FRANCESCO ALFIERI Pessoa humana e singularidade em Edith Stein. Uma nova fundação da antropologia filosófica Perspectiva, São Paulo 2014, pp. 180 l libro affronta uno dei temi centrali della ricerca promossa da F. Alfieri ossia l’intricata questione sulla singolarità/individualità della persona, tema filosofico-teologico che Edith Stein ha affrontato a più riprese nello svolgimento della sua ricerca e della sua attività didattica. La stessa vicenda filosofica e biografica della fenomenologa ha interessato – scrive S. Filho nella Prefazione – «molti lettori brasiliani, che, tuttavia, non hanno molta familiarità con la fenomenologia e il suo vocabolario “così tecnico”» (XIV). Il libro è frutto di una serie di lezioni che Alfieri ha tenuto all’università del Salvador, introducendo anche molti ascoltatori nell’intricato mondo della fenomenologia husserliana. L’avvio è dato dall’approfondire il concetto chiave di persona umana nel pensiero della Stein e introdurre al metodo fenomenologico che «consiste justamente em não conceber o ser humano como un ser dotado de consciência e situado em contraposição com o mundo» (XVIII), evidenziando anche l’importanza del pensiero della fenomenologa nel contesto attuale del panorama filosofico. Il primo intento del libro è, giustamente, collocare questo pensiero steiniano nel contesto della scuola di E. Husserl, passando in rassegna gli sviluppi centrali nei suoi Rassegna di Teologia 57 (2016) 329-352 ramificati e articolati risvolti. Le lezioni si basano sull’idea di fondo che la fenomenologia applicata allo studio della filosofia medievale permette alla Stein di fondare una nuova antropologia filosofica avente come base/supporto una concezione di individualità [principium individuationis]. Il leit motiv, per ritrovare una sorta di filo di Arianna nelle intricate riflessioni della Stein, rintracciato da Alfieri, è la magna quaestio dell’individuazione, omologabile, a suo avviso, alla meticolosa analisi dell’Aufbau der Person, indiscutibile fulcro d’interesse su cui s’intessono i motivi di fondo della filosofia fenomenologica. Nel testo vengono presentati da Alfieri i risultati sulle influenze scotiste. Il Doctor Subtilis non accoglie l’ipotesi che vede la corporeità come principio di individuazione, a differenza di Tommaso, e sostiene essere l’anima il principio individuante, che Tommaso pone nella materia signata quantitate ossia «matéria assinalada por uma signata quantitate» (154). Edith Stein si orienta, pertanto, all’haecceitas scotista, in portoghese tradotto con istidade (153), pur non conoscendo la pseudo-autenticità della formula, ne riesce a cogliere il senso profondo. Nell’utilizzo delle fonti Edith Stein si affida alle traduzioni vigenti, Recensioni I 329 ignara, suo malgrado, dell’imponente stratificazione terminologica di quegli scritti, pertanto Alfieri nel suo studio capillare stabilisce che, per esempio, l’autore indiscusso delle Quaestiones disputatae de rerum principio non è Scoto, bensì il francescano Vitalis de Furno divenuto l’inconsapevole fonte delle dottrine scotiste, in questo caso pseudo-scotiste, non solo della Stein, ma anche di altri fenomenologi che si erano avvalsi di questi scritti. Analoga situazione si è verificata per lo scritto per l’abilitazione di M. Heidegger (Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scoto). Il principio d’individuazione per gli esseri viventi non è dato dalla materia, ma da una pienezza qualitativa che è ultima solitudo [insuprimível solitude/solidão], trovando la sua ulteriore specificazione nel Kern personale. A partire dai Beiträge apparsi sullo Jahrbuch diretto da Husserl, la Stein presenta un dichiarato interesse verso la questione dell’individualità che viene elaborato sulla base del Kern personale; ella è convinta che questo Kern non sia determinato da elementi quantitativi o qualitativi inerenti la singolarità. L’individuazione si situa oltre ogni possibile determinazione psichica o materiale, i cui tratti inalienabili quali la consistenza e l’immutabilità determinano un chiaro andamento nella persona, non è, quindi, lo sviluppo della persona a forgiare il Kern, bensì è questo che orienta qualsiasi evoluzione psichica e/o materiale di questo andamento. La materia signata quantitate non può essere il fondamento dell’individualità, in quanto la genericità della relazione tra ma330 teria e forma non ci dice nulla sulla singularitatae della persona umana, pertanto non è una semplice Leerform [forma vazia, in portoghese], ma una qualità dell’ente che si evidenzia nella concrezione dell’indipendenza. Il principium individuationis non può essere dedotto da una considerazione che vagli solo la specificazione di generi e specie, variamente intrecciati, ma la sua “pienezza qualitativa”, nei suoi svariati strati ontologici come quello dell’ultima solitudo. Il ritorno a Tommaso d’Aquino e agli autori medievali, per Stein, non era stato dettato solo dalla filosofia “ufficiale” della Chiesa, ma dalla decisa volontà di recuperare un mondo che aveva affrontato gli stessi problemi della fenomenologia, ma con un diverso linguaggio filosofico, con delle soluzioni, come nel caso di Scoto, veramente interessanti. Tuttavia, nel ricercare il nucleo personale ella ritorna ai suoi esordi filosofici in cui tentando di colmare, a suo avviso, una lacuna dell’analisi husserliana s’imbatte nella tensione tra originario e non originario dell’atto entropatico, che da inizio a quelle analisi che la condurranno a interrogare l’essere umano come via privilegiata alla conoscenza dell’alterità, non solo della persona, ma anche della trascendenza divina. Alfieri, in questa sua ultima fatica, analizza quelle citazioni scotiste, vagliandole anche nelle loro intricate questioni filologiche e storiografiche, e che diedero un impulso decisivo alla ricerca della Stein, creando una sorta di fondazione all’ambizioso progetto, mai concluso, di esplorare la singolarità e originalità dell’essere umano. Duns Scoto sotto molti aspetti supe- ra la posizione di Tommaso laddove coglie la stessa incarnazione di Dio come una prevedibile modalità di attuazione del suo amore divino; non sembri fuori luogo che lo stesso K. Rahner, anche se da presupposti filosofico-teologici del tutto opposti, abbia affrontato e condotto una operazione di risposta a una sfida immane e di faraoniche proporzioni. Il libro si conclude, anche, con un interessante glossario che traduce in lingua portoghese importanti concetti della fenomenologia e della filosofia medievale, dando un ulteriore opportunità a chi si avvicina al testo di avere la possibilità esemplificata di importanti supporti linguistici per avventurarsi nell’intricato mondo della fenomenologia e della filosofia medievale rivisitata, con estrema originalità, da Edith Stein. Nicola Salato GERHARD LOHFINK L’ A., noto studioso del Nuovo Testamento, affronta con coraggio e lucidità l’argomento dell’identità di Gesù di Nazaret. Con linguaggio chiaro e discorsivo si propone di «accostarsi in modo critico, con discernimento e con fiducia al Gesù reale» (6). Il libro è diviso in due parti. La prima parte comprende dodici capitoli, dedicati a «ciò che Gesù volle». I temi affrontati sono: 1. Il cosiddetto Gesù storico; 2. La proclamazione del regno di Dio; 3. Regno di Dio e popolo di Dio; 4. Il raduno d’Israele; 5. La chiamata alla sequela; 6. La multiformità della chiamata; 7. Le parabole di Gesù; 8. Gesù e il mondo dei segni; 9. I miracoli di Gesù; 10. Il monito del giudizio; 11. Gesù e l’Antico Testamento; 12. Gesù e la Torah. La seconda parte dell’opera comprende nove capitoli che indagano su «Chi fu Gesù?». Gli argomenti trattati sono: 13. La risolutezza assoluta nella vita di Gesù; 14. Il fascino del regno di Dio; 15. La decisione a Gerusalemme; 16. Morire per Israele; 17. Il suo ultimo giorno; 18. Gli eventi pasquali; 19. L’autorità rivendicata da Gesù; 20. La risposta della Chiesa; 21. Il regno di Dio: un'utopia? Di grande interesse e attualità risulta il rapporto che Gesù ha mantenuto con l’Antico Testamento e con la Torah in specifico. L’A. stesso considera il capitolo «Gesù e la Torah» «uno dei più importanti del libro» (232). Con chiare argomentazioni rigetta la “diseredazione” storico-salvifica di Israele, sostenuta nel passato con intenzioni sostitutive da