversi dell’alleanza tra crescita economica e sicurezza contro
152
i rischi sociali335 che aveva caratterizzato la società industriale336.
Tendeva invece ad emergere un nuovo modo di gestire le
problematiche sociali, i cui protagonisti non sarebbero più stati
né i partiti politici né i gruppi d’interesse, ma i movimenti sociali,
334
Cfr.C. Offe, Ingovernabilità e mutamento delle democrazie, Il Mulino, Bologna 1982,
pp. 19-42
335
A tal proposito è interessante notare come il concetto di rischio, e in particolar modo
quella di rischio sociale, abbia svolto un ruolo molto rilevante in questo tipo di
direzione. Sembrerebbe quasi che l’elaborazione del rischio e l’allarme sociale che
l’accompagna, sia divenuto ormai un modo di gestione delle dinamiche sociali. Ewald
specifica anche che la nozione di rischio, apparsa verso la fine del Medioevo con
l’assicurazione marittima, “est doué d’une tendance à proliférer partout. Il obéit à la loi
du tout ou rien. Il ne connait pas les partages binaires de la pensée juridique classique,
celui du permis et du défendu, du légal et de l’illégal, mais la chaine indéfinie des
quantités discrètes...Le risque implique une sorte de solidarité aussi bien active que
passive des individus composant une population : personne ne peut plus prétexter de sa
bonne conduite pour échapper aux contraintes du groupe ; il doit reconnaitre sa faiblesse
constitutive, mieux : que par son existence meme il est un risque pour les autres ; en
conséquence, il doit se plier aux impératifs liés à cette solidarité (F.Ewald, L’Etat
Providence, Gallimard, Paris, p. 417). La definizione del concetto di rischio, fornitaci da
Ewald, troverà un sviluppo fecondo nell’opera di Beck (U.Beck, La società del rischio.
Verso una seconda modernità, Carocci, Milano, 2000) che arriverà ad estendere
all’intera società post-moderna le dinamiche del rischio, protagoniste di una
“modernizzazione riflessiva…vale a dire il passaggio dalla prima modernità, chiusa nel
sistema dello Stato-nazione, a una seconda modernità aperta, rischiosa, caratterizzata da
una situazione di insicurezza diffusa, e tutto ciò all’interno della continuità della
modernizzazione capitalistica impegnata a liberarsi delle catene dello Stato-nazione e
dello Stato sociale” (op.cit., p. 28). Ewald, recentemente tornato sull’argomento in un
articolo scritto con Kessler, sottolinea come i “rischi sociali (malattia, pensione,
incidenti sul lavoro) hanno cambiato natura e struttura; lo sviluppo tecnologico ha
aggiunto ai rischi di incidenti classici rischi di natura catastrofica, che pongono problemi
inediti per le loro dimensioni spaziali e temporali” (F.Ewald, D.Kessler, Tipologia e
politica dei rischi, in “Parolechiave”, 22-24, dicembre 2000, pp. 15-39, p. 23). Inoltre il
rischio, a “lungo vissuto come una costrinzione e inserito in programmi che si
proponevano solo di escluderlo”, è diventato invece una risorsa della politica moderna.
Mentre l’ “accento è di nuovo posto sul modo di governare i rischi, (e) gli obiettivi delle
politiche di protezione restano relativamente immutati” (op.cit., p. 35), per Ewald e
Kessler, “la maggiore ingiustizia non risiede tanto nella diseguale distribuzione dei
redditi quanto nella disuguaglianza di fronte al rischio” Pertanto governare “la
protezione sociale rispetto al rischio non consiste nel ridurre il livello delle coperture, ma
nel modificarne i metodi di gestione in modo da consentire a ciscuno, secondo gli
obiettivi originari, di affrontare i rischi che sono i suoi con una modalità che, quanto
meno, non condica all’eclusione e, nel migliore dei casi, assicuri la promozione
sociale…Compito (infatti) del governo non è tanto quello di trasferire sullo Stato i rischi
dei cittadini quanto di far sì che essi trovino sostegno presso delle istituzioni che non li
deresponsabilizzano” Tant’è vero che in “una democrazia moderna, lo Stato viene
giudicato in base alle sua capacità di gestire i rischi” (op.cit., pp. 37-38)
336
“Le società capitalistiche si distinguono da tutte le altre non per il problema della loro
riproduzione…ma per il fatto che esse elaborano questo problema fondamentale di tutte
le società in modo da prendere contemporaneamente due strade mutuamente esclusive:
la differenziazione o privatizzazione della produzione e nello stesso tempo la sua
socializzazione e politicizzazione” (C.Offe, “Unregierbarkeit”, cit., p. 127)
153
il cui “principio formativo…è un certo concetto, per lo più
implicito e ideologicamente assai grezzo, di identità, che
costituisce poi la base di un movimento”337. Questa “identità
collettiva” emergeva “in risposta ad eventi esterni”, come diretta
conseguenza di “provocazioni”, che avrebbero preso la forma di
effetti esterni e non intenzionali di processi di modernizzazione
politica ed economica, evidenziando come base una “politica
anti-politica”, ossia il tentativo di stabilire saldi limiti alla gamma
o alla portata convenzionale della politica, rivolgendosi invece ai
modi di vita del privato338.
Secondo l’analisi di Offe la strategia neoconservatrice
era
sintetizzabile
con
l’approccio
della
Riduzione
del
“sovraccarico”, congretizzantesi a sua volta in tre diversi modi:
1) deviazione delle esigenze che andavano verso relazioni di
scambio monetario, cioè verso il mercato, privatizzando o
destatalizzando le prestazioni pubbliche, tramite la loro cessione
a enti economici privati concorrenziali; 2) promozione dei valori
come rinuncia, disciplina, senso comunitario; 3) riduzione di
tutte quelle esigenze e rivendicazioni che non potevano essere
impedite nel loro sorgere, mediante l’installazione di meccanismi
337
Queste posizioni verranno poi riprese da P.Rosanvallon ne La Crise de l’Etat
Providence, Editions du Seuil, Paris 1981 e recentemente da P.Donati in La cittadinanza
societaria, Laterza, Bari, 2000 e C.Mongardini, Economia come ideologia, Franco
Angeli, Roma 1996
338
Quest’aspetto, sottolineato da Offe, portava invece, quasi contemporaneamente,
l’italiano Alberto Asor Rosa a collocare queste forme di “anti-politica”, che
cominciavano ad intravedersi, ai margini della società ovvero all’interno di quella che
definì la “seconda società”: “la lotta non è più per imporre una diversa ipotesi politica
delle stesse masse, ma è tra due diverse società. Il punto politico è questo: dobbiamo
chiederci che cosa abbiamo fatto per questa seconda società, che è cresciuta accanto alla
prima e magari a carico di questa, ma senza trarne rilevanti vantaggi, senza avere uno
sbocco e senza un radicamento reale nella ‘pima società’. Aggiungerei questo, come
necessaria precisazione: noi abbiamo fatto la scelta, che io credo giusta, di difendere un
tipo di società in trasformazione, al cui centro sta…la classe operaia organizzata. C’è il
pericolo, oggi, che quanto non rientra in questo tipo di società – e vale a dire
emarginazione, disoccupazione, disoccupazione giovanile, disgregazione – le si scarichi
154
di filtraggio che dovevano stabilire quali esigenze avrebbero
meritato di essere ascoltate e considerate come inputs politici,
oppure essere respinte come irrealistiche o inammissibili. Queste
funzioni filtro dovevano poi svolgersi attraverso “prestazioni
conoscitive” istituzionalizzate poste al di sopra dei soggetti e
delle loro esigenze339.
Parallelamente la capacità regolativa dei governi avrebbe
dovuto essere migliorata dal punto di vista “qualitativoorganizzativo” al fine di potenziare la funzionalità e l’efficacia
dell’azione politico-amministrativa. Il principio seguito da questo
tipo di strategia, suggeriva che, sia dal punto di vista delle
interdipendenze reali, sia da quello della pianificazione a lungo
termine, avrebbe dovuto essere ampliato l’orizzonte informativo
e operativo del governo e dell’amministrazione. Ampliamento
possibile solo se si fosse riusciti a estendere la base di consenso,
cioè la capacità del sistema politico-amministrativo di assorbire i
conflitti. Questa strategia avrebbe infine dovuto, per Offe,
perseguire l’istituzionalizzazione di alleanze e lo sviluppo di
meccanismi di accordo tra governo, sindacati, associazioni
lavorative, unioni delle corporazioni settoriali e cooperative di
consumatori.
5.3.2 Contraddizioni e crisi di razionalità del capitalismo
nell’analisi di D.Bell e J.Habermas
addosso come un turbine distruttivo” (A.Asor Rosa, Le due società, Einaudi, Torino
1977, p. 139)
339
N. Bobbio, Il futuro della democrazia, op.cit., pp.99-100
155
Ancor prima di Offe, Daniel Bell, con L’avvento della
società post-industriale (1973), e successivamente con Le
contraddizioni culturali del capitalismo (1976), riprendendo un
tema già trattato da J.Schumpeter in Capitalismo, socialismo e
democrazia (1946), sosteneva un argomento di grande interesse,
riconducibile anch’esso al tema del sovraccarico. Infatti, mentre
nella società industriale le logiche dell’efficienza e della
razionalizzazione economica, così come quelle dell’efficienza
decisionale politica e dell’integrazione culturale, andavano nella
stessa direzione ed erano unificate, nella società post-industriale
si stava invece verificando, per Bell, una completa dissociazione
tra logiche di efficienza e logiche culturali di espressività e di
autorealizzazione dei soggetti, individuali e sociali. Tutto ciò
aveva come conseguenza che la cultura non era più un mezzo di
integrazione e manipolazione, bensì un fattore inflattivo in grado
di spingere verso una continua moltiplicazione e dissociazione
delle
domande
e
dei
bisogni
senza
rapporto
con
le
interdipendenze oggettive del mercato e dei rapporti politici.
Per
reazione
al
tema
dell’ingovernabilità
delle
democrazie occidentali, Habermas tentava di tematizzare il
problema espressivo dell’identità come domanda radicale di
cambiamento non soltanto dei rapporti economici e sociali ma
anche dei valori e delle forme di legittimazione del sistema.
Secondo Habermas la società attuale, in quanto forma di
“capitalismo maturo” (Spatkapitalismus) regolato dallo stato, si
stava sviluppando in maniera contradditoria, caratterizzandosi per
le sue continue crisi che si producevano, appunto, a causa delle
minori possibilità di risoluzione dei problemi offerte dal sistema
156
industriale340. Lo studioso tedesco distingueva così tra crisi che
rappresentavano delle “perturbazioni durevoli” del sistema, e
crisi che avevano soltanto un carattere congiunturale, come
quelle connesse al ciclo economico, o relative ai mutamenti di
governo o di regime politico.
La crisi del “tardo capitalismo” evidenziava, per il
sociologo tedesco, non tanto una crisi della democrazia, ma una
vera e propria crisi strutturale che investiva radicalmente i
fondamenti di valore e di legittimazione morale del sistema.
L’unica via d’uscita dalla crisi consisteva pertanto in una
necessaria trasformazione degli assetti politico-sociali vigenti,
mediante l’insorgere di una tensione sociale che avrebbe
condotto progressivamente a un sovraccarico di problemi di
direzione collettiva e di governo. La trasformazione che ne
sarebbe
derivata
avrebbe
suscitato
l’abbandono
della
razionalizzazione efficientistica di tipo capitalistico in favore di
una “razionalità comunicativa”, orientata cioè alla comprensione
e al rispetto degli altri341.
340
Cfr. J.Habermas, L’universalità della democrazia, De Donato, Torino1968
Marramao sottolineava invece come “La crisi non rappresenterebbe più quel memento
mori del sistema che nella vulgata marxista secondo e terzinternazionalista figurava
come un necessario viatico alla tesi della fuoriuscita dal capitalismo, intesa come
passaggio da un sistema perennemente “in crisi” a un sistema basato sulla trasparenza e
sul consenso: su un ideale di armonia, alla fin dei conti, non molto distante da quello che
i teorici liberali assegnavano alla sfera del mercato. Il concetto subisce così un duplice
emendamento: sul piano dello statuto teorico, tende a perdere la connotazione globale e
in un certo qual modo olistica ad esso tradizionalmente assegnata nel quadro di un
marxismo inteso come filosofia della storia ‘trasformazionista’…sul piano dell’analisi
storica, le epoche di crisi o le fasi ‘critiche’ del ciclo vengono studiate come periodi
positivi di produzione di nuovi assetti, e non soltanto come periodi di declino, di blocco
oppure di dispersione…la crisi non è sempre e necessariamente la premessa o la causa
delle innovazioni, ma ne è spesso la conseguenza o addirittura l’effetto” (G.Marramao,
Dopo il Leviatano. Individuo e comunità nella filosofia politica, G.Giappichelli Editore,
Torino, 1995, pp. 80-81). Ewald, sostenendo invece che un sistema post-moderno si
trova “perennemente in crisi”, concentra la propria attenzione sulla sua “gestibilità”
(cfr.F.Ewald, L’Etat Providence, op.cit.). Chi gestisce la crisi puòcontrollarla e,
mediante il meccanismo dell’ “opacità”, cioè strumenti tramite cui garantire l’efficacia
di interessi particolari, tenendone all’oscuro l’opinione pubblica, dirigerla lungo le
traiettorie più confacenti con i rapporti di dominio che intende assicurare con la propria
341
157
Questo
cancellazione
processo
di
quei
implicava
rapporti
di
per
Habermas
forza
che,
una
penetrati
impercettibilmente nelle strutture comunicative, impedivano con
blocchi psichici e interpersonali della comunicazione che i
conflitti
venissero
sostenuti
consapevolmente
e
regolati
consensualmente.
In una società che fosse riuscita a superare la
regolamentazione statale dei conflitti d’interesse, sarebbe emersa
una nuova identità, non più dall’appartenenza o dall’essere
membro di un gruppo o di un’identità collettiva, ma da una forma
riflessiva, fondata sulla coscienza di avere chances uguali e
generali per prendere parte ai processi di comunicazione.
5.3.3 “Meccanica paradossale” e Welfare come fattore di
sovraccarico istituzionale delle società industriali: la riflessione
di G.Marramao e N.Luhmann
Anche
Marramao,
ispirandosi
direttamente
alla
teorizzazione di Offe, sosteneva che la teoria della crisi da
ingovernabilità poteva suddividersi in una serie di “terapie”
ordinabili
“secondo
due
variabili
strategiche
principali”
rintracciabili nel “paradigma del sovraccarico”: “a) strategia di
riduzione della domanda, tendente a diminuire il sovraccarico del
sistema politico-amministrativo; b) strategie di potenziamento
delle capacità di prestazione-controllo del sistema politico-
azione. Quindi la questione di sostanziale rilevanza nel govenrno delle società postmoderne non consisterebbe nel cercare di evitare il manifestarsi di una crisi, divenuta
ormai una caratteristica fisiologica, ma nel saper individuare il soggetto che la “gestisce”
e le finalità che intende perseguire gestendola, consistenti in parte nel produrre o
nell’impedire “una trasformazione potenziale” degli assetti politico-sociali
158
amministrativo”. A loro volta queste varianti principali
comprendevano delle “sottovarianti terapeutiche formalizzabili
nel modo seguente: a1) strategia di ‘privatizzazione’ o
‘destatalizzazione’ delle funzioni pubbliche; a2) strategia di
‘austerità’:
questa
sottovariante
strategica
consiste
nel
promuovere i valori di rinuncia, disciplina, senso comunitario,
ecc., rivolgendosi agli agenti e alle istituzioni che regolano la
formazione e l’osservanza delle norme sociali; a3) strategia di
‘selettività’: essa dà luogo all’istallazione di meccanismi di
filtraggio delle domande ‘eccedenti’, consistenti in prestazioni
conoscitive svolte da istituzioni o istanze generalmente
sovrapartitiche, le quali (operando controlli sulla legittimità delle
richieste) intervengono a ‘schermare’ lo Stato dalla pressione
inflattiva della domanda, ammortizzando l’impatto sul terreno
statuale di quella che è stata chiamata ‘rivoluzione delle
aspettative crescenti; b1) strategia amministrativa di elevazione
delle prestazioni statali: ampliamento dell’orizzonte informativo
e operativo del governo e della pubblica amministrazione
attraverso riforme strutturali oppure attraverso il potenziamento
degli indicatori sociali e delle tecniche di programmazione dei
bilanci; b2) strategia politica di elevazione delle prestazioni
statali: istituzionalizzazione di alleanze e di meccanismi di
negoziazione e accordo di tipo ‘neocorporatista’”342.
Per Marramao343, i teorici del sovraccarico non
ritenevano che lo Stato democratico potesse soddisfare le
342
G.Marramao, Dopo il Leviatano, op.cit., pp. 83-84
Marramao evidenziava anche l’insufficienza argomentativa delle posizioni
menzionate: “In primo luogo…nessuna delle terapie prospettate fa i conti con il deficit di
consenso che caratterizza i sistemi politici contemporanei: deficit che viene
periodicamente colmato in modo surrentizio o attraverso politiche di allarme sociale o
deviando su obiettivi esterni…le piattaforme neocorporative…prospettano in realtà
come soluzione un modello che rischia di portare alla sclerosi e all’impotenza delle
343
159
aspettative crescenti “perché le sue capacità di intervento e di
direzione erano in linea di principio troppo scarse. La differenza
tra volume di esigenze e capacità di direzione sarebbe precipitata
in frustrazioni. Ciò avrebbe condotto ad una scomparsa di fiducia
nei confronti delle istituzioni con cui si mediavano e
canalizzavano i conflitti sociali. L’accumulo di disillusioni
poteva sviluppare la sua forza esplosiva in due direzioni:
polarizzazione entro il sistema partitico, cioè massimalizzazione
della prassi dell’opposizione mediante programmi di principio
alternativi, oppure drastica diminuzione della ‘capacità di
canalizzazione’ delle istituzioni rappresentative, nonchè della
loro capacità di articolare e formare la volontà delle collettività”.
In questo contesto, secondo i teorici della “crisi della
democrazia”, la situazione di partenza, caratterizzata dalla
discrepanza tra livello delle esigenze e capacità di prestazione,
avrebbe potuto innescare una dinamica ancor più ingestibile:
sistemi non governabili sarebbero diventati sempre più
ingovernabili, fintanto che a un dato momento si sarebbe
pervenuti ad un vasto bloccaggio e alla dissoluzione dello stesso
potere statale organizzato.
soluzioni politiche, necessariamente dipendenti da una molteplicità di spinte e
controspinte, le quali potrebbero addirittura neutralizzarsi a vicenda in un sistema di veti
incrociati…accade anche alle strategie amministrative…di chi, affidandosi all’
‘oggettività delle strutture tecnocratiche, si illude di risolvere i problemi politici con i
mezzi di una conoscenza non politica’…In secondo luogo…un’incongruenza di livello
più profondo…manca il momento dell’eziologia: la spiegazione delle cause da cui si
origina il fenomeno dell’ingovernabilità… ‘Nell’immagine conservatrice del mondo, la
‘crisi di ingovernabilità’ è un incidente imprevisto, di fronte al quale devono essere
abbandonate le vie troppo complesse della modernizzazione politica e occorre far
riacquistare valore a principi d’ordine non politico come la famiglia, la proprietà, la
prestazione, la scienza’. L’apparente persuasività delle strategie di decentramento e di
‘destatalizzazione’…cela abilmente, sotto un livello descrittivo…l’incongruenza di
secondo grado…quella che Offe definiva incapacità di trascorrere dal piano descrittivo
al piano diagnostico vero e proprio…le cause da cui si originano la patologia di
ingovernabilità vanno, in definitiva, ricercate nel carattere particolare della merce forzalavoro e, conseguentemente, nella struttura contraddittoria che attraverserebbe l’intero
mercato del lavoro e i tentativi di ristrutturarlo e governarlo” (op.cit., pp. 85-87)
160
Per lo studioso italiano ogni sistema per riprodursi “deve
trovare una forma strutturalmente e storicamente determinata di
compatibilità tra l’aspetto ‘oggettivo’ delle strutture e dei nessi
funzionali e quello ‘soggettivo’ dell’agire normativo e dotato di
senso dei suoi membri”. Questo dualismo si esprime poi “nella
distinzione tra ‘integrazione sistemica’ e ‘integrazione sociale’”,
realizzando
la
loro
compatibilità
“secondo
due
modalità…‘idealtipiche’:…attraverso fasce protettive…oppure
attraverso la possibilità che i sistemi determinino le loro stesse
condizioni
strutturali
di
funzionamento
mediante
l’agire
normativo dotato di senso”. Da ciò consegue “i sistemi sociali”
diverrebbero “ingovernabili…quando attraverso le regole seguite
dagli attori”, si persegue un’altra “soluzione ideal-tipica”, vale a
dire la violazione delle “leggi di funzionamento del sistema e dei
vincoli strutturali”. Ma l’aspetto fondamentale delle democrazie
occidentali sul finire degli anni ‘70, ammette Marramao, non
consisteva tanto in questa sistemica rottura strutturale con vincoli
e leggi, ma nel contemporaneo perseguimento di “ambedue le
‘soluzioni idealtipiche’”344, vale a dire l’integrazione sistemicosociale e la violazione stessa dei vincoli strutturali. Ciò stava
sviluppando una paradossale meccanica gestionale che appariva
come una delle più importanti caratteristiche delle società
industriali nella loro transizione verso un modello postindustriale345.
344
op.cit., pp. 87-88
“Per un verso…‘neutralizzazione politico-normativa della sfera della
produzione’…nella forma mercato…Per l’altro verso…il fenomeno di secolarizzazione
che questa neutralizzazione-spoliticizzazione dell’ambito economico-produttivo
induce…chiama in causa la necessità di nervature istituzionali capaci di garantire non
solo le condizioni generali di funzionamento del mercato, ma anche…il carattere di
‘disciplinamento’ della sfera produttiva…La reintroduzione di elementi di
istituzionalizzazione rappresenta per la dinamica capitalistica una necessità vitale.
Ma…il fenomeno paradossale…di un contrasto sistematico tra momento economico e
345
161
Per Luhmann una fattore strutturale di sovraccarico nelle
società industriali era invece rintracciabile nei meccanismi di
funzionamento del Welfare State. Quest’ultimo infatti si basava
negli anni ’70 “sul positive feed-back, cioè sul rafforzamento
delle deviazioni”, contrariamente allo Stato costituzionale che si
fondava al contrario “sul negative feed-back, vale a dire sulla
soppressione delle deviazioni ed era per questo motivo
politicamente praticabile”. Il Welfare costituiva un fattore di
sovraccarico istituzionale perché conduceva a una “inclusione
crescente di tutti in una cerchia funzionale specifica”. Per questa
via aumentavano “di conseguenza, le richieste rivolte alla
decisione politica e alle prestazioni che esse” dovevano produrre,
al punto che la politica stessa veniva “ad assumere una funzione
di mera promozione e non più di controllo”. In particolare –
proseguiva Luhmann – l’idea che dovevano essere compensati
tutti gli svantaggi che ricadevano sui singoli, investiti in maniera
diseguale dagli eventi naturali o dalle sventure sociali, si
trasformava “in un programma di aiuto per principio senza fine”,
trasformando la giustizia stessa in un vero e proprio “principio di
crescita”346
momento sociopolitico del processo riproduttivo: mentre da un lato la differenziazione di
una sfera di mercato neutralizzata rispetto alle norme…tende a risolvere il problema
della riproduzione tenendo separato il livello funzionale da quello dell’agire, dall’altro la
razionalizzazione…spinge…in una direzione esattamente opposta: ‘il processo di
accumulazione non può funzionare senza la regolazione politica che a sua volta ha
bisogno di legittimazione’…In tal modo, la ‘neutralizzazione politica della sfera del
lavoro, della produzione e della distribuzione’ si trova ad essere…‘contemporaneamente
affermata e revocata’” (op.cit., pp. 88-89)
162
5.4 Fattori di sovraccarico
S.P.Huntington sugli Stati Uniti
nel
rapporto
di
Il rapporto di Huntington alla Commissione Trilaterale
muoveva dalla considerazione che negli Stati Uniti l’“essenza
dell’ondata democratica degli anni 1960 consistette in una
contestazione generale dei sistemi di autorità”347 che, in “una
forma o nell’altra”, si era manifestata “nella famiglia,
nell’università, nel lavoro, nelle associazioni pubbliche e private,
nella politica, nella burocrazia statale e nei corpi militari”,
producendo,
con
l’aumento
della
partecipazione
politica
democratica, verificatosi durante gli anni ’70, un declino
dell’autorità di governo e una una vera e propria crisi di
346
N.Luhmann, Il Welfare State come problema politico e teorico, in AA.VV.,
Trasformazioni e crisi del Welfare State, op.cit., pp. 351-353
347
“Nella società americana l’autorità era stata comunemente basata su posizioni
organizzative, ricchezza economica, abilità specializzate, competenza legale,
rappresentatività elettorale. L’autorità basata sulla gerarchia, sull’abilità, e sulla
ricchezza andava ovviamente contro lo spirito democratico e egualitario del periodo, e
durante gli anni sessanta tutte le tre furono duramente attaccate”. Anche se l’autorità
“derivata da fonti legali e elettorali non necessariamente si poneva contro lo spirito dei
tempi”, quando però ciò accedeva, “anch’essa veniva sfidata e limitata. Le decisioni dei
giudici e le azioni delle legislature erano legittimate fino al punto che promuovevano,
come spesso facevano, obiettivi egualitari e partecipativi. ‘Disobbedienza civile’, dopo
tutto, era il grido per essere moralmente nel giusto quando si disobbediva a una legge
moralmente sbagliata. Ciò implicava che il valore morale del comportamento secondo
legge in una società dipendeva dal contenuto delle leggi, non dal processo per cui esse
venivano emanate. La legittimità elettorale era, obiettivamente, per la maggior parte
conforme all’ondata democratica, ma anche così essa talvolta era messa in discussione,
poiché il valore della rappresentatività “di categoria” veniva alzato per sfidare il
principio della rappresentatività elettorale” (S.P.Huntington, American Politics, Harvard
University Press, Harvard, 1982, pp. 173-180)
163
governabilità348. In settori sempre più vasti dell’opinione
pubblica, la considerevole partecipazione politica, da parte
soprattutto della classe media urbana, stava determinando una
crescente
“disobbedienza
civile”349,
la
cui
immediata
conseguenza si rifletteva nel fatto che “il valore morale del
comportamento di ossequio alle leggi dipendeva dal contenuto
delle leggi, non dal corretto meccanismo proceduarale con cui
esse venivano emanate”350.
“Il divario tra l’ideale politico e la realtà politica” si
manifestava secondo “tre caratteristiche distintive degli ideali
politici americani”: innanzitutto “lo scopo del consenso a quegli
ideali” che rimandava, ed è questa la seconda caratteristica, ad
un’ampia e radicata legittimazione dei “valori…politici di base”,
348
“La gente non sentiva più la stessa coazione a obbedire a quanti prima aveva ritenuto
superiori a sé per età, prestigio, condizione sociale, competenza, personalità o capacità.
