INDICE PREMESSA ............................................................................................................................. 3 CAPITOLO I: LA DISCIPLINA DI DISEGNI E MODELLIErrore. Il segnalibro non è definito. 1.1 Profili storici ed evoluzione dell’istituto ........................................................................ 6 1.1.1 La normativa italiana precedente l’intervento comunitario ............................. 6 1.1.2 L’intervento del legislatore comunitario ........................................................ 12 1.2 La disciplina attuale ............................................................................................... 17 1.3 Dallo speciale ornamento al carattere individuale ................................................. 25 CAPITOLO II: IL MARCHIO DI FORMA .......................................................................... 34 2.1 Profili storici ed evoluzione dell’istituto .......................................................................... 34 2.1.1 L’iniziale diffidenza nei confronti del marchio di forma ...................................... 34 2.1.2 L’intervento del legislatore comunitario ............................................................... 42 2.1.3 I limiti alla registrabilità dei marchi di forma ....................................................... 50 2.1.4 La forma che dà valore sostanziale al prodotto: l’interpretazione dominante fino al D.lgs. 95/2001 ................................................................................................................ 55 2.2 La forma che dà valore sostanziale al prodotto: il cambio di rotta successivo al D.lgs. 95/2001............................................................................................................................... 61 2.3 Marchio di forma e concorrenza sleale ........................................................................ 69 CAPITOLO III: IL COORDINAMENTO TRA LA DISCIPLINA SUL MARCHIO DI FORMA E QUELLA SUI DISEGNI E MODELLI .............................................................. 75 3.1 Disegni e modelli e marchi di forma a confronto: differenze e punti comuni ............. 75 1 3.2 Disegni e modelli e marchi di forma: cumulo o alternatività delle tutele? .................. 85 3.3. Marchi di forma e secondary meaning........................................................................ 99 BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................. 109 2 PREMESSA Questo lavoro analizza il sistema normativo relativo alla tutela della forma dei prodotti industriali, concentrandosi in particolare sull’individuazione dello specifico ambito applicativo delle discipline concernenti i disegni e i modelli da un lato, e i marchi di forma dall’altro. Occorre preliminarmente precisare che il concetto di forma qui considerato è decisamente ampio, da intendersi cioè come la sintesi di una serie di elementi caratterizzanti il prodotto (quali le linee, il colore, il materiale con cui è realizzato ed altri ancora), che sono oggetto di percezione sensoriale da parte del pubblico. Ci si riferisce in sostanza alla forma come la risultante di tutti quei fattori, packaging incluso, che contribuiscono a delineare l’identità di un prodotto, rendendolo riconoscibile agli occhi dei consumatori. L’oggetto della trattazione è degno d’attenzione per due fondamentali ragioni: la prima deriva dal ruolo sempre più rilevante che la forma dei beni realizzati ha assunto nell’ambito della produzione industriale nell’economia moderna. E’ infatti evidente che nella società dei consumi le motivazioni che inducono a preferire un certo prodotto, scegliendolo fra molti concorrenti, non rispondono solo ad esigenze d’uso; fra le tante considerazioni che spingono il consumatore all’acquisto, l’aspetto esteriore del manufatto, vale a dire il modo in cui questo si presenta, gioca senz’altro un ruolo decisivo, talvolta persino in maniera inconsapevole. Obiettivo costante di qualsiasi impresa è quello di suscitare l’interesse del pubblico di riferimento: in tal senso l’apparenza del prodotto è certamente determinante, potendo generare nel consumatore un insieme di sensazioni ed emozioni che lo inducono all’atto d’acquisto. La forma insomma rappresenta un mezzo di