parte della Chiesa. Soffermandosi su temi sensibili come: duplice comandamento, amore dei nemici, divieto di adirarsi, divorzio, rispetto dei genitori, rispetto del sabato, puro e impuro, con dovizia di 331 Recensioni Gesù di Nazaret. Cosa volle – Chi fu Queriniana, Brescia 2014, pp. 456, € 43,00 citazioni dimostra quanto profondo e rispettoso sia l’atteggiamento di Gesù nei confronti delle Scritture del suo popolo. «Gesù non abroga la Torah, non la abolisce, non la sostituisce con una nuova Torah, ma la interpreta […] Cerca dietro la lettera la volontà originaria di Dio […] mette in luce il centro: il comandamento dell’unicità e della sovranità di Dio. […] Pone tutta la Torah nella luce del regno di Dio e sottopone a tale regno tutti i comandamenti. Unisce il comandamento principale con il comandamento dell’amore del prossimo di Lv 19. Conferisce così alla Torah il suo centro […] Parlò sempre dell’una e unica legge di Dio, facendola solo riecheggiare in una maniera del tutto nuova […] il discorso della montagna non è una nuova Torah» (258). E ancora, Gesù «non ha trasceso la Torah, ma ne ha trovato il centro e l’ha così portata tutta a compimento […] Egli ha effettivamente vissuto la Torah con tutta la sua esistenza e l’ha confermata in una maniera irrevocabile e irraggiungibile nella sua persona» (259). Pertanto, Gesù viene riconosciuto come l’interprete escatologico della Torah, letta con stupefacente sensibilità alla luce del suo centro dinamico: lo Shemà (cf Dt 6). Al di là dei pregiudizi o dei luoghi comuni, Lohfink sostiene che la Legge mosaica non può 332 essere considerata obsoleta o abrogata, ma tutta la Torah va interpretata alla luce di Gesù Cristo per scoprire quale sia la volontà di Dio. L’A. si domanda ancora: come mai Israele, sempre sconfitto, perseguitato e disperso nel mondo, è sopravissuto come popolo? Solo in virtù delle Scritture custodite gelosamente. Grazie a esse Israele si distingue per la sua capacità di discernimento. «La chiesa ha urgentemente bisogno quanto la sinagoga di tale continua opera di discernimento. Essa non può cadere in quello stato morboso dello spirito, in cui tutto è uguale, tutto parimenti valido, tutto indifferente. Lì dove non si discerne più tornano i vecchi dèi» (261). Quanto è vero! Infine, condividendo un’affermazione del teologo F. Crüsemann, asserisce: «L’identità del Dio biblico dipende dal legame con la sua Torah». «Perciò la Chiesa non può e non deve mai rinunciare alla Torah. Neppure a parti di essa. Deve naturalmente viverla e leggerla nello spirito di Gesù» (262). La lettura di questo lavoro esegetico e teologico apre la mente a chi vuole cercare la verità, a chi è interessato a conoscere Gesù di Nazaret. Scritto in maniera brillante e preciso, è da ammirare anche per l’assenza di tanti svarioni così frequenti anche in libri più specialistici del presente testo. Antonio Carapellese ARMANDO AUFIERO I n cinque impegnativi capitoli il testo si concentra sull’analisi e sul senso della sofferenza umana. Nel primo l’A. mette in evidenza “l’esperienza della sofferenza”, come dato ineliminabile della vicenda umana. Poi espone il dialogo tra Nietzsche e Scheler sul senso del soffrire, cercando di comprendere la critica dell’uno e la risposta del secondo, nel rapporto tra esaltazione della vita e valore dell’impegno ascetico. Quindi passa a presentare la vita e l’opera di mons. Luigi Novarese (1914-1984): giovane ammalato di tubercolosi ossea, guarito miracolosamente per intercessione di don Bosco, ordinato sacerdote e impegnato al servizio della S. Sede in Segreteria di Stato, fondatore del Centro Volontari della Sofferenza e dei Silenziosi Operai della Croce. Ora anche lui beatificato per decisione di Benedetto XVI, l’11 maggio 2013. Mons. Novarese insiste molto sulla dignità personale del malato, e sulla possibilità di trasformare la sofferenza da privazione e dramma, in opportunità e offerta redentrice in Cristo. Il malato non deve essere considerato una persona diminuita da commiserare, ma una persona normale che deve essere rispettata e aiutata ad assumere in modo responsabile la propria situazione esistenziale. Il dolore e la sofferenza devono essere prima combattuti: bisogna lottare per la salute contro la malattia. La cura del malato deve rivolgersi al corpo, per diminuire o eliminare il dolore fisico; e deve raggiungere l’anima, dove ognuno è chiamato a decidere come vivere e cosa fare nella concreta situazione in cui si trova. A livello spirituale, davanti alla sofferenza che non passa, e anzi progredisce verso la morte, si coglie l’angosciosa fragilità dell’esistenza umana nel tempo. In questa situazione limite tutto può essere messo in discussione. Tutto però può anche essere illuminato dalla fede, e ognuno può decidere di mettere la propria sofferenza accanto alla sofferenza di Cristo per la salvezza del mondo. Questo è il messaggio cristiano e questa è la redenzione della sofferenza: non più fattore di distruzione, ma forza di redenzione. La luce della Croce infatti dà senso al mistero dell’uomo minacciato dalla morte. L’A. fa un discorso austero quando invita a non sottovalutare il dramma della sofferenza e a non dare risposte affrettate e consolatorie; soprattutto la tecnica della “rimozione” si rivela negativa, perché prima o poi il male attacca tutti. Da sempre il dolore, e specialmente il dolore innocente, 333 Recensioni La questione teologica del soffrire. Il profilo morale e cristiano dell’esperienza della sofferenza nell’opera di Luigi Novarese CVS, Roma 2015, pp. 333, € 25,00 pone in modo acuto domande sul senso dell’esistenza e sul rapporto dell’uomo con Dio. Perciò è necessario annunciare in modo integrale, con semplicità e forza, il mistero di Cristo, dove la passione e la morte sfociano nella risurrezione. Così la pazienza cristiana non è rassegnazione all’ineluttabile destino, ma è speranza sicura nella vita nuova che non finisce. La lettura di questo libro (un lavoro di dottorato discusso all’Università Gregoriana) aiuterà a riflettere sull’intera problematica relativa al dolore, alla ricerca di vie umane e cristiane per affrontare la sofferenza e aiutare i sofferenti con equilibrio e partecipazione. Domenico Marafioti SJ MATTEO BERGAMASCHI Performance divino-umana. La concettualità del drammatico nella proposta teologica di H.U. von Balthasar Mimesis, Milano 2015, pp. 340, € 26,00 Matteo Bergamaschi offre un testo genuinamente teoretico, che affronta in maniera sistematica e puntuale uno degli snodi cruciali – e tutto sommato meno frequentati – del pensiero del teologo svizzero. È la nozione di dramma, inteso come incontro – e dinamica interazione – tra libertà a costituire il cuore dell’indagine di Bergamaschi, che si è qui misurato con un compito per nulla facile o scontato. Difficoltà relativa non solo alla necessità di orientarsi nel vasto pelago della produzione balthasariana, quanto, più profondamente, all’urgenza di ponderare e attentamente valutare la specificità della sua ermeneutica teologica. Troppo spesso si è ingenuamente ridotta la concezione balthasariana del pulchrum come trascendentale dell’essere a pretesto per riflessioni di tipo “estetico” o artistico, mentre la nozione di un’estetica teologica va in334 tesa nel senso kantiano di studio della percezione, percezione della forma (Gestalt) unica e insuperabile che il Dio invisibile assume, manifestandosi nella storia in Cristo (tale è la fede). Come ricostruisce l’A., simile strategia concettuale basata sul fenomeno dell’apparire e del percepire può servirsi a questo scopo dello strumentario del bello, rientrando a pieno titolo nell’esposizione della teologia fondamentale. L’impalcatura teorica edificata dal grande teologo, che ci permettiamo di paragonare a una solida, complessa e maestosa cattedrale gotica, si pone come la grande sintesi cattolica del XX secolo. Non è dunque possibile indagare con serietà alcuno dei concetti cardine di tale sistema, senza possedere una sicura conoscenza dell’edificio in generale. Tale la sfida, ardua e affascinante a un tempo, affrontata dall’A. discorso balthasariano. Temporalità e rappresentazione, escatologia e cristologia, ecclesiologia e mariologia, esistenza e messa in scena, performance; coscienti di non poter, in questo breve spazio, ripercorrere nemmeno a grandi linee