All’interno della maggior parte delle organizzazioni, la disciplina si allentò e le
differenze di status si attenuarono. Ogni gruppo rivendicò il diritto di partecipare in
modo egualitario – e magari più che egualitario – alle decisioni che lo riguardavano. Più
precisamente, nella società americana, l’autorità si era comunemente basata su:
posizione organizzativa, ricchezza economica, competenza specialistica, prerogative
legali o rappresentatività elettorale. Le forme di autorità basate sulla gerarchia, sulla
competenza e sulla ricchezza contrastavano, ovviamente, con l’orientamento
democratico e egualitario e subirono tutte e tre un pesante attacco. Nelle Università,
studenti privi di competenza giunsero a partecipare al processo decisionale riguardante
molti problemi importanti. Nella pubblica amministrazione, la gerarchia organizzativa
s’indebolì e i subalterni non esitarono a ignorare, a criticare e a frustare i voleri dei loro
superiori. Nell’ambito politico in genere, fu contestata l’autorità basata sulla ricchezza e
vi furono iniziative riuscite d’introduzione di riforme che ne mettessero a nudo e
limitassero l’influenza. L’autorità basata su fonti giuridiche o elettorali non
necessariamente si scontrava con lo spirito dei tempi, ma quando ciò accadeva, era
anch’essa contestata ed ostacolata” (M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi
della democrazia, op.cit., p. 109)
349
“Durante gli anni sessanta e settanta, comunque, l’autorità non fu solo abusata, ma
anche erosa e, in certo senso e a volte, quasi eliminata. La portata dell’attività di ufficiali
di governo legittimamente riconosciuti dall’opinione dominante si ridusse
significativamente negli anni delle due S. Il comportamento di pubblici ufficiali che
prima portavano alla condiscendenza ora provocavano l’oltraggio. L’autorità del
governo declinava mentre smetteva di vederla come devota all’interesse pubblico.
Questa erosione, naturalmente, si rifletté drammaticamente nel calo di fiducia che il
popolo aveva nelle istituzioni di governo e in chi lo guidava. Questi cambiamenti nelle
attitudini pubbliche furono solo un indice di una più profonda sfida all’autorità di
governo che si manifestò in molti altri modi” (S.P.Huntington, American Politics,
op.cit., pp. 211-214)
350
M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, cit., p. 109
164
“liberali, individualistici, democratici, ugualitari, e quindi
principalmente antigoverno e antiautorità nel carattere”. Infine la
terza caratteristica consisteva nella “mutevole intensità (degli
ideali n.d.a.)…che varia secondo il momento e il gruppo, con cui
gli americani (vi) credono”, palesando una società che si
evolveva “in periodi di passione…(e) di passività”351.
Il risultato immediato di queste tre caratteristiche
consisteva inoltre in “un divario perenne tra…ideali,…istituzioni
e…pratica politica”352 che aveva provocato un rapporto
“disarmonico”353, divenuto ormai fisiologico, tra istituzioni e
società americana354.
351
S.P.Huntington, American Politics, cit., p. 2
ibidem
353
“Negli Stati Uniti, il consenso ideologico è la fonte del conflitto politico, la
polarizzazione avviene per questioni morali piuttosto che economiche, e la politica dei
gruppi di interesse è completata e a volte soppiantata dalla politica della riforma
moralistica. L’America è stata risparmiata dal conflitto sociale per ottenere agitazioni
morali. È precisamente il ruolo centrale della passione morale che distingue la politica
americana dalla politica della maggioranza delle altre società, ed è questa caratteristica
che è più difficile per gli stranieri comprendere…La storia della politica americana è la
ripetizione di nuovi inizi ed esiti frammentati, promesse e disillusioni, riforme e reazioni.
La storia americana è la storia degli sforzi di gruppo per promuovere i propri interessi
realizzando gli ideali americani. Ciò che è importante, comunque, non è il fatto che essi
abbiano avuto successo ma che abbiano fallito, non che il loro sogno si sia realizzato ma
che ciò non sia successo”. Ed è questo “divario tra la promessa e l’attuazione crea una
conseguente disarmonia, a volte latente, a volte manifesta, nella società americana”. Ciò
non toglie però che per Huntington le “ineguaglianze sociali, economiche e politiche
possono certamente essere più limitate e le libertà politiche più estese negli Stati Uniti
piuttosto che in altre società. Tuttavia l’impegno verso l’uguaglianza e la libertà e
l’opposizione alla gerarchia e all’autorità sono così diffusi e profondi che l’incongruità
tra gli ordini normativo ed esistenziale è di gran lunga maggiore negli Stati Uniti che
altrove” (op.cit., pp. 10-12)
354
L’idea dell’esistenza di una inevitabile “disarmonia” tra società e apparato
istituzionale (Stato), riferita questa volta alla società industriale della seconda metà
dell’ottocento, è presente anche nell’opera del filosofo tedesco Lorenz von Stein (cfr.
Socialismo e Comunismo, 1842 e Storia del movimento sociale, in Lorenz von Stein,
Opere scelte (a cura di Elisabetta Bascone Remiddi), I, Giuffré, Milano, 1986) di cui
Huntington sembra recuperare alcune delle posizioni soprattutto nell’elaborazione dei
concetti di riforma e rivoluzione come possibili scenari derivanti da un’eccessiva
partecipazione politica popolare, e in particolar modo per quel che riguarda il ruolo che
attribuisce allo Stato e alla necessità di concentrare nei suoi organi di governo,
identificabili per Stein con la sola istituzione monarchica, un potere che gli avesse potuto
permettere di ripristinare l’equilibrio fra le diverse forze, riducendone la spinta
democratica ovvero “dissociandone” da essa le tendenze più radicali e rivoluzionarie
352
165
A ciò si affiancava la permanente “crisi di fiducia”355
verso le autorità pubbliche e la loro capacità di mediare e dare
risposta alla conflittualità politica. Tale sfiducia era per
Huntington la conseguenza diretta di un “impegno civico e
politico più attivo” che dava adito ad “una maggiore coerenza
ideologica (dell’opinione pubblica) sui problemi della comunità”,
cui spesso non corrispondeva un’efficace capacità di risposta da
parte del governo356.
La sequenza e la direzione di questi mutamenti
dell’opinione pubblica spiegavano poi “chiaramente come la
vitalità della democrazia negli anni ’60…generò problemi per la
governabilità della democrazia negli anni ’70”357.
L’accresciuta
partecipazione
politica358
comportava
difatti “livelli più alti di coscienza politica”359, in quanto “fette
355
“In un sistema democratico, l’autorità dei leaders e delle istituzioni presumibilmente
dipende in parte dalla dose di fiducia che il pubblico ripone in essi. Negli Stati Uniti,
durante gli anni 1960 questa fiducia si affievolì considerevolmente” (S.P.Huntington,
American politics, op.cit., p. 12)
356
Insomma i “valori classici del Credo americano – uguaglianza, democrazia, libertà,
diritti individuali, limitazione del potere – furono nuovamente espressi con un’intensità e
un fervore pienamente uguali a qualsiasi precedente scoppio di passione” (op.cit., p.
175)
357
Il periodo intercorrente tra l’inizio degli anni sessanta e la fine dei settanta, durante il
quale si manifestò appunto la crisi di “ingovernabilità” delle democrazie occidentali,
venne chiamato da Huntington il periodo delle “due S”. Per quanto riguardava gli Stati
Uniti esso iniziò il 1 febbraio 1960 e si concluse il 29 gennaio 1976: “Gli anni delle due
S iniziarono il 1 febbraio 1960, quando quattro matricole di colore entrarono in un
Woolworth (catena di grandi magazzini che tratta articoli di poco prezzo, n.d.a.) a
Greensboro, in Nord Carolina, si sedettero al banco, chiesero un caffè, gli venne
rifiutato, e rimasero seduti. Il quarto periodo finì quasi esattamente sedici anni più tardi,
il 29 gennaio 1976, quando la Camera dei Rappresentanti votò 264 a 124 di non
diffondere il rapporto del Select Committe on Intellegence finché quel rapporto non
fosse stato approvato dalla Casa Bianca. Il sit-in di Greensboro diede il via alla politica
di protesta che costituì la prima parte degli anni delle due S; il voto della Camera segnò
la fine della politica di denuncia che ne dominò l’ultima parte” (op.cit., pp. 168-169)
358
Contrariamente alla fine degli anni cinquanta, quando la “soddisfazione americana
nell’identificarsi con il sistema politico”(op.cit., pp.169-173) raggiunse i suoi picchi più
alti (85%), durante“gli anni 1960, la pubblica opinione sui principali problemi
dell’indirizzo politico manifestò la tendenza a una polarizzazione e strutturazione
ideologica maggiori, cioè ci fu una generale tendenza a una polarizzazione e
strutturazione ideologica maggiori, cioè ci fu una generale tendenza ad assumere
posizioni, sia liberali, sia conservatrici, più coerenti sulle questioni politiche…Questo
modello di sviluppo della polarizzazione e della coerenza ideologica ha le sue radici in
166
sempre più consistenti del pubblico americano assunsero
posizioni più estreme sulla tematica politica”360 e “coloro che
assunsero queste posizioni furono, in seguito, portati a un
atteggiamento di maggiore diffidenza verso il governo” 361.
due fattori. In primo luogo, coloro che sono più attivi in politica hanno anche più
probabilità di nutrire opinioni coerenti e sistematiche sulle questioni politiche.
L’aumento della partecipazione politica nei primi anni ’60 fu così seguito da una
maggiore polarizzazione dell’opinione politica nella metà degli anni ’60” (M.Crozier,
S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., p. 104)
359
“Nel 1964, il 64% del pubblico pensava che il governo fosse guidato a beneficio di
tutti, e il 29% pensava che fosse guidato da pochi grandi interessi personali. A partire dal
1974, l’opinione fu quasi interamente ribaltata: il 66% pensava che il governo fosse
guidato da pochi grandi interessi; il 25% pensava che fosse guidato a beneficio di tutti.
Sbalzi simili avvennero nella misura in cui il popolo avesse fiducia che il governo agisse
giustamente, sperperasse il denaro delle tasse, e fosse guidato da persone adatte o
disoneste. Grandi cambiamenti ci furono anche nel grado in cui il popolo percepiva la
risposta del governo. Nel 1960, per esempio, il 73% del pubblico discordava con
l’asserzione che i pubblici ufficiali “non si curano molto di ciò che pensa la gente come
me”, mentre il 25% era d’accordo con l’affermazione. A partire dal 1974, un quarto del
pubblico aveva cambiato idea: il 50% credeva che gli ufficiali non valutassero i loro
pensieri, mentre il 46% credeva che lo facessero. I cambiamenti nella percezione del
pubblico non si limitavano alle percezioni del governo. Durante gli ultimi anni sessanta e
i primi anni settanta, la fiducia del pubblico verso altre istituzioni della società
americana precipitarono. Tra il 1966 e il 1976, la proporzione di pubblico che aveva
“una grande quantità di fiducia” nella guida della parte esecutiva del governo federale
passò dal 41% all’11%, del Congresso dal 42% al 9%, e della Corte Suprema dal 51% al
22%. Durante gli stessi dieci anni, drastiche riduzioni avvennero anche nella proporzione
di pubblico che aveva grande fiducia nella medicina (dal 73% al 42%), nell’educazione
superiore (dal 61% al 31%), nelle forze armate (dal 62% al 23%), nelle grandi
compagnie (dal 55% al 16%), nella religione organizzata (dal 41% al 24%), nel lavoro
organizzato (dal 22% al 10%). Tra le grandi istituzioni della società americana, l’unica i
cui capi suscitassero maggiore fiducia nel 1976 (28%) che nel 1966 (25%) fu la notizia
televisiva” (S.P.Huntington, American Politics, op.cit., pp. 176-180)
360
L’aspetto principale degli “anni delle due S” è per Huntington la scomparsa dal
dibattito politico americano delle “questioni economiche…Dal 1950 al 1959, una media
del 23% del pubblico americano classificarono la questione economica come “la più
importante questione cui si trovasse di fronte il paese”; nel 1971-72, una media del
21,5% del pubblico americano definì la questione economica di critica importanza; e dal
1973 al 1979, la percentuale salì fino al 71,7%. Tra il 1960 e il 1970, comunque, soltanto
un semplice 11,1% del pubblico identificava una questione economica come il più
importante problema del paese: i diritti civili, la politica estera, la guerra del Vietnam, i
crimini e i disordini, e l’onestà di governo soppiantavano l’economia negli interessi del
pubblico” (ibidem)
361
“Gli aumenti di partecipazione si registrarono per la prima volta negli anni ’50; ad
essi susseguì la polarizzazione, nella metà degli anni ’60 dalla diminuazione della
fiducia nel governo e della sensazione di efficacia politica individuale. C’è motivo di
ritenere che tale sequenza non fosse del tutto casuale. È verosimile che quanti sono attivi
in politica abbiamo opinioni più sistematiche e coerenti sui temi politici, e che, come
abbiamo indicato prima, quanti nutrono tali opinioni si estraneino allorchè l’azione del
governo non riflette le loro convinzioni. Sul filo di questo stesso ragionamento si
dovrebbe supportare che quanti svolgono il massimo di attività politica dovrebbero
essere massimamente insoddisfatti del sistema politico. In passato accadeva esattamente
167
Pertanto per Huntington le tendenze ereditate dagli anni
’60 avevano tratteggiato i contorni, durante la prima metà dei
‘70, di “un quadro prevalentemente negativo...Da un lato,…la
crescente sfiducia nel governo, le tendenze alla polarizzazione
dell’opinione pubblica e il venir meno della sensazione di
efficacia politica. Dall’altro,…(la) crescita di partecipazione
politica rispetto ai livelli precedenti”.
Esisteva dunque una certa interdipendenza tra sfiducia
nel governo e crescita della partecipazione politica; ragion per cui
non sarebbe stato possibile far fronte alla prima senza aver
precedentemente ridotto la seconda362.
Un altro fattore di sovraccarico era poi individuato nel
“deperimento del sistema partitico”, dovuto al “decadimento
il contrario: quanti partecipavano attivamente alla politica avevano atteggiamenti
altamente positivi nei riguardi del governo e degli indirizzi politici. Oggi, però, questa
correlazione sembra indebolirsi, ed è ben possibile che quanti nutrono scarsa fiducia nel
governo non siano politicamente più apatici di quanti nutrono in esso grande fiducia”
(M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., p. 102)
362
Huntington faceva notare anche che l’“affievolirsi della sensazione di efficacia
politica da parte del cittadino medio potrebbe generare anche un abbassamento dei livelli
di partecipazione politica…Si ha così qualche motivo di ritenere che possa esserci un
processo ciclico di interazione in cui: 1. l’accresciuta partecipazione politica porta a
un’accresciuta polarizzazione degli indirizzi politici a livello della società; 2. la
maggiore polarizzazione degli indirizzi politici porta a una crescente sfiducia e a un
senso di decrescente efficacia politica a livello individuale; 3. una sensazione di
decrescente efficacia politica porta a una minore partecipazione politica…Inoltre il
cambiamento delle principali questioni all’ordine del giorno politico potrebbero
condurre a una minore polarizzazione ideologica. La passione di cui sono stati oggetto
molti temi ‘caldi’ degli anni ’60 si è placata, e ciò che oggi predomina è la
preoccupazione riguardo ai problemi economici, anzitutto quello dell’inflazione, seguito
da quelli della recessione e della disoccupazione. Le posizioni del pubblico sulle
questioni economiche non sono, tuttavia, connesse con le sue inclinazioni ideologiche di
fondo in modo altrettanto diretto delle sue posizioni sulle altre questioni. Inoltre
l’inflazione e la disoccupazione appaiono come qualcosa di criminale; nessuno si
dichiara favorevole ad essi, e differenze significative possono manifestarsi solo se ci
sono programmi alternativi significativamente diversi per affrontarli…Ciò fa pensare
che l’ondata democratica degli anni ’60 ben potrebbe generare le proprie forze di
compensazione, che un improvviso aumento di partecipazione politica producano le
condizioni che ne favoriscono il calo” (ibidem). Quindi un eccesso di partecipazione
politica avrebbe potuto provocare un riflusso della stessa, concentrando l’attenzione su
tematiche “neutre”, ossia incapaci di causare una polarizzazione su basi ideologiche
dell’opinione pubblica, lasciando inoltre scoperti, di conseguenza facilmente isolabili, i
gruppi che l’avevano mobilitata con finalità riformatrici oppure rivoluzionarie
168
della funzione dei partiti politici americani nel corso degli anni
’60”.
La crisi del sistema partitico poteva essere analizzata “in
vari modi: identificandola con l’aumento della “porzione di
pubblico
che
analizzandone
si
considera
l’importanza
Indipendent
assunta
dal
in
politica”363;
fenomeno
della
“scissione delle liste” all’interno delle formazioni partitiche364,
oppure dal venir meno della “coerenza ‘partigiana’ del voto”365.
In compenso il ruolo di guida elettorale del partito era assunto
“dalla capacità di attrazione del candidato”, sgretolandosi “non
solo la base di massa dei partiti, ma anche la coerenza e la
forza”366 della sua stessa forma organizzativa e dei processi di
363
“Nel 1972, quanti identificavano sé stessi come Indipendents, erano più di quanti si
riconoscevano come Republicans, e tra le persone al di sotto dei trent’anni c’erano più
Indipendents che Republicans e Democrats messi assieme. I votanti più giovani tendono
sempre ad essere meno ‘partigiani’ di quelli più anziani. Ma la proporzione di
indipendenti in questa classe d’età è aumentata nettamente. Nel 1950, per esempio, a
considerarsi indipendente nella classe dai 21 ai 29 anni era il 28%; nel 1971, il 43%.
Così, se non si verificheranno un rovesciamento di questa tendenza ed un marcato
aumento della ‘partigianeria’, c’è da prevedere che per almeno un’altra generazione
persisteranno nell’elettorato americano livelli sostanzialmente bassi di identificazione
nel partito” (ibidem)
364
“Nel 1950 l’80% circa dei votanti diede il proprio suffragio direttamente alle liste di
partito; nel 1970 a comportarsi così fu soltanto il 50%. Gli elettori sono dunque più
propensi a votare per un candidato che non per il partito, e ciò, a sua volta, vuol dire che
i candidati devono farsi la campagna elettorale essenzialmente come individui e farsi
accettare dai votanti per la propria personalità e capacità, anziché far fronte unico con gli
altri candidati dello stesso partito. Per cui, devono pure raccogliersi il denaro occorrente
e crearsi un’organizzazione propria” (op.cit., p.104)
365
“A livello nazionale, si registra una sempre maggiore tendenza dell’opinione pubblica
a puntare ora sull’uno o sull’altro, e questo a prescindere, almeno in parte, dalle
differenze abituali esistenti tra gruppi elettorali definiti” (ibidem)
366
“Anzi, il partito politico è diventato qualcosa di meno di una organizzazione, con vita
e interessi propri, e qualcosa di più di un’arena in cui attori diversi perseguono i loro
interessi…In alternativa i sintomi della decomposizione dei partiti potrebbero essere
interpretati come presagio, non tanto d’un nuovo schieramento dei partiti nel quandro
d’un sistema in sviluppo, quanto piuttosto d’un fondamentale deperimento e d’una
potenziale dissoluzione del sistema partitico…L’avanzamento degli Stati Uniti in una
fase post-industriale implica la fine del sistema dei partiti politici quale finora l’abbiamo
conosciuto” (ibidem)
169
istituzionalizzazione che era stato in grado di predisporre a
sostegno del sistema politico367.
Per Huntington la crisi del sistema politico, e in
particolar modo il “deperimento dei partiti”, poneva pertanto le
élites dirigenti dinanzi a “tutta una gamma di questioni cruciali”:
Se infatti la partecipazione politica non sarebbe più stata
organizzata per mezzo dei partiti, quale avrebbe potuto esserne
l’alternativa?
Mentre nei paesi in via di sviluppo “la principale
alternativa al governo attraverso i partiti” era “quella del governo
367
“Il declino dei partiti politici fu un fenomeno spesso notato degli anni sessanta e
settanta”. Era come se, per Huntington, “gli Stati Uniti stavano diventando ‘un sistema
senza partiti’. Il declino dei partiti potrebbe essere visto nella misura in cui funzioni
tradizionalmente rivestite dai partiti politici furono sempre compiute attraverso altri
mezzi e da altre istituzioni. Con l’espansione del sistema primario, la funzione centrale
di nominare i candidati per gli incarichi pubblici fu sempre meno soggetta al controllo
delle organizzazioni e dei capi di partito. La conduzione delle campagne politiche,
compresa la ricerca dei fondi, fu sempre più intrapresa da organizzazioni personali di
candidati e da professionisti, da organizzazioni elettorali e consulenti politici. Una terza
funzione dei partiti politici era stata quella di offrire una guida al popolo per il voto.
Durante gli anni sessanta, comunque, sia il voto secondo le direttive del proprio partito
in ogni elezione che la coerenza nel voto di partito da un’elezione all’altra declinarono
paurosamente. Negli anni quaranta e cinquanta gli indipendenti formavano il 20-23%
dell’elettorato; all’inizio dei sessanta, questa proporzione iniziò a salire, assestandosi
circa al 37-38% alla fine del decennio, con il 40-45% dei nuovi gruppi d’età che
entrarono nell’elettorato alla fine degli anni sessanta e settanta rifiutando di identificarsi
con alcun partito maggiore. Il popolo non si adagiava più principalmente sul partito
come guida nella scelta del candidato. Il voto al problema aumentò in importanza,
mentre il voto al partito diminuiva. Una quarta funzione del partito fu quella di offrire
storicamente i canali e i mezzi per reclutare ufficiali di governo scelti. In qualche
misura, i partiti continuarono a giocare questo ruolo fino alla fine degli anni settanta. Un
cambiamento nell’amministrazione sia nelle capitali di stato che a Washington
normalmente portava un cambiamento significativo nei più alti livelli dell’esecutivo.
Infine, o partiti politici ebbero un ruolo importante nella formulazione e nella
realizzazione della politica pubblica. Un numero di fattori diversi contribuì al declino
dei partiti politici. Più alti livelli di educazione e di ricchezza tra i votanti aumentarono
le tendenze verso il voto al problema e verso lo sviluppo di posizioni ideologiche
complessive sulle questioni. La facilità con cui i candidati (che possedevano denaro)
potevano raggiungere i votanti attraverso la televisione ridusse l’importanza delle
organizzazioni e degli operatori di partito. Molte delle riforme introdotte durante gli anni
sessanta e settanta ebbero l’effetto (se non l’intento) di minare ulteriormente il ruolo del
partito. E, infine, la crescente complessità dei problemi richiedeva crescente esperienza e
professionalità, cosa che le organizzazioni di partito non erano in genere in grado di
offrire” (S.P.Huntington, American Politics, op.cit., pp. 213-214)
170
militare”, era invece concepibile una terza alternativa per “i paesi
ad alto tasso di sviluppo?”368
5.4.1 Crescita e radicalizzazione della partecipazione politica
americana durante gli “anni delle due S”
Huntington sottolineava, ricorrendo a dati statistici, come
dal 1965, quando “tra i giovani di appena 18 anni” solo “una
media del 2,1% era impegnata in politica”, al 1973, vi fosse stato
negli
Stati
Uniti
un
eccezionale
incremento369
della
partecipazione politica.
Questa crescita presentava, agli occhi dello studioso
americano, una preoccupante anomalia: non si riusciva infatti ad
istituzionalizzarla, rendendola compatibile con le strutture del
sistema politico. Questo era evidenziato dal fatto che i “tassi di
partecipazione al voto…ebbero un picco negli anni sessanta, e
poi declinarono decisamente fino agli anni ottanta, con la caduta
più forte tra il 1968 e il 1972”370, cioè nel momento di massima
espansione della partecipazione politica che, non incanalandosi
368
M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., p. 109
I “giovani adulti tra la fine degli sessanta e i primi anni settanta furono davvero
eccezionali nella loro partecipazione politica. I giovani parteciparono con tassi più alti di
quanto non avessero fatto i giovani del passato, e furono più attivi degli adulti nello
stesso periodo. Entrambi i modelli erano insoliti e inaspettati” (S.P.Huntington,
American Politics, op.cit., pp. 188-196)
370
ibidem
369
171
lungo traiettorie istituzionali, stava al contrario prendendo strade
diametralmente opposte371.
Tutto ciò indicava che “le tattiche e le arene della
partecipazione politica si moltiplicarono al di fuori dei canali
convenzionali”, coinvolgendo nuove organizzazioni “radicali e di
protesta, e organizzazioni di riforma, più moderate” con
l’immediata conseguenza che “le persone si mobilitarono di più
verso nuovi livelli di attività”372
In tal modo la partecipazione politica si allargava,
secondo l’analisi di Huntington, “sia in senso orizzontale, verso
nuove forme e canali, che in senso verticale, con un marcato
aumento dell’intensità delle proteste organizzate dal Movimento
o dai movimenti contro l’ordine stabilito”373
Se ciò non bastasse, sottolineava ancora il teorico di
Harvard, si ricorreva sempre più a radicali forme di protesta374.
371
“In un periodo di passione…lo scopo primario della politica è la protesta. La protesta
politica è l’espressione, attraverso l’azione collettiva, dell’opposizione a particolari
condizioni, politiche, o ufficiali. Può essere legale o illegale, pacifica o violenta, diffusa
o concentrata. Può prendere la forma di azione diretta e di disobbedienza civile; può
includere incontri, dimostrazioni, assemblee di protesta, tumulti, picchetti, marce, sit-ins,
scioperi. In certi casi, il voto stesso può essere un mezzo di protesta, ma può esserlo
anche il non-voto. Inoltre, ci sono molti altri modi più efficaci e più soddisfacenti di
indicare una protesta. Negli anni sessanta, tutti le fasce d’età sempre più discordavano
con questa affermazione: ‘Il voto è l’unico modo che le persone come me hanno per dire
la loro su come il governo manda le cose’. Nel 1952, comunque, virtualmente la stessa
proporzione di ventenni e di ultra sessantenni era d’accordo con questa affermazione.