comunicazione che si pone come momento di mediazione fra l’imprenditore ed il suo naturale interlocutore, il consumatore, contribuendo in misura essenziale al successo commerciale di un prodotto e dell’impresa che lo 3 realizza1. E occorre precisare che queste considerazioni non valgono solo per quelle categorie di beni rispetto a cui l’estetica si pone come carattere essenziale (si pensi al campo della moda), ma anche per quelle in cui essa consiste in un elemento meramente marginale ed aggiuntivo. Per questo motivo le imprese investono buona parte delle proprie risorse in ricerche di marketing, studi di tecnica grafica e campagne pubblicitarie, allo scopo di realizzare prodotti esteticamente attraenti, che catturino l’interesse del consumatore e incidano sulle valutazioni relative alla convenienza dell’acquisto.2 Quanto al nostro Paese, è certamente possibile affermare che l’industrial design rappresenti una della principali risorse dell’economia italiana, le cui imprese sono leader in alcuni settori di notevole importanza quali la moda, l’arredamento, l’oreficeria, l’oggettistica e così via3. Inoltre l’eccellenza raggiunta nel campo del design ha consentito a molte piccole e medie imprese, che notoriamente costituiscono il sistema portante del nostro vivere economico, di sopravvivere nell’era della concorrenza globale. Veniamo quindi alla seconda ragione che rende l’oggetto di questa analisi meritevole d’attenzione: la forma di un prodotto d’uso, oltre a rispondere ad esigenze estetiche, può al contempo assolvere ad altre e differenti funzioni, quali esprimere un’idea artistica, risolvere un problema tecnico, o permettere di distinguere i beni realizzati da un’azienda rispetto a quelli delle concorrenti. Pertanto l’ordinamento italiano, integrato dalle disposizioni comunitarie, prevede diversi istituti volti a consentire la protezione della forma: si tratta del diritto d’autore, del brevetto, dei disegni e modelli, dei marchi ed infine della concorrenza sleale. Ciascuno di questi istituti è informato a principi propri; l’applicazione dell’uno piuttosto che dell’altro può quindi comportare notevoli differenze nella tutela. Tuttavia, nonostante la 1 Si veda l’intervento dell’Arch. BONETTO in Problemi della tutela del disegno industriale, in AA. VV., Disegno industriale e protezione europea. Convegno internazionale di Treviso 12-13 ottobre 1988, Milano, 1989, p. 35 ss., in cui si evidenzia la fondamentale funzione svolta dal design, quale strumento di comunicazione con il pubblico dei consumatori. 2 In questo senso: S. MAGELLI, L’estetica nel diritto della proprietà intellettuale, Padova, 1998, p. 1921; M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma e diritto d’autore, in Riv. dir. ind., 2010, I, p. 7 ss.; S. SANDRI, La forma che dà valore sostanziale al prodotto, in Dir. Ind., 2009, p. 31 ss. 3 Si veda: G. FLORIDIA, Il regime transitorio dopo l’entrata in vigore del “cumulo”, in Dir. Ind.,2010, p. 205. 4 realizzazione di prodotti aventi forme esteticamente attraenti sia d’importanza centrale nell’ambito della strategia aziendale, l’ordinamento non ha saputo finora dare risposte soddisfacenti in termini di certezza del diritto. Infatti le diverse normative che regolano la materia, prevalentemente di recente introduzione, tendono a sovrapporsi, lasciando all’interprete il delicato compito di delimitarne con esattezza i confini. Ciò vale in particolar modo per gli istituti che verranno esaminati nell’ambito di questo lavoro4: come sarà ampiamente illustrato nel corso della trattazione, la disciplina sul marchio di forma e quella relativa ai disegni e modelli presentano diversi profili di incertezza, accentuati da una certa ambiguità delle norme di riferimento. Nonostante non siano mancati approfondimenti ed importanti contributi da parte della dottrina, la soluzione di una serie di problemi interpretativi sembra non essere stata ancora trovata. Gli autori sono infatti decisamente divisi nell’individuare i limiti applicativi delle normative in questione, e lo stesso può dirsi a proposito della giurisprudenza. Indubbiamente l’efficacia delle tutele predisposte dall’ordinamento dipende, in buona parte, dalla chiarezza degli istituti di riferimento e dall’esatta delimitazione dei loro confini; d’altra