questioni di tale portata, intendiamo piuttosto evidenziare solo alcune delle realtà che l’attenta analisi di Bergamaschi ci accompagna a leggere e considerare. Il discorso teologico non è solo esercizio “alto” del pensiero; quando affrontato, come nel caso qui discusso, in relazione ai tratti dell’esperienza umana, risulta piuttosto in grado di evidenziare aspetti che pertengono al dramma stesso dell’esistenza. La teodrammatica balthasariana, nell’originale lettura di Bergamaschi, si rivela così in grado di configurare una co-relativa “antropodrammatica”; è quanto ci aiuta a capire l’A. in diversi momenti della sua analisi. Analizzando i tratti del teodramma balthasariano, nel capitolo III, egli evidenzia come per il teologo, attraverso la mediazione dello Spirito Santo, la frattura tra l’io e il ruolo – connaturata al teatro, e al teatro del mondo nella sua declinazione rappresentativa – può infine saldarsi; così evidenzia perfettamente come, per diventare degli “io” autentici, non alienati, gli uomini avessero bisogno di un supporto ulteriore, non immaginabile o prevedibile nel suo darsi gratuito e sovrano; era insomma necessario che in scena entrasse anche una libertà infinita. È in senso cristologico che il nodo viene sciolto: «nell’Uomo-Dio si verifica la coincidenza tra l’identità dell’attore e il ruolo che questi deve esercitare nel 335 Recensioni Concettualità del drammatico, e strumentario teorico relativo al mondo del teatro sono, è cosa nota, posti al centro dell’attenzione del teologo svizzero fin dall’inizio del suo cammino speculativo. Meno chiari risultano invece natura, legame e senso tra l’interesse per il teatro e la sua storia, da una parte, e teologia, dall’altra. L’ipotesi dell’A., verificata sia in un serrato confronto con i testi – in particolare con il Trittico – sia con diverse proposte offerte dai più autorevoli critici, è molto chiara. Per Balthasar l’oggetto della teologia, il suo focus risiede nel drammatico incontro tra la libertà sovrana e infinita di Dio e la libertà finita e ferita dell’uomo; il ricorso al drammatico, argomenta Bergamaschi, è in questo senso per l’A. «funzionale all’elaborazione di categorie da impiegare per la riflessione teologica, ovvero per illustrare e spiegare i “contenuti” della fede cristiana. L’analisi del teatro è volta a delineare l’interpretazione dei misteri della fede […]. A questo fine, Balthasar recupera l’aspetto evenemenziale dell’azione teatrale, in modo da enunciare il carattere di evento reale, effettuale, che pertiene al dramma tra Dio e l’uomo, dramma che ha il vertice nell’azione cristologica» (16). Gli argomenti affrontati dall’A. sono molteplici, e la puntuale ricostruzione storico-critica della letteratura balthasariana – lavoro questo che trova già in sé una precisa ragion d’essere – è nello scritto di Bergamaschi sempre funzionale a un secondo momento, quello relativo alla riflessione, alla portata cioè teoretica – e tangenzialmente antropologica – del teodramma» (170). Da un punto di vista “antropodrammatico”, il problema risiede nel fatto che l’azione umana, dal momento che si realizza in un contesto sociale, facilmente s’inscrive nell’alienazione tra interiorità e ruolo sociale che si deve assumere per agire (la stessa cosa che si verifica nel teatro, tra attore e ruolo); Cristo presenta l’unico caso in cui ciò non avviene, perché Colui che lo origina (il Padre che lo genera come Figlio) è Colui che “contemporaneamente” lo invia, affidandogli la missione di Redentore (il Padre lo manda come Inviato, gli dà il ruolo di Inviato); è dunque soltanto in questo caso che le due cose non sono separate, ed è solo nella misura in cui noi diventiamo figli nel Figlio che possiamo avere una missione, una possibilità di azione (un ruolo) che non ci alieni; si evidenzia così come la vocazione cristiana si ponga come l’unica azione in cui persona e ruolo non sono separati. Certo, per analogia, per partecipazione, a un livello simbolico (come già e non ancora); eppure, realmente ed effettivamente. Ed ecco così raggiunto un primo guadagno considerevole, evidenziato dall’A.; per essere degli “io” reali, non alienati, ci voleva Cristo. È a questo livello, relativo alla vita intradivina, al suo dispiegamento economico come Performance assoluta e irripetibile (e che pertiene anzitutto al Figlio-inviato), che si presenta uno degli snodi più complessi della teodrammatica balthasariana. Ed è qui – tra gli altri luoghi – che possiamo cogliere in actu exercito la lettura che ne offre l’A. Bergamaschi ritiene che Balthasar, abbandonate le categorie della 336 teologia scolastica, si rivolga alla concettualità del teatro cercandovi un veicolo meno inadeguato e più dinamico per esprimere nel suo aspetto drammatico l’incontro tra liberta divina e libertà umana. Il cristianesimo è anzitutto evento, azione, partecipazione; in questo senso «anziché l’esse della scolastica, è l’azione il concetto analogo per comprendere la rivelazione cristiana» (310). Quale, in ultima istanza, il modello drammaturgico impiegato da Balthasar in sede teologica? L’A., dopo una scrupolosa ricostruzione della produzione balthasariana relativa al suo interesse per il teatro, conclude così: Balthasar conosce e impiega i paradigmi relativi al teatro della rappresentazione il quale, tuttavia, non si rivela in grado di soddisfare le esigenze profonde del teologo. Tale concettualità non si rivela cioè in grado né di esporre in maniera adeguata i contenuti della dogmatica, né di veicolare quello che per l’A. si pone come il concetto unificatore della teologia balthasariana, la categoria cioè di azione: «è questa la categoria fondamentale, peculiare della sua proposta teologica; il teatro è impiegato nella misura in cui è il dispositivo, l’apparato, che in Occidente ha tentato di rendere l’azione (materiale) nel suo aspetto (formale) drammatico, evenemenziale […] L’articolazione tra dramma e azione risiede nel fatto che l’incontro delle libertà, al cuore della proposta dell’autore, si realizza attraverso l’azione unica di un attore sul palcoscenico del mondo; il rapporto tra libertà finita e infinita non è pertanto una “struttura”, un’“essenza”, quanto dell’A., che insieme a Balthasar e da lui istruito e ispirato, ci indica una via alternativa, sovversiva e meno frequentata dagli abitanti del nostro tempo. Il senso è un'azione, sì, ma non una qualsiasi azione; il senso è un azione qualificata, l’agire di un io non alienato, di un soggetto consistente, una performance cioè – finalmente! – libera dall’angoscia di un esito calcolato e preordinato da un impersonale sistema socio-economico. Il cammino del Dio che si fa uomo, e il nostro con lui, è il passaggio dalla performance (diventa il migliore!) alla Performance (sii te stesso). Questo, per chi scrive, il valore “antropodrammatico” del lavoro di Bergamaschi, che nell’evidenziare un tratto fondamentale della produzione balthasariana, il teatro e la sua funzione teologica, oggettivamente ancora poco indagato – lacuna tanto più grave se pensiamo a quanto esso rivesta un ruolo centrale al suo interno – ci fornisce anche una splendida testimonianza di cosa significhi, come scrive S. Ubbiali nell’introduzione, onorare i grandi pensatori, accompagnandone intelligentemente l’originale spinta riflessiva. Davide Navarria 337 Recensioni piuttosto una dinamica che avviene in modo evenemenziale, attraverso un’azione unica e irripetibile» (302303). Condizione per il dispiegarsi del dramma divino-umano è la non separazione tra l’attore e il pubblico. Ed è questo il motivo per cui Balthasar devia in direzione del teatro della performance. Tale torsione tuttavia, procede l’A., è tronca, incompiuta almeno dal punto di vista della sua articolata e cosciente esplicitazione. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che Balthasar continui a utilizzare, almeno da un punto di vista terminologico, i “vecchi abiti” del teatro della rappresentazione. Balthasar (almeno implicitamente) abbandona il paradigma della rappresentazione, e, sebbene non tematizzi mai la cosa, essendo occupato dalla dogmatica e dalla cristologia, si approssima agli sviluppi della drammaturgia della performance (o per altri versi al teatro povero di Grotowski). «Il senso è un’azione» (279). Questa affermazione, netta e lapidaria, restituisce la cifra di quanto (insieme a una documentata e pertinente ricostruizione storicocritica) è in grado di veicolare il testo VALTER DANNA Universo, vita, coscienza. Introduzione alla filosofia della scienza e della natura Effatà, Cantalupa 2015, pp. 335, € 22,00 S i tratta di un libro complesso, che affronta, come promette il titolo, tre fondamentali problemi scientifici, che hanno immediato riscontro a livello filosofico e implicazioni a quello teologico, e che riguardano l’esistenza e la natura dell’universo, della vita e della coscienza umana. Questo approccio è frutto della competenza dell’Autore in ambito sia scientifico (a partire dalla laurea in fisica teorica) che filosofico (dalla tesi di laurea in filosofia, in cui ha approfondito il pensiero di Bernard Lonergan, alla docenza accademica in Filosofia teoretica) e teologico (a partire dagli studi relativi). Come rileva la prefazione di E. Segatti, attualmente all’interno di ogni tipo di sapere è necessario ridefinire i propri limiti i propri ambiti e i propri compiti, senza pretese di superiorità da parte di una o di un’altra disciplina, ma, anzi, in un atteggiamento di ascolto reciproco e con la consapevolezza della reciproca interdipendenza (cf 5). Ciò vale, quindi, per il complesso dei tre ambiti della scienza, della filosofia e della teologia. È lungo questo filo conduttore che si sviluppa tutto questo libro, in cui le varie tematiche e le problematiche ad esse relative appaiono a un tempo connesse dal triplice approccio, utilizzato ogni volta, e distinte 338 secondo la peculiarità di ciascuna di esse. Ne risulta un quadro unitario molto stimolante, anche se il libro non è stato originariamente scritto come tale, ma costituisce una raccolta di varie pubblicazioni, conferenze inedite e lezioni accademiche sulla filosofia della scienza e della natura (come recita il sottotitolo) condotte nell’arco di venticinque anni (cf 7). Questa unitarietà di fondo, nonostante la frammentarietà ed eterogeneità delle circostanze occasionanti, indica come nella coscienza dello stesso Autore (non disposto a rinunciare all’esercizio dello spirito critico per nessuna delle tematiche affrontate) le sue molteplici acquisizioni non sono rimaste elementi isolati e affastellati, ma hanno potuto essere confrontate e integrate fra loro; si tratta di un processo che, invece, in tanti casi non avviene, come si evince anche da opere in cui pure sono presentati punti interessanti di risultati scientifici e di riflessioni filosofiche e teologiche. Questa intelligente integrazione costituisce un pregio peculiare del libro. Nella prima delle quattro parti dell’opera, organicamente costituita, sono affrontate le scienze della natura, evidenziandone: lo sviluppo storico sia in seguito alla prima rivoluzione scientifica, a partire da Copernico, alla tecnica, alla bioetica nel quadro del primato dell’etica sulla tecnologia, al movimento verso la sapienza nel dialogo tra scienze della natura e teologia. La bibliografia è molto ricca e articolata; spiace solo che non contenga tutte le numerose opere citate. Detto questo, molte singole interessanti questioni trattate nei vari capitoli andrebbero segnalate. Se ne possono dare qui solo alcuni esempi: la possibilità o meno di cittadinanza della causalità finale in ambito scientifico; la natura peculiare della chimica, con la sua collocazione tra fisica e biologia, anche considerando specificamente la caratterizzazione del vivente e il valore della teoria scientifica dell’evoluzione biologica; gli argomenti di riflessione sul rapporto mente-cervello, o, in un’altra prospettiva, anima-corpo, che scaturiscono da risultati sperimentali delle neuroscienze; il ruolo, secondo la prospettiva lonerganiana, del realismo critico nel percorso da epistemologia a metafisica; le contrapposte tesi dei sostenitori e degli oppositori del principio antropico; le modalità auspicate di interazione tra scienza, filosofia e teologia, includendo anche il dialogo tra scienze della natura e scienze dell’uomo; i problemi della divulgazione scientifica e dell’etica del lavoro scientifico. In conclusione, un libro di cui si raccomanda vivamente la lettura, e la rilettura, non superficiali. Cloe Taddei Ferretti 339 Recensioni che della seconda rivoluzione scientifica, a partire dall’inizio del XX secolo; i metodi e le procedure specifici, attingendo anche dal pensiero di Lonergan; e lo sviluppo della nozione stessa di scienza, anche qui attingendo da Lonergan. Nella seconda parte si tratta ancora delle scienze della natura, ma dal punto di vista sia epistemologico, in relazione alla rivoluzione antropologica moderna, al problema del realismo, al confronto tra le visioni di Popper e di Lonergan, sia dal punto di vista ontologico, nuovamente confrontandosi con Lonergan. Va anche notato, a quest’ultimo proposito, che il rifarsi dell’Autore al pensiero di Lonergan, come a quello di altri studiosi, esprime la capacità di metabolizzare tale pensiero non come un masso a sé stante, ma come un tesoro sapienziale da spendere in varie circostanze nelle riflessioni personali. Nella terza parte si affrontano criticamente in particolare le tematiche della moderna cosmologia e della creazione, considerando l’evoluzione cosmica e l’ipotesi antropica, i diversi punti di vista delle scienze, della filosofia e della teologia sulla creazione, l’intervento di Dio secondo la prospettiva filosofica e secondo quella teologica, il cosiddetto Disegno Intelligente e l’ipotesi opposta dell’autosufficienza del cosmo. Nella quarta parte, l’attenzione è per i problemi etici in epoca post-moderna, in riferimento alla scienza e MAURO GAGLIARDI (ED.) Il Filioque. A mille anni dal suo inserimento nel Credo a Roma (1014-2014) LEV, Città del Vaticano 2015, pp. 378, € 25,00 I l volume pubblica gli Atti di un Convegno che ha voluto fare il punto sulla vexata quaestio del Filioque. L’impresa, che ha visto il contributo di autorevoli studiosi cattolici, si articola in quattro tempi: storia, patrologia, teologia ed ecumenismo. A ciò si aggiunge una sorta di appendice (Aspetti complementari). La riflessione sulla storia muove dal contributo di J. Grohe che riassume la vicenda del Filioque dal V sec. sino al “sinodo romano” del 1014 che determinerà la sua inserzione nel Credo romano per volontà di Enrico II. Importanza vien data ovviamente ai concili spagnoli (cf Toledo III del 589), al ruolo della chiesa franca e a Paolino di Aquileia. La duplice crisi dei secc. IX e XI, cioè al tempo di Fozio e di Michele Cerulario è illustrata da E. Morini; mentre N. Tanner prende in esame i due Concili filioquisti, cioè Lione II (1274) e Ferrara-Firenze (1439). La sezione patristica comporta quattro contributi di rilievo: S. Giuliano ripercorre la dottrina dei Padri latini (Ireneo, Tertulliano, Ilario, Ambrogio, Fulgenzio); N. Cipriani espone la dottrina di Agostino nelle sue varie fasi e sottolienando il “principaliter a Patre”. C. Moreschini offre alcune osservazioni sulla pneumatologia dei Cappadoci (Basilio e i due Gregorio), 340 non senza affrontare la delicata questione dei problemi di autenticità dei testi pervenutici. C. dell’Osso espone con acribia e notevole onestà intellettuale la posizione di Massimo il Confessore prendendo le distanze da facili concordismi, specie per quanto riguarda la “Lettera a Marino”. Il Confessore resta infatti molto fedele alla visione orientale: «esiste un solo Dio, Genitore (Gennêtôr) di un solo Figlio, il Padre e fonte (Pêgê) dell’unico Spirito Santo: unità inconfusa e Trinità indivisa; Mente senza principio, unico Genitore dell’unico Verbo essenzialmente senza principio e Fonte dell’unica Vita eterna, ovvero dello Spirito Santo» (Quindici Capitoli, 4; PG 90, 1180A, cit. 162). La conclusione è che «Massimo non dovrebbe essere considerato un sostenitore della dottrina del Filioque» (163). La parte peculiarmente teologica offre uno spaccato di esegesi, di teologia medievale e di approccio speculativo. Dell’ambito biblico si fa carico M. Meruzzi che analizza i luoghi giovannei sullo Spirito (specie Gv 14,26 e 16,7) per poi concentrarsi sul verbo “ekporeuomai” di Gv 15,26 e dei suoi ricorsi in Ap (specie Ap 22,1). Forte l’insistenza dell’esegeta (sulla scorta di Brown, Morris, Beasley-Murray, Van- Per la prospettiva ecumenica, A. Pacini