Nel 1960, comparve un piccolo spacco generazionale, con il 69% dei ventenni e il 78%
degli ultra sessantenni che erano d’accordo con quell’affermazione. Dal 1968, si era
aperto un abisso, con il 37% dei più giovani e il 62% dei gruppi più anziani che
concordavano con l’affermazione. I giovani, i neri e altri elettori sentirono la disillusione
del voto e erano pronti a impegnarsi in un numero di altre forme di azione politica”
(op.cit., pp. 191-192)
372
“Tra il 1970 e il 1976, per esempio, il numero delle cause d’occupazione per i diritti
civili iniziate nelle corti federali aumentò da 344 a 5321; il numero delle cause per
antitrust privato salì da 877 a 1504. Gli americani tentavano di usare il processo
giudiziario per riparare quelli che venivano percepiti come errori sociali… Durante gli
anni delle due S era in gran voga la frase di Emerson “critica cosciente, instancabile,
indagatrice”, dal momento che il popolo sostenne attivamente e cercò di realizzare i
diritti che aveva precedentemente trascurato” (ibidem)
373
ibidem
374
“Dal 1948 al 1959 gli Stati Uniti ebbero in media 5 grandi dimostrazioni di protesta
all’anno; dal 1960 al 1972 la media fu di 144. Nel 1973 il numero delle dimostrazioni
172
In breve tempo questo tipo di contestazione dell’autorità,
seguita all’incremento della partecipazione, aveva prodotto negli
Stati Uniti una serie di atteggiamenti fortemente radicali nei
confronti di quasi tutte le istituzioni, prime fra tutte quelle del
sistema politico.
Huntington si chiedeva inoltre se la trasformazione dei
modelli politici di comportamento degli americani durante gli
anni ’60 e ’70, e il suo confluire in una partecipazione politica dai
toni radicali, doveva intendersi come l’avvio di una generale
riforma del tessuto sociale o come l’inizio di un vero e proprio
processo rivoluzionario. La risposta metteva in evidenza come
“l’essenza del radicalismo americano è precisamente la sua
ambivalenza sulla questione; per diverse ragioni…il radicalismo
in America è in grado di comprendere sia quelli che cercano di
migliorare il sistema sia quelli che intendono distruggerlo”.
Entrambi possono poi essere tatticamente d’accordo sul ruolo
centrale della protesta, indirizzandola “oltre il pallido confine
della politica convenzionale”. Ciò avrebbe di conseguenza
condotto gli attori politici a “muoversi al di fuori della…camera
legislativa” in favore di un’“azione di massa”, contenente a sua
volta un forte “potenziale di illegalità” capace di coinvolgere
nella mobilitazione e nell’organizzazione della protesta tanto il
“riformatore liberale” quanto “il rivoluzionario marxista”375.
scese precipitosamente, assestandosi su una media annuale di 57 durante i successivi 5
anni. La distribuzione die tumulti seguì un modello simile: molto pochi negli anni
cinquanta, un deciso aumento nel 1960 che continuò fino al 1967, un tremendo calo fino
a una media di 22 per i cinque anni successivi, seguito da un ulteriore caduta a numeri a
una sola cifra nel 1973” (op.cit., pp. 195-196)
375
“Alla fine degli anni cinquanta e all’inizio dei sessanta sia le organizzazioni della
Nuova Sinistra – soprattutto le SDS – che le organizzazioni nere – in particolare il
CORE (il Congress of Racial Equality, Congresso per l’uguaglianza razziale) e il SNCC
(Student Nonviolent Coordinating Committee, Comitato di coordinazione studentesca
non violenta) – perseguirono obiettivi riformisti con tattiche radicali. Gli SDS, come
altre coalizioni radicali, andavano “dai moderati ai maoisti”; la dichiarazione di Port
173
Questa prospettiva era confermata, per Huntington, dal
fatto che le “principali organizzazioni di protesta nel movimento
per i diritti civili” stavano passando durante gli anni settanta
attraverso una progressiva metamorfosi; “dalla protesta alla
violenza, da una base ampia a una ristretta, e da ideali derivati dal
Credo americano ad altri che avevano radici nel marxismo o in
altre ideologie rivoluzionarie”376; ragion per cui la partecipazione
politica, cresciuta sull’onda della “battaglia per i diritti civili”,
Huron del 1962 fu una dichiarazione di obiettivi generali di riforma radicale, ben
all’interno degli ampi confini della tradizione radicale americana. “Fino al 1964”, disse
uno storico, “la Nuova Sinistra, in realtà, era decisamente riformista e convinta che le
istituzioni americane potessero essere fatte per riflettere ideali proclamati”. Dopo il
1964, comunque, l’appello dei riformisti cominciò a cedere. Nel 1965, gli SDS tolsero la
clausola anticomunista dalla loro costituzione e aprirono la partecipazione a tutti quelli
di Sinistra. Cambiamenti paralleli avvennero nell’organizzazione, dal momento che i
bisogni del controllo burocratico centrale eclissarono i valori della democrazia
pertecipativa. Il Marxismo, che era stato rifiutato pochi anni prima come ideologia
obsoleta della Vecchia Sinistra, fu di nuovo accettato. In seguito alle elezioni del 1968,
gli SDS furono ancora più dilaniati da conflitti di fazione e iniziarono a rifiutare le
tattiche di protesta a favore di quelle di violenza. Nel 1969 i Weathermen (membri di un
gruppo militante rivoluzionario americano n.d.a.) fecero degli SDS un’organizzazione
rivoluzionaria che, dopo il fallimento della violenta protesta dei ‘Days of Rage’ in
ottobre, si diedero alla clandestinità alla fine dell’anno. Nel marzo 1970 arrivò la fine
simbolica della transizione dalla protesta alla rivoluzione, quando tre Weathermen si
uccisero accidentalmente mentre fabbricavano bombe in un appartamento della West
Eleventh Street a New York. Gli SDS erano sempre stati radicali, ma il senso di questo
essere radicale cambiò drasticamente tra la dichiarazione di Port Huron e l’episodio
dell’Eleventh Street. Nei primi anni era un’organizzazione di riforma radicale perché
voleva realizzare i valori liberali dell’America; alla fine era un’organizzazione radicale
rivoluzionaria perché voleva distruggere le istituzioni liberali americane. Ma come
organizzazione di protesta radicale non poteva durare: inevitabilmente i suoi capi erano
portati sia a fabbricare bombe…sia alla corsa per il Congresso” (ibidem)
376
“Nel 1960-61 decine di migliaia di persone parteciparono a centinaia di sit-in per
togliere dalla segregazione razziale i banconi del pranzo e altri servizi commerciali; i
bianchi e i neri cooperarono nel Comitato per la coordinazione studentesca non violenta
e nella Southern Christian Leadership Conference (Conferenza cristiana del sud, ndt); un
quarto di milione di persone partecipò alla marcia per i diritti civili su Washington nel
1963. Il successo della mobilitazione di supporto, facilitata dall’apparentemente spietata
opposizione alla disgregazione da parte di alcuni elementi nel sud, creò l’ambiente
politico per l’approvazione dei Civil Rights Acts (leggi sui diritti civili, n.d.a.) nel 1964
e nel 1965. A tal fine, alcuni capi neri furono assorbiti nella politica elettorale e
burocratica del Potere Costituito, passando “dalla protesta alla politica”. Altri,
comunque, sentirono che le organizzazioni per i diritti civili si dovevano muovere in una
direzione più radicale. Nel 1965-66 lo SNCC cambiò il suo corso, sostituì lo slogan
“potere nero” con “libertà”, imprigionò e poi espulse i suoi operai bianchi, e si schierò
contro la guerra del Vietnam e a favore della resistenza alla leva. Allo stesso tempo, il
CORE ruppe con la sua tradizione non violenta e appoggiò il potere nero e una strategia
organizzativa comune nel nord” (op.cit., pp. 186-187)
174
aveva mano mano assunto toni sempre più radicali, provocando
un sovraccarico di domande fino alla completa messa in
discussione della legittimità delle istituzioni governative,
investite a loro volta da una crisi di potenziale trasformazione,
ponendo
i
presupposti
per
un
prevedibile
passaggio
dall’“ingovernabilità” alla radicale riforma di tutto l’ordinamento
politico.
5.4.2 Mass-media e “politica di denuncia degli abusi
d’autorità” durante gli “anni delle due S”
Per Huntington, convergeva verso un’accentuazione del
sovraccarico istituzionale, anche la sistematica politica di
denuncia degli abusi governativi377 operata dai mass-media.
Centrale, nell’ambito di questa “nuova politica” era il
ruolo giocato dalla stampa e dalla televisione.
Huntington spiegava l’accresciuta importanza dei massmedia statunitensi, ricordando come gli “sviluppi tecnologici, le
mode sociali, e i bisogni politici” avessero prodotto “grandi
cambiamenti nella posizione della stampa all’interno della
politica americana”. Questi cambiamenti erano sintetizzati dallo
studioso americano in quattro punti fondamentali: “Primo, negli
anni cinquanta e sessanta emerse un tipo di stampa sinceramente
nazionale, i cui maggiori elementi erano i settimanali e i
quotidiani nazionali, come The New York Times, The Washington
Post e, poi, The Wall Street Journal. Questi media, insieme ad
altri, formavano il centro di una stampa nazionale che si creò un
377
op.cit., p. 203
175
suo rapporto con il Presidente e altri agenti dell’autorità
nazionale, paragonabile a quello che i quotidiani locali avevano a
lungo avuto con i sindaci e le autorità locali delle maggiori città
americane. Sostanzialmente, i giornalisti associati a questi media
nazionali stabilivano cosa facesse notizia e il modo in cui essa
dovesse essere espressa e interpretata. Secondo, l’emergere della
televisione ebbe un tremendo impatto su come le persone
apprendevano la notizia e, forse cosa ancora più importante, su
chi apprendeva la notizia. I notiziari notturni raggiungevano
molte più persone della notizia stampata. Inoltre, le telecamere
influenzavano ciò che era considerato notizia e il modo di farla.
All’inizio, la televisione diffondeva la notizia, poi quest’ultima fu
costruita per la televisione. Terzo, la maggiore diffusione della
stampa e il suo mutato ruolo ebbero un impatto sul reclutamento
di giornalisti”378. Infine – proseguiva Huntington – “la
combinazione di questi tre elementi gettò le basi per una
ridefinizione del ruolo della stampa, da quello di passivo
osservatore e rilevatore di fatti a quello di ‘antagonista’ del
governo”379, sviluppando un vero e proprio servizio investigativo
in grado di creare ostacoli rilevanti alla sua azione.
Quali furono le caratteristiche principali della politica di
denuncia?
“La denuncia cui fu soggetta l’autorità politica negli Stati
Uniti negli anni sessanta e nei primi anni settanta” fu, per
Huntington, “unica nella storia moderna”380 ed essenzialmente
378
ibidem
ibidem
380
“Questa grande età di denuncia, comunque, non cominciò fino al 1971, quando
Daniel Ellsberg fondò un giornale, sbocco dei Pentagon Papers. Fu seguito da ulteriori
rivelazioni riguardo la conduzione della guerra e, nell’estate 1972, dall’inizio del
Watergate, che lentamente salì in importanza e dominò i media nazionali per i successivi
due anni. (Il Watergate fu in prima pagina su The New York Times ogni giorno tranne tre
379
176
mossa da due fattori principali: “Primo, sia la protesta che la
riforma” precedevano “la denuncia perché i mali principali a
cui…erano diretti – la discriminazione razziale e la guerra –
erano ovvii e appariscenti”. Appunto per questo sarebbero stati
“necessari pochi sforzi, o addirittura nessuno, per scoprirli”. Era
invece essenziale “comunicare questi fatti al pubblico, e ciò fu
fatto dai media nazionali – la televisione in particolare – con un
impatto tremendo sulla politica americana”; Secondo, la denuncia
non sarebbe potuta “avvenire finché l’autorità dell’esecutivo –
cioè l’obiettivo plausibile della denuncia – non fosse stata
indebolita”. Infatti la pubblicazione delle attività del governo non
conformi ai principi costituzionali richiedeva “l’indebolimento
dell’autorità”. Tutto ciò era poi riconducibile al fatto che i massmedia erano i principali fautori di una generale disaffezione nei
confronti dell’autorità politica, spingendo la popolazione a
nel maggio, giugno, luglio 1973). Le rivelazioni della rete di coinvolgimenti nel
Watergate offrirono ciò che sembrava essere un’irresistibile esca e una carriera
promettente per dozzine di giornalisti. A suo tempo, inoltre, la graduale distribuzione
delle cassette di Nixon rivelò la casualità e banalità, la grettezza di motivi e la
ristrettezza dello scopo, che può caratterizzare i capi politici al lavoro. Nell’autunno del
1973 al Watergate si aggiunsero le rivelazioni e la prosecuzione che portarono alle
dimissioni del Vice Presidente Agnew. Le dimissioni del Presidente Nixon l’estate
successiva sostanzialmente conclusero il Watergate, ma durante l’autunno 1974 i media
furono in grado di continuare sulla stessa linea e di togliere molto del mistero che aveva
circondato la ricchezza, lo stile di vita e le operazioni politiche di Nelson Rockfeller, che
era stato nominato alla vicepresidenza. Nel dicembre 1974, The New York Times
raccontò la storia delle operazioni dei servizi segreti interni della CIA; nell’anno
seguente la stampa, tre corpi investigativi di governo e parecchi individui competerono e
cooperarono in rivelazioni riguardo il servizio segreto statunitense e le agenzie per la
sicurezza nazionale…Un processo in qualche modo simile fece anche della CIA e
dell’FBI bersagli attraenti. Insoddisfazione pubblica rispetto alla guerra del Vietnam non
si amplificò fino al 1969, e di conseguenza si preparò la strada per la rivelazione delle
Carte del Pentagono nel 1971 e per le successive investigazioni della CIA nel 1975.
Quando gli Stati Uniti furono infine cacciati dal Vietnam nella primavera del 1975, i
comitati del Congresso non cercarono di indagare perché gli Stati Uniti avessero perso la
guerra e non tentarono di dare responsabilità ai civili e ai militari per questo esito. Il
Congresso voleva perseguire il male piuttosto che il fallimento, e per fare questo aveva
bisogno di un bersaglio debole. L’opposizione al coinvolgimento straniero, che risaliva
agli anni sessanta, rese le condizioni favorevoli per un assalto dei servizi segreti
statunitensi. Di nuovo, la questione tempo era cruciale”, (op.cit., p. 189)
177
perdere “il proprio senso di lealtà e di fiducia verso la legittimità
dei propri capi”381.
Oltretutto “il processo di denuncia, il sovraccarico e la
delegittimazione dell’azione governativa che ne seguirono”,
stavano sviluppando “caratteristiche e dinamiche proprie”,
determinando, per il politologo americano, il moltiplicarsi degli
“agenti”382 e dei “bersagli delle denunce”383; l’incremento,
381
ibidem
“Primo, gli agenti della denuncia si moltiplicano. Nel sistema americano, la denuncia
richiede la partecipazione di tre tipi di persone: gli informatori, i giornalisti, e il loro
gruppo. All’inizio, l’informatore nell’esecutivo decide che nell’interesse pubblico o suo
personale certe informazioni debbano essere rivelate per influenzare sia la sostanza della
politica che l’identità degli attori politici. Dal momento che l’informatore normalmente
non desidera rivelare il proprio ruolo nel processo di denuncia, egli cerca qualcuno tra i
media o nel Congresso a cui possa confidare l’informazione e che poi si assuma la
responsabilità di comunicarla pubblicamente. Come nel caso di Ellsberg e delle Carte del
Pentagono, questo processo può richiedere un po’ di tempo. Per assicurare la tempestiva
rivelazione delle informazioni, Ellsberg commise un errore nel rivolgersi prima al
presidente del Comitato per gli Affari Esteri del Senato (Senate Foreign Relations
Committee). I giornalisti probabilmente avranno meno inibizioni e maggiore interesse in
un’azione rapida piuttosto che i membri del Congresso. Nella maggior parte dei casi,
l’informatore desidererà trasmettere l’informazione a un giornalista dei media nazionali,
dove la sua denuncia riceverà l’attenzione di chi è coinvolto nella politica nazionale.
Una volta che l’informazione è uscita, gli uomini del Congresso adatti si muovono per
investigare le accuse della rivelazione. Quando comincia l’indagine del Congresso, i
membri del comitato del Congresso di solito stabiliscono una relazione simbiotica con i
giornalisti che seguono le rivelazioni, scambiandosi informazioni e indiscrezioni e
promuovendo i loro interessi comuni facendo durare la questione più a lungo possibile.
Un informatore che fa trapelare con successo la prova dell’abuso di autorità alla stampa
o al Congresso sia incoraggia altri che desiderano denunciare la stessa cosa sia provoca
altri informatori a rivalersi contro altri bersagli. Di conseguenza, come dimostrano le
storie del Pentagono o del Watergate, uno scoop da parte di un giornalista provoca una
forte competizione da parte di altri: si sviluppa una “sporca razza” mentre i giornalisti
perseguono vecchie tracce e corrono dietro a nuovi indizi, in un’intensa competizione
per vedere la rivelazione di chi dominerà i titoli del giorno dopo. I comitati del
Congresso, normalmente almeno uno in ogni camera, competono in modo simile”
(op.cit., p. 205)
383
“All’inizio ci si focalizza generalmente sugli sbagli presunti di pochi ufficiali. Il
processo di denuncia di quegli ufficiali, comunque, scopre gli errori di altri ufficiali.
Inoltre, come dimostrato ancora dal Watergate, il processo di denuncia può condurre gli
ufficiali ad agire di conseguenza per coprire i loro errori, il che porta a sua volte a nuovi
comportamenti da denuncia. C’è inoltre un limite preciso alla quantità di sbagli che un
ufficiale può commettere, perciò una volta che il meccanismo della denuncia si è messo
in moto esaurirà, a suo tempo, un bersaglio, e si volgerà a un altro. I giornalisti hanno
fatto ogni sorta di sforzo per moltiplicare il Watergate in una serie di successivi “gates”
(“scandali”): Koreangate, Lancegate, Billygate. La denuncia di certe cose stimola la
controdenuncia di altre. Così, le rivelazioni dell’abuso dell’autorità da parte del
Presidente Nixon generò rivelazioni di apparentemente simili abusi d’autorità da parte
dei Presidenti Johnson, Kennedy, e Roosevelt. Gli agenti della denuncia che hanno avuto
382
178
dinanzi a un sistema politico impreparato, dei successi ottenuti384
che a loro volta spingevano i promotori ad aumentare l’intensità
dei loro sforzi; e infine la crescita programmata del “segreto”
nella sfera dell’attività governativa, facendo dipendere da
quest’aspetto la stessa credibilità del fatto denunciato385.
successo una volta tenteranno di ripetersi; i fustigatori della Casa Bianca di Nixon
divennero gli approvvigionatori di piccole chiacchiere sulla Burger Supreme Court”
(op.cit, p. 200)
384
“Terzo, come suggerisce questo ultimo esempio, il processo di denuncia inizia molto
velocemente a produrre dei risultati marginali in diminuzione, che, comunque,
potrebbero aumentare o diminuire l’intensità degli sforzi degli agenti della denuncia.
L’impatto del Watergate, e in particolare la denuncia conclusiva delle cassette nel luglio
1974 che accelerò le dimissioni del Presidente, diede un’ulteriore attrattiva a quello che
Michael Kinsley e Arthur Lubow chiamarono ‘la fallacia delle prove evidenti’ – cioè la
convinzione che ‘importanti verità emergeranno da questo spedire i cronisti a scavare
piccoli indizi, che porteranno a grandi indizi, che porteranno alla VERITÀ’. Questa
inclinazione è radicata nelle teorie americane sulla cospirazione che affermano che
qualcosa di importante si nasconde sotto la superficie della politica, e che grandi sforzi
sono necessari per strappare i vari strati di inganno e rivelare la realtà corrotta del
comportamento ufficiale. In realtà, comunque, è vero l’esatto contrario. Più le indagini
vanno avanti, meno è probabile che si scoprano nuovi grandi scandali. Il significato di
ciò che è denunciato varia inversamente allo sforzo richiesto per la denuncia. Le più
grandi violazioni del Credo americano – concentrazioni di potere e ricchezza, abusi di
autorità, negazione di una giustizia equa e dei diritti individuali, discriminazione e
ineguaglianze – non si nascondono facilmente. La prova è là, per coloro che vogliono
vederla, appropriarsene e usarla. Una volta iniziato, comunque, il processo di denuncia,
nello sforzo di svelare i nuovi grandi mali, passa dall’essere importante all’essere
insignificante” (op.cit., p. 194)
385
“Quarto, il processo di denuncia richiede la moltiplicazione dell’attività denunciabile
– cioè la moltiplicazione dei segreti. In qualche modo, la credibilità di un fatto dipende
da quanto quel fatto è segreto. Un atto visto come malvagio in se stesso diventa peggiore
se fatto in segreto. Di conseguenza, fatti non segreti devono spesso essere descritti come
tali per aumentare l’indignazione del pubblico e accrescere il contributo degli
informatori: essi diventano non semplicemente i messaggeri della conoscenza del male,
ma i denunciatori dell’esistenza del male. Forse il più rilevante esempio della creazione
di un segreto fu quello riguardo il bombardamento della Cambogia da parte
dell’amministrazione Nixon nel 1969 e 1970. Il presidente prese la decisione il 16 marzo
1969; il primo attacco avvenne due giorni dopo. Per evitare di imbarazzare il Principe
Sihanouk e i complicati negoziati di pace con il nord vietnamita non fu fatto alcun
annuncio pubblico. Il 9 maggio, The New York Times pubblicò un lungo articolo in
prima pagina che descriveva il bombardamento, al quale seguì l’interesse di altre testate
e dei media. Il bombardamento, che continuò per un altro anno, fu di dominio pubblico
per il 90% del tempo della sua durata. Negli anni successivi, comunque, il
bombardamento “segreto” della Cambogia fu uno dei più frequenti e appassionatamente
evocati racconti nelle accuse contro l’amministrazione Nixon. Un ‘segreto’ che quasi
immediatamente diventò un “non segreto” continuò ad essere descritto come segreto per
molti anni a seguire. Ciò che questo fatto dimostra, comunque, è, primo, l’incapacità del
governo americano di mantenere un segreto, e, secondo, il bisogno per i denunciatori di
segreti di classificare come “segreti” cose che in realtà erano del tutto pubbliche”
(op.cit., p. 195)
179
Non solo, ma il successo della “politica di denuncia” a
livello
nazionale
stimolava
“nuove
ondate
di
‘rapporti
investigativi’ a livello…locale, mentre i media locali e regionali
tentavano di replicare al loro livello il successo del The New York
Times e del The Washington Post”386
La crisi istituzionale del modello democratico americano
era inoltre ricollegabile alla “crescita di potere del Congresso” in
contrasto con “il lungo periodo di dominio presidenziale”387,
iniziato con il New Deal e rafforzatosi durante la Seconda guerra
mondiale e la Guerra fredda. La “diffusione di potere” che ne
risultava “aumentò il potere del Congresso”388, riducendo la
possibilità di ogni singolo leader o piccolo gruppo di leader di
“consegnarlo…nei negoziati con il Presidente o altri ufficiali
esterni”389
Per Huntington l’obiettivo cui mirava il Congresso,
avvalendosi del supporto fornitogli dai mass-media, era quello di
“un ricollocamento del potere tra il Presidente e il Congresso e
386
ibidem
Dal New Deal alla fine degli “anni delle due S” gli Stati Uniti ebbero ben 8
presidenti: Roosevelt (1932-1945), Truman (1945-1952), Eisenower (1953-1961),
J.F.Kennedy (1961-1963), Johnson (1963-1968), Nixon (1969-1974), Ford (1974-1975),
Carter (1976-1980). Di questi uno fu assassinato (J.F.Kennedy, 1963) e un altro fu
costretto alle dimissioni in seguito allo scandalo del Watergate (Nixon, 1974). Accanto a
questi eventi si devono collocare l’uccisione di un candidato alla presidenza (Robert
Kennedy, 1968) e di due dei più importanti leader del movimento afro-americano
(Malcom X, 1964; Martin Luther King, 1968, appena un mese prima, aprile,
dell’uccisione di Robert Kennedy)
388
“L’abilità del Congresso a giocare un ruolo più attivo e positivo nel formare la
politica pubblica fu rafforzata molto anche dall’aumento del personale di supporto al
Congresso durante gli anni delle due S. Due nuove agenzie di personale di supporto,
l’Ufficio per la Valutazione Tecnologica (Office of Technology Assessment) e l’Ufficio
per il Bilancio del Congresso (Congressional Budget Office), furono create
rispettivamente nel 1972 e nel 1974, e il personale delle agenzie esistenti, l’Ufficio per la
Ricerca (Congressional Research Service) e l’Ufficio Contabile Generale (General
Accounting Office) fu largamente aumentato. Il personale delle commissioni quasi
triplicò tra il 1957 e il 1975, e i membri degli staff personali dei parlamentari diventò più
del doppio” (S.P.Huntington, American politics, op.cit., p. 208)
389
ibidem
387
180
l’estensione del suo controllo su attività di tipo esecutivo” 390.
Tant’è vero che anche in “politica estera, il Congresso si mosse
per ridurre il potere decisionale del Presidente e per obbligare
l’esecutivo ad essere più responsabile verso il Congresso”391.
La crescita della partecipazione politica da una parte e il
ruolo del Congresso e dei mass-media dall’altra, stavano ad
indicare per Huntington che nel corso degli anni settanta una
persona poteva pure diventare Presidente degli Stati Uniti
“creando una efficiente coalizione elettorale”, senza purtuttavia
390
ibidem
“Negli anni cinquanta il Senatore Richard Russell aveva sottolineato ‘Dio aiuti il
popolo Americano se il Congresso inizia a legiferare sulla strategia militare’. Negli anni
settanta il Congresso fece proprio questo. Nel 1970 impose termini ultimi per il ritiro
delle forze terrestri degli Stati Uniti dalla Cambogia. Nel 1973 proibì tutte ‘le attività di
combattimento per terra, per aria e per mare intorno ai confini della Cambogia, del Laos,
del Vietnam del Nord e del Sud’. Lo stesso anno passò la Risoluzione sui Poteri di
Guerra (War Powers Resolution) definendo le circostanze per cui il Presidente poteva
convocare le forze statunitensi per combattere, richiedendo un immediato rapporto al
Congresso di ciascuna di tali convocazioni, e limitando la durata di tali convocazioni
senza l’espressa approvazione del Congresso. Nel 1975 il Congresso proibì l’aiuto
clandestino degli Stati Uniti alle forze insorte in Angola in opposizione al MPLA
(Movimento Popular de Libertacão de Angola) sostenuto da Cuba. Nel 1974 e 1975
l’azione del Congresso influenzò seriamente le relazioni statunitensi con l’Unione
sovietica e con la Turchia imponendo condizioni per il conferimento dello status di
“nazione preferita” alla prima e il proseguimento dell’assistenza militare alla seconda.
Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta il Congresso mostrò una
nuova determinazione nel considerare i programmi militari e il bilancio della difesa, non
esitando ad arrivare a giudizi suoi propri riguardo i meriti dei primi o a tagliare
significativamente i secondi. Nel 1974 il Congresso approvò anche la legge sul
Controllo del Bilancio e Confisca (Budget Control and Impoundment Act), che
diminuiva il controllo del Presidente sulla spesa di fondi adeguati e che rafforzava la
capacità del Congresso, attraverso nuove commissioni per il bilancio e il Congressional
Budget Office, di esercitare un controllo totale sullo scopo e sui propositi delle spese di
governo. Nello stesso anno, il Congresso richiese che il direttore dell’Ufficio di Gestione
e Bilancio (Office of Managment and Budget) e i suoi deputati nell’Ufficio Esecutivo
(Executive Office) del Presidente fossero soggetti alla conferma dei senatori. Durante gli
anni delle due S, il Congresso moltiplicò anche l’uso del veto legislativo come mezzo
per controllare l’azione esecutiva. Una ricerca del 1976 identificò 37 leggi, dall’Amtrack
Improvement Act (?)al Foreign Military Sales Act (legge sulle vendite militari
all’estero), la maggior parte delle quali, tenendo conto dell’uso del veto, erano state
emanate durante la decade precedente. Altri provvedimenti legislativi ingrandirono il
numero di rapporti che l’esecutivo doveva presentare al Congresso. Allo stesso tempo, il
Congresso asserì ulteriormente il suo controllo sull’esecutivo attraverso l’inchiesta del
Watergate, le attività dei servizi segreti, e altre cose” (ibidem)
391
181
poter disporre, una volta eletto, dei mezzi necessari “per
governare il paese”392.
Difatti le conseguenze della politica di denuncia degli
abusi governativi, portata avanti contemporaneamente dal
Congresso e dai mass-media, non solo accrescevano la
mobilitazione e la partecipazione politica dell’opinione pubblica,
senza che il sistema partitico riuscisse in qualche modo filtrarla,
ma contribuivano enormemente a far sì che “il declino della
fiducia pubblica nel governo” subisse “un’accelerazione”,
facendo in modo che l’erosione della legittimità dell’autorità di
governo andasse “avanti indipendentemente”, senza essere più
“un prodotto di quell’abuso”393. Tant’è vero che “la messa in
dubbio dell’autorità” finiva con l’estendersi dal governo a quasi
392
“L’elezione conferiva legittimità ma non potere, ed entrambi erano necessari per
l’esercizio dell’autorità. La creazione del potere richiedeva la creazione di una
coalizione di governo, il che divenne sempre più difficile, se non impossibile, da fare dal
momento che il potere stesso si stava diffondendo nella società. Come risultato, i
Presidenti provavano sempre più un senso di impotenza, un’incapacità a trovare le leve
da tirare per produrre i risultati che sentivano di essere stati chiamati a raggiungere.
Lyndon Johnson, eletto da una delle più schiaccianti maggioranze nella storia americana,
meditò su quanto fosse necessario per lui ‘ottenere il supporto dei media…degli
orientalisti… degli intellettuali’, perché ‘senza quel supporto non avrei avuto nessuna
possibilità di governare il paese’. Perse molto di quel supporto. Il suo successore non ne
ebbe quasi per nulla; quattro mesi dopo aver vinto le elezioni con una delle più alte
maggioranze nella storia americana diceva esasperato ‘Nessuno ci è amico. Affrontiamo
questa situazione’. Abilmente esprimendo la mentalità d’assedio della Casa Bianca, un
anziano assistente alla Casa Bianca consigliava un giovane assunto ‘Una cosa dovresti
realizzare molto presto, noi siamo praticamente un’isola qui’; il più alto appello era a
‘proteggere il Presidente’ contro le forze ostili che circondavano l’isola. Alla fine degli
anni settanta, il Generale Ford poteva con qualche diritto dire che lontano dall’avere una
presidenza imperiale, gli Stati Uniti avevano di fatto ‘una presidenza in pericolo’”.
(gioco di parole tra “imperial” e “imperiled”, n.d.a.) (op.cit., p. 210)
393
“L’abuso di autorità, d’altra parte, può essere stato in parte un prodotto dell’erosione.
In primo luogo, il declino dell’autorità degli ufficiali pubblici e, in particolare, i
cambiamenti nelle loro stesse percezioni del loro potere e della loro legittimità può
stimolare gli ufficiali ad abusare della loro autorità nello sforzo di restaurarla. La Casa
Bianca, sia con Johnson che con Nixon, fu pervasa da un senso di paranoia politica,
quando il Presidente e i suoi collaboratori ebbero a che fare con un Congresso sempre
più critico, una stampa ostile, una burocrazia contraria. In qualche caso, come per le
rivelazioni delle Carte del Pentagono e le storie del bombardamento cambogiano, fu
chiaramente evidente una relazione causa-effetto tra l’attacco all’autorità e l’abuso di
autorità. In secondo luogo, cosa più importante è la misura in cui l’erosione di autorità
porta non semplicemente ad un aumento dell’effettivo abuso di autorità ma piuttosto a
un cambiamento nell’attitudine del pubblico verso quegli abusi” (op.cit., p. 213)
182
tutti i campi della società: famiglia, scuole, università, chiese,
associazioni private, ambiente militare394
La crescente sfiducia nell’azione del governo e dei partiti
era inoltre inversamente proporzionale alla fiducia riposta
dall’opinione pubblica nei notiziari televisivi, i quali, a loro volta,
per attrarre fette sempre più estese di una popolazione fortemente
politicizzata, accentuavano i toni della denuncia contro la politica
dei più importanti apparati governativi e, più in generale, verso le
autorità oggetto della contestazione395.
Insomma, per Huntington, questa politica di denuncia
stava esercitando un pericoloso ruolo di moltiplicatore della
domanda, determinando una situazione difficilmente controllabile
rispetto alla fonte che l’aveva prodotta396.
5.4.3 I limiti auspicabili all’ampliamento indefinito della
democrazia
La “grande difficoltà risiede in questo: si deve, in primo
luogo, mettere il governo in grado di dominare i governanti e, in
secondo luogo, costringerlo a dominare se stesso”; è con questa
citazione, tratta dal n. 51 del The Federalist di James Madison,
394
ibidem
“Alla fine degli anni sessanta, la maggiore fiducia nella televisione per le notizie era
associata alla bassa efficacia politica, alla sfiducia sociale, al cinismo, a una debole lealtà
di partito. Dalla metà degli anni settanta, queste caratteristiche si erano così diffuse
nell’elettorato che la relazione con la fiducia nella televisione era virtualmente
scomparsa. Durante gli anni delle due S l’impatto complessivo dei media,
particolarmente della televisione, doveva minare la legittimità del governo”, (ibidem)
396
“L’impatto negativo dei media sulla legittimità delle istituzioni politiche condusse un
analista a formulare una ‘legge di ferro’ con il risultato che ‘in nazioni in cui la notizia è
prodotta commercialmente e indipendentemente, il livello (o branca) di governo che
riceve la maggiore enfasi, alla lunga, sperimenterà anche il maggiore disdegno
pubblico’. Accentuando il sensazionale, il semplice, il controverso, la televisione ebbe
un ruolo particolarmente forte nel minare l’autorità” (op.cit., p. 216)
395
183
che Huntington rendeva esplicito il senso delle sue proposte,
formulate nel rapporto del 1975, per uscire dalla crisi che,
secondo
i
relatori
della
Commissione
Trilaterale,
stava
coinvolgendo gran parte delle democrazie occidentali.
Come sostenuto nel 1957 in un articolo apparso su
American Political Science Review, nell’adottare le soluzioni più
idonee alla crisi, era necessario, per lo studioso americano,
considerare il fatto che “quando coloro che intendono sfidare le
istituzioni si pongono in contrasto con l’ideologia della società
esistente ed intendono affermare un
sistema di
valori
completamente diverso, l’ambito di discussione comune viene
distrutto”. Da ciò deriva che il rifiuto “dell’ideologia corrente da
parte di coloro che intendono sfidare le istituzioni” costringe le
stesse classi dirigenti “ad abbandonarla”, dato che “la difesa di
ogni sistema di istituzioni di fronte ad una sfida posta alle
fondamenta di esso deve essere formulata in termini di logica di
conservazione, di inviolabilità e di necessità delle istituzioni a
prescindere dal livello di corrispondenza al carattere prescrittivo
di una qualunque filosofia ideazionale”.
Tutto questo perché, come sosterrà poi nel 1982 con il
saggio American politics, l’“autorità politica – cioè l’esercizio
legittimo del potere da parte di pubblici ufficiali – può diventare
illegittima in molti modi”, implicando di conseguenza un
generale “restringimento del regno della legittimità all’interno del
regno del potere” situando quest’ultimo “al di fuori della ratifica
del primo”397.
Huntington, pur essendo dell’opinione “che, in termini di
previsione, la spinta democratica ed il conseguente squilibrio
397
S.P.Huntington, American Politics, op.cit., pp. 211-214
184
duale del sistema di governo” si sarebbero attenuate, sosteneva
che nell’immediato, “al fine di evitare le conseguenze nocive
della spinta”, era necessario “ripristinare l’equilibrio tra vitalità e
governabilità nel sistema democratico”398.
Proponeva pertanto che per “il funzionamento efficace di
un sistema politico democratico”, sarebbe stato opportuno
suscitare “una certa dose di apatia e disimpegno da parte di certi
individui e gruppi”, sostituendo “la minore emarginazione di
alcuni gruppi con una maggiore autolimitazione di tutti i gruppi”,
allontanando così “il pericolo di sovraccaricare il sistema politico
con richieste che ne allargano le funzioni e ne scalzano
l’autorità”399.
La “vulnerabilità del sistema democratico statunitense”
derivava dunque “non da minacce esterne, per quanto esse siano
reali, né della sovversione interna da sinistra o da destra, per
quanto entrambe queste evenienze possano darsi, bensì dalla
dinamica interna della stessa democrazia in una società
altamente istruita, mobilitata e partecipe”400. Pertanto se si
ammetteva l’esistenza di “limiti potenzialmente auspicabili alla
crescita economica” era ormai opportuno fare altrettanto dinanzi
“all’ampliamento
indefinito
della
democrazia
politica”,
398
M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, cit., p. 108
“In passato, ogni società democratica ha avuto una popolazione marginale, di
dimensioni più o meno grandi, che non ha partecipato attivamente alla politica. In se,
questa marginalità da parte di alcuni gruppi è intrinsecamente antidemocratica, ma ha
anche costituito uno dei fattori che hanno consentito alla democrazia di funzionare
efficacemente. I gruppi sociali marginali, ad esempio i negri, partecipano ora pienamente
al sistema politico” (op.cit., p. 110)
400
Ibidem. Questo per Huntington era soprattutto vero per la società statunitense. Infatti
l’instabilità sociale americana degli anni sessanta e settanta (gli “anni delle due S”) era
riconducibile ai valori stessi della democrazia statunitense. Tant’è vero che le “giovani
generazioni” volevano soltanto “mettere in pratica quegli ideali in cui voi – e noi –
crediamo” e proclamare “una Nuova Verità per sfidare i vecchi miti delle generazioni
precedenti”, invocando “le Vecchie Verità” per accusare le “vecchie generazioni”, i veri
“sovversivi”, di averle abbandonate, mentre “i sudditi fedeli”, ne
399
185
favorendone in tal modo “un’esistenza più equilibrata”, che le
avrebbe di certo assicurato “una vita più lunga”.
La soluzione prospettata dal teorico di Harvard si basava
così sulla proposta di “un modello decisionale di governo più
efficace e più vincolante”, cioè in condizione di garantire “una
certa dose di autorità, deferenza e gerarchia”, in una società in
cui la “coesione sociale e l’adattabilità istituzionale” erano ormai
sottoposte a una “pressione” non sempre compatibile “con i
requisiti politici per la conservazione della società”401.
Riassumendo, si può dunque sostenere che come per i
sistemi politici latino-americani, anche quelli occidentali stavano
vivendo nel corso degli anni ’70 una profonda crisi istituzionale
dovuta al sovraccarico di domanda politica che pesava sui loro
apparati di governo. A favorire il sovraccarico istituzionale era
però l’esistenza stessa delle istituzioni democratiche e la tensione
ad una loro progressiva espansione che nel lungo periodo avrebbe
potuto essere fatale per gli stessi assetti della democrazia, qualora
le forze e i gruppi politici d’opposizione, profittando della
situazione e stringendo fra loro un’alleanza politica, avessero
messo in discussione la conservazione stessa dei rapporti di
dominio vigenti. A questo punto la risposta che il sistema era
chiamato
a
dare
doveva
necessariamente
muovere
dal
presupposto della propria conservazione, quindi ammettere la
possibile “violazione…del diritto comune per un fine di pubblica
utilità”402.
Comunque sia, i sistemi politici occidentali non potevano
ricorrere all’intervento delle forze armate, come era stato invece
“riaffermano…orgogliosamente i principi” ignorati (cfr. S.P.Huntington, American
Politics, cit., pp. 1-5)
401
M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., p. 110
186
suggerito per i paesi in via di sviluppo, senza renderne ancor più
ingovernabili le società403.
Quest’ipotesi era poi esclusa dalle conclusioni,
affatto positive, che si potevano trarre, contemporaneamente
alla pubblicazione del rapporto di Kyoto, dalla fine del
cosiddetto “regime dei colonnelli” in Grecia (1974) e dagli
eventi che si stavano verificando in Portogallo e in Spagna con
la fine di dittature pluridecennali. Inoltre le organizzazioni
sindacali e partitiche d’opposizione erano talmente forti che non
sarebbe stato possibile imporre una simile strategia senza
correre il rischio di precipitare l’intero corpo politico in una
disastrosa guerra civile.
5.5 “Nuove istituzioni per la promozione cooperativa
della democrazia”: le “conclusioni generali” del
Rapporto della Commissione Trilaterale
La proposta di Huntington di un governo che fosse dotato
di poteri tali da poter garantire la governabilità della democrazia,
deve necessariamente essere ricompresa nel quadro delle
402
Botero, Della Ragion di Stato, 1589, cit. in op.cit., p. 117
Huntington avrebbe comunque escluso un intervento militare in Occidente in quanto
“via via che la società diventa più complessa, diventa più difficile per gli ufficiali
militari sia esercitare efficacemente il potere, che anche riuscire a prendere il potere”.
Inoltre la “loro capacità di ottenere appoggi e di indurre alla cooperazione
diminuisce;…gli ufficiali non sono necessariamente esperti nelle arti esoteriche della
negoziazione, del compromesso, del ricorso alle masse, necessari per l’azione politica
all’interno di una società complessa”. Infine in “una società molto complessa non solo
diventa più difficile per un gruppo altamente specializzato esercitare la dirigenza
politica, ma per di più gli strumenti con cui i militari possono acquisire il potere,
incominciano a perdere di efficacia. Proprio per sua natura, l’utilità del colpo di stato
come tecnica di intervento politico, diminuisce via via che aumenta l’ampiezza della
partecipazione politica” (S.P.Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale,
op.cit., p. 246)
403
187
conclusioni generali del rapporto della Trilaterale, discusse a
Kyoto il 31 maggio 1975.
Queste, collocandosi nel clima di generale “pessimismo
sul futuro della democrazia”404, espresso anche da Brzezinski
nella prefazione all’edizione italiana del Rapporto, proponevano
dei “campi d’intervento”, vale a dire “sette settori a partire dai
quali affrontare i problemi…che per l’Europa e gli Stati Uniti
(avevano) un’attinenza immediata e a cui il Giappone non
(avrebbe potuto) sottrarsi in un futuro non lontano”405.
I “campi d’intervento” proposti miravano a: 1)
un’“Efficace pianificazione dello sviluppo economico e sociale”.
Secondo tale ipotesi “i programmi governativi” avrebbero dovuto
“assegnare la massima precedenza al raggiungimento di un
livello minimo di sussistenza garantita per tutti i cittadini”406,
insomma una sorta
di reddito minimo garantito407; 2)
404
M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., pp. 20, 25
op.cit., p. 157
406
op.cit., pp. 158-159
407
Molto diffuso nel XVIII e nel XIX secolo, l’idea di minimo garantito si presenta
come una sorta di "filo rosso" continuamente riemergente nei "momenti di svolta" del
dibattito politico, economico e sociale, costituendo di per sè non solo un capitolo
affascinante della storia delle idee. Presente già in Hobbes, Montesquieu, Smith e Paine,
tornerà con forza sulla scena del dibattito politico internazionale grazie a Josef PopperLynkeus. Originale figura di affermato fisico, inventore di numerosi brevetti industriali,
e nel contempo Sozialethiker e intimo amico di Ernst Mach, Popper aveva delineato sin
dal 1878, e poi sviluppato per oltre un quarantennio, un personale e tenacissimo disegno
di riforma sociale, via via espresso in numerose opere di filosofia politica e analisi
economica. Anche i coniugi Webb, Sidney e Beatrice, proposero un “moral minimum”,
pur indicandolo, come avrebbe fatto notare Ernesto Rossi, “solo di passaggio, in forma
incerta, senza soffermarsi di proposito a trarne tutte le conseguenze” (E.Rossi, Abolire la
miseria, Laterza, Bari 1977, p. 120). Un altro durevole e importante centro di riflessione
attorno all'idea di "minimo sociale garantito" si costituirà poi in Francia per il tramite dei
giovani redattori (Robert Aron, Arnaud Dandieu, Jean Jardin, Henri Daniel-Rops,
Alexan de Marc, Denis de Rougemont) della rivista intitolata L'Ordre Nouveau (19331938). Un “minimum social garanti” era anche per Alexandre Marc, teorizzatore di un
federalismo di marca péguista e proudhoniana e leader di una corrente culturale che a
questo si richiama, la premessa per un’economia “polarisée” in diverse “zones
économiques” e articolata in una pianificazione “dichotomique”, da un lato “impérative
dans la première zone…qui recouvre les besoins sociaux fondamentaux (nourriture,
habillement, logement, santé, éducation)”, dall’altro « indicative dans la zone…qui
regroupe toutes les autres activités économiques, celles qui, dans une société donnée, à
un moment donné de l’histoire, compte tenu des ressources et des techniques, peuvent
405
188
“Rafforzamento delle istituzioni della leadership politica”408. Si
registrava infatti la necessità che l’ago della bilancia non si
spostasse troppo in direzione delle istituzioni legislative. Perciò,
“lo sforzo decisivo” avrebbe dovuto “essere orientato al
reinserimento
del
dibattito
democratico
nelle
procedure
amministrative, alla prevenzione del monopolio della competenza
da parte della pubblica amministrazione e al ripristino delle
funzioni del parlamento, assegnando a quest’ultimo nuova
competenza e, così, la possibilità di discutere su un piano di
etre considérés comme ressortissant à la catégorie du superflu”. In tal modo il “minimum
social garanti…assure à chaque individu, de sa naissance à sa mort, un revenu régulier,
indépendamment de tout travail...” (M.Lipiansky, Esquisse d’une économie fédéraliste,
in « Repères pour un fédéralisme révolutionnaire », n. 190-192, janvier-mars 1976.
Russell stesso si chiedeva se fosse “tecnicamente possibile fornire i beni necessari alla
vita in quella grande quantità che sarebbe necessaria se ogni uomo e ogni donna ne
potesse prendere dai magazzini pubblici la quantità che desidera”, giungendo alla
conclusione che si sarebbe potuto “stabilire come criterio generale…che il principio di
una distribuzione illimitata potrebbe venire adottato per tutti quei beni la cui richiesta ha
dei limiti che rimangono al di sotto della quantità di essi che può venir prodotta con
facilità. E questo, se la produzione fosse organizzata in modo efficiente, sarebbe il caso
dei beni necessari alla vita, includendovi, non soltanto i beni di consumo, ma anche altre
cose, come l’educazione…” (B.Russell, Socialismo, anarchismo, sindacalismo,
Longanesi & C., Milano, 1968, p. 126). Recentemente anche U.Beck ha ripreso l’idea di
minimo garantito, sotto forma di “reddito di cittadinanza”, associandola alla sua
proposta di “lavoro d’impegno civile”, strumento, quest’ultimo, attraverso cui rispondere
alle dinamiche della società occidentale, che corre ormai il rischio di una sua generale
“brasilianizzazione”, a causa dell’ “irruzione della precarietà, della discontinuità, della
flessibilità, dell’informalità…(cioè) delle forme lavorative, biografiche ed esistenziali”
tipiche dei paesi del Sud del pianeta (U.Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro.
Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino, 2000, p. 1). Anche
per Bahuman il reddito minimo garantito, “cioè la separazione del diritto acquisito
dell’individuo di avere un reddito dalla reale capacità di guadagnare un reddito”
(Z.Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000, p. 187) è uno
strumento tramite cui contrastare l’incertezza in cui si troverebbero ad agire i singoli
all’interno della moderna società capitalistica, permettendo una parziale ricostruzione
del tessuto sociale che starebbe invece subendo le drammatiche conseguenze di una
rapida modernizzazione socio-economica (cfr. E.Morley-Fletcher, Per una storia
dell’idea di “minimo salariale garantito”. Traccia di bibliografia ragionata, in “La
Rivista Trimestrale”, pp.297-321, 1980, 1981)
408
“Negli Stati Uniti il rafforzamento delle istituzioni di leadership richiede un
intervento, sia in relazione al Congresso, sia in relazione alla presidenza. Nel Congresso,
la tendenza del decennio passato è stata a una maggiore dispersione del potere nella
Camera come pure nel Senato. Però se il Congresso deve svolgere un effettivo ruolo di
governo diverso da un ruolo di critica e di opposizione, deve essere in grado di
formulare obiettivi complessivi, determinare priorità e avviare programmi. Questo
richiede inevitabilmente una certa centralizzazione del potere nell’ambito del
Congresso” (M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit.,
pp. 159-161)
189
parità con i funzionari pubblici”409; 3) un “Rinvigorimento dei
partiti politici”, adattandoli “ai mutati bisogni ed interessi
dell’elettorato”. Il partito avrebbe così dovuto da un lato
“riflettere gli interessi e i bisogni delle forze sociali e dei gruppi
di interesse principali e, dall’altro…essere indipendente da
interessi particolaristici410; 4) il “Ripristino dell’equilibrio tra
governo e mezzi di informazione”. Pur considerando la libertà di
stampa “assolutamente essenziale al funzionamento effettivo del
sistema democratico di governo”, si faceva notare che
quest’ultima avrebbe tuttavia potuto risultare fonte di possibili
abusi411. Sarebbe stato perciò opportuno che “la responsabilità
della stampa” fosse stata “accresciuta in modo da corrispondere
al suo potere”, mediante “importanti misure per ristabilire un
giusto equilibrio412 tra la stampa, il governo e le altre istituzioni
sociali”. Le ragioni per cui, accanto all’esigenza “di assicurare
alla stampa il suo diritto di pubblicare quello che vuole”, doveva
409
ibidem
Il Rapporto suggeriva anche degli interventi a proposito dei finanziamenti ottenuti dai
partiti politici: il “rafforzamento dei partiti politici, necessario per il reale funzionamento
della politica democratica, sembra richiedere una diversificazione delle fonti ai cui i
partiti attingono sul piano finanziario. I partiti politici non dovrebbero dipendere
esclusivamente dai singoli membri, o dagli interessi organizzati, o dallo stato, per i
mezzi occorrenti all’espletamento delle proprie funzioni. Dovrebbero potere trarre
sostegno da tutt’e tre queste fonti di finanziamento…La slealtà potrebbe combattersi
anzitutto con misure che proibiscano ogni versamento da parte dei gruppi industriali, o
che per lo meno pongano limiti invalicabili ed esigano nello stesso tempo la più
completa pubblicità a queste sovvenzioni” (op.cit., pp.161-163)
411
“Negli ultimi anni si è registrata un’immensa crescita nel campo d’azione e nel potere
dei mezzi di comunicazione…la stampa ha assunto un ruolo sempre più critico verso il
governo e i funzionari pubblici. In alcuni paesi, le regole tradizionali della ‘obiettività’ e
dell’‘imparzialità’ sono state accantonate in favore di un ‘giornalismo peroratore’”
(ibidem)
412
“Qui, l’aumento di potenza dei mezzi di comunicazione non è dissimile dall’ascesa al
potere nazionale delle società industriali alla fine del diciannovesimo secolo. Così come
le società si posero sotto il riparo costituzionale della disposizione relativa al debito
procedimento legale, i mezzi di comunicazione oggi si difendono in base al Primo
Emendamento…ci sono ovviamente importanti diritti da proteggere, ma sono anche in
gioco gli interessi, più vasti, della società e dello stato” (ibidem)
410
190
comunque ammettersi “la possibilità di negare le informazioni413
alla loro origine”414; 5) il “Riesame dei costi e delle funzioni
dell’istruzione superiore”415, rapportando “la pianificazione
scolastica agli obiettivi economici e politici”, attraverso un
generale adattamento dei programmi scolastici ai “modelli di
sviluppo economico e alle future possibilità di lavoro”, dato che
l’“istruzione superiore è ormai il più importante meccanismo di
produzione dei valori nella società. Ed il fatto che esso funzioni
male o si orienti a fini contrastanti con quelli della società non
può non destare grandi preoccupazioni”416; 6) “Un più effettivo
rinnovamento nel campo del lavoro”. Veniva perciò richiesto a
tale proposito “un nuovo tipo di intervento attivo” sia nelle
“strutture operative dell’impresa” che “nel contenuto del lavoro
stesso”, rivolgendosi ad “una laboriosa trasformazione dei
rapporti sociali417, dei modelli di cultura e di autorità e, perfino,
413
“Non c’è alcun motivo, inoltre, di negare le informazioni ai funzionari pubblici
un’equa protezione legale contro gli scritti diffamatori, e i tribunali dovrebbero agire
senza indugi per ristabilire la legge sulla diffamazione, intesa come freno necessario ed
adeguato agli abusi di potere da parte della stampa. I giornalisti dovrebbero elaborare
propri valori professionali e creare dei meccanismi, quali i consigli professionali, che
facciano rispettare questi valori. L’alternativa potrebbe pure essere la regolamentazione
da parte dello stato” (ibidem)
414
op.cit., pp. 164-165
415
“In tutte le società della Trilaterale, negli anni ’60 si registrò un’enorme espansione
dell’istruzione superiore. Questa espansione fu il prodotto d’un benessere crescente, di
un incremento temporaneo della classe d’età adeguata agli studi secondari, nonché
dell’assunto sempre più diffuso secondo cui i tipi di istruzione superiore (…), accessibili
soltanto ad una ristretta élite, dovevano essere resi universalmente disponibili. Da questa
espansione, però, possono risultare un numero di persone fornite di istruzione
universitaria sproporzionato rispetto alle occupazioni per esse disponibili, il dispendio di
somme considerevoli che assottigliano i già scarsi fondi pubblici e l’imposizione sui ceti
sociali più bassi di tasse per finanziare l’istruzione pubblica gratuita degli studenti
appartenenti ai ceti medi e superiori” (ibidem)
416
op.cit., pp. 165-167
417
“Una strategia…più promettente e più importante è quella che punta sulla seconda
serie di problemi, quelli del lavoro, delle condizioni del lavoro e dell’organizzazione del
lavoro. E’ questo un campo molto più concreto nel quale si sono sviluppati risentimenti
e frustrazione profonde, con effetti di retroreazione sugli aspetti convenzionali della
contrattazione tra lavoratori e direzioni. E’ un campo difficile dove comincia a profilarsi
la possibilità d’un cambiamento di fondo. Si sono sviluppati nuovi orintamenti ed
esperimenti, che bisognerebbe incoraggiare e sovvenzionare. All’industria si dovrebbero
dare tutti i possibili incentivi per andare aventi ed attuare gradualmente nuovimento di di
191
dei modi di pensare”418; 7) la “Creazione di nuove istituzioni per
la promozione cooperativa della democrazia”. Secondo i relatori
della Commissione Trilaterale, non era “più possibile…dare per
scontato l’efficace funzionamento dello stato democratico. Le
crescenti richieste e pressioni…e la crisi delle risorse e
dell’autorità a sua disposizione” esigevano “una più precisa
collaborazione”. Doveva pertanto valutarsi “l’opportunità…di
reperire, presso le fondazioni, le società di affari, i sindacati, i
partiti politici, le associazioni civili e, laddove sia possibile e
opportuno, gli uffici governativi, gli appoggi e le risorse
finanziarie per la creazione di un organismo volto al
rafforzamento delle istituzioni democratiche. Lo scopo di tale
organismo” avrebbe dovuto essere “quello di stimolare lo studio
comune dei problemi connessi alla attività della democrazia nelle
organizzazione. E’ l’unico modo di allentare le tensioni che tendono a caratterizzare la
società transindustriale in questo campo e che, per altri versi, alimentano strategie
ricattatrici e nuove pressioni inflazionistiche” (ibidem). È interessante notare come in
quegli anni la Fiat di Giovanni Agnelli, fra l’altro membro della Commissione
Trilaterale e autore dell’Introduzione alla traduzione italiana del Rapporto della
Trilaterale, fosse sul punto di intraprendere una sistematica riconversione delle strutture
produttive aziendali seguendo proprio le linee tratteggiate dal VI campo d’intervento
suggerito dalla Commissione. Questa riconversione, dopo il lungo perido di lotte
sindacali, culminate nell’occupazione di Mirafiori da parte degli operai nel 1973,
sarebbe apparsa in tutta la sua evidenza qualche anno dopo, quando, dopo il
licenziamento dei 61, l’azienda piemontese licenziò molti dei suoi operai, sconfiggendo
anche il Sindacato (e il Partito Comunista) nella dura vertenza sindacale dell’ottobre del
1980. In un’intervista al settimale “Panorama” del 21 marzo 1974 l’allora
amministratore delegato della Fiat Umberto Agnelli aveva concordato, con il fratello
Giovanni, che nella prefazione all’edizione italiana del rapporto della Trilaterale aveva
espresso l’esigenza di sostituire la “cooperazione” alla “conflittualità”, “la apertura di un
dialogo sempre più ristretto con il PCI, la sola forza politica che può disciplinare il
sindacato”. Successivamente Umberto Agnelli manifestava ancora, in un’intervista
rilasciata al quotidiano Il Tempo del 17 gennaio 1976 la propria disponibilità all'incontro
con il Partito Comunista: “Se il PCI è pronto a dare il suo contributo ad un programma
realistico, perché rifiutarlo? Da che posizione poi il PCI dia questo contributo, se
dall'opposizione o dalla maggioranza, poco importa”. Umberto Agnelli è giovane,
avrebbe poi commentato Vittorino Chiusano, consigliere politico della famiglia e
direttore della Fiat per le relazioni estere, “e come tutti i giovani, vuole, come dire,
vivere la vita, credere al suo tempo e alle sue occasioni”. “Certo per luì i comunisti non
sono la stessa cosa che per noi, non sono la storia, sono delle persone con cui oggi si può
lavorare” (La Repubblica, 21 gennaio 1976)
418
M.Crozier, S.P.Huntington, J.Watanuki, La crisi della democrazia, op.cit., pp. 167169
192
società della Trilaterale a utilizzare le esperienze reciproche per
approfondire il modo più efficace di funzionamento della
democrazia nei rispettivi paesi”419. Emergeva quindi la necessità
di un’organizzazione a base sovranazionale, incaricata dello
studio delle soluzioni possibili per fuoriuscire dalla crisi della
democrazia420, intendendo magari “la difesa – come suggeriva
Huntington – di ogni sistema di istituzioni di fronte ad una sfida
posta alle fondamenta di esso…formulata in termini di logica di
conservazione, di inviolabilità e di necessità…a prescindere dal
livello di corrispondenza al carattere prescrittivo di una
qualunque filosofia ideazionale”.