parte è evidente che senza la garanzia di un’adeguata protezione nei confronti della contraffazione della forma dei prodotti realizzati, nessuna impresa sarebbe interessata né stimolata ad investire in quella direzione. E’ dunque necessario valutare con grande attenzione la disciplina dei due sistemi normativi presi in esame (ovvero quella su disegni e modelli e sul marchio di forma), per giungere ad individuare corretti principi di coordinamento, nel rispetto dell’imperativo di non creare vincoli eccessivi alla libertà di concorrenza; pertanto, con questo lavoro, si tenterà di fornire alcune indicazioni chiarificatrici e conclusive. 4 Si veda, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di) La protezione della forma, Milano, 2007, p. 53. Secondo l’autore <<marchi di forma, disegni e modelli, sono istituti tutti “di confine”, e talora difficilmente differenziabili, specie sotto il profilo “ontologico”>>. 5 CAPITOLO I: LA DISCIPLINA DEI DISEGNI E MODELLI 1.1 Profili storici ed evoluzione dell’istituto 1.1.1 La normativa italiana precedente l’intervento comunitario La tutela di disegni e modelli può essere astrattamente ispirata a due distinti sistemi normativi, contrapposti sotto una serie di aspetti: l’uno fondato sulla protezione conferita tramite il diritto d’autore (c.d. copyright approach), l’altro basato sulla tutela ottenibile attraverso l’istituto del brevetto (c.d. patent approach)5. La prima impostazione considera il disegno o il modello come un’opera dell’ingegno di carattere creativo assimilabile alle opere dell’arte figurativa; pertanto, un sistema di protezione così concepito è imperniato su requisiti di tutela non severi6, sull’assenza di formalità costitutive e sul riconoscimento di un lungo periodo di protezione7. L’approccio fondato sull’archetipo brevettuale invece, prevede che la protezione sia subordinata alla concessione, da parte dell’autorità amministrativa competente, di un titolo, il cui rilascio dipende dalla sussistenza di alcuni requisiti piuttosto selettivi8. Inoltre la durata della tutela è ben più limitata rispetto a quella del diritto d’autore. 5 Si veda, per tutti, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 54 ss. 6 Il diritto d’autore infatti, tutela qualsiasi opera che sia riconducibile all’apporto personale di chi l’ha realizzata, indipendentemente dal merito, dunque prescindendo dal suo valore artistico. Così, P. AUTERI, in AA. VV., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2009, p. 532. 7 La tutela conferita dal diritto d’autore ha una durata di settanta anni, decorrenti dalla morte dell’artista. 8 Requisiti, come quelli della novità e dell’attività inventiva, la cui previsione ha lo scopo di consentire una selezione delle creazioni da tutelare fondata, in un certo senso, sul merito. Così, P. AUTERI, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 532. 6 La natura “ibrida” delle opere di design (la cui realizzazione, pur finalizzata all’applicazione industriale, richiede necessariamente un certo apporto creativo)9 ne consente, in linea teorica, la riconducibilità sia all’uno che all’altro modello; perciò alla base della scelta, operata da ciascun ordinamento, di optare per un’impostazione piuttosto che per l’altra, vi sono considerazioni di carattere ideologico ed economico10. In sostanza la soluzione dipende da come i diversi ordinamenti decidano di contemperare i contrapposti interessi in gioco: da un lato l’interesse dell’autore ad essere remunerato per il proprio sforzo creativo, dall’altro quello della collettività alla fruizione dei risultati ottenuti nel campo qui esaminato. L’ordinamento italiano, in un primo momento, aveva decisamente optato per il modello brevettuale11. Infatti il R.D. 25 agosto 1940, n. 1411 (c.d. Legge-Modelli) disciplinava i modelli industriali, distinguendoli in due categorie: la prima costituita dai disegni e modelli 9 Si veda, M. FRANZOSI, Design italiano e diritto italiano del design: una lezione per l’Europa?, in Riv. dir. ind., 2009, I, p. 71 ss.; M.A. PEROT-MOREL, Le systeme français de la double protection des dessins et modeles industriels, in AA. VV., Disegno industriale e protezione europea…, cit., p. 42-43 <<nous ne sommes pas sur un terrain juridique précis: les créations qu’il convient de protéger ont, en effet, une nature double […] leur nature hybride les situe au “carrefour de l’art et de l’industrie” de telle sorte qu’elles se trouvent inévitablement écartelées entre deux formes de protection très différentes>>; A. A. QUAEDVLEG, Three times a Hybrid, in AA. VV., Intellectual Property and Information Law, London-Boston, 1998, p. 49; J. H. REICHMAN, Legal Hybrids between the Patent and Copyright Paradigms, in Col. Law Rev., 1994, p. 2423 ss. . 