Il bisogno di filosofia

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Il bisogno di filosofia
La risposta alla domanda sul “bisogno” di filosofia, oggi, può essere duplice. Da un alto, infatti,
ci si può chiedere perché i bambini, in generale, sentano tale bisogno; dall’altro perché, per i
bambini della nostra attuale società, la filosofia deve poter essere considerata un’esigenza primaria.
Riguardo al primo punto basta osservare che l’atteggiamento autenticamente filosofico è sempre
stato individuato, dai greci in poi, in quello che, scevro da intellettualismi preconcetti, da pregiudizi di qualsivoglia natura, conserva intatta la capacità dello “stupore”, la disponibilità alla
meraviglia, l’apertura alla teoria (processione di fenomeni) che talora può rivelarsi autentica
epifania, se non teofania.
Se, d’altra parte, è vero che far filosofia equivale a porsi delle domande, a chiedere ragione di
tutto ciò che ci circonda, a formulare il socratico ti esti o il più familiare “perché”, magari reiterato
fino a costringere l’interlocutore - o la natura - a fornire risposte ragionevolmente adeguate, allora il
bambino è “naturalmente” filosofo. Né si può obiettare che le domande dei bambini a differenza di
quelle del vero filosofo siano banali o ovvie, superficiali. Sappiamo bene che è l’ovvietà apparente,
quella a cui la mente adulta non bada, a costituire talora quel nocciolo di evidenze che, ad esempio,
Husserl considerava il tessuto dell’eidetico “mondo della vita”.
Nel rapporto insegnante-allievo, dunque, in filosofia, può veramente accadere che i ruoli si
confondano, si fluidifichino, si invertano addirittura. Certo l’insegnante guida la ricerca, indirizza il
dialogo ma potrebbe trovarsi spiazzato – o se vogliamo – illuminato dalle risposte e/o domande
sorprendentemente “autentiche” di un bambino che, come diceva Bergson, riesce a sollevare da uno
spiraglio il velo che l’opacità pratico-razionalistica ha fatto calare sulla realtà.
Se queste sono alcune delle considerazioni che giustificano il bisogno di filosofia nel bambino
di qualunque società e di ogni epoca storica, le motivazioni su cui si fonda l’assoluta esigenza di
“fare filosofia” da parte dei bambini della nostra società contemporanea sono ancora più forti e tali
da farci considerare indilazionabile quello che, a tutt’oggi, è una pratica limitata a poche
sperimentazioni per base volontaria. Mai, infatti, come oggi il mondo della comunicazione
multimediale e dell’informazione ha invaso così pervasivamente la vita non solo degli adulti, ma
anche quella dei bambini.
Reggere l’urto di una tale ondata è pressochè impossibile anche per gli adulti. Il bambino poi
non solo non sa né potrebbe re-agire, ma rischia di non riconoscere nemmeno ciò che lo sta
investendo.
Infarcito fin dalla nascita dal bombardamento mediatico, finisce per identificarsi con esso con
conseguenze fisiche e psichiche non sempre controllabili. Così, ad esempio, mondo virtuale e
mondo reale tendono a confondersi, linguaggio informatico e vocabolario usuale si mescolano,
gioco vissuto realmente e gioco simulato sono la stessa cosa.
Demonizzare il mondo della nuova comunicazione o pensare di proteggere in qualche modo il
bambino da parte di genitori e/o educatori non ha senso, anche perché esso è comunque il nostro
mondo e tutti, bambini compresi, vi siamo immersi.
Del resto è innegabile che i nuovi media stimolano anche la crescita di certe forme di
intelligenza e fantasia. “S.O.S. Amica Sofia” viene, allora, da dire.
La filosofia può infatti può risultare l’unico timone cui ancorarsi per navigare in modo corretto
tenendo ben chiara la rotta: interrogare e interrogarsi su tutto, cercare insieme le risposte,
apprendere a farsi domande.
La posta in gioco è, come sempre, l’umanità dell’uomo, dell’uomo-bambino, prima di tutto.
Valerio Terzetti, Assisi
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