5.6 Dagli “anni delle due S” agli anni ottanta: l’uscita
dalla crisi da sovraccarico della democrazia americana
La crisi della democrazia americana poteva considerarsi
in parte conclusa, secondo Huntington, alla fine degli anni
settanta421.
419
op.cit., p. 169
Oggi non si tende più a parlare di crisi della democrazia come durante gli anni
settanta. Tutt’al più c’è chi, come C.S.Maier, parla di “crisi morali della democrazia”: le
“crisi morali possono far sorgere crisi politiche e sono anche rivelatrici si sintomi
economici caratteristici, anche se non hanno origine in cause economiche. Le
manifestazioni economiche coinvolgono la distribuzione più che la produzione: le crisi
morali sono alimentate da una crescente disuguaglianza dei redditi, di un consumo
febbrile e spesso cospicuo e dalla ricerca frenetica d colpi di fortuna ottenuti con i beni
immobili e con la speculazione finanziaria (C.S.Maier, Crisi morali della democrazia, in
“Parolechiave”, 5, ottobre 1994, Donzelli, pp. 95-96)
421
“Come gli inglesi del 1650, una nazione di profeti divenne ancora una nazione di
negozianti. Una fase nella vita politica degli Stati Uniti era venuta e passata, e la politica
degli ultimi anni settanta non sembrava, almeno in superficie, differire molto dalla
politica degli ultimi anni cinquanta”. Se qualcuno “si fosse addormentato nel 1957 e si
fosse risvegliato nel 1977 avrebbe difficilmente creduto che il paese era passato
attraverso un decennio ‘di assassini e guerre asiatiche, di bizzarre trame politiche e
imputazioni al Presidente, di uomini che passeggiano sulla luna, di fotografie di Marte,
di città che bruciano e dimostrazioni di massa’. Durante questo periodo…il popolo
420
193
L’immediato prodotto di questo lungo periodo di crisi di
“ingovernabilità”, che toccò le sue punte più alte tra il 1967 e il
1975, erano per lo studioso americano “quattro rilevanti
cambiamenti nei ruoli istituzionali”422 che “coinvolgevano le
americano era passato ‘attraverso lo straordinario ciclo dell’emozione pubblica” che
“iniziò con l’euforia (la Nuova Frontiera), si mutò improvvisamente in orrore
(l’assassinio) e in rabbia (il Vietnam), e nello sconcerto (il Watergate) che a sua volta
divenne disgusto quando il periodo delle investigazioni rivelò una corruzione politica
profonda e diffusa, inconcepibile nel 1957’”, (S.P.Huntington, American Politics, op.cit.,
pp. 197-202)
422
“In poco più di un decennio avvennero cambiamenti sostanziali e irreversibili nella
politica, nel governo e nell’educazione del sud. Prima del passaggio della Legge sul
Diritto di Voto (Voting Rights Act) nel 1965, il 29% dei neri eleggibili in sette stati del
sud era registrato al voto, paragonato al 73% di bianchi eleggibili. Dal 1972 un milione
di neri era stato aggiunto alle liste elettorali: il 56% di neri contro il 67% di bianchi. Su
base nazionale, la percentuale di bianchi votanti nel 1956 fu più alta del 42% rispetto
alla percentuale di neri (77% contro il 35%). A partire dal 1976 questa percentuale si
riduceva di 8 punti percentuali (73% contro il 65%). A metà degli anni cinquanta forse
da 100 a 200 neri occuparono una carica elettiva a livello nazionale; a partire dal 1979
circa 4500 bianchi…Gli sforzi di quegli anni per assicurare parità di diritti ad altri gruppi
di americani – indiani, asiatici, donne, omosessuali – diedero risultati meno evidenti.
Questo derivò in parte dal fatto che le violazioni dei diritti civili di questi gruppi non
sembravano essere tanto eclatanti come quelle sopportate dai neri del sud, e in parte dal
fatto che gli sforzi per garantire i diritti civili a questi gruppi seguirono in grande misura
il treno delle campagne per i diritti civili dei neri. Quindi ci fu meno tempo per produrre
risultati paragonabili prima che la passione moralistica per la riforma iniziasse a scemare
e si sviluppassero correnti contrarie. Nel caso più ovvio, l’Emendamento sui Pari Diritti
divenne quasi parte della Costituzione a metà degli anni settanta, essendo stato
approvato dal Congresso e ratificato da 35 stati. A quel punto, comunque, l’opposizione
si mobilitò e arrivò a un punto morto. Gli sforzi di riforma nei settori della politica
militare ed estera presero tre vie. All’inizio ebbero immediato successo gli sforzi per
obbligare gli Stati Uniti a ridurre e poi a terminare la sua partecipazione alla guerra del
Vietnam. L’opposizione alla guerra fu gradualmente alimentata da una massiccia
protesta in aumento tra il 1965 e il 1968; la guerra ebbe chiaramente un ruolo rilevante
nell’elezione di Nixon; e a partire dal 1969 una gran numero di americani si oppose al
coinvolgimento statunitense. La nuova amministrazione cominciò quasi immediatamente
a ridurre gradualmente le truppe americane in Vietnam. L’invasione della Cambogia nel
1970, comunque, riattivò l’opposizione di massa, e a lungo andare portò all’accettazione
da parte degli Stati Uniti di un armistizio e del ritiro dal conflitto. Essa portò, nel 1973,
anche all’emanazione di un atto del congresso che proibiva il coinvolgimento
statunitense in azioni militari nella penisola indocinese, così rimuovendo la sanzione che
sosteneva l’accordo di armistizio del gennaio precedente. Secondo, i riformatori si
muovevano per ridurre le risorse, l’autonomia e l’influenza delle maggiori agenzie
statunitensi – quella militare e quella dei servizi segreti – coinvolte in operazioni
oltremare. Per la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale il Congresso rifiutò di
approvare e ridusse drasticamente i fondi per i grandi programmi di armamento. In
verità, la spesa militare diminuì ogni anno dal 1969 al 1975. La forza del personale delle
forze armate fu ridotta a un livello molto al di sotto rispetto a come era prima del
Vietnam. Anche le risorse dei servizi segreti vennero similmente tagliate. Il terzo
maggiore gruppo di riforme fu diretto verso i processi politici attraverso cui venivano
selezionati i pubblici ufficiali e si prendevano le decisioni di governo. Gli obiettivi
194
istituzioni politiche centrali della società” ed erano al tempo
stesso “rappresentativi del tipo di cambiamento che avvenne in
quegli anni”. Queste quattro trasformazioni erano nell’ordine:
l’“aumento delle funzioni e del potere dei media e del Congresso
e il parallelo declino del potere e delle funzioni dei partiti politici
e della presidenza”423.
Inoltre l’“ondata di democrazia partecipativa e di
egualitarismo abbassò gravemente, quando non distrusse, la
probabilità che ognuno in ogni istituzione potesse dare un ordine
a qualcun altro ed essere prontamente obbedito. Questa
situazione cominciò a cambiare alla fine degli anni ‘70, e
l’autorità della presidenza potè essere ripristinata424, restaurando
l’“autorità all’interno delle altre istituzioni…con la ricostruzione
di matrici complesse di relazioni personali e obblighi tra i
capi”425.
primari sia a livello statale che nazionale erano i partiti politici e le elezioni, le
legislature e la burocrazia” (op.cit., p. 208)
423
op.cit., p. 211
424
“L’immediata eredità degli anni delle due S rispetto alle attitudini pubbliche fu così
un alto livello di sfiducia nel governo e di convinzioni relativamente profonde che poco
poteva essere fatto per correggere quella situazione. Finché gli americani percepivano il
loro governo come deviante dai loro ideali rispetto a cosa il governo dovesse essere, essi
erano, per forza, indirizzati verso un responso sia moralistico che cinico. Finché
rimanevano moralmente esauriti per le passioni degli anni delle due S, essi erano, per
forza, inclinati al cinismo. Tuttavia gli esseri umani vogliono anche una guida,
un’autorità, qualcuno che li diriga, e alla fine degli anni settanta cominciò ad emergere
questo desiderio. I commentatori politici e i critici sociali iniziarono a criticare le
operazioni di separazione dei poteri e altri meccanismi costituzionali per dividere e
limitare il potere. Ci fu un crescente sentimento che il Presidente allora in carica li
avesse abbandonati per non aver fornito una tale guida. Jimmy Carter era stato eletto
Presidente nel 1976 in parte perché si era appellato al bisogni degli americani in quel
momento di una personalità irreprensibile e che fosse lontano da ciò che stava accadendo
a Washington. Fu sconfitto alla rielezione del 1980 in parte perché il popolo allora
voleva un Presidente che non fosse solo virtuoso ma anche energico e deciso. Abbiamo
‘ansimato per un capo’, come disse un giovane membro del Congresso nel 1980, ma ‘la
pecora affamata cercava e non veniva nutrita’. La diminuzione del potere del Presidente
divenne uno dei maggiori motivi di preoccupazione” (op.cit., p. 215)
425
“Una guida nazionale forte e responsabile richiede una rete di piccoli tiranni. Le
proteste, la denuncia, le riforme, e il riallineamento degli anni delle due S
sostanzialmente lacerarono quella rete. Creare un’altra rete simile è un processo
complesso. Finché ciò non accade, il divario tra la guida che il popolo desidera e la
195
La
causa
principale
dell’esaurimento
dell’ondata
democratica andava ricercata per Huntington negli alti livelli di
partecipazione politica raggiunti a cavallo tra la prima e la
seconda metà degli anni settanta, che nel lungo periodo, di fronte
ad un apparato governativo capace di resistere alla “pressione
democratica”, generarono la loro stessa riduzione e il riflusso
della contestazione: “Alla fine, la dilagante denuncia contribuì a
minare l’impeto della riforma e fece in modo che il popolo si
adattasse alla penetrazione e all’inevitabilità degli esistenti
modelli di comportamento. Nella dinamica degli anni delle due S,
in breve, il moralismo produsse la protesta, la protesta contro i
mali ovvi produsse il cinismo, il quale eliminò la motivazione sia
della protesta che della denuncia”426
guida che il sistema permette discrediterà ulteriormente chi governa e, in un circolo
vizioso, renderà sempre più difficile per loro agire” (ibidem)
426
“Alla fine degli anni settanta, le percezioni sfavorevoli sul governo rimanevano, ma
l’impulso ad intraprendere un’azione correttiva era scomparso. Come altri periodi di
passione ideologica, gli anni delle due S lasciarono uno strato di organizzazioni – gruppi
di interesse pubblico, gruppi ambientali, gruppi di donne, organizzazioni di minoranze, e
simili – che in qualche misura istituzionalizzarono più alti livelli di coscienza e attività
politica di quelli antecedenti agli anni sessanta. Negli anni settanta, comunque,
l’intensità e la portata dell’attrattiva di queste organizzazioni declinò dai picchi che
aveva toccato solo pochi anni prima. L’indignazione si esaurì. L’impeto per la denuncia
e la riforma scemò. La partecipazione e l’interesse politico calarono. A dimostrazione
del cambiamento fu il fatto che mentre il 58% delle matricole di college nel 1966
sosteneva che ‘mantenersi aggiornati in politica’ era ‘essenziale’ o ‘molto importante’,
nel 1978 solo il 37% rispondeva similmente. L’efficacia politica del popolo americano –
cioè la loro fiducia nella loro abilità ad influenzare il processo politico – decadde.
L’alienazione e l’apatia condussero al cinismo. A partire dalla fine degli anni settanta il
popolo si sentì disilluso rispetto alla possibilità di una società che riformasse il governo.
Era disilluso anche rispetto alla possibilità di un governo che migliorasse la società. Il
cambiamento nel sentire del paese nel 1976 fu colto da Jimmy Carter (ex-governatore
della Georgia e membro della Commissione Trilaterale n.d.a.) nella sua campagna con
l’enfasi sulla moralità, l’onestà, e l’integrità da un lato (che si appellava agli elementi
permanenti di moralismo nella vena americana) e con l’enfasi sui limiti dell’azione di
governo dall’altro (che rifletteva le nascenti correnti di cinismo e indifferenza). Questo
paese merita, disse Carte, “un governo buono come il suo popolo” (e, implicitamente,
buono, come il suo popolo crede che debba essere), tuttavia allo stesso tempo egli
previde un governo che non avrebbe fatto, e non poteva fare, molto bene per il popolo.
“Speranze umiliate” fu la frase chiave di quel periodo.Il clima politico degli ultimi anni
settanta si distingueva per il crescente ascendente dei conservatori, per le attitudini antigoverno tra il pubblico in generale e per le idee conservatrici e anti-governo tra l’élite
intellettuale” (op.cit., pp. 216-217)
196
Gli “anni delle due S” lasciavano così “gli Stati Uniti con
una società più equa, una politica più aperta, un pubblico più
cinico, e un governo meno autoritario ed efficiente” e un
“popolo” posto di fronte a “sfide interne e estere che
richiedevano l’esercizio del potere”427, nonché la sua indiscussa
legittimazione428.
6. Lo “scontro delle civiltà”
427
ibidem
In occasione del ventesimo anniversario, la Commissione Trilaterale è tornata sul
tema della democrazia, partendo proprio dal rapporto del 1975 con l’intento di verificare
se si potesse ancora oggi parlare di “crisi” o di “ingovernabilità” delle democrazie
occidentali. La risposta del nuovo rapporto, discusso nella riunione di Copenhagen del
22-24 aprile 1995 e firmato da R.D.Putnam, J.-C.Casanova, S.Sato, tende,
contrariamente a quello di Huntington, Crozier e Watanuki, a sottolineare la “rinascita”
della democrazia nei paesi della trilaterale. Tant’è vero che il titolo del rapporto, alla cui
stesura hanno partecipato anche S.P.Huntington, R.A.Dahl, G.Sartori, T.Skocpol, è
appunto Revitalizing Trilateral Democracies, Trilateral Commission, New York,
April/October 1995). In particolar modo Putnam sottolinea come “In historical
perspective, the sense of crisis that permeated the volume (drafted during 1974 and
debated at the May 1975 Plenary Session) can be seen as reflecting the confluence of
two factors: 1. the surge of radical political activism that swept the West in the 1960s,
beginning with campus protests in the United States about civil rights and the Vietnam
War and then echoed in such far-flung and momentous episodes as the events of May
1968 in France and the ‘Hot Autumn’ later thet year in Italy; and 2. the economic
upheavals triggered by the oil crisis of 1973-74 that were to engender a decade and more
of higher inflation, slower growth, and worsening unemployment” (R.D.Putnam, J.C.Casanova, S.Sato, Revitalizing Trilateral Democracies, op.cit., p. 2). Ciò ha
significato che “Two decades later is an opportune time for the Commission to revisit
the issue of the performance of our democratic institutions. The intervening twenty years
have witnessed many important developments in our domestic societies, economies, and
polities, as well as in the international setting” (ibidem): “Most dramatic of all, of
course, was the end of the Colf War, symbolized by the fall of Berlin Wall in 1989”;
“Economically, the two decades since the Crozier-Huntington-Watanuki volume have
been distinctively less happy than the twenty years preceding it”; “Although
‘interdipendence’ was already widely discussed in the early 1970s, the integration of the
world economy has continued at a rapid pace in the succeeding two decades.
International trade has grown faster than gross domestic product, and foreign investment
has grown more rapidly than either”; “Socially and culturally, these two decades have
seen significant change in all our countries. Traditional family and community ties have
been eroded, partly by increased mobility and partly by growing individuation”; Infine
“Political change in the last two decades is a pervasive theme of the present study. One
element, however, deserves special emphasis at the outset. When our predecessors
wrote, citizens in the Trilateral world were still primarily concerned about ‘market
failure’ – in sectors as diverse as social services, culture, and the environment – and the
demand for government intervention to redress those failures was ascendant” (op.cit., pp.
3-6). Ringrazio M.P.Révay per avermi concesso la possibilità di consultare direttamente
il rapporto del 1995.
428
197
6.1 Lo scontro delle civiltà nella recente opera di S.P.
Huntington
Quale sarà il futuro geopolitico del pianeta? E’ una domanda
cui molti studiosi sono stati sottoposti dai più recenti avvenimenti
che, dall’attacco terroristico alle “Torri gemelle” di New York,
giungono sino allo stato di guerra tuttora in corso in Afghanistan.
A questo tema Huntington aveva già dedicato un articolo, “The
Clash of Civilizations?”, apparso su Foreign Affairs nell’estate del
1993, succesivamente diventato un vero e proprio libro: The Clash
of Civilizations and the Remaking of World Order, omettendo
questa volta il punto interrogativo, uscito nel 1996 e tradotto in
Italia l’anno successivo429. Con questo lavoro lo studioso americano
429
Quest’ultimo lavoro di Huntington conferma la preferenza del suo autore per gli
argomenti di geopolitica, disciplina che, nata a cavallo tra il XIX e il XX secolo, sta
vivendo proprio in questi ultimi anni un improvviso risveglio. Molte sono state infatti le
opere recentemente pubblicate; da Le dictionnaire de géopolitique, a cura di Yves
Lacoste (Flammarion, Paris, 1993) all’ Introduzione alla geopolitica di Philippe Moreau
Defarges (Il Mulino, Bologna 1996). Inoltre alcuni degli aspetti trattati nell’opera di
Huntington sono stati affrontati anche da Zbigniew Brzezinski: Il mondo fuori controllo.
Gli sconvolgimenti planetari all’alba del XXI secolo (Grazanti, Milano 1993).
Brzezinski delinea infatti un “ovale di violenza”, cioè un “vortice geografico” dove le
civiltà si scontrano. Terreno del futuro confronto fra le civiltà sarebbe appunto l’Asia.
Inoltre Brzezinski pone in evidenza come il mondo occidentale, scampato ai metamiti
del ‘900, si trova ora ad affrontare una nuova crisi dovuta ad un eccesso di consumi
economici che determina uno stile di vita che Brzezinski definisce della “cornucopia
permissiva”. Il carico di consumi cui dà luogo non solo sta facendo perdere all’occidente
la propria identità culturale, ma attira anche su di sé “l’invidia” della restante
popolazione del paese che si trova invece a vivere in condizioni di miseria estrema.
Inoltre il sistema internazionale é caratterizzato da una pluralità di poteri che si
dispongono sopra una scacchiera priva di re e regine, ma dove agiranno in futuro una
molteplicità di raggruppamenti che Brzezinski identifica con i gruppi: Nordamericano,
dominato dagli Stati Uniti e organizzato sulla base dell’ Area di Libero Mercato
Nordamericano (NAFTA); Europeo, probabilmente integrato sul piano economico a
quello Nordamericano, ma la cui zona di dipendenza comprenderebbe sia l’Europa
Orientale, sia gran parte dell’Africa; Asiatico orientale, economicamente dominato dal
Giappone, ma privo di strutture politiche e di sicurezza confacenti, e quindi
potenzialmente soggetto a tensioni regionali, in particolar modo con la Cina; Asiatico
meridionale, la cui potenza regionale egemone sarebbe l’India; Musulmano, che, fatta
eccezione per Israele, si estenderebbe dal Nordafrica al Medio Oriente; un probabile
raggruppamento EuroAsiatico, dominato dalla Russia. Una potenza che, per Brzezinski,
potrebbe diventare egemone scalzando definitivamente l’Occidente è certamente la Cina,
198
intendeva “presentare un modello interpretativo dello scenario
politico mondiale che risulti valido per gli studiosi ed utile per i
politici.”430
La tesi di fondo del lavoro431 ritiene che “la cultura e le identità
culturali – che a livello più ampio corrispondono a quelle delle
rispettive civiltà – siano alla base dei processi di coesione,
disintegrazione e conflittualità che caratterizzano il mondo postGuerra fredda”432 e che “l’elemento centrale e più pericoloso dello
scenario politico internazionale che va delineandosi oggi è il
crescente conflitto tra gruppi di diverse civiltà.”433 .
Huntington
ritiene
infatti
che
sotto
la
spinta
della
modernizzazione la politica planetaria si stia ristrutturando secondo
linee culturali434 e che per “la prima volta nella storia435, lo scenario
la quale sta proponendo un sistema capace di coniugare l’efficienza economica
capitalistica e centralizzazione del controllo politico. Il richiamo al comunismo e ad un
ideale di giustizia sociale farebbe inoltre della Cina un referente mondiale di primo piano
per tutti quei popoli che ora vivono in condizioni di estremo disagio
430
S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, op.cit., p 8
431
Già in passato Huntingon aveva cercato di delineare i tratti di un futuro “ordinamento
modiale”, privo della guida statunitense, durante un intervento alla Commissione per
l’anno 2000. Questo gruppo era stato costituito durante gli anni ’60 dall’American
Academy of arts and Sciencies con lo scopo di “indicare le conseguenze future
della…politica pubblica”. Nel corso del suo intervento aveva sostenuto che “proprio
come l’influenza americana ha sostituito quella europea, così nell’ultimo quarto del
secolo la potenza anericana comincerà a declinare, e altri paesi si muoveranno per
riempier il vuoto. Tra quelli che assumeranno un ruolo preminente vi saranno la Cina
nell’Asia continentale, l’Indonesia nel Sudest asiatico, il Brasile nell’america Latina, e
qualcun altro in Medio Oriente e in Africa” (S.P. Huntington, Sviluppo politico e declino
del sistema americano di ordine mondiale, AA.VV., Prospettive del 21° secolo, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 1962, p.419)
432
S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, p 14
433
op.cit., p 7
434
“Durante la Guerra fredda, il quadro politico mondiale divenne bipolare e il mondo si
divise in tre parti. Un gruppo di società più ricche e democratiche, guidate dagli Stati
Uniti, entrò in forte competizione…con un gruppo di società comuniste più povere,
capeggiate dall’Unione Sovietica. Gran parte di tale conflitto si consumò al di fuori di
questi due campi, nel Terzo Mondo, costituito da paesi spesso poveri, politicamente
instabili, di recente indipendenza e che si definivano non allineati. Alla fine degli anni
Ottanta del Novecento l’universo comunista è crollato, e il sistema internazionale
caratteristico della Guerra fredda è entrato a far parte della storia. Nel mondo postGuerra fredda, le principali distinzioni tra i vari popoli non sono di carattere ideologico,
politico o economico, bensì culturale” (op.cit., p. 16)
435
“Nel mondo post-Guerra fredda, la cultura è dunque, secondo questo tipo di visione,
“una forza al contempo disgregante e aggregante. Popolazioni divise dall’ideologia ma
199
politico mondiale appare a un tempo multipolare e caratterizzato da
un alto numero di civiltà diverse”436
Non solo, ma contemporaneamente al mutamento degli equilibri
di potere tra le varie civiltà, “l’influenza relativa dell’Occidente”
starebbe invece calando di fronte alle “civiltà asiatiche (che invece)
accrescono la loro forza economica, militare e politica” e a un
“mondo islamico” che “vive un’esplosione demografica con
conseguenze destabilizzanti per i paesi musulmani e i loro
vicini”437.