pone in confornto soprattutto la prospettiva più dialogante di Bulgakov (come già Bolotov) con quella decisamente rigida (palamita) di Losskij poi seguita da Meyendorff e altri esponenti. N. Bux esamina i documenti del dialogo cattolico-ortodosso (specie il testo del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani del 1995). Gli “Aspetti complementari” danno conto di una riflessione filosofica (A. Livi sul nesso tra verità e amore), sulla presenza del Filioque nella liturgia (Mc Namara) e su alcuni possibili risvolti morali del Filioque (Woodall). Il Lettore non troverà una Bibliografia né un Indice di nomi in fine volume. Non potendo soffermarci su ciascun contributo rileviamo solo alcuni spunti che più ci hanno interessato. Troviamo interessante (sebbene forse assai irrealistica) la proposta di E. Morini di fare il grande passo ecumenico di riconoscere il concilio di unione “foziano” di Santa Sofia dell’879-880 (edito dal Gemeinhardt per la Brepols nel 2013) in cui si prevede congiuntamente la rimozione del Filioque dal Credo e la legittimazione di un pluralismo teologico (cf Unitatis Redintegratio, 17). Siamo personalmente d’accordo con lo stesso Morini quando dichiara che «le due diverse opzioni teologiche sono troppo radicate nei rispettivi contesti patristici e nelle successive determinazioni dogmatiche per poter essere messe fruttuosamente in discussione» (61). Ma ci pare che sia proprio tale divergenza patristica che vada inseguita e ulteriormente approfondita per indurre a un 341 Recensioni ni, ecc.) sul carattere peculiarmente “economico” e storico-salvifico dei passi biblici addotti. F. De Feo ripercorre il tema del Filioque nella variegata teologia monastica occidentale intorno al XII sec.: Anselmo, Ruperto, Abelardo e Riccardo di San Vittore. Per Anselmo, massimo esponente del filioquismo latino, che giunge a rifiutare pure la processione principaliter a Patre e per Filium, il Filioque esprime la derivazione dello Spirito dall’essenza o divinità del Padre ed è necessario per esplicitare razionalmente il dogma. L’Abate di Deutz si concentra di più sul rapporto tra Trinità “immanente” ed “economica” offrendo stimoli ecumenici con la sua riflessione circa il rapporto bi-univoco (“pericoretico”) tra Figlio e Spirito nella creazione e nella santificazione (cf De glorificatione, I, 16; cit. 215s). Abelardo ritorna alla dialettica mentre il Vittorino nel suo De Trinitate elabora una irenica e originale filosofia trinitaria e metafisica dell’amore. G.M. Salvati riassume la difesa del Filioque propria di Tommaso d’Aquino, indicandone le fonti biblico-patristiche e la visione teologica. Preziosa la disamina dell’unum principium che sarà ripreso dal Concilio fiorentino. Il curatore del volume, M. Gagliardi propone una lunga riflessione di tipo specualtivo in cui si richamano vari capisaldi della teologia trinitaria (il Grundaxiom rahneriano, l’inversione soteriologica balthasariana; i due modelli indicati da de Régnon, la persona come relatio subsistens, l’anarchia del Padre, il principaliter a Patre…) e una sintesi sul conflitto circa l’inserzione del Filioque nel Simbolo. possibile superamento (Aufhebung) di entrambe le prospettive per giungere a quella “pienezza di verità” che lo Spirito stesso deve ancora rivelare alla Chiesa. È in questa direzione che ci siamo mossi, proprio mentre si teneva il Convegno, mediante un saggio al quale ci permettiamo di rimandare («Credo in un solo Spirito Santo che procede dall’unico Padre del Figlio Unigenito. Discernimento storico-teologico per un consenso ecumenico sul Filioque», in Lateranum, 80/2 [2014] 371-420). Il punto a nostro parere è che va operato un discernimento sui pregi e i limiti di entrambe le opzioni pneumatologiche: quella che risale ad Agostino con l’accento sulla communio d’amore tra Padre e Figlio e quella che risale a Gregorio di Nazianzo con l’esaltazione dell’anarchica (aghennêsia) monarchia paterna. Come conciliare queste due prospettive, di fatto storicamente divergenti e come tali irriducibili nel loro inevitabile approdo al filioquismo e al monopatrismo? E qui pensiamo che vada attenutato il giudizio di Moreschini secondo cui «il Filioque, anche se non esplicitamente affermato dai Cappadoci (su questo non vi è dubbio), poteva apparire a dei lettori posteriori – ma comunque di ambiente greco – come una conseguenza, più o meno giustificata, della loro pneumatologia» (146). Questo ci pare eccessivo, almeno nel caso del Nazianzeno che inaugura chiaramente la linea monopatrista proseguita dal Damasceno, Fozio e Palamas. La via da noi additata (in consonanza con teologi come Durrwell, 342 Cantalamessa, Weinandy, ecc.) è il recupero di un’autentica e piena teologia del Padre e della pericoresi in una prospettiva di piena correlazione tra primato e comunione. Dal punto di vista ecumenico, ricordiamo quanto avemmo già modo di sottolineare su questa rivista: con la Chiesa ortodossa ci troviamo di fronte al singolare e duplice paradosso per cui da un lato proprio i due principi di unione, quello invisibile (lo Spirito Santo) e quello visibile (il Papa) assurgono a pietre di scandalo; d’altro lato entrambi «il Filioque e il Primato pontificio mettono in gioco i due termini Primato e Comunione, sebbene in modo esattamente inverso. Sul versante trinitario, la teologia orientale accentua il primato (monarchia/taxis) del Padre mentre quella latina sottolinea la comunione (koinonia/homoousia) tra Padre e Figlio. Sul versante ecclesiologico si verifica il contrario: gli Occidentali insistono sul primato del Papa e gli Orientali invece sulla comunione tra i vescovi (collegialità). Facciamo l’ipotesi che in forza del nexus mysteriorum soltanto mediante una comune riscoperta del pervasivo principio teologico del “primato comunionale” si potrà giungere a una vera ed accettabile soluzione di entrambe le questioni disputate» («Quale primato per il terzo millennio?», in Rassegna di Teologia, 46 [2005] 97-114). A tal proposito va aggiunto che è lo stesso curatore del presente volume ad aver percepito il suddetto paradosso (cf 283). Carlo Lorenzo Rossetti FRANCESCO GIACCHETTA I l saggio del teologo F. Giacchetta affronta alcuni dei principali nodi teologico-pastorali emersi con vigore negli ultimi anni di riflessione ecclesiale. Si tratta di uno studio che accompagna il lettore nella riscoperta della propria identità battesimale e lo aiuta a ripensare gli elementi centrali di un itinerario di fede, come anche il proprio ruolo nella Chiesa e nella società. La questione di fondo attraverso la quale offrire nuovi stimoli per l’evangelizzazione non è tanto la distinzione classica tra credenti e non credenti, la preoccupazione numerica di fare proseliti tra i neopagani, con lo spirito fondamentalista del “dentro o fuori”, quanto piuttosto elaborare una presenza intelligente che sappia tenere insieme identità e carità. Quando i cristiani di ogni tempo sono riusciti in questo compito, cioè quando sono stati autenticamente testimoni, non hanno avuto bisogno di particolari alchimie o stratagemmi per condurre gli uomini alla fede, perché la loro stessa vita, per osmosi, è diventata evangelizzante. Nel primo capitolo del volume l’A. propone una riflessione filosofico-teologica sull’indispensabilità del dubbio nell’atto di fede. Si tratta di un’espressione che rasenta l’ossimoro, e tuttavia tale dinamica è insita nel termine «credente», un participio presente che rimanda a una persuasione quotidianamente riacquistata. L’atto di fede è presentato come un continuo percorso che coinvolge l’uomo a tutti i livelli (esistenziale, intellettuale, spirituale) e che avrà compimento in prospettiva escatologica. Muovendo dalla Scrittura (Abramo, Giobbe, Qoelet, i Magi, la Vergine Maria) Giacchetta mostra che la fede è essenzialmente peregrinatio, è cioè un cammino in cui certezza e dubbio rappresentano un binomio irriducibile. Qui il discorso viene precisato terminologicamente. Per l’A., infatti, un conto è dubitare «della» fede, e un altro è dubitare «nella» fede: «Il dubbio nella fede è lo spazio per un interrogativo che vive nella fiduciosa attesa d’una risposta, per una ricerca che mantiene aperto il dinamismo di crescita nell’essere credente» (33). Con questa affermazione l’A. prende le distanze dalla visione apologetica che