10 La dottrina, italiana ed europea è da sempre divisa circa l’opportunità di inquadrare il design nel sistema del diritto d’autore o in quello della tutela brevettuale. Secondo alcuni autori l’inquadramento delle opere dell’industrial design nell’ambito del diritto d’autore sarebbe inaccettabile, sia per la diversità ontologica esistente fra queste e le creazioni dell’arte tradizionalmente intesa, sia per le conseguenze economiche cui questo porterebbe, in quanto la lunga durata della tutela autoriale distorcerebbe il mercato in senso monopolistico. Fra questi, F. BENUSSI, La tutela del disegno industriale, Milano, 1975, p. 183-184; C. FELLNER, La protezione del disegno industriale nel Regno Unito: diritto d’autore, disegni registrati, non registrati…e che altro poi?, in AA. VV., Disegno industriale e protezione europea…, cit., p. 85 ss.. Altri autori, al contrario, ritengono che le opere dell’industrial design siano in ogni caso frutto dell’apporto creativo dell’autore, reso inoltre più difficoltoso dall’esigenza di rispettare determinate caratteristiche tecnico-funzionali. Per questo sostengono la necessità di assimilare il design alle altre opere dell’ingegno; soluzione che, secondo tali autori, non causerebbe gravi effetti anticoncorrenziali. Tra questi, M. FRANZOSI, Arte e diritto, in Riv. dir. ind., 1977, I, p. 294; H. C. JEHORAM, Cumulative design protection, a system for the EC?, in AA. VV., Disegno industriale e protezione europea…, cit., p. 55 ss.; G. SENA, Industrial design e diritto d’autore, in Riv. dir. ind., 1991, II, p. 25. 11 Per tutti, R. BICHI, in AA. VV., Segni e forme distintive. La nuova disciplina. Atti del Convegno di Milano 16-17 giugno 2000, Milano, 2001, p. 239, secondo il quale si trattava di <<una protezione che svolge la funzione tipica dell’istituto brevettuale: difendere e premiare un’idea nuova attraverso il riconoscimento del diritto allo sfruttamento esclusivo dell’idea stessa: ciò rende necessario che sussista un pregio estetico che lo caratterizzi, in modo autonomo>>. 7 ornamentali, la seconda dai modelli di utilità. Tali istituti erano, da un punto di vista concettuale, difficilmente accostabili, pur avendo entrambi ad oggetto la forma nuova di un prodotto industriale. Infatti il brevetto ottenibile su un modello di utilità tutelava (e tutela tutt’oggi) le forme nuove, in quanto dessero al prodotto una specifica efficacia o comodità funzionale. Diversamente, la privativa concessa per un disegno o un modello ornamentale12 proteggeva l’aspetto esterno del prodotto che fosse privo di valori funzionali, ed avente dunque un rilievo puramente estetico. Solo con la L. 14 febbraio 1987, n. 6013 le due categorie in esame vennero effettivamente distinte quanto a trattamento: difatti, in seguito alla profonda revisione della disciplina sulle invenzioni industriali14 (resasi necessaria per armonizzarla con quella contenuta nella Convenzione sul Brevetto Europeo15), il legislatore prese atto della distanza esistente tra modelli di utilità e disegni e modelli ornamentali, e della maggiore affinità che legava i primi alle invenzioni industriali. Così la L. 60/1987 introdusse una serie di differenze all’interno delle discipline dei due istituti, provocando un primo allontanamento del sistema di tutela del design dai tradizionali principi del modello brevettuale: fra i cambiamenti più significativi in tal senso occorre menzionare l’eliminazione di qualsiasi previsione di decadenza del brevetto per mancanza d’uso. Ciò significa che il titolare del disegno o modello è stato affrancato dall’onere di attuazione, potendo quindi decidere, senza condizionamenti, in merito allo sfruttamento della propria opera. Tale posizione di libertà è inoltre stata accentuata, prevedendo l’inapplicabilità ai disegni e modelli delle norme sulle licenze obbligatorie16. 