In questo modo, i recenti processi di modernizzazione, indicati
dalla gran parte degli studiosi con il concetto di “globalizzazione”
condurrebbero a “un ordine mondiale fondato sul concetto di
‘civiltà’” in cui “società culturalmente affini tendono a cooperare tra
loro” e “i vari paesi si raccolgono intorno agli stati guida della
propria civiltà”.
Dinanzi a questo tipo di realtà l’Occidente, “con le sue pretese
universalistiche” sta invece entrando sempre più in conflitto con
altre civiltà, in particolare con l’Islam e la Cina, “mentre a livello
locale lo scoppio di guerre tribali, soprattutto tra musulmani e non
musulmani, provoca la ‘chiamata a raccolta dei paesi fratelli’”,
innescando “il pericolo di un’espansione del conflitto”. La
sopravvivenza dell’Occidente438 dipenderebbe pertanto, secondo
culturalmente omogenee vengono a unificarsi…Società unite dall’ideologia o da
circostanze storiche ma appartenenti a differenti civiltà finiscono viceversa con lo
sgretolarsi, com’è accaduto all’Unione Sovietica, alla Jugoslavia, alla Bosnia, oppure
sono scosse da violente tensioni, come ad esempio in Ucraina, Nigeria, Sudan, India, Sri
Lanka” (op.cit., p. 24)
436
op.cit., p. 15
437
ibidem
438
“L’Occidente è e resterà per gli anni a venire la civiltà più potente. Il suo potere in
relazione a quello di altre civiltà, tuttavia, si va progressivamente riducendo. Dinanzi al
tentativo occidentale di imporre i propri valori e proteggere i propri interessi, le società
non occidentali si trovano a un bivio. Alcune tentano di emulare l’Occidente e di unirsi o
allearsi a esso. Altre società, come quelle confuciane o islamiche, tentano di espandere il
proprio potere economico e militare al fine di contrapporsi all’Occidente. Un elemento
200
Huntington, dalla volontà degli Stati Uniti di confermare la propria
identità occidentale, e dalla capacità degli occidentali di accettare la
propria civiltà come qualcosa di peculiare, unendo le proprie forze
per rinnovarla e proteggerla dalle sfide provenienti dalle società non
occidentali.
Questa è la tesi di fondo dell’opera di Huntington che al
momento, sull’onda di quanto accaduto a New York, sembrerebbe
fornire il paradigma interpretativo di riferimento per tutti coloro che
immaginano una futura resa dei conti globale tra opposte culture439.
6.1.1 Il ruolo della modernizzazione nello scontro delle civiltà
Nella
prospettiva
di
Huntington,
la
riorganizzazione
geopolitica del pianeta sulla base delle civiltà è il prodotto degli
effetti della modernizzazione socio-economica sulle civiltà non
occidentali440. Lo sviluppo economico avrebbe causato, da una
chiave del quadro politico mondiale post-Guerra fredda diventa quindi l’interazione tra
potere e cultura occidentale da un lato e potere e cultura delle civiltà non occidentali
dall’altro. In sintesi, il mondo post-Guerra fredda è un mondo composto da sette o otto
grandi civiltà. Le affinità e le differenze culturali determinano gli interessi, gli
antagonismi e le associazioni tra stati. I paesi più importanti del mondo appartengono in
grande prevalenza a civiltà diverse. I conflitti locali con maggiori probabilità di
degenerare in guerre globali sono quelli tra gruppi e stati appartenenti a civiltà diverse. Il
modello dominante di sviluppo politico ed economico varia da una civiltà all’altra. I
principali nodi da sciogliere nel campo della politica internazionale riguardano le
differenze tra le varie civiltà. Il potere sta passando dalle tradizionali civiltà occidentali
alle civiltà non occidentali. Lo scenario politico mondiale è diventato multipolare e
caratterizzato da più civiltà” (op.cit., p. 25)
439
Recentemente, in un articolo per il Sole 24h, Alain Touraine ha sottolineato come il
libro di Huntington “rappresenti un totale allontanamento dai principi che fino a questo
momento hanno dominato negli Stati Uniti. Questo paese ha infatti difeso i principi di
crescita e di sviluppo, non solo come un insieme di indici economici, ma partendo da
un’immagine universale del mondo in base alla quale, nonostante la diversità dei
percorsi, tutti i Paesi avrebbero dovuto modernizzarsi, ossia...organizzare un'’conomia di
mercato, instaurare una democrazia rappresentativa e dar prova di tolleranza culturale”
(A.Touraine, Globalizzazione alla prova dei conflitti, in “Il Sole 24 Ore”, 8 gennaio
2002, n. 7, p. 9)
440
In un’intervista rilasciata nel 1998 alla rivista francese Construire, Huntington faceva
notare che “il ne faut pas confondre ce phénomène de globalisation économique et
201
parte, una loro generale crisi di identità e, dall’altra, essendo stati i
paesi del Terzo mondo il terreno di guerra per eccellenza delle due
“Superpotenze”, una crescita esponenziale del potere economico,
militare e politico441.
In altri termini, le società non occidentali sarebbero state in
grado di modernizzarsi, mantenendo intatta la propria civiltà,
trasformando poi i propri valori in veri e propri strumenti di
propaganda anti-occidentale, in un mondo che, per Huntington, “sta
diventando più moderno e meno occidentale”442.
Quali sono gli effetti della modernizzazione sullo scontro tra
le civiltà ?
Huntington colloca tra gli effetti della modernizzazione
quello della crescita demografica che porterebbe alla formazione di
uno
strato
sociale
composto
prevalentemente
da
giovani
disoccupati, disposti più di tutti a emigrare nei paesi occidentali,
portando con sé il proprio sistema di valori ostile all’Occidente. A
tale fenomeno si combinerebbe poi la crescente insoddisfazione per
le condizioni economiche, politiche e sociali, nonché la rottura dei
legami e dei vincoli comunitari, contribuendo a fare di questi gruppi
di giovani il punto di riferimento ideale per tutti quei movimenti che
fanno della religione un forte collettore di identità.
Ma il legame tra modernizzazione e “scontro”, nella
prospettiva di Huntington, è ancora più evidente se si considera la
modernizzazione nella sua dimensione tecnologica: infatti lo
studioso statunitense mette più volte in evidenza come la possibilità
dello scontro tra civiltà sia aumentato soprattutto a causa della
technologique avec une intégration, par les pays non occidentaux, de nos valeurs
occidentales » (J.-F.Duval, Huntington : La victoire de l’Occident est un mythe ! , in
“Construire”, n.7, 10 febbraio 1998)
441
S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà, op.cit., p. 102
442
op.cit., p. 105
202
crescente interazione tra le civiltà stesse, dovuta in particolar modo
agli enormi passi avanti compiuti nel campo delle comunicazioni e
della telematica.
Ancora una volta è evidente in Huntington il legame esistente
tra
modernizzazione,
crescita
della
coscienza
politica
e
mobilitazione della stessa da parte di quei gruppi interessati a
trasformare
radicalmente
aumentando
e
gli
generalizzando
assetti
la
socio-politici
conflittualità
vigenti,
insita
negli
ordinamenti, sia nazionali che internazionali. In questo caso, però, il
paradigma interpretativo elaborato da Huntington non si applica più
all’interno della stessa civiltà, ma ai rapporti internazionali tra le
stesse; la posta in gioco non è più la conservazione o meno di un
sistema politico e delle sue capacità istituzionalizzanti, ma la difesa
della civiltà e del suo pacifico interagire con le altre; il rischio non
risiede più nella rivoluzione o nel precipitare della società nel
pretorianesimo, ma in un nuovo conflitto mondiale e nella catastrofe
nucleare che ne conseguirebbe; la soluzione suggerita, infine, non
consiste più nell’emersione di un’istanza dominativa sovrana a
difesa dei rapporti di dominio, ma in una civiltà Occidentale che,
consapevole della propria peculiarità e dei propri limiti, rifluisca
entro i suoi confini, accettando un ordine mondiale caratterizzato da
una ripartizione al plurale delle risorse del pianeta.
6.1.2 Dalla Civiltà al singolare alla civiltà al plurale
203
Per Huntington, la “storia umana è storia delle civiltà” e
pensarla diversamente sarebbe del tutto impossibile443 .
Che cosa intende Huntington per civiltà e quali sono le sue
caratteristiche distintive ?
Una civiltà rappresenta “il più vasto raggruppamento culturale
di uomini ed il più ampio livello di identità culturale che l’uomo
possa raggiungere dopo quello che distingue gli esseri umani da
altre specie”. Essa viene definita “sia da elementi oggettivi comuni,
quali la lingua, la storia, la religione, i costumi e le istituzioni, sia
dal processo oggettivo di autoidentificazione dei popoli. La civiltà
di appartenenza è insomma per un uomo “il livello di
identificazione più ampio al quale aderisce strettamente…il più
ampio ‘noi’ di cui ci sentiamo culturalmente parte integrante in
contrapposizione a tutti gli altri ‘loro’”444. In quest’ottica le civiltà
“non hanno confini nettamente delimitati, non hanno un inizio e una
fine precisi”, anche se poi l’uomo “è in grado di ridefinire – e lo fa –
la propria identità”. Secondo questo modello le “culture dei popoli
interagiscono e si sovrappongono, di modo che anche il livello di
somiglianza o diversità tra le culture delle singole civiltà può variare
considerevolmente”. Ciò nonostante, “le civiltà sono entità
estremamente rilevanti e i confini che le separano, benchè raramente
ben definiti, sono confini reali”445
Le caratteristiche peculiari di ogni civiltà sono per Huntington:
“Primo…una distinzione tra ‘la civiltà’ al singolare e ‘le civiltà’ al
plurale”.
Il concetto di “civiltà al singolare” venne elaborato per lo
studioso americano dagli intellettuali europei del XIX secolo per
443
op.cit., p. 43
op.cit., p. 48
445
op.cit., p. 49
444
204
essere poi utilizzato come criterio di modernizzazione culturale nei
confronti dei popoli con cui l’imperialismo europeo stava entrando
in contatto. Tant’è vero che i sistemi di valore delle popolazioni
conquistate non avevano diritto ad assurgere al rango di civiltà,
essendo invece considerate come primitive fintanto che non
avessero adottato pienamente il portato della cultura europea446.
Durante il XX secolo, soprattutto nel corso della sua seconda
metà, “si cominciò sempre più spesso a parlare di civiltà al plurale.
Ciò significò…l’abbandono del presupposto che esistesse un unico
metro di giudizio per stabilire cosa fosse civile…Esistevano invece
molte civiltà, ciascuna delle quali civilizzata a suo modo”.
Una seconda caratteristica della civiltà, evidenziata da
Huntington,
mostra
come
essa
sia
“sempre
un’identità
culturale…Civiltà e cultura fanno entrambe riferimento allo stile di
vita generale di un popolo, e una civiltà non è altro che una cultura
su larga scala”447. Oltretutto, fra tutti “gli elementi formali che
446
“Il concetto di civiltà fu sviluppato dai pensatori francesi del XVIII secolo in
contrapposizione a quello di ‘barbarie’. . la società civilizzata si distingueva dalla società
primitiva per il suo carattere stanziale, urbano e colto. Essere civili era bene, essere
incivili era male. Il concetto di civiltà fu eletto a metro di giudizio delle società, e nel
corso del XIX secolo gli stati europei profusero grandi sforzi intellettuali, diplomatici e
politici per stabilire dei criteri in base ai quali decretare le società non europee non
sufficientemente ‘civilizzate’ da poter essere ammesse nel sistema internazionale da essi
dominato” (op.cit., p. 45)
447
op.cit., pp. 45-46
205
definiscono le civiltà”, i più importanti448 sono “generalmente la
religione”449 e la lingua.
Inoltre nessuna cultura, ed è questa la terza caratteristica di una
civiltà, “può essere compresa appieno senza riferimenti concreti alle
civiltà di cui è parte”. Una civiltà sarebbe, insomma, una
“totalità”450 che trova in se stessa le ragioni e le radici della propria
esistenza.
Dopodichè anche le “civiltà muoiono, ma hanno…una vita
molto lunga; si evolvono, si adattano, e sono le più durature tra tutti
i tipi di associazione tra uomini…le civiltà si evolvono. Sono entità
dinamiche, fioriscono e deperiscono, si fondono e si dividono, e
come sanno molti studiosi di storia, possono anche scomparire e
finire seppellite dalla sabbia del tempo”451
Infine, in “quanto entità culturali e non politiche, le civiltà non
provvedono di per sé a mantenere l’ordine, amministrare la
giustizia, raccogliere tasse, combattere guerre, negoziare trattati o
assolvere le altre incombenze solitamente espletate dai governi. La
composizione politica delle civiltà varia da caso a caso e si modifica
448
“Tra le maggiori religioni del mondo nessuna nasce in Occidente e tutte, nella
maggior parte dei casi, sono antecendenti a esso. Via via che il mondo esce dalla sua
fase occidentale, le ideologie che hanno caratterizzato l’epoca più recente di queste
civiltà tendono a declinare e il loro posto è preso dalle religioni e da altre espressioni
culturali di identità e di appartenenza…Lo scontro di ideologie sviluppatosi nell’ambito
della civiltà occidentale sta lasciando il posto a uno scontro di culture e di religioni tra
civiltà diverse. La geografia politica mondiale è passata dall’unico mondo del 1920 ai tre
mondi degli anni Sessanta agli oltre sei mondi degli anni Novanta. Parallelamente, gli
imperi occidentali universali del 1920 si sono ridotti al ben più circoscritto ‘Mondo
libero’ degli anni Sessanta (comprendente molti stati non occidentali avversari del
comunismo), e quindi all’ancor più ristretto ‘Occidente’ degli anni Novanta” (op.cit., p.
66)
449
“Quasi tutte le maggiori civiltà nella storia dell’umanità sono state strettamente
identificate con le grandi religioni del mondo, e popolazioni di uguale lingua ed etnia ma
di diversa religione possono benissimo massacrarsi a vicenda, com’è accaduto in Libano,
nell’ex Jugoslavia e in India” (op.cit., p. 47)
450
op.cit., p. 47
451
op.cit., p. 49
206
altresì nel tempo all’interno di ciascuna di esse. In tal modo, una
civiltà può contenere una o più entità politiche”452
Sulla base dei criteri appena esposti, Huntington individua
cinque grandi civiltà: Sinica, risalente al 1500 a.C., Giapponese
(100-400 d.C.), Indù (1500 a.C.), Islamica (VII secolo d.C.) e
Occidentale453 (700-800 d.C). Non considera una vera e propria
civiltà quella Africana, in quanto il “nord e la costa orientale del
continente africano appartengono alla civiltà islamica. L’Etiopia ha
tradizionalmente costituito una civiltà a sé”, mentre altrove,
“l’imperialismo e la colonizzazione europea hanno introdotto
elementi della civiltà occidentale”454
Rispetto alle altre civiltà, quella occidentale ha inoltre ampliato
considerevolmente i suoi confini grazie all’imperialismo che, tra il
XIX e il XX secolo, gli ha permesso di estendere il proprio dominio
su gran parte della terra.
Durante la prima metà del XX secolo, l’espansione della civiltà
occidentale aveva di fatto eliminato quelle precolombiane,
sottomesso le popolazioni mussulmane e africane e posto sotto la
propria influenza la civiltà cinese. Soltanto la civiltà russa e quella
giapponese sono di fatto riuscite a resisterle455.
452
op.cit., p. 50
“L’Occidente, dunque, comprende l’Europa, il Nord America, più altri paesi a forte
colonizzazione europea quali l’Australia e la Nuova Zelanda…Il termine ‘l’Occidente’
viene oggi universalmente impiegato per indicare quella che una volta si soleva definire
Cristianità occidentale. Quella occidentale è dunque l’unica civiltà identificata da un
punto cardinale anziché dal nome di un particolare popolo, religione o area
geografica…Il termine ‘Occidente’ ha inoltre generato il concetto di
‘occidentalizzazione’, promuovendo un’ingannevole sinonimia tra occidentalizzazione e
modernizzazione” (op.cit., pp. 53-55)
454
op.cit., p. 55
455
“Nel XX secolo, i rapporti tra le varie civiltà sono…passati da una fase caratterizzata
dall’influenza unidirezionale di una civiltà su tutte le altre a una serie di interazioni
variegate e multidirezionali tra tutte le civiltà…In primo luogo…l’‘espansione
dell’Occidente’ è terminata, ed è iniziata la ‘rivolta contro l’Occidente’. Seppur in modo
lento, con pause e inversioni di rotta, il potere dell’Occidente è diminuito in rapporto a
quello di altre civiltà…L’Occidente ha continuato a esercitare un’influenza significativa
su altre società, ma i rapporti tra la civiltà occidentale e le altre civiltà sono stati sempre
453
207
Come risultato di tali sviluppi, “il sistema internazionale si è
espanso oltre i confini occidentali e ha inglobato in sé una pluralità
di civiltà”456, ridefinendo a sua volta quella Occidentale, ossia
unendone le sue due componenti principali, Europa e Nord
America, in un unico “stato universale”, tenuto insieme da “una rete
straordinariamente
fitta
di
vincoli
istituzionali
formali
e
informali”457
Il modello elaborato da Huntington si propone dunque di
delineare un assetto geo-politico suddiviso in diverse civiltà,
ammettendo come un “simile approccio” non sacrifichi affatto “il
realismo alla norma come fanno i modelli del mondo unico o dei
due mondi” ovvero “la norma al realismo, come fanno i modelli
statalista e del caos”. Esso offre all’opposto “una cornice
concettualmente semplice per comprendere il mondo”458. In altri
termini, Huntington evidenzia come il suo modello comprende, e al
contempo supera le altre teorie in quanto riesce a includere e
spiegare tutte quelle tendenze considerate rilevanti nella definizione
di uno scenario mondiale, quali ad esempio: l’esistenza di un
“impulso all’integrazione”, sostenuto dalle teorie che “predicano”
l’avvento di un “mondo unico”459; la suddivisione del pianeta in un
Nord e Sud in lotta fra loro, proposto dalle teorie “dei due mondi”;
la persistenza degli stati nazionali come attori rilevanti della politica
internazionale, difesa dalle teorie stataliste; l’“anarchia” infine della
situazione mondiale, come risultato dei più pericolosi conflitti tra
stati o gruppi appartenenti a civiltà diverse.
più caratterizzati dalle reazioni degli occidentali agli sviluppi occorsi in tali civiltà.
Lungi dall’essere semplicemente oggetti passivi di una storia forgiata dall’Occidente, le
società non occidentali stanno diventando in misura sempre maggiore, artefici e
protagoniste tanto della propria storia quanto di quella dell’Occidente” (op.cit. p. 64)
456
op.cit., p. 65
457
op.cit., p. 65
458
op.cit., p 37
208
Come si sviluppano le identità collettive e il processo di
identificazione di un popolo? Per Huntington “Popoli e nazioni
tentano di rispondere alla più basilare delle domande che un essere
umano possa porsi: chi siamo? E lo fanno..facendo riferimento alle
cose che per lui hanno maggiore significato”. Pertanto l’uomo si
definisce per lo studioso di Harvard “in termini di progenie,
religione,
lingua,
storia,
valori,
costumi
e
istituzioni”,
identificandosi “con gruppi culturali”, quali “tribù, gruppi etnici,
comunità religiose, nazioni e, al livello più ampio, civiltà”460.
L’identità e il processo di identificazione paiono dunque legati
per il politologo americano al concetto di ethnos, senza che
quest’ultimo prenda però in considerazione altri fattori, propri
dell’identità di una civiltà, come l’ideologia politica, anch’essa
importante elemento di orientamento culturale.
Per Huntington, inoltre, “sappiamo chi siamo solo quando
sappiamo chi non siamo e spesso solo quando sappiamo contro chi
siamo”461. In tal caso sembrerebbe quasi inevitabile che durante il
proprio processo di identificazione, un individuo, e una collettività,
siano costretti a passare lungo una fase di confronto/scontro con
l’altro-da-se.
Come si strutturano al loro interno le civiltà?
Ciacuno stato appartenente a una civiltà si definisce innanzitutto
in qualità di “Stato membro”, cioè “paese pienamente identificato
dal punto di vista culturale con una civiltà”. Dopodiché è possibile
per Huntington stabilire una vera e propria classificazione
all’interno della civiltà stessa. Abbiamo quindi “Stati guida”, vale a
dire gli “stati più potenti e culturalmente più influenti”.
459
ibidem
op.cit., p. 16
461
ibidem
460
209
Momentaneamente essi sono la Cina per la civiltà sinica, l’India per
l’Indù, la Russia per l’Ortodossa, “gli Stati Uniti” e l’“asse francotedesco…con la Gran Bretagna nel ruolo di centro di potere
aggiunto” per quella Occidentale. Per quanto rigurda invece l’Islam
non si può parlare di un vero e proprio stati guida, ma di stati fra
loro in competizione per la conquista di tale titolo462.
Ci sono poi “Paesi isolati”, vale a dire paesi privi “di legami
culturali con altre società”, come l’Etiopia e il Giappone463, che da
soli costituiscono vere e proprie civiltà distinte rispetto a tutte le
altre.
Un “Paese diviso” é al contrario “un paese che presenta ampi
raggruppamenti sociali appartenenti a civiltà diverse”. In questa
tipologia di stati Huntington ricomprende il Sudan, la Tanzania, le
Filippine, l’Indonesia, lo Sri Lanka, la Malaysia e Singapore, la ex
Unione Sovietica e la ex Jugoslavia464.
Infine un “Paese in bilico” appare come uno Stato che
“possiede una sola cultura dominante…ma (che) i suoi leader
politici…collocano coattivamente all’interno di una civiltà diversa”.
Ciò sarebbe accaduto nella Russia di Pietro il Grande e dei suoi
successori, nella Turchia di Ataturk, nel Messico e recentemente in
Australia. Mentre i primi tre hanno cercato, pur non appartenendovi,
di entrare a far parte della civiltà Occidentale, l’Australia starebbe
invece tentando di separarsi dalla “sua” civiltà, appunto occidentale,
per collocarsi in quella asiatica465.
462
op.cit., p. 193
op.cit., p. 194
464
op.cit., p. 196
465
op.cit., p. 198
463
210
6.1.3 La civiltà occidentale in rapporto alle altre civiltà del
pianeta
Quali sono i caratteri dominanti della civiltà occidentale? Per
Huntington essi sono identificabili nei “lasciti della civiltà classica”,
vale a dire “filosofia e razionalismo greci, diritto romano, latino,
cristianesimo”. Se poi il “cristianesimo occidentale…rappresenta
storicamente l’elemento distintivo più importante della civiltà
occidentale”, “la lingua è seconda soltanto alla religione” e
l’“Occidente differisce da buona parte delle altre civiltà per il gran
numero di idiomi utilizzati”466. Un altro aspetto dominante della
cultura occidentale è dato dalla separazione tra autorità spirituale e
temporale. Nel corso della storia occidentale, la Chiesa prima, e
molte chiese poi, hanno difatti condotto un’esistenza separata dallo
Stato. “Il dualismo tra Dio e Cesare, Chiesa e Stato, autorità
spirituale ed autorità temporale è sempre stato un elemento
prevalente nella cultura occidentale”.
L’Occidente si distinguerebbe poi dalle altre civiltà del pianeta
per essere uno “Stato di diritto”467, per una sorta di genetico
“carattere pluralista”, tradottosi nel corso della storia in “pluralismo
di classi”, per l’esistenza di “corpi rappresentativi”, capaci di
incarnare “forme di rappresentanza che in seguito si sono evolute
nelle istituzioni della democrazia moderna”468, e infine per un “forte
senso individualista e…una tradizione di diritti e libertà individuali
assolutamente senza eguali tra le società civili”469
466
op.cit., p. 91
“Il concetto della centralità del diritto per un’esistenza civile fu ereditato dai romani”
(op.cit., p. 92)
468
op.cit., p. 93
469
op.cit., p. 94
467
211
Ora tutti questi aspetti della cultura e civiltà occidentale, che in
passato si era cercato di imporre a livello internazionale, sarebbero
per il politologo americano la fonte da cui scaturisce il conflitto tra
l’Occidente e le altre civiltà: “Due sono le immagini ricorrenti del
potere dell’Occidente in rapporto alle altre civiltà. La prima è
un’immagine di trionfante e pressoché totale dominio…L’Occidente
è l’unica civiltà ad avere interessi sostanziali in tutte le altre civiltà o
regioni del mondo nonché la capacità di influenzarne gli indirizzi
politici, economici e di sicurezza”. La seconda immagine
dell’Occidente sarebbe però completamente diversa. “È l’immagine
di una civiltà in declino470, il cui potere politico, economico e
militare in ambito internazionale va sempre più riducendosi rispetto
a quello di altre civiltà”471.
Tale scenario mostra per Huntington come la vittoria
dell’Occidente nella Guerra fredda non abbia portato al suo trionfo,
come sostengono invece le teorie di Fukuyama472 sulla “fine della
storia”, ma al suo esaurimento473.
La frattura principale a livello globale, dovuta alla
“discrepanza esistente tra i tentativi dell’Occidente…di promuovere
470
“Il declino dell’Occidente presenta tre caratteristiche di fondo. Primo, è un processo
lento. L’ascesa dell’Occidente durò quattrocento anni; la sua recessione potrebbe
richiedere un tempo altrettanto lungo…Secondo, il processo di declino non è un moto
uniforme, bensì un fenomeno fortemente irregolare con pause, inversioni e dimostrazioni
di forza successive a manifestazioni di debolezza…Terzo, potere significa la capacità, di
un gruppo o di un individuo, di modificare la condotta di un altro gruppo o individuo.
Ciò può avvenire mediante induzione, costrizione o esortazione e richiede da parte di chi
detiene il potere grandi risorse economiche, militari, istituzionali, demografiche,
politiche, tecnologiche, sociali e via dicendo” (op.cit., pp. 112-113)
471
Ibidem
472
F.Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992
473
“Quale di queste due opposte immagini del futuro ruolo dell’Occidente nel mondo
descrive la realtà? La risposta, naturalmente, è: entrambe. L’Occidente occupa oggi una
posizione dominante e resterà il numero uno in termii di potere e influenza per buona
parte del XXI secolo. Nel contempo, tuttavia, si sta verificando n graduale, inesorabile e
fondamentale mutamento nei rapporti di forze tra le varie civiltà, e il potere
dell’Occidente in rapporto a quello di altre civiltà continuerà a declinare. Via via che il
primato dell’Occidente si riduce, buona parte del suo attuale potere finirà semplicemente
212
una cultura occidentale universale e la sua sempre minor capacità di
realizzare questo obiettivo”474 è per Huntington individuabile nel
confronto tra Occidente da una parte e stati islamici e asiatici
dall’altra.