ha attraversato il magistero cattolico nella modernità per seguire e problematizzare un itinerario a cui hanno contribuito interpreti come Pascal, Kierkegaard, Newman e Pareyson, fino ad approdare al giovane Ratzinger, il quale, nel celebre Introduzione al cristianesimo, vede nel dubbio non un ostacolo alla fede, bensì un passaggio necessario che ac343 Recensioni Tra gli altri. “Chiesa in uscita”. Appunti teologici di un fedele laico Cittadella, Assisi 2015, pp. 147, € 13,50 compagna credenti e non credenti a decidere della propria esistenza: «Nessuno può sfuggire completamente al dubbio, ma nemmeno alla fede; per il credente la fede si rende presente contro il dubbio, per l’altro attraverso il dubbio e sotto forma di dubbio […] E chissà mai che proprio il dubbio, il quale preserva tanto l’uno quanto l’altro dalla chiusura nel proprio isolazionismo, non divenga d’ora in poi la sede per intavolare delle conversazioni, per scambiare e comunicarsi qualche idea. Esso infatti impedisce ad ambedue gli interlocutori di barricarsi completamente in se stessi» (41). Il secondo e terzo capitolo hanno per oggetto il ripensamento della presenza cristiana nel mondo in un contesto laico e postmoderno. Tale analisi muove dall’immagine plastica di «Chiesa in uscita», che è vista come alternativa «alla cristianizzazione delle strutture, all’occupazione di spazi di visibilità o di potere» (45). Quest’ultima è una via tipica del contesto socio-ecclesiale di cristianità, ma che talvolta si è riproposta con forza anche in tempi recenti nel tentativo, rivelatosi illusorio, di recuperare terreno rispetto alla città secolare. Giacchetta affronta la questione da due punti di vista. Il primo è la testimonianza feriale e quotidiana come indirizzo che rende pensabile la nuova evangelizzazione. In questo senso, l’A. propone una chiave di lettura sacramentale: la dinamica eucaristica è quella che permette la trasfigurazione della ferialità («il solito pane») nella straordinarietà di un’esistenza redenta («il buon pane quotidiano»). Il secondo (Legge naturale, democrazia ed evangelizzazione 344 nel contesto multiculturale) è invece la traduzione del discorso nelle implicazioni etiche, giuridiche e politiche delle società democratiche in cui il cristianesimo trova espressione. Negli ultimi anni, il magistero cattolico ha invocato l’intervento dello Stato perché sancisse giuridicamente determinati comportamenti rendendo così normativamente vincolanti alcuni limiti di tipo etico. La legge naturale è stata l’argomento centrale di questo atteggiamento. Tuttavia, se è vero che «il diritto positivo sostiene e protegge atteggiamenti etici preesistenti, mantenendo desta la coscienza etica della società», è altrettanto vero che «esso non può creare dal nulla, con una semplice disposizione normativa, una coscienza etica mancante; né salvaguardare regole morali in via di disgregazione: le norme giuridiche debbono trovare nei loro destinatari e nella società stessa un fondamento che le sostenga poiché non possono assolutamente vivere della loro coercitività» (62-63). La seconda parte del volume (Chiesa in uscita. Tra gli altri con il Vaticano II) consta del quarto e quinto capitolo, che hanno per oggetto rispettivamente una proposta di esegesi dell’allocuzione di Giovanni XXIII Gaudet Mater Ecclesia e alcuni richiami di teologia dell’evangelizzazione scaturiti da Gaudium et spes. Si tratta in fondo, sintomaticamente, di due testi collocati esattamente all’inizio e alla fine del concilio Vaticano II. Il primo non è propriamente un prodotto del concilio, data la paternità esclusiva e riconosciuta di papa Roncalli, che ha vergato personalmente il stesso tempo. L’A. preferisce deliberatamente «corresponsabilità» a «collaborazione» facendo proprio parte del linguaggio ecclesiologico successivo al Vaticano II. Altro è, infatti, lavorare a un compito con uno stile esecutivo, per quanto possa trattarsi di un ufficio pastorale e spirituale, altro è sentirsi corresponsabili alla pari di uno stesso progetto condiviso. Vi è una distanza siderale tra questi due metodi, sebbene terminologicamente possa sembrare solo una questione di cesello. «Corresponsabilità», infatti, è uno stile che richiama la collegialità, la sinodalità, la partecipazione ecclesiale a tutti i livelli e che in definitiva fotografa meglio di altre immagini la visione ecclesiale del Vaticano II. Quello di Giacchetta è dunque uno studio stimolante a più livelli che interpella la coscienza della presenza cristiana nel mondo contemporaneo. Non sono le strutture, il potere, la visibilità, gli accordi con i governi del momento a garantire efficacia alla missione della Chiesa, sembra dire l’A., ma unicamente la coerenza della testimonianza di vita individuale ed ecclesiale. In effetti, anche ai nostri giorni, per allargare il quadro di riferimento, non è infrequente osservare come le Chiese che vivono in contesti di persecuzione siano anche quelle più vivaci e resilienti, mentre, viceversa, quelle che si sviluppano in paesi democratici e tutelanti nei confronti delle minoranze stiano attraversando vistosi fenomeni di erosione. Talvolta il passaggio repentino dalla prima alla seconda condizione coincide con una crisi religiosa e spirituale particolarmente intensa, come, ad esempio, nel 345 Recensioni discorso inaugurale. Tuttavia, è storicamente corretto affermare che tutti i documenti conciliari sono stati redatti nello spirito impresso da Giovanni XXIII all’assemblea attraverso tale allocuzione e non vi è stata crisi nel corso dei lavori che non sia stata superata appellandosi a tale testo programmatico. In esso il papa bergamasco scardinava il catastrofismo antimoderno della Chiesa e invocava la necessità di intravedere segni di speranza nel tempo presente. Non c’è un documento che più di Gaudium et spes abbia saputo raccogliere tale appello. Già nel titolo veniva espressa una nuova concezione della presenza della Chiesa, che ora si percepiva «nel» mondo contemporaneo, e non più esclusivamente in contrapposizione ad esso. L’ovvio incipit secondo il quale le gioie e le speranze degli uomini d’oggi sono le stesse della Chiesa è stata per secoli un’affermazione tutt’altro che scontata. Seppur sinteticamente, l’A. prende in considerazione i cardini teologici principali della costituzione pastorale: la teologia della storia, l’identità del fedele laico, il ripensamento dell’evangelizzazione, la cultura, la natura del cristiano e della Chiesa. Nella terza e ultima parte (Chiesa in uscita. Tra gli altri da fedele laico), Giacchetta affronta il tema della corresponsabilità ecclesiale nell’evangelizzazione. Nel sesto capitolo l’angolo prospettico è quello del fedele laico, nel settimo è la dimensione familiare. La scelta della categoria «corresponsabilità» come elemento propulsivo capace di rinnovare la missione della Chiesa in tutti i suoi aspetti è una dinamica cogente e provocatoria allo caso dei paesi a influenza comunista. Questo non vuol dire naturalmente che l’unico paradigma possibile dell’evangelizzazione sia quello della missione impedita. Al contrario, dobbiamo abituarci a un Occidente tollerante, in cui però il cristianesimo rischia di essere sempre più irrilevante. La sfida sembra essere dunque saper realizzare una presenza significativa come cristiani nel mondo superando, da un lato, la visione della cristianità e la sua riproposizione in chiave contemporanea della religione civile, e, dall’altro, la rinuncia programmatica ad ogni testimonianza pubblica della fede, quasi fosse politicamente scorretto sfidare la soglia di laicità delle democrazie occidentali. Enrico Brancozzi KARL-HEINZ MENKE Sacramentalità. Essenza e ferite del cattolicesimo Queriniana, Brescia 2015, pp. 384, € 38,00 L a tesi centrale del saggio teologico di Menke può essere così sintetizzata: il cattolicesimo non è una determinata dottrina cristiana né una organizzazione religiosa, ma un modo specifico e particolare di vivere e pensare il cristianesimo, ossia viverlo e pensarlo in termini di sacramentalità. C’è un “di più” della comunicazione sacramentale con Cristo rispetto a quella non sacramentale. Tuttavia, per comprendere questo, è necessario distinguere la sacramentalità dal sacramentalismo. Mentre il sacramentalismo è l’identificazione della Chiesa visibile con quella invisibile, la sacramentalità «poggia sulla distinzione tra il piano indicante e il piano indicato, tra la Chiesa invisibile e quella visibile, tra l’autorità di Cristo e l’autorità del ministero apostolico, tra la verità in sé e il dogma che la indica» (5). 