12 Occorre precisare che la tradizionale distinzione fra disegni e modelli industriali è fondata sulla natura bidimensionale dei primi e tridimensionale dei secondi; tale ripartizione compare nel testo italiano della Direttiva CE 98/71 come traduzione del termine inglese “design”, che include tanto i disegni quanto i modelli. 13 Tale legge ha armonizzato la disciplina vigente con le disposizioni dell’Accordo de l’Aja, del 6 novembre 1925, ratificato dall’Italia con la l. 24 ottobre 1980, n. 744. 14 Revisione operata con il D.P.R. 22 giugno 1979, n. 338 15 La Convenzione sulla Concessione dei Brevetti Europei è stata stipulata a Monaco, il 5 ottobre 1973. 16 La scelta è fondata sulla considerazione che il disegno o modello ornamentale si distingue radicalmente dall’invenzione e dal modello di utilità proprio in quanto il campo della sua applicazione è quello dell’estetica. Per questo si è ritenuto che, pur trattandosi di un contributo meritevole di compenso, non fosse necessario il contrappeso dell’onere di attuazione, privilegiando in tal modo l’interesse del titolare del diritto. In sostanza il legislatore ha reputato sufficiente per la soddisfazione dell’interesse generale, l’acquisizione al patrimonio culturale che avviene grazie al 8 Questa precisazione si rivelerà utile più avanti, quando verranno confrontate le discipline dei due istituti oggetto di questo lavoro, trattandosi di uno dei punti di differenza fra le stesse. L’accostamento dei disegni e modelli all’istituto del modello di utilità rappresentava un primo segnale dell’adesione ad un modello di tutela ispirato a quello brevettuale. Ulteriori sintomi di tale scelta erano individuabili nell’art. 1 della Legge-Modelli, che conteneva un generale rinvio alla disciplina sulle invenzioni industriali ( R.D. n. 1127/1939 ), in quanto applicabile, nonché nel fatto che il titolo della protezione fosse in ogni caso un brevetto. Ma soprattutto, indice di tale opzione era il requisito dello “speciale ornamento”, cui faceva riferimento l’art 5 del R.D. n. 1411/1940. La disposizione infatti stabiliva: << possono costituire oggetto di brevetti per modelli e disegni ornamentali i nuovi modelli e disegni atti a dare a determinati prodotti industriali uno speciale ornamento, sia per la forma, sia per una particolare combinazione di linee, di colori o di altri elementi >>. In base a questa norma la protezione poteva essere accordata solo alle forme esteticamente più significative, dotate di un certo livello di “ornamentalità”17: è dunque evidente l’affinità con il modello brevettuale che, come già visto, è stato sempre caratterizzato dalla previsione di requisiti d’accesso alla tutela piuttosto severi18. E’ necessario soffermarsi ancora sul criterio dello speciale ornamento, in quanto, come ampiamente vedremo nel prosieguo della trattazione, questo aveva assunto un rilievo sistematico particolarmente significativo nel regime normativo previgente. Dottrina e giurisprudenza maggioritarie, infatti, avevano individuato in tale requisito la linea di demarcazione fra la tutela brevettuale del design e quella ottenibile deposito, nonché la caduta in pubblico dominio a seguito della scadenza del brevetto. Evidentemente tale soluzione impone la previsione di inapplicabilità delle licenze obbligatorie: del resto, trattandosi di creazioni estetiche, ben difficilmente ci si troverebbe in una situazione di grave sproporzione con i bisogni del Paese, che giustifichi la concessione della licenza. In tal senso, G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 285-286; S. MAGELLI, L’estetica nel diritto…, cit., p. 70-71. 17 Così, A. VANZETTI - V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, p. 67. 