Se in passato l’Occidente era riuscito a imporre globalmente
il proprio sistema di valori, oggi i suoi tentativi di reiterare i risultati
ottenuti, rivelano invece una minore capacità475 rintracciabile, da
una parte, nella crescente rilevanza in campo economico delle
civiltà non-occidentali, e dall’altra in un processo di “rinascita
religiosa”, con la rivalutazione delle culture e tradizioni autoctone.
Tutto ciò é poi accompagnato per Huntington da un tentativo
di globale emancipazione dal dominio occidentale476, soprattutto in
campo economico e militare, e non ultimo culturale. Questo
comunque non toglie che l’Occidente continui “a tentare di
preservare la propria posizione di preminenza e difendere i propri
interessi identificandoli con quelli della comunità internazionale”.
Tutto ciò potrebbe portare in futuro alla formazione di un
“asse islamico-confuciano” in funzione anti-occidentale volto a
controbilanciare innanzitutto la superiorità militare dell’Occidente,
in vista di un eventuale conflitto militare.
con lo svanire, e quella restante verrà distribuita su base regionale tra le altre grandi
civiltà e i rispettivi stati guida” (S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà, op.cit., p. 111)
474
op.cit., p. 265
475
La “rinascita delle religioni non occidentali è la più possente manifestazione di
antioccidentalismo esibita dalle società non occidentali. Non costituisce un rifiuto della
modernità: è un rifiuto dell’Occidente e della cultura laica, relativista e degenerata ad
esso associata. È un rifiuto di quella che è stata definita l’‘intossicazione occidentale’
delle società non occidentali. È una dichiarazione d’indipendenza culturale
dall’Occidente, la fiera dichiarazione che ‘saremo moderni, ma non saremo come voi’”
(op.cit., pp. 141-142)
476
“Indigenizzazione è stata la parola d’ordine in tutto il mondo non occidentale negli
anni Ottanta e Novanta…Il processo di indigenizzazione è ulteriormente favorito dal
processo della democrazia: l’adozione di istituzioni democratiche occidentali da parte
delle società non occidentali consente lo sviluppo e finanche l’avvento del potere dei
movimenti politici antioccidentali…La democratizzazione fa a pugni con
l’occidentalizzazione, e quello democratico è per sua stessa natura un processo di
provincializzazione anziché d’internazionalizzazione” (op.cit., pp. 128-129)
213
L’ostilità alla penetrazione dei modelli istituzionali e
culturali occidentali si è peraltro intensificata negli ultimi anni, e
questo dovrebbe spingere, per Huntington, gli stati europei e
nordamericani a non forzare sulla questione dei diritti umani, al fine
di salvaguardare i proficui rapporti finanziari e commerciali con le
economie asiatiche, impedendo inoltre che queste possano
coalizzarsi, coagulandosi attorno alla Cina, presentata come il più
grande pericolo per l’Occidente e per i futuri assetti internazionali.
Oltretutto la volontà occidentale di promuovere istituzioni
democratiche in paesi esterni all’Occidente, potrebbe non dare i
risultati sperati in termini di alleanze militari. Infatti, sostiene
ancora Huntington, paesi al di fuori della sfera occidentale, divenuti
democratici,
hanno
decisamente
ostile
“paradosso
della
poi
sviluppato
all’Occidente,
democrazia”:
“Il
un’opinione
pubblica
evidenziando
l’ennesimo
superficiale
presupposto
occidentale secondo cui i governi democraticamente eletti saranno
sempre cooperativi e filoccidentali non si dimostra necessariamente
vero per le società non occidentali”477.
Ancora una volta Huntington individua nelle istituzioni e nei
valori democratici possibili fonti di sovraccarico. Ma se durante gli
“anni delle due S” le società occidentali dovettero subire una
pressione istituzionale proveniente dal loro interno, ora il
sovraccarico sarebbe la conseguenza immediata di una pressione
esercitata dall’esterno. Se il caos politico interno poteva condurre
alla “società pretoriana”, quello fra civiltà potrebbe invece
comportare l’esplodere di nuovo conflitto mondiale.
Un modo suggerito dallo studioso americano affinché
l’Occidente riesca a preservare la propria integrità, é quello di
477
op.cit., p. 289
214
sviluppare politiche di stretto controllo del fenomeno migratorio
che, sin dai primi anni novanta, ha assunto una rilevanza sempre
maggiore nell’agenda politica dei paesi occidentali, provocando un
costante aumento dei fenomeni di rigetto delle stesse nei confronti
degli stranieri.
Per lo studioso americano il problema dell’immigrazione
solleverebbe per l’Occidente una vera e propria sfida culturale,
evidenziando un problema di integrazione degli immigrati, in
quanto questi appaiono più portati a mantenere vivi non solo i
legami con la loro patria, ma soprattutto con la loro cultura, e quindi
a formare una comunità separata dal contesto sociale ospitante.
Questo aspetto viene poi accentuato dagli “alti tassi di fertilità” che
“rappresentano…il grosso della futura crescita demografica delle
società occidentali”478. Quindi, accanto a quella culturale,
l’immigrazione presenterebbe anche una sfida demografica479 che,
oltre ad alimentarne le paure, rischia pure di produrre una
spaccatura all’interno dell’Occidente stesso. “Il problema non è
capire se l’Europa verrà islamizzata o gli Stati Uniti ispanizzati, ma
piuttosto se Europa e Stati Uniti finiranno col diventare delle società
divise, ciascuna costituita da comunità distinte e separate
provenienti da due diverse civiltà; e ciò dipende a sua volta dal
numero di immigrati presenti e dalla misura in cui essi verranno
assimilati alle culture occidentali prevalenti in Europa e in
America”480.
478
S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà, cit. p. 291
“Dal punto di vista quantitativo…gli occidentali rappresentano una minoranza
sempre più esigua della popolazione mondiale. Anche dal punto di vista qualitativo,
tuttavia, gli equilibri tra l’Occidente e le altre popolazioni stanno mutando. I popoli dei
paesi non occidentalizzati stanno diventando più agiati, più urbanizzati, più alfabetizzati,
meglio istruiti”, op.cit., p. 115
480
op.cit., p. 298
479
215
Anche la stessa supremazia militare dell’Occidente481
parrebbe poi messa in discussione dalla rinascita asiatica e islamica.
Tale sfida é soprattutto evidente nei tentativi delle società
non occidentali di sviluppare arsenali di armi non convenzionali, in
particolare armamenti nucleari, tentando di recuperare nel più breve
tempo possibile il gap di potenza che li separerebbe dall’Occidente.
Se nella prospettiva dei paesi non occidentali, la strategia di
proliferazione costituisce un potenziale deterrente all’intervento
occidentale in questioni regionali, dal punto di vista occidentale,
una politica di contro-proliferazione sarebbe invece funzionale al
mantenimento di un pacifico ordine internazionale.
È quindi opportuno, per Huntington, che europei e americani
abbandonino ogni politica di disarmo, perché soltanto da un nuovo
“equilibrio del terrore” potrebbe dipendere il mantenimento di uno
stabile equilibrio internazionale482.
L’offensiva delle civiltà non occidentali si sviluppa anche in
ambito economico. Difatti “la percentuale occidentale dell’attività
economica mondiale…dalla Seconda guerra mondiale ha iniziato a
481
“Oggi soltanto l’Occidente è in grado di dislocare ingenti forze militari convenzionali
in ogni angolo del globo. Che continui a mantenere tale capacità non è affatto sicuro, ma
appare ragionevolmente certo, tuttavia, che nessuno stato o gruppo di stati non
occidentale svilupperà una capacità comparabile per i prossimi decenni. Nel complesso,
per quanto riguarda l’evoluzione delle capacità militari a livello globale gli anni
successivi alla Guerra fredda sono stati dominati da cinque tendenze fondamentali. 1) le
forze armate sovietiche sono state smantellate subito dopo che l’Unione Sovietica ha
cessato di esistere…2) La precipitosa contrazione dell’apparato militare russo ha
stimolato una più lenta ma significativa riduzione delle spese, dei contingenti e del
potenziale militare dell’Occidente…3) Le tendenze in atto in Asia orientale sono molto
diverse da quelle prevalenti in Russia e in Occidente. Aumenti delle spese militari e
rafforzamento dell’apparato militare sono all’ordine del giorno…4) Gli arsenali militari,
comprese le armi di distruzione di massa, si stanno diffondendo in tutto il mondo. Di
pari passo con lo sviluppo economico, i vari apesi acquisiscono la capacità di produrre
armi…5) tutte queste linee di sviluppo indicano nella regionalizzazione latendenza
principale della strategia e del potere militare nel mondo post-Guerra fredda. Esso
fornisce la giustificazione logica per la riduzione del potenziale militare russo e
americano e la crescita di quello di altri stati…La sicurezza militare del mondo dipende
sempre più non dalla distribuzione globale del potere e dalle azioni delle superpotenze,
ma bensì dalla distribuzione del potere all’interno di ciascuna regione del mondo e dal
modo in cui gli stati guida delle diverse civiltà si muoveranno” (op.cit., pp. 120-123)
216
declinare”. Nonostante l’“Occidente e il Giappone” dominino
“quasi completamente le industrie a tecnologia avanzata”,
quest’ultime, starebbero tuttavia “sempre più diffondendosi nel
mondo e l’Occidente…se intende preservare la propria superiorità”,
dovrà fare di tutto per contenere il più possibile tale processo di
diffusione. Ma proprio a causa degli stretti legami che lo stesso
Occidente ha stabilito, rallentare la diffusione di tecnologia nelle
altre civiltà appare impresa sempre più ardua, tanto più in assenza di
una specifica e ben riconosciuta minaccia – come durante la Guerra
fredda – che consentiva un (seppur modesto) controllo del
patrimonio tecnologico”483
Comunque sia, nel complesso, secondo l’ipotesi di
Huntington, “l’Occidente resterà la civiltà più potente fino ai primi
decenni del XXI secolo. In seguito, continuerà probabilmente a
detenere un sostanziale vantaggio nel campo del personale
scientifico, della ricerca e sviluppo e dell’innovazione tecnologica
militare e civile”. Tuttavia ciò avverrebbe in un contesto
internazionale in cui il controllo sulle altre fonti di potere starebbe
“sempre più suddividendosi tra gli stati guida e i principali paesi
delle civiltà non occidentali”484.
6.1.4 Ordine delle
antioccidentale
civiltà
e
rinascita
di
una
cultura
Huntington sostiene che nello scenario politico internazionale
che va emergendo, “le due superpotenze dell’epoca della Guerra
fredda vengono sempre più soppiantate, nel loro ruolo di polo
482
483
cfr., p. 280
op.cit., pp. 117-119
217
d’attrazione e repulsione, dagli stati guida delle maggiori civiltà del
pianeta”485. Questo nuovo scacchiere internazionale comporta
inoltre una redistribuzione dei singoli stati “secondo cerchi
concentrici intorno allo stato o agli stati guida, in base al grado di
identificazione e di integrazione con essi”486
La comunanza culturale tra stato guida e singoli stati
nell’ambito di ogni civiltà legittima poi il ruolo di leadership del
primo agli occhi delle potenze e istituzioni esterne, garantendo al
tempo stesso ai secondi un ruolo di modernazione della politica
internazione del proprio stato guida487.
Per cui laddove non esiste uno stato guida, i rapporti con
le altre civiltà risultano più difficili da mantenere o addirittura
stabilire, come nel caso della civiltà islamica.
Dunque, se il mondo futuro sarà organizzato per civiltà488,
quest’ultime tenderanno comunque a strutturarsi attorno al proprio
stato guida a seconda del loro grado di identificazione e
integrazione.
Quali sono i confini geografici delle più importanti civiltà del
pianeta?
Se l’Islam presenta una “coscienza senza coesione”489,
occupando un territorio che dal medioriente si estende su tutta
l’Africa settentrionale e gran parte dei Balcani, cingendo d’assedio
l’Occidente che comprende invece la zona Nordamericana e
l’Europa dell’Unione, compresi i paesi ex comunisti della parte
centrale del continente (Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica
Slovacca, Ungheria), la civiltà sinica, principale motivo di
484
op.cit., p. 123
op.cit., p. 224
486
ibidem
487
cfr. p. 225
488
op.cit., p. 224
485
218
preoccupazione per il futuro dell’Occidente, riunisce per Huntington
“il nucleo centrale della Cina han, le province periferiche che fanno
parte della Cina ma godono di una considerevole autonomia, le
province che fanno legalmente parte della Cina ma sono abitate
prevalentemente da popolazioni non cinesi appartenenti ad altre
civiltà (Tibet, Xinxiang), società cinesi che diventeranno o è
probabile che diventino parte della Rpc a determinate condizioni
(Hong Kong, Taiwan), uno stato di razza prevalentemente cinese
sempre più orientato verso Pechino (Singapore), comunità cinesi
molto influenti in Thailandia, Vietnam, Malaysia, Indonesia e
Filippine, e società di razza non cinese (Corea del Nord e del Sud,
Vietnam) che tuttavia condividono buona parte della cultura
confuciana prevalente in Cina”490.
La preoccupazione principale del politologo americano,
testimoniata
dal
futuristico
scenario
di
guerra
tratteggiato
dall’autore nelle pagine finali di The Clash of Civilizations, deriva
proprio dalla composizione eterogenea della civiltà sinica, la quale
potrebbe indurre la Cina, stato guida, a risolvere con la forza ogni
tentativo di metterne in discussione la leadership in un area, quella
del Pacifico, in cui gli interessi degli Stati Uniti, paese guida di
un’altra civiltà, sono ancora molto forti. Questo fatto potrebbe da
solo bastare per suscitare una risposta armata statunitense,
provocando l’intervento di uno stato guida negli affari di un’altra
civiltà, preludio ad una guerra ben più vasta che vedrebbe, secondo
lo studioso americano, il sorgere di una coalizione tra civiltà
islamica e civiltà sinica in funzione prettamente anti-occidentale.
Oltretutto, gli esiti inevitabilmente catastrofici di un simile conflitto
garantirebbero l’affermarsi di tutte quelle civiltà rimaste fuori dalla
489
op.cit., p. 223
219
guerra, che avrebbero così l’opportunità di colonizzare la terra con
la loro cultura, spartendosi ciò che è restato in piedi dell’Islam, della
Cina e dell’Occidente.
Dunque la rinascita491 delle civiltà islamica492 e asiatica493,
incentrata quest’ultima sulla Repubblica Popolare Cinese, sembra
avere, per il teorico americano, come unico comun denominatore
l’antioccidentalismo. Non solo, ma questa contrapposizione con
l’Occidente potrebbe esprimersi secondo livelli identificabili: 1) nel
“Rifiuto totale”, oramai “pressoché impossibile in un mondo che va
diventando sempre più moderno e sempre più interconnesso”494; 2)
nel
“Kemalismo”,
modernizzazione
caratterizzato
sia
dall’apertura
all’occidentalizzazione”495;
“sia
alla
3)
nel
490
op.cit., p. 243
“Come sempre accade in tutti i movimenti rivoluzionari, il suo (della rinascita n.d.a.)
nucleo centrale è costituito da studenti e intellettuali”(op.cit., p. 159). È interessante
notare come in Huntington sia sempre viva la convinzione, già espressa in The Political
Order in the changing societies (1968) e nel rapporto alla Commissione Trilaterale
(1975), secondo la quale studenti e intellettuali rappresentano la componente sociale
attorno alla quale verrebbe a strutturarsi ogni tentativo rivoluzionario. Non solo, ma
lungi dall’essere una caratteristica prettamente occidentale, lo studioso americano
sembrerebbe considerarla una costante sociale presente in ogni tipo di civiltà
492
“1) I giovani sono i protagonisti di fenomeni quali movimenti di protesta, instabilità,
riforme e rivoluzioni. L’esperienza dimostra come l’esistenza di un ampio segmento di
popolazione giovane abbia coinciso con il manifestarsi di tali fenomeni. 2) I giovani
islamici si stanno rivelando l’asse portante della Rinascita islamica…3) Popolazioni più
numerose richiedono maggiori risorse, cosicché le società densamente popolate o in
rapido sviluppo demografico tendono a proiettarsi all’esterno, a occupare territorio e a
esercitare pressione su altri popoli demograficamente meno dinamici. La crescita della
popolazione islamica è dunque un’importante causa di esasperazione dei conflitti
emergenti lungo i confini del mondo islamico tra musulmani ed altre popolazioni. La
pressione demografica unita alla stagnazione economica stimola l’emigrazione
musulmana nelle società occidentali e non musulmane in generale, determinando un
inasprimento del problema dell’immigrazione” (op.cit., pp. 168, 171-172)
493
“1) Gli asiatici ritengono che il rapido sviluppo economico dell’Asia li porterà ben
presto a sorpassare l’Occidente in termini di attività economica e ad acquisire perciò un
potere sempre maggiore in campo internazionale rispetto a quello dell’Occidente..2)
Secondo, per gli asitici il successo economico conseguito è in gran parte un prodotto
specifico della cultura asiatica, superiore a quella decadente dell’Occidente…3) Pur
riconoscendo le differenze esistenti tra le società e civiltà asiatiche, gli est-asiatici
propugnano al contempo l’esistenza di significativi valori comuni…4) Gli est-asiatici
affermano che lo sviluppo e i valori asiatici sono modelli che altre civiltà non occidentali
dovrebbero emulare per poter raggiungere l’Occidente, e che l’Occidente dovrebbe fare
propri al fine di rinnovarsi” (op.cit., pp. 150-153)
494
op.cit., p. 96
495
op.cit., p. 97
491
220
“Riformismo”, consistente all’opposto “nel tentativo di unire
modernizzazione e preservazione dei valori, costumi e istituzioni
autoctoni di una data società”496.
Anche quest’ultimi due livelli, più aperti verso l’Occidente
rispetto al primo, finirebbero, via via che il ritmo della
modernizzazione
aumenta,
con
il
ridurre
il
tasso
di
occidentalizzazione culturale a vantaggio della cultura autoctona,
che
tornerebbe
così
ad
emergere.
Di
seguito,
l’ulteriore
modernizzazione comporta, per Huntington, un’alterazione degli
equilibri di potere tra l’Occidente e la società non occidentale,
alimentando il potere e l’autostima di quella società e rafforzando in
essa il senso di appartenenza alla propria cultura. Pertanto, se nelle
loro rispettive prime fasi del processo di mutamento, il
“Kemalismo”
e
il
“Riformismo”
utilizzerebbero
l’occidentalizzazione come stimolo per la modernizzazione, nelle
ultime, la modernizzazione finirebbe col promuovere “la deoccidentalizzazione e la rinascita della cultura autoctona in due
modi: al livello sociale, accrescendo il potere economico, militare e
politico della società nel suo complesso e stimolando i membri di
quella società ad avere fiducia nella propria cultura e a rivendicare
la propria autonomia culturale; al livello individuale, man mano che
i tradizionali legami e rapporti sociali vengono a lacerarsi, generano
sentimenti di alienazione e anomia, che scatenano crisi di identità
alle quali la religione offre una risposta”497
Ciò sta a dimostrare per Huntington che in definitiva,
modernizzazione
non
significa
necessariamente
occidentalizzazione”, come sembrano ritenere molti fautori di una
democrazia internazionale, credono “e che società non occidentali
496
op.cit., p. 98
221
possono pure modernizzarsi “senza abbandonare la propria cultura e
senza adottare in blocco valori, istituzioni e costumi occidentali”498,
assumendo anzi un atteggiamento spiccatamente antioccidentale,
accentuato dal ricordo ancora vivo dell’imperialismo europeo.
6.1.5 Lo scontro delle civiltà: i conflitti di faglia
Alla luce dell’analisi di Huntington sulla ristrutturazione delle
relazioni internazionali operatasi successivamente alla Guerra
fredda, diviene ora possibile lo “scontro di civiltà” vero e proprio e
le sue possibili linee di sviluppo.
Innanzitutto, per il teorico di Harvard, lo “scontro” si articola
sostanzialmente su due livelli499: un livello “regionale”, e un livello
“globale”.
Il primo livello é caratterizzato dai cosiddetti “conflitti di
faglia”, cioè conflitti “tra stati limitrofi appartenenti a civiltà
diverse, tra gruppi di civiltà diverse che vivono all’interno di una
stessa nazione, e tra gruppi che…tentano di costruire nuovi stati
dalle macerie di quelli vecchi”500.
497
op.cit., pp. 100-101
op.cit., p. 105
499
La prima guerra di civiltà fu per Huntington la guerra combattuta in Afghanistan dal
1979 al 1989; la seconda quella del Golfo del 1991: “La guerra afghana divenne una
guerra di civiltà perché tale la considerarono i musulmani di ogni parte del mondo
facendo quadrato contro l’Unione Sovietica. La guerra del Golfo divenne una guerra di
civiltà perché l’Occidente intervenne militarmente in un conflitto musulmano, perché i
paei occidentali appoggiarono a larga maggioranza l’intervento, e perché i musulmani di
tutto il mondo la interpretarono come una guerra contro di loro, schierandosi
compattamente contro quella che considerarono una nuova manifestazione
dell’imperialismo occidentale…La democrazia costituì ‘il grande paradosso di questo
conflitto’: il sostegno a Saddam Hussein fu più ‘fervente e diffuso’ in quei paesi arabi il
cui sistema politico era più aperto e la libertà di espressione soggetta a minori
restrizioni” (op.cit., pp. 366-367)
500
op.cit., p. 304.
498
222
Il secondo livello coinvolge invece gli “stati guida” delle
diverse civiltà, sviluppandosi, in determinate circostanze, in un vero
e proprio conflitto globale501.
Nel modello huntingtoniano i conflitti di faglia rivestono
maggiore importanza, dato che sono più probabili e frequenti
rispetto ad un conflitto globale, estrema ratio cui ricorrere una volta
che siano state tentate tutte le strade possibili per risolvere la
diatriba tra gli stati guida postisi in contrasto fra loro. Oltretutto i
“conflitti di faglia” possono a loro volta essere causa di un conflitto
più ampio, grazie proprio alla loro capacità di estendersi a un
numero sempre crescente di stati fino a coinvolgere le “guide” delle
rispettive
civiltà
di
appartenenza.
Pertanto,
conoscendo
e
intervenendo sulla prima forma di conflitto si potrebbe evitare il
manifestarsi della seconda.
Quali sono gli aspetti principali di un conflitto di faglia? Per
prima cosa, come si è già detto, si sviluppano essenzialmente a
livello regionale, o addirittura subnazionale: sono quindi conflitti
localizzati e ben definiti. In secondo luogo, tali conflitti avvengono
tra stati o gruppi appartenenti a diverse civiltà, tendendo ad essere
molto violenti e sanguinosi. Inoltre i conflitti di questo genere
501
“La conflittualità tra civiltà diverse assume due forme distinte. A livello locale, o
microlivello, si verificano i cosiddetti conflitti di faglia (fault line conflicts) tra stati
limitrofi appartenenti a civiltà diverse, tra gruppi di civiltà diverse che vivono all’interno
di una stessa nazione, e tra gruppi che, come nel caso della ex Unione Sovietica e
Jugoslavia, tentano di costruire nuovi stati dalle macerie di quelli vecchi. I conflitti di
faglia sono prevalenti soprattutto tra musulmani e non musulmani…Al livello globale, o
macrolivello, i conflitti tra stati guida coinvolgono gli stati principali delle diverse
civiltà. I motivi che stanno alla base di questi conflitti sono quelli classici della politica
internazionale: 1. grado di influenza relativa nella determinazione degli sviluppi
planetari e delle iniziative delle organizzazioni nazionali di livello globale…2. potere
militare…3. potere e benessere economici…4. il fattore umano, che comporta i tentativi
di uno stato appartenente ad una determinata civiltà di proteggere popoli ad esso affini
residenti in paesi di diversa civiltà…5. valori e cultura…6. occasionalmente, questioni
territoriali (p. 304)…solo altre due circostanze possono provocare una guerra tra due
stati guida. 1) Essa potrebbe scaturire dalla graduale escalation di un conflitto di faglia
tra gruppi locali…2)…da un mutamento degli equilibri di potere a livello globale tra le
diverse civiltà” (op.cit., p. 305)
223
durano a lungo e sono difficilmente risolvibili per via diplomatica.
Spesso è possibile solo “congelarli”, senza farsi comunque troppe
illusioni dato che queste “guerre a singhiozzo” possono riprendere
da un momento all’altro e ancor più violentemente di prima. Le
guerre di faglia attraversano per Huntington “processi di
intensificazione,
espansione,
contenimento,
interruzione
e,
raramente, soluzione502. Iniziano solitamente in ordine sequenziale,
ma spesso si sovrappongono e possono anche ripetersi. Una volta
iniziate…al pari di altri conflitti tra gruppi rivali, tendono ad
assumere vita propria e a sviluppare un precipuo modello di
azione/reazione. Identità fino ad allora sfumate e occasionali
vengono a precisarsi e irrigidirsi, tanto che i conflitti tra gruppi
rivali vengono appropriatamente definiti ‘guerre di identità’. Col
crescere della violenza, le vertenze iniziali tendono a cristallizarsi in
un perentorio ‘noi contro loro’ e il livello di coinvolgimento e
coesione di gruppo diventa sempre più alto”503. Tuttavia anche una
guerra di faglia può terminare, purché intervengano “due fattori. Il
primo è l’esaustione delle parti belligeranti”, il secondo, il
coinvolgimento dei “partecipanti degli altri livelli”, sempre che
questi abbiano “l’interesse e l’autorevolezza necessari per riuscire a
mettere le parti belligeranti intorno a un tavolo”504
Rispetto ai normali conflitti locali, con i quali presentano delle
analogie, le guerre di faglia scaturiscono “quasi sempre tra popoli di
502
“Le guerre di faglia sono caratterizzate da frequenti tregue e armistizi, ma non da
trattati di pace globali capaci di risolvere i nodi politici di fondo. Ciò dipende dal fatto
che queste guerre affondano le proprie radici nei rapporti antagonistici tra gruppi di
civiltà diverse e nei conflitti culturali che li sottintendono” (op.cit., p. 435)
503
“Emerge così un ‘dinamica dell’odio’ paragonabile al ‘dilemma della sicurezza’ nelle
relazioni internazionali, dove paura, sfiducia e odio si alimentano reciprocamente.