346 Il piano indicante/significante, nella prospettiva sacramentale, non è mero simbolo convenzionale, ma è inseparabile, nonostante tutta la diversità, da quello indicato/significato. Il testo di Menke è strutturato in cinque ampi capitoli. Nel primo capitolo il teologo prende in considerazione l’essenza del cattolicesimo secondo la critica protestante. È il tentativo di scandagliare la propria essenza mettendosi dal punto di vista dell’altro, cercando di vedersi con gli occhi di un protestante. Sono analizzate le teologie protestanti di R. Sohm, A. von Harnack, E. Troeltsch, alla luce delle quali l’essenza del cattolicesimo appare come l’identificazione della Chiesa con una organizzazione, l’identificazione della parola di Dio con l’uomo Gesù, del Vangelo con il dogma, l’identificazione dell’assoluto con un fatto storico (cf 40). Attraver- e pneumatocentrica della Chiesa. Si tratta di una questione controversa che, nel campo del dialogo cattolico-protestante, si presenta nella forma dello specifico problema della definizione del rapporto tra Chiesa visibile e Chiesa invisibile. Gran parte del capitolo è consacrata alla descrizione in chiave sacramentale delle proprietà ecclesiali dell’unità, dell’apostolicità, della cattolicità e della santità (cf 181-272). Il capitolo conclusivo si occupa delle conseguenze di una sacramentalità incrinata, ovvero dei fenomeni diffusi della desacralizzazione, del funzionalismo, del misticismo e dell’integralismo, vere e proprie ferite inferte al cuore dell’identità cattolica. Pian piano si è passati da una ecclesiologia sacramentale a una ecclesiologia funzionale, che finisce per svuotare di significato l’Eucaristia e il ministero. La tentazione misticistica del cattolicesimo e quella integralistica rappresentano una perversione dell’essenza del cattolicesimo, perché giudicano e pensano in modo antisacramentale: il misticismo e l’integralismo hanno in comune l’antisacramentalismo; in entrambi non esiste la distinzione tra realtà significante (sacramentale, rappresentante) e realtà significata (trascendente, rappresentata). Per il paradigma misticistico, reale è ciò che è sperimentato dal singolo soggetto; per il paradigma integralistico, reale è solo quello che l’autorità oggettivamente presenta (cf 308). Il saggio di Menke è particolarmente interessante perché rimette al centro del pensare teologico la categoria della sacramentalità, in un contesto socio-culturale in cui il pensiero sacramentale è fortemente in crisi 347 Recensioni so l’analisi e il confronto tra la teoria cattolica del simbolo (K. Rahner) e quella protestante (P. Tillich), Menke prepara la testi esposta nel capitolo secondo: il cattolicesimo sta o cade con la sua sacramentalità. La Chiesa, con e in Cristo come sacramento, è il mezzo e lo strumento da lui inseparabile per salvare anche l’ultimo fratello e l’ultima sorella. La Chiesa è «sacramento e simbolo reale, perché non solo allude a Cristo come al totalmente Altro, ma perché Cristo si lega talmente ad essa da essere solo con essa e niente affatto senza di essa la salvezza del mondo» (120). Nel terzo capitolo del suo lavoro, Menke riflette sull’essenza sacramentale della Chiesa come popolo di Dio, nato dal Corpo di Cristo. Egli polemizza contro una ecclesiologia talvolta esplicitamente antisacramentale. Partendo dall’intimo legame tra Eucaristia e Chiesa, tra la sacramentalità del dono di sé fatto da Cristo nell’Eucaristia e la sacramentalità della Chiesa, è illustrato il “di più” della comunicazione sacramentale con Cristo rispetto a quella non sacramentale: «questo “di più” sta nel fatto che la comunicazione sacramentale è una comunicazione visibile e, quindi, una pubblica professione di fede. Il cristiano che si comunica sacramentalmente si identifica pubblicamente con la comunità professante la propria fede, che è rappresentata dal vescovo locale menzionato per nome in ogni celebrazione dell’Eucaristia e dal successore di Pietro, parimenti menzionato per nome» (122). Il quarto capitolo affronta la delicata questione del rapporto fra Cristo e lo Spirito, tra concezione cristocentrica ed estraneo al pensiero postmoderno. Il pensiero sacramentale e il pensiero postmoderno – nota il teologo tedesco – si comportano tra loro come due opposti, si escludono a vicenda, perché il pensiero postmoderno non riesce a custodire la distinzione antropologica tra io e non-io e quella ontologica tra un piano indicante e un piano indicato, che sono presupposte dal pensiero sacramentale (cf 321). Il libro di Menke è provocatorio, soprattutto dal punto di vista ecumenico; esso sembra aprire fossati da lungo tempo creduti colmati e parla senza mezzi termini di una differenza fondamentale tra cristianesimo protestante e cristianesimo cattolico: da un lato l’azione esclusiva diretta (pneumatica) da parte di Dio, dall’altro l’attività congiunta sacramentalmente media- ta. Menke non ama compromessi ecumenici fatti a spese della verità, è contrario a un ecumenismo, talvolta irenico, di dichiarazioni congiunte e di pezzi di carta che mette a tacere la differenza fondamentale tra protestantesimo e cattolicesimo. I documenti elaborati dai teologi delle diverse parti interessate mostrano un crescente consenso in ambito ecumenico e una comprensione reciproca sempre più profonda. Sono passi importanti e necessari, ma non sufficienti, perché la differenza fondamentale può essere superata non con la riflessione teologica (l’unione concettuale non è un’unione reale), ma unicamente mediante la traduzione dell’incarnazione di Cristo nell’incarnazione sacramentale della Chiesa (cf 7). Agostino Porreca GIACOMO MINNINI Verso il mare. La filosofia della storia di Giorgio la Pira Ladolfi Editore, Novara 2015, pp. 97, € 10,00 N ell’agosto del 1849, in uno dei più bei discorsi socio-politici mai pronunciati, Victor Hugo, salutando i delegati internazionali radunati in Congresso a Parigi dichiarava che la ricerca della Pace costituisce «le dernier et le plus auguste feuillet de l’évangile, celui qui impose la paix aux enfants du même Dieu, et, dans cette ville qui n’a encore décrété que la fraternité des citoyens, vous venez proclamer la 348 fraternité des hommes […] Messieurs, cette pensée religieuse, la paix universelle, toutes les nations liées entre elles d’un lien commun, l’évangile pour loi suprême, la médiation substituée à la guerre […] c’est un but réalisable, je dis c’est un but inévitable. On peut en retarder ou en hâter l’avénement, voilà tout. La loi du monde n’est pas et ne peut pas être distincte de la loi de Dieu. Or, la loi de Dieu, ce n’est rettamente, anche se filtrato e corretto dalla riflessione tommasiana, La Pira ritiene soprattutto la rilettura di Mt 13 in cui il dramma storico è prospettato come crescita simultanea del buon grano e della zizzania. Ma a presiedere questo progresso è la Provvidenza che tutto dispone «a questo fine tanto supremo (la preghiera finale di Cristo!) della pace e della unità della Chiesa e dei popoli di tutta la terra» (10). E qui il pensiero lapiriano si fa più positivo rispetto all’antico Padre. Allo scopo indicato concorrerà soprattutto, oltre all’evangelizzazione e alla carità della Chiesa, una riabilitazione (in senso tomistico) della politica come necessario servizio alla comunità, l’ecumenismo e pure l’avvicinamento e la collaborazione delle tre famiglie abramitiche. Il fine ultimo della storia è ovviamente trans-storico e rispetta ciò che la teologia chiama la “riserva escatologica”; eppure vi è un fine ‘penultimo’ da perseguire: una “nuova civiltà”, “civiltà universale”, in cui, al massimo grado si compia la volontà divina (di amore, pace, giustizia e fratellanza) “come in Cielo, così in terra”. Questa visione prelude e corrisponde alle intuizioni della Gaudium et spes (specie al 39, giustamente richiamato a p. 85, n. 6). Il fine di unità e pace – storicamente perseguibile e realizzabile in forza dell’azione storica ecclesiale – è come un teilhardiano Punto Omega, un polo d’attrazione che attira e orienta i flussi storici. Questi, sempre