18 Attualmente la legge indica fra le condizioni necessarie per il conseguimento del brevetto il requisito dell’attività inventiva: l’art. 48 del codice della proprietà industriale specifica che un’invenzione è considerabile come implicante un’attività inventiva se non risulta in modo evidente dallo stato della tecnica, per una persona esperta del ramo. Tale requisito dunque rappresenta il termine con cui viene definita l’originalità dell’invenzione, consistendo, in sostanza, nella misurazione dell’apporto creativo dell’inventore. In tal senso, G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 254 ss.. 9 attraverso la registrazione della forma come marchio (nonché quella concorrenziale contro l’imitazione servile)19. Tuttavia non vi era uniformità di vedute circa la definizione di tale parametro: le principali interpretazioni che ne furono date erano variamente articolate sul più o meno accentuato grado di capacità estetico-innovativa del disegno o modello. Il significato attribuito dalla dottrina maggioritaria al criterio dello speciale ornamento, in sostanza, era che questo imponesse la presenza di un pregio estetico, ovvero di un apporto meritevole di essere premiato con la concessione di un diritto di esclusiva20. I vari autori erano però divisi nell’individuare il contenuto di tale contributo, che secondo alcuni doveva essere decisamente ampio, al punto da provocare un progresso nell’estetica, elevando la forma al di sopra del normale divenire del gusto del settore21. Altri invece ritenevano che il criterio in questione prescindesse dal raggiungimento di qualsiasi livello, reputando sufficiente un apporto estetico minimo. Ulteriori divergenze derivavano dal fatto che ad un’interpretazione oggettiva, fondata sulla convinzione che lo speciale ornamento fosse un parametro da applicarsi in modo costante, se ne contrapponeva un’altra, che lo articolava in maniera diversa, a seconda del settore merceologico cui apparteneva il prodotto. In base a quest’ultima opinione se il bene cui il disegno o modello ineriva apparteneva ad un genere affollato, il grado di originalità necessario poteva essere modesto; mentre il contributo estetico doveva essere più consistente nel caso di prodotti appartenenti a settori merceologici poco affollati22. E’ dunque chiaro che lo speciale ornamento era parametro piuttosto ambiguo: ciò non solo per la difficoltà di individuarne gli esatti contorni, ma soprattutto per il suo 19 Si veda per tutti, A. VANZETTI, I diversi livelli di tutela delle forme ornamentali e funzionali, in Riv. dir. ind., 1994, I, p. 331 ss.. 20 Si veda, V. DI CATALDO, I brevetti per invenzione e per modello, in Commentario al Codice Civile diretto da P. SCHLESINGER, Milano, 1988, p. 219, secondo il quale non vi sarebbe altrimenti ragione <<per offrire il monopolio a chi fa solo ciò che (seppur nuovo) rientra nell’ambito del normale, del consueto, del fattibile da chiunque>>. 21 Si veda, R. BICHI, La tutela della forma del prodotto e le nuove prospettive introdotte dalla Direttiva comunitaria n. 71/98 in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 240; E. BONASI BENUCCI La tutela della forma nel diritto industriale, Milano, 1963, p. 266; Cass., 1869/1965, in cui la Corte ha affermato che il modello ornamentale, oltre ad essere nuovo, dovesse <<trasmettere all’esperto del settore dell’arte pertinente la ben fondata sensazione di una nuova estetica>>. 22 Si veda, S. MAGELLI, L’estetica nel diritto…, cit., p. 76. 10 carattere irriducibilmente soggettivo. Il fatto che tale requisito fosse legato a concetti, (quali la creatività e la bellezza) anch’essi di non facile definizione, provocava notevoli incertezze circa l’applicazione della disciplina sui disegni e modelli23. Per questa ragione, in un secondo momento si andò progressivamente accreditando, presso una parte di dottrina e giurisprudenza, un diverso criterio interpretativo, fondato sul valore di mercato assunto dalla forma presso il pubblico. In base a questa opinione, derivante dall’esigenza di rendere quanto più possibile oggettivo il parametro, lo speciale ornamento doveva essere inteso come capacità della forma di orientare le scelte d’acquisto; il che comunque significava ritenere meritevoli di tutela i disegni o i modelli che presentassero caratteristiche estetiche notevoli, in quanto rilevanti nell’apprezzamento dei consumatori24. Come già accennato, il requisito dello speciale ornamento era il perno attorno al quale ruotava l’intero sistema relativo alla tutela della forma: infatti in base alla tesi più accreditata, anche in giurisprudenza, la protezione brevettuale sarebbe stata appannaggio delle forme esteticamente più significative, per le quali si avvertiva l’esigenza di ordine pubblicistico di evitare una monopolizzazione perpetua25. Sarebbero state invece registrabili