Ciascuna parte accentua e drammatizza la distinzione tra forze del bene e forze del male,
e tanta infine di trasformala nella distinzione ultima tra chi deve vivere e chi deve
morire” (op.cit., p. 395)
504
op.cit., p. 436
224
religione diversa”505, provocando la “chiamata a raccolta” dei paesi
delle reciproche civiltà di riferimento506: “Quando coinvolgono
gruppi appartenenti a civiltà diverse, i conflitti locali tendono ad
espandersi e a crescere d’intensità. Ciascuna parte tenta di
conquistarsi il sostegno di paesi e gruppi appartenenti alla propria
civiltà….A causa di questa ‘sindrome dei paesi fratelli’507, i conflitti
di faglia presentano un rischio di escalation molto maggiore rispetto
ad un conflitto tra paesi appartenenti a una stessa civiltà e il loro
contenimento
e
soluzione
finale
richiede
solitamente
la
cooperazione delle rispettive civiltà d’appartenenza. A differenza di
quanto accaduto ai tempi della Guerra fredda, la conflittualità non
filtra dall’alto verso il basso, ma trasuda dal basso verso l’alto”508.
In tal modo il conflitto di faglia presenta una complessità di
gran lunga maggiore, rispetto a un qualsiasi altro conflitto locale.
Tant’è vero che lo studioso americano distingue tre livelli secondo i
quali si posizionano gli attori rilevanti: un primo livello in cui si
collocano gli attori direttamente coinvolti nel conflitto, i contendenti
505
op.cit., p. 377
“I conflitti di faglia sono conflitti tra stati o gruppi appartenenti a diverse civiltà, e
assumono carattere violento. Simili guerre possono verificarsi tra stati, tra gruppi non
governativi, oppure tra stati e gruppi non governativi. I conflitti di faglia all’interno di
uno stato possono coinvolgere gruppi prevalentemente localizzati in aree specifiche del
paese, nel qual caso il gruppo che non controlla il governolotta solitamente per la propria
indipendenza e può essere disposto (ma può anche non esserlo) a sedare il conflitto per
un obiettivo un po’ inferiore. I conflitti di faglia all’interno di uno stato possono anche
coinvolgere gruppi geograficamente interconnessi, nel qual caso rapporti costantemente
tesierompono di tanto in tanto in scontri violenti…oppure possono sfociare in guerre
globali…dando luogo a tentativi violenti di separazione coatta di popolazioni. A volte i
conflitti di faglia riguardano lotte per il controllo di popolazioni. Più di frequente, la
posta in palio è il controllo di territorio. Obiettivo di almeno uno dei belligeranti è
conquistare territorio e liberarlo da chi vi abita mediante espulsione coatta, eliminazione
fisica, o entrambe le cose, vale a dire mediante operazioni di ‘pulizia etnica’…Spesso il
territorio di contesa è per uno o per entrambi i contendenti un simbolo vitale della
propria storia ed identità, terra santa sulla quale vantano un diritto inviolabile…Le
guerre di faglia…Si tratta di conflitti prolungati nel tempo…Poiché implicano questioni
fondamentali quali l’identità e il potere dei gruppi che ne sono coinvolti. In conseguenza
del loro carattere prolungato, le guerre di faglia, al pari altre guerre tra gruppi rivali,
tendono a produrre un elevato numero di vittime e di rifugiati” (op.cit., pp. 375-376)
507
“Fitte reti internazionali di sostegno, le quali consentono a loro volta ai belligeranti di
prolungare il conflitto”, op.cit., p. 378
506
225
veri e propri, insieme a una categoria altrettanto fondamentale di
attori, vale a dire le diaspore dei partecipanti di primo livello; un
secondo livello, i cui protagonisti sono invece quelli culturalmente
più vicini agli attori principali; infine un terzo livello comprendente
gli stati che, pur avendo legami culturali con le parti belligeranti,
rimangono
esterni
al
conflitto,
intervenendovi
soltanto
indirettamente509.
Sono poi gli ultimi due livelli a giocare un ruolo determinate nei
conflitti di faglia, in quanto “hanno interesse a contenere lo scontro
e a non farvisi coinvolgere direttamente. Perciò, pur sostenendo i
protagonisti di primo livello, essi tentano di frenarli e indurli a
moderare i loro obiettivi. Essi inoltre tentano di negoziare con le
controparti di secondo e terzo livello e impedire così l’escalation di
un conflitto locale in una guerra generale che coinvolga gli stati
guida.”510
Teatro di un “complesso, confuso e variegato intreccio di guerre
di faglia” è stato per Huntington il conflitto che tra il 1991 e il 1999
ha portato allo smembramento dello Stato jugoslavo511: “Al livello
508
op.cit., p. 405
“Nelle guerre di faglia, i vari stati e gruppi hanno livelli di coinvolgimento diversi. Al
livello principale troviamo i contendenti veri e propri, quelli che si uccidono a
vicenda…Vi sono poi i partecipanti di secondo livello, solitamente gli stati più
intimamente legati agli attori principali…Seguono poi gli stati di terzo livello, ancor più
defilati rispetto al conflitto vero e proprio, ma che vantano legami culturali con le parti
belligeranti…Questi partecipanti di terzo livello sono spesso gli stati guida delle
rispettive civiltà. Laddove esistono, le diaspore dei partecipanti di primo livello
svolgono spesso anch’esse un ruolo attivo” (op.cit., p. 405)
510
“complessi sono invece gli interessi dei governi di secondo e terzo livello. Anch’essi
forniscono di norma sostegno alle parti belligeranti, e anche laddove ciò non avviene
essi sono comunque sospettati di farlo dai gruppi rivali, che in questo modo si sentono
legittimati a intervenire a loro volta. Al tempo stesso, tuttavia, i governi di secondo e
terzo livello hanno interesse a contenere lo scontro e a non farvisi coinvolgere
direttamente. Perciò, pur sostenendo i protagonisti di primo livello, essi tentano di
frenarli e indurli a moderare i loro obiettivi. Essi tentano inoltre di negoziare con le
controparti di secondo e terzo livello e impedire così l’escalation di un conflitto locale in
una guerra generale che coinvolga gli stati guida” (op.cit., p. 406)
511
Ricordiamo che nell’anno in cui The Clash of Civilizations veniva dato alle stampe
(1996) non era ancora iniziata la cosiddetta “guerra del Kosovo”. Per quest’ultima sarà
509
226
primario, in Croazia governo e popolo croato hanno combattuto
contro i serbi di Croazia, mentre in Bosnia-Erzegovina il governo
bosniaco si è opposto a serbi bosniaci e croati bosniaci, che a loro
volta si combattevano reciprocamente. Al secondo livello, il
governo serbo propugnava la creazione di una ‘Grande Serbia’
aiutando i serbi bosniaci e serbi croati, mentre il governo croato
aspirava a una ‘Grande Croazia’ e sosteneva i croati bosniaci. Al
terzo livello si è verificato un massiccio schieramento di civiltà:
Germania, Austria, il Vaticano, altri paesi e gruppi cattolici nonché,
successivamente, gli Stati Uniti, dalla parte della Croazia; Russia,
Grecia e altri paesi e gruppi ortodossi dalla parte dei serbi; Iran,
Arabia Saudita, Turchia, Libia, Internazionale islamica e paesi
islamici in generale dalla parte dei musulmani bosniaci. Questi
ultimi hanno ottenuto il supporto anche dagli Stati Uniti:
un’anomalia in uno schieramento che per tutti gli altri aspetti riflette
appieno le diverse civiltà di appartenenza”512.
La guerra di Jugoslavia costituisce per lo studioso di Harvard il
paradigma di riferimento cui volgere lo sguardo, qualora si abbia
l’intenzione di capire e analizzare gli sviluppi di un possibile
conflitto di faglia riguardante da vicino la civiltà occidentale e i
rapporti di quest’ultima con l’islamica513.
necessario attendere ancora tre anni. Pertanto gli eventi cui si si riferisce Huntington
giungono sino alla conclusione del conflitto bosniaco, avvenuta nel 1995
512
S.P.Huntington, Lo scontro delle civiltà, op.cit., p. 419
513
“Nel complesso, le lezioni da trarre dalla guerra di Bosnia sono: primo, che i
partecipanti diretti alle guerre di faglia possono contare sull’aiuto, anche consistente, dei
paesi appartenenti alla propria stessa civiltà; secondo, che quest’aiuto può influenzare in
modo anche significativo il corso della guerra; terzo, che i governi e i popoli di una
civiltà non versano sangue o denaro per aiutare a combattere una guerra di faglia un
popolo appartenente a una diversa civiltà. L’unica parziale eccezione è costituita dagli
Stati Uniti. In linea di principio, i suoi dirigenti si schierano dalla parte dei musulmani,
anche se in pratica il sostegno musulmano fu limitato…Una possibile spiegazione è che
non si sia trattato affatto di un’anomalia, ma piuttosto di una forma attentamente
calcolata di realpolitik culturale. Schierandosi a fianco dei bosniaci e proponendo, senza
successo, la fine dell’embargo, gli Stati Uniti tentarono di ridurre l’influenza di paesi
227
In quest’ottica la ex Jugoslavia è per Huntington “la Spagna di
tutti”. Infatti, così come la guerra civile spagnola “fu un conflitto tra
sistemi politici e ideologie; la guerra bosniaca è stata una guerra tra
civiltà e religioni”. Perciò, come democratici, comunisti e fascisti
combatterono in Spagna a fianco dei rispettivi compagni di
ideologia, anche la guerra jugoslava “ha visto una eguale, massiccia
mobilitazione di aiuto esterno da parte di cristiani occidentali,
cristiani ortodossi e musulmani in difesa dei rispettivi compagni di
civiltà. Tutte le principali potenze del mondo ortodosso, di quello
islamico e di quello occidentale ne sono state coinvolte”. Infine se la
guerra civile spagnola “fu un preludio alla Seconda guerra
mondiale”, la guerra bosniaca potrebbe invece essere “un ulteriore
episodio di sangue di un interminabile scontro di civiltà”514
6.1.6 La “guerra strisciante” tra Islam e Occidente e la variabile
asiatica
“Gli scontri più pericolosi del futuro nasceranno probabilmente
dall’interazione tra l’arroganza occidentale, l’intolleranza islamica e
l’intraprendenza sinica”515. Non solo, ma se “al livello globale, o
macrolivello, il principale scontro tra civiltà è tra l’Occidente e gli
altri, al livello locale, o microlivello lo scontro è tra l’Islam e gli
altri”516, in particolar modo tra mondo islamico e mondo
occidentale.
musulmani fondamentalisti come l’Iran e l’Arabia Saudita sui bosniaci, un popolo fino
ad allora di inclinazione laica e filoeuropea” (op.cit., pp. 432-433)
514
op.cit., p. 435
515
op.cit., p. 265
516
op.cit., p. 379
228
È dunque la linea di faglia517 fra Islam e Occidente a
preoccupare più di ogni altra cosa i destini del mondo, perché
proprio lungo questo “confine insanguinato”518, correranno per
Huntington i futuri conflitti armati tra stati appartenenti alle due
diverse civiltà: “In qualsiasi punto dell’Islam si guardi, i musulmani
sembrano far fatica a vivere in pace con i propri vicini….I
musulmani costituiscono circa un quinto della popolazione
mondiale, ma negli anni novanta la loro percentuale di
coinvolgimento in atti di violenza tra comunità locali è superiore a
quella di qualsiasi altra civiltà.”519. Da ciò emerge come conclusione
che i “confini dell’Islam grondano sangue”, poiché “sanguinario è
chi vive al loro interno”520
Tre sono le cause che per Huntington spiegano la bellicosità
della popolazione islamica: storiche, demografiche e politiche. Le
prime rappresentano poi il substrato su cui si innestano le ultime
due, legittimando “una lunga tradizione di violenza” alla quale
chiunque può attingere”521.
Per
quanto
riguarda
l’aspetto
demografico,
Huntington
sottolinea come l’“espansione numerica di un gruppo genera
pressioni politiche, economiche e sociali sugli altri”, inducendo a
contromisure di carattere militare sui gruppi demograficamente
meno dinamici522. Ancor più rilevante é poi la composizione della
popolazione, e in particolare la presenza o meno di un’elevata
517
Confine che intercorre tra due diverse civiltà
Per Huntington i confini insanguinati dell’Islam si situerebbero geograficamente in
Kosovo, Cipro, Caucaso, Turchia e Armenia, Caucaso settemtrionale, Cecenia, bacino
del Volga, Asia centrale, Afghanistan, Tagikistan, Xinjiang, Pakistan, India, Bangladesh,
Birmania, Malaysia, Indonesia, Thailandia, Filippine, Israele, Libano, Africa
occidentale, Sudan, Nigeria, Ciad, Kenya, Tanzania (cfr. S.P.Huntington, Lo scontro
delle civiltà, op.cit., p. 378 e sgg.
519
op.cit., p. 381
520
op.cit., p. 383
521
op.cit., p. 384
522
op.cit., p. 385
518
229
percentuale di giovani compresi tra i 15 e i 24 anni, serbatoio da cui
attingerebbero i movimenti nazionalisti ed etnici.
A queste tre cause fondamentali, Huntington ne associa altre sei
di minore importanza, ma pur sempre idonee a spiegare la
propensione alla violenza del mondo islamico523. Si passa pertanto
da una forte componente bellicista presente in gran parte della
cultura islamica524, all’espansione via terra delle popolazioni
musulmane che ha portato a una situazione di contiguità dell’Islam
con una pluralità di civiltà diverse525; dalla presenza di una
popolazione “indigeribile”, vale a dire scarsamente integrabile in
altri contesti526, all’ “imperialismo occidentale”527; dall’assenza di
523
“Rimane il quesito del perché, sul finire del secolo, i musulmani risultino coinvolti
molto più di altre civiltà in scontri violenti con altre comunità. È sempre stato così? In
passato, i cristiani sterminarono intere popolazioni, cristiane e non. Valutare la
propensione alla violenza delle civiltà nel corso della storia richiederebbe una ricerca
approfondita che non è possibile effettuare in questa sede. Possiamo invece identificare
le possibili cause della violenza, sia interna sia nei confronti di altri gruppi, che
caratterizza i musulmani oggi e distinguere tra quelle che spiegano la loro propensione
alla conflittualità in chiave storica (sempre che questa chiave ci sia)…sei cause. Tre
spiegano soltanto la violenza tra musulmani e tre anche anche quella nei confronti di
altre civiltà. Inoltre, tre di esse spiegano solo l’attuale propensione dei musulmani alla
violenza, mentre altre tre ne spiegano anche le radici storiche, sempre che esistano. Se
però la propensione storica non esiste, allora le sue presunte cause, se non possono
spiegare qualcosa che non esiste, non possono spiegare neanche la palese e dimostrata
propensione contemporanea dei musulmani alla violenza” (op.cit., pp. 390-391)
524
“E’ stato sostenuto che l’islamismo è sempre stato, sin dalle origini, una religione
bellicista, che glorifica le virtù militari” (ibidem)
525
“Sin dalle sue origini, l’Islam si diffuse rapidamente in Africa settentrionale e in gran
parte del Medio Oriente, e successivamente in Asia centrale, nel subcontinente indiano e
nei Balcani. L’espansione portò i musulmani a contatto diretto con molte e variegate
popolazioni che furono conquistate e convertite, un processo il cui lascito si può
chiaramente avvertire ancora oggi…L’espansione via terra di popolazioni musulmane e
non musulmane produsse una stretta contiguità fisica tra musulmani e non musulmani in
tutta l’Eurasia. Viceversa, l’espansione via mare dell’Occidente non creò di norma
situazioni di stretta convivenza tra popoli occidentali e non occidentali” (ibidem )
526
“Una terza possibile fonte di conflittualità tra musulmani e non musulmani chiama in
causa quella che uno statista, riferendosi al proprio paese, ha definito l’‘indigeribilità’
dei musulmani. Questo fenomeno tuttavia, è a doppio senso: i paesi musulmani
manifestano nei confronti delle minoranze non musulmane problemi paragonabili a
quelli che i paesi non musulmani hanno con le minoranze musulmane. Ancor più del
cristianesimo, l’Islam è una fede assoluta” (op.cit., p. 392). E’ interessante evidenziare
anche un’ affermazione che può sembrare marginale: “Confuciani, buddisti, induisti,
cristiani occidentali e cristiani ortodossi hanno meno difficoltà ad adattarsi gli uni agli
altri e a vivere fianco a fianco di quante ne abbiano ad adattarsi e a convivere con i
musulmani.” (op.cit., p. 392)
230
uno stato guida fattore di sostanziale instabilità528, all’esplosione
demografica con la presenza di moltissimi maschi giovani e
disoccupati529.
Nell’ambito
di
quest’ultime
sei
cause,
“militarismo,
indigeribilità e contiguità”, spiegano per Huntington la propensione
storica alla conflittualità, mentre “imperialismo occidentale, assenza
di uno stato guida e esplosione demografica” aiutano a comprendere
la “violenza islamica” in tempi più recenti e la “guerra strisciante”
in corso con l’Occidente530.
Le cause di quest’ultima, cominciata con la “Rivoluzione
iraniana del 1979”531, andrebbero ulteriormente ricercate: “1) (nella)
crescita della popolazione musulmana…2) (nella) Rinascita
islamica (che) ha dato ai musulmani nuova fiducia nella prosperità
della propria civiltà e dei propri valori rispetto a quelli
dell’Occidente…3) (nei) paralleli tentativi dell’Occidente di
527
“Tre altri fattori, più limitati dal punto di vista temporale, possono però ulteriormente
spiegare l’esplosione della violenza islamica in questo tardo XX secolo. Una prima
motivazione, avanzata dai musulmani, è che l’imperialismo occidentale e l’asservimento
delle società musulmane nel XIX e XX secolo hanno prodotto un’immagine di
debolezza militare ed economica dei musulmani inducendo i gruppi non islamici a
vedere nei musulmani un facile bersaglio. Questi ultimi, secondo tale interpretazione,
sono vittime di un diffuso pregiudizio antimusulmano paragonabile all’antisemitismo”
(op.cit., p. 393)
528
“Un elemento più convincente, che potrebbe spiegare sia la conflittualità interna che
quella rivolta all’esterno, è l’assenza nel mondo islamico di uno o più stati guida…I
paesi che aspirano al ruolo di leader dell’Islam, quali ad esempio l’Arabia Saudita,
l’Iran, il Pakistan, la Turchia e potenzialmente l’Indonesia, sono in competizione per la
leadership nel mondo musulmano; nessuno di essi è però in posizione sufficientemente
forte” (ibidem )
529
“Infine, cosa più importante, l’esplosione nelle società musulmane e la presenza di
moltissimi maschi, spesso disoccupati, di età compresa tra i quindici e i trent’anni è una
naturale fonte d’instabilità e di violenza sia all’interno dell’Islam sia contro i non
musulmani” (op.cit., p. 394)
530
“Strisciante per tre motivi. 1) Non si tratta di uno scontro tra tutto l’Islam e tutto
l’Occidente…2) E’ una guerra strisciante perché, a eccezione della guerra del Golfo del
1990-91, è sempre stata combattuta con mezzi limitati: terrorismo da una parte e raid
aerei, operazioni segrete e sanzioni economiche dall’altra. 3) E’ una guerra strisciante
perché gli atti di violenza, pur ripetuti, non sono continui…Tuttavia, una guerra
strisciante è pur sempre una guerra…il numero dei morti e delle vittime in generale è
nell’ordine delle migliaia” (op.cit., pp. 316-317)
531
op.cit., p. 316
231
universalizzare i propri valori532 e le proprie istituzioni, di
mantenere la propria superiorità militare ed economica e di
intervenire nei conflitti del mondo musulmano…4) (nel) crollo del
comunismo (che) ha eliminato un nemico comune dell’Islam e
dell’Occidente, rendendo più acuta in entrambi la percezione della
reciproca minaccia…5) (nei) sempre maggiori contatti e rapporti tra
musulmani e occidentali (che) stimolano in ciascuna delle due parti
un senso tutto nuovo della propria identità e delle differenze che le
separano”, mettendo “altresì in evidenza la disparità circa i diritti di
coloro che vivono in un paese che appartiene alla civiltà avversa”533
Non meno problematico per l’Occidente risulta poi lo “sviluppo
economico dell’Asia e la sempre maggiore autostima delle società
asiatiche” che, secondo Huintington, starebbero “disgregando
l’ordine
politico
internazionale”,
promuovendo
un
proprio
potenziale militare, nonché rafforzando l’influenza cinese nella
regione al punto da fare della Repubblica Popolare Cinese la
maggiore potenza asiatica, oltre che la più probabile candidata alla
leadership mondiale534 .
Oltretutto l’enorme sviluppo economico della Cina, costringerà
in futuro il Giappone, finora vicino all’Occidente, ad accostarsi
diplomaticamente alla civiltà sinica, recidendo i suoi legami con
Europa e USA535. Soltanto una maggiore “capacità globale degli
Stati Uniti di sostenere il ruolo di unica superpotenza mondiale e di
guida dinamica delle relazioni internazionali”, assieme ad un più
532
“Il problema dell’Islam non è la Cia o il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti,
ma l’Occidente, una civiltà diversa le cui popolazioni sono convinte del carattere
universale della propria cultura e credono che il maggiore – seppur decrescente – potere
detenuto imponga loro l’obbligo di diffondere quella cultura in tutto il mondo. Sono
questi gli ingredienti di base che alimentano la conflittualità tra Islam e Occidente”
(op.cit., p. 319)
533
op.cit., pp. 309-310
534
op.cit., p. 320
535
cfr. p. 343
232
accentuato “impegno americano a mantenere la propria presenza in
Asia e a contrastare fattivamente i tentativi cinesi di espandere la
propria influenza”536, potranno trattenere in futuro l’impero del Sol
Levante da una simile scelta.
Se infatti Asia e Islam, singolarmente presi, costituiscono un
problema per l’Occidente, peggio ancora sarebbe se quest’ultimi
riuscissero
nell’impresa
di
stringere
un’“alleanza
islamico-
confuciana”537, mettendo Europa e Nordamerica addirittura in una
posizione di subordinazione economica e militare in vista di un
conflitto armato in cui la civiltà occidentale partirebbe in una
situazione di sostanziale svantaggio.
6.1.7 Lo scontro delle civiltà: il conflitto globale e le “regole” per
impedirlo
Come si svolge, invece, la dinamica dei rapporti tra civiltà a
livello globale? Per Huntington i rapporti tra le civiltà si
configureranno in futuro o come una “pace fredda” o come una
“guerra fredda”538.
I motivi di questi due possibili sviluppi risiederanno: a) nelle
“iniziative
delle
organizzazioni
internazionali
di
livello
mondiale”539; b) nel potere militare, così come in quello economico;
c) nei tentativi di proteggere popoli appartenenti alla stessa civiltà,
536
op.cit., p. 349
op.cit.,p. 354
538
op.cit., p. 303
539
op.cit., p. 304
537
233
discriminando ed espellendo “dal proprio territorio popoli di altre
civiltà”540; d) negli sforzi di imporre o promuovere i propri valori ed
istituzioni a popoli appartenenti ad altre civiltà; e) infine, nelle
questioni territoriali.
Queste cause di conflittualità globale, pur essendo classiche
della politica internazionale541, verrebbero tuttavia accentuate dalle
differenze culturali tra civiltà che spingerebbero gli stati guida a
chiamare a raccolta tutti i membri della propria civiltà, innescando
il meccanismo di appello ai paesi fratelli e la conseguente
escalation militare.
Come impedire, da parte occidentale, un conflitto globale tra
stati guida e la catastrofe che ne deriverebbe?
L’Occidente, sempre più dipendente “dalla volontà degli
americani di riconfermare la propria appartenenza alla civiltà
occidentale”542 deve innanzitutto respingere, sul piano interno, “i
canti di sirena disgregatori dei paladini del pluralismo culturale” e
su
quello
internazionale
la
fede,
“falsa”,
“immorale”
e
“pericolosa”543, “nella validità universale della propria cultura”544.
È poi “nell’interesse degli Stati Uniti e dei paesi europei: creare
una maggiore integrazione politica, economica e militare”,
incorporando nell’Unione europea e nella Nato “gli stati occidentali
dell’Europa centrale” e incoraggiando nel medesimo tempo
l’“occidentalizzazione” dell’America latina545.
Dopodiché,
una
volta
riusciti
a
“rallentare
l’allontanamento…del Giappone e la sua politica di avvicinamento
540
op.cit., p. 304
op.cit., p. 304
542
op.cit., p. 458
543
“L’universalismo occidentale…è pericoloso per il mondo perché potrebbe portare a
una grande guerra tra stati guida di civiltà diverse ed è pericoloso per l’Occidente perché
da questa guerra potrebbe uscirne sconfitto” (op.cit., p. 463)
544
op.cit., p. 462
541
234
alla Cina”, e accettata “la Russia come stato guida dell’Ortodossia e
come grande potenza regionale”546, l’Occidente deve pure
sviluppare, nei confronti delle altre culture, una politica volta a
mantenere la propria superiorità militare e tecnologica, e a
riconoscere “che in un mondo composto da più civiltà, l’intervento
occidentale negli affari delle altre civiltà è probabilmente la fonte
più pericolosa di instabilità547 e di potenziale conflitto planetario”548
Huntington propone infine all’Occidente, il cui atteggiamento
appare decisivo per il mantenimento della pace internazionale, tre
regole per evitare in futuro un conflitto globale. Esse sono: la regola
dell’astensione, “secondo la quale gli stati guida si astengono
dall’intervenire in conflitti interni ad altre civiltà”549; la regola della
mediazione congiunta, “secondo cui gli stati guida negoziano gli uni
contro gli altri al fine di contenere o porre fine alle guerre di
comunità tra stati o gruppi appartenenti alle rispettive civiltà”550; e
infine la regola delle comunanze, in base alla quale “i popoli di tutte
le civiltà dovrebbero cercare di trasmettere i valori, le istituzioni e le
usanze condivise da popoli di altre civiltà”551
“Nell’epoca che ci apprestiamo a vivere –
conclude
Huntington552 – gli scontri di civiltà rappresentano la più grave
545
cfr. p. 465
ibidem
547
“Una guerra planetaria (potrebbe essere la conseguenza dell’) escalation di una guerra
di faglia tra gruppi appartenenti a civiltà diverse, presumibilmente tra musulmani e non
musulmani. Le probabilità di escalation aumentano se più aspiranti stati guida
musulmani competono nel fornire assistenza ai propri correligionari belligeranti, mentre
vengono ridotte dall’interesse dei paesi fratelli di secondo e terzo livello a non farsi
coinvolgere eccessivamente nel conflitto in atto. Un’altra e più pericolosa causa di
guerra globale tra civiltà è il mutare degli equlibri di potere tra le diverse civiltà e i
rispettivi stati guida. Se avrà seguito, l’ascesa della Cina e la crescente spavalderia
culturale di questa ‘protagonista assoluta della storia umana’ produrranno nei primi anni
del XXI secolo tensioni tremende sulla stabilità internazionale” (op.cit., p. 466)
548
op.cit., p. 465
549
Ibidem
550
op.cit., p. 472
551
op.cit., p. 477
552
op.cit., p. 479
546
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minaccia alla pace mondiale, e un ordine internazionale basato sulle
civiltà è la migliore protezione dal pericolo di una guerra
mondiale”553
553
Ibidem
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