rispettosi del libero arbitrio, lo possono ritardare o accellerare, ma esso rimane lo scopo e il senso della storia. Leggendo Hegel (di fatto la Filosofia del Diritto, nell’edizione di Croce e 349 Recensioni pas la guerre, c’est la paix. Les hommes ont commencé par la lutte, comme la création par le chaos. D’où viennent-ils? De la guerre; cela est évident. Mais où vont-ils? A la paix; cela n’est pas moins évident». Premettiamo questa citazione perché essa è in perfetta consonanza con il pensiero di Giorgio La Pira († 1977) proposto dal libro di Minnini. Si tratta di un agile volumetto che offre uno spaccato della visione della storia del “sindaco santo”, di origine siciliana, padre costituente (a lui si deve in specie l’art. 2 della Carta) e soprattutto primo cittadino di Firenze, ruolo in cui si distinse per la ricostruzione postbellica, l’aiuto ai senzatetto e ai disoccuppati e per la sua infaticabile attività a favore della pace. Il saggio è inserito in una bella collana (“Ametista”) diretta da M. Schoepflin che conta sinora una quindicina di titoli dedicati a vari temi di filosofia con ispirazione cristiana (E. Mounier, L. Wittgenstein, E. Stein, R. Girard…). Merito precipuo di Minnini è quello di aver attirato l’attenzione sul nerbo dell’azione poliedrica di La Pira. La visione cioè della storia come ambito di sinergia tra reale libero arbitrio umano e onnipotente Provvidenza divina: un grande fiume che scorre “verso il Mare”, ovvero verso la destinazione voluta da Dio che è quella dell’Unità e della Pace della famiglia umana, verso quella che già Pio XII additava come una grande “estate” dell’umanità (cf Discorso ai Giovani del 19 marzo 1958). I primi due capp. situano La Pira rispetto a due giganti della filosofia (e/o teologia) della storia, Agostino e Hegel. Del primo, che lo influenza di- Gentile del 1913), La Pira ne denuncia le possibili derive immanentistiche e totalitarie giacché il procedere del Geist schiaccia e soppianta la singola persona a favore del Tutto e dello Stato. È così recepita la lezione maritainiana specie ne Il valore della persona umana e ne le Premesse della politica. Ciò che si assume del filosofo idealista è «il sistema storico dialettico, la visione della storia come un processo in perpetuo divenire, mai esaurito in se stesso, perennemente costruentesi e perfezionantesi» (34). Gli altri (ben più brevi) capitoli del volume declinano l’intuizione fondamentale alla luce di alcune metafore di ascendenza evangelica: la “barca” che procede sul fiume, il “campo” in cui è seminato il seme evangelico, il “lievito” che fermenta la massa, “l’aurora” che deve sorgere. La sezione intitolata «Politica e storia» mette in parallelo la visione lapiriana con la dottrina del Vaticano II. Le pagine dedicate a «Un’altra navigazione» (87-93) esprimono il lato oscuro della storia percepito con realismo da La Pira in occasione della crisi nucleare tra USA e URSS in cui si prospetta la catastrofica possibilità nichilistica dell’“affondamento della barca” per auto-distruzione. La storia, pur avendo un fine divino comporta una possibilità di scacco, un “crinale apocalittico”: il bivio tra la distruzione della terra ovvero della pace universale attraverso la “via isaiana” della conversione delle armi in aratri (cf Lettera a Krusciov, 17 novembre 1961). Alcuni rilievi: manca, a nostro parere, un capitolo introduttorio con una breve sintesi biobibliografica di La Pira. La Bibliografia in fondo al li350 bro (95-97) è utile, ma non distingue come dovuto le “fonti” lapiriane (che andrebbero menzionate in ordine cronologico) dalla letteratura secondaria. Così come manca un capitolo prettamente teologico in cui si sarebbero focalizzati i capisaldi del pensiero cristiano lapiriano (la novità del Cristo risorto, la grazia dello Spirito, la Chiesa con la sua azione nella storia; la bipolarità Stato-Chiesa). Alcuni giudizi dell’autore, specie riguardo sant'Agostino sembrano alquanto tranchants e probabilmente ingenerosi (cf 17, 36). D’altronde non si capisce perché il cap. 1 si intoli «La Pira e Agostino», allorché il contenuto mette in rilievo il ben più grande influsso esercitato da Tommaso sul terziario domenicano. Nella lettera succitata a Krusciov, La Pira fa un accenno un po’ infelice ai “mille anni” (cf Ap 20). Siamo persuasi che l’uso di questo testo sia improprio a indicare il fine positivo intrinseco alla storia. Va detto che il ‘sindaco santo’ è comunque in buona compagnia se ci si ricorda dei Padri pre-niceni, dello stesso Antonio Rosmini per non parlare dei russi Dostojevsky e Bulgakov. (Sia lecito rimandare a un nostro articolo in Gregorianum, 88/2 [2007] 274). A proposito delle fonti e affinità del pensiero lapiriano: l’A. menziona ovviamente i grandi personalisti francesi Maritain e Mounier, ma anche Péguy. Sarebbe stato interessante però approfondire con maggiore documentazione i nessi tra La Pira e Teilhard de Chardin (cf 11, 89s) e Vico (25, 73-74), ma anche con autori non menzionati quali Gioacchino da Fiore, Bonaventura, Bossuet e poi, tra i contempo- solo con i fasti della potenza e della gloria, ma ancora più con quelli anche migliori dell’umana virtù, della bontà popolare, della prosperità collettiva della vera civiltà: la civiltà dell’amore» (1º gennaio 1977). E si noti che il più recente magistero pontificio, col dovuto realismo, ci sospinge verso quella medesima direzione: «La storia ha una meta, ha una direzione. La storia va verso l’umanità in Cristo, va verso l’uomo perfetto, verso l’umanesimo perfetto […] Sì, c’è progresso nella storia. Progresso è tutto ciò che avvicina a Cristo e ci avvicina così all’umanità unita, al vero umanesimo». «Vogliamo che finisca questo mondo ingiusto. Vogliamo anche noi che il mondo sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell’amore, che arrivi un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, senza fame» (Benedetto XVI, Ud. gen., 5 gennaio 2006 e 12 novembre 2008). «Signore, prendi noi col tuo potere e la tua luce, / per proteggere ogni vita, /per preparare un futuro migliore, / affinché venga il tuo Regno / di giustizia, di pace, di amore e di bellezza» (Francesco, Laudato si’, 246; cf anche 207). Detto ciò, siamo grati a Minnini che ha saputo fornire in poche pagine e con discreta documentazione l’essenziale della grandiosa visione della storia di uno dei migliori uomini politici italiani, la cui testimonianza e il cui messaggio mantengono, nei nostri tempi, tutta la loro attualità. Personalmente questo scritto ci conferma ulteriormente nella convinzione che La Pira sia stato davvero un precursore e un profeta della “civiltà dell’amore”. Carlo Lorenzo Rossetti 351 Recensioni ranei, Lanza del Vasto, A. Capitini, I. Giordani. Ma è soprattutto il rapporto con papa Montini che sarebbe stato prezioso indagare. Ma questo costituirebbe argomento per una peculiare monografia. È ben nota l’amicizia profonda e di lunga data (testimoniata da un migliaio di lettere di corrispondenza). L’“eu-topia” montinana di “civiltà dell’amore”, – di fatto integrata nel successivo Magistero (cf in ultimo Francesco, Laudato si’, 231), – si interseca e quasi confonde con l’ideale lapiriano: «La causa dell’uomo, non solo non è perduta, ma è in sicuro vantaggio. Le grandi idee, che formano i fari del mondo moderno, non si spegneranno. L’unità del mondo si farà. La dignità della persona umana sarà, non soltanto formalmente, ma realmente riconosciuta. L’intangibilità della vita, dal seno materno all’ultima vecchiaia, avrà comune ed effettivo suffragio. Le indebite disuguaglianze sociali saranno colmate. I rapporti fra i Popoli saranno pacifici, ragionevoli e fraterni. Non l’egoismo, non la prepotenza, non l’indigenza, non la licenza dei costumi, non la ignoranza, non le tante deficienze che ancora caratterizzano e affliggono la società contemporanea, impediranno d’instaurare un vero ordine umano, un bene comune, una civiltà nuova» (4 aprile 1971). «Sogniamo noi forse quando parliamo di civiltà dell’amore? No, non sogniamo. Gli ideali, se autentici, se umani, non sono sogni: sono doveri» (31 dicembre 1975) «Non è un sogno la Pace, non è un’utopia, non è un’illusione. E nemmeno essa è una fatica di Sisifo: no, essa può essere prolungata e corroborata; essa può segnare le più belle pagine della storia, non