come marchio, nonché tutelabili contro la concorrenza sleale per imitazione servile, le forme che non raggiungessero la soglia dello speciale ornamento, in quanto, ovviamente dotate di capacità distintiva. Il legislatore aveva dunque ritenuto che sussistesse un generale interesse alla caduta 23 In tal senso, L. LIUZZO Modelli, disegni, forme, marchi tridimensionali e la loro tutelabilità alla luce della nuova disciplina, in Dir. ind., 2002, p. 213 ss.; l’autore evidenzia come il requisito dello speciale ornamento desse adito a giudizi soggettivi, <<rischiando di trascinare i giudicanti dalla loro immediata percezione della forma estetica assoggettandola al loro gusto o addirittura alle mode momentanee>>. 24 Si tratta della tesi sostenuta da D. SARTI, La tutela dell’estetica del prodotto industriale, Milano, 1990, p. 255 ss.; e da A. VANZETTI I diversi livelli di tutela delle forme…, cit., p. 419. Tuttavia, mentre il primo autore riteneva sufficiente che la forma influisse sull’apprezzamento del pubblico, pur senza indurlo necessariamente all’acquisto, il secondo sottolineava che lo speciale ornamento doveva sostanziarsi in una vera e propria ragione d’acquisto. In tal senso, Trib. Milano 27 luglio 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1998, 844; Trib. Milano 16 aprile 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1998, 3807. Invece, nel senso che lo speciale ornamento rendesse la forma semplicemente più attraente, Cass. Civ. 7 dicembre 1994 n. 10516, in Giur. ann. dir. ind., 1995, 3030; Cass. Civ. 2 settembre 1997 n. 8400, in Giur. ann. dir. ind., 1997, 3575. 25 Pertanto la privativa accordata dall’ordinamento aveva una durata temporale piuttosto limitata (quindici anni dalla data del deposito). Il sistema di tutela previsto aveva anche l’implicito scopo di fungere da stimolo al superamento della soluzione brevettata, da parte di altri soggetti. In tal senso, S. MAGELLI, L’estetica nel diritto…, cit., p. 58 ss.. 11 in pubblico dominio delle forme ornamentali; cosicché, ove simili forme non fossero state brevettate, o ove il brevetto fosse scaduto, non se ne ammetteva la tutela contro l’imitazione servile, né la registrabilità come marchio26. Tuttavia, le conseguenze di tale impostazione venivano frequentemente attenuate dalla giurisprudenza, tramite l’applicazione della cosiddetta teoria delle varianti innocue; teoria in base alla quale il principio della libera imitabilità delle forme ornamentali non coperte da brevetto trovava un limite nell’obbligo dell’imitatore di attivarsi per prevenire il rischio di confusione. Tale tesi, tutt’oggi accreditata, è fondata sulla convinzione che l’estetica dei beni industriali sia la risultante di una serie di elementi e dettagli, i quali non sempre contribuiscono tutti alla funzionalità della forma. Ne deriva l’obbligo per l’imitatore di introdurre nel prodotto modifiche (ovviamente non pregiudizievoli per le qualità tecniche e di gradevolezza) o di adottare gli accorgimenti necessari (ad esempio l’apposizione del proprio marchio) in modo da evitare la confondibilità sull’origine dei prodotti in conflitto27. 1.1.2 L’intervento del legislatore comunitario La normativa sui disegni e modelli è mutata radicalmente in seguito all’intervento del legislatore comunitario. Come già evidenziato, l’estetica dei prodotti industriali è divenuta, nel corso degli ultimi decenni, uno strumento concorrenziale sempre più 26 G. MONDINI, La Direttiva Comunitaria sulla protezione giuridica di disegni e modelli, in Nuove leggi civ. comm., 1999, p. 997, osserva che << se la ragione del limite temporale alla tutela brevettuale risiede nell’interesse generale alla libera utilizzabilità delle innovazioni estetiche, è evidente che, allorché una forma, pur gradevole, non raggiunga livelli peculiari di creatività ornamentale, viene meno anche l’interesse alla sua caduta in pubblico dominio e prevale, pertanto, l’interesse individuale dell’imprenditore di evitare fenomeni di imitazione confusoria >>. 27 Fra gli autori che sostengono tale teoria si vedano, E. BONASI BENUCCI, La tutela della forma…, cit., p. 107 ss.; P. MARCHETTI, Riflessioni sui rapporti tra disciplina concorrenziale contro la confondibilità e tutela brevettuale, in AA. VV., Problemi attuali del diritto industriale. Volume celebrativo del XXV° anno della Rivista di diritto industriale, Milano, 1977, p. 753 ss.; D. SARTI, La tutela dell’estetica…, cit., p. 50 ss.. La Corte di Cassazione ha espresso per la prima volta compiutamente la teoria in esame nella sentenza del 27 maggio 1960, n. 1384, in Riv. dir. ind., 1960, II, p. 121. A tale pronuncia ne sono seguite molte altre; tra queste: Cass. 10 settembre 1974 n. 2449, in Giur. ann. dir. ind., 1974, 469; Cass. 18 settembre 1986 n. 5562, in Giur. ann. dir. ind., 1987, 2097; App. Bologna, 8 gennaio 1994, in Giur. ann. dir. ind., 1994, 593; App. Milano 22 giugno 2001, in Giur. ann. dir. ind., 2001, 4354. In senso contrario invece, V. DI CATALDO, L’imitazione servile, Milano, 1979, 197 ss.; G. GHIDINI Della concorrenza sleale, Torino, 2001, p. 165 ss.; Cass. 29 settembre 1978 n. 4355, in Giur. ann. dir. ind., 1978, 1011. 12 importante, in quanto elemento capace di garantire alle imprese un vantaggio competitivo sulle concorrenti. Pertanto la disciplina dell’istituto in esame è stata oggetto di specifico interesse da parte del legislatore europeo, sia nella prospettiva della realizzazione di un mercato unico, sia sotto il profilo giuridico dell’attuazione di un ordinamento comunitario. Inoltre, l’esigenza di armonizzazione di tale settore era stata evidenziata, negli anni precedenti, non solo dalla dottrina28, ma anche dalla Corte di Giustizia, in relazione al particolare tema della tutela dei pezzi di ricambio per autoveicoli29. Determinanti sono state pure le pressioni dei diversi settori del mondo imprenditoriale, che hanno a lungo lamentato l’insufficienza della protezione offerta dai diversi ordinamenti europei e l’inadeguatezza di un approccio incapace di cogliere l’importanza economica dell’industrial design30. I diversi approcci adottati dai vari Stati membri rispetto al sistema di tutela di disegni e modelli31 causarono un ampio dibattito su quale fosse il modello normativo preferibile per tale categoria di opere; dibattito particolarmente acceso nel corso dei lavori preparatori dell’intervento comunitario. Del resto non erano d’aiuto neppure le convenzioni internazionali aventi ad oggetto la materia in esame: infatti, prendendo in considerazione la Convenzione di Unione di Parigi (agli artt. 2 e 5-quinquies) e l’accordo TRIPs (all’art 25), si può notare che entrambi32 si limitano ad imporre ai Paesi aderenti di garantire la protezione di disegni e modelli, senza però optare per il sistema basato sul diritto d’autore, piuttosto che per quello fondato sul modello brevettuale. 28 Si veda: M. A. PEROT-MOREL, in AA. VV., Disegno industriale e protezione europea…, cit., p. 41-42; H. C. JEHORAM Cumulative design protection, a system for the EC? ivi, p. 55. 29 Corte di Giustizia 14 settembre 1982, causa C-144/81, in Racc. giur. Corte, 1982, 2853; Corte di Giustizia 5 ottobre 1988, causa C-53/87, in Giur. ann. dir. ind., 1988, 2360. 30 In tal senso, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 52, il quale afferma che le riforme legislative in esame sono il frutto delle pressioni lobbistiche, soprattutto delle imprese operanti nel campo della moda e del design. 31 In alcuni ordinamenti, infatti, prevaleva una protezione basata sul diritto d’autore: è il caso della Francia, della Grecia ( dove non esisteva neppure una legge specifica sul design ) e del Benelux. Negli altri paesi europei, invece, la protezione di disegni e modelli era garantita da una legge ad hoc, basata sulla registrazione. Si veda, L. C. UBERTAZZI ( estratto da ), Codice della proprietà industriale. Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Padova, 2009, p. 175. 32 Si tratta delle due principali convenzioni internazionali che regolamentano la materia dei disegni e modelli. La Convenzione di Parigini per la Protezione della Proprietà industriale, alla quale aderiscono oltre 160 Paesi, è datata 1883, ed è stata più volte rivista e modificata attraverso vari trattati. Il TRIPs Agreement invece è stato promosso nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e sottoscritto a Marrakech nel 1994. 13 Solo dopo un lungo iter33 la Comunità Europea giunse all’adozione della Direttiva n. 71/98/CE del 13 ottobre 1998, sulla protezione giuridica dei disegni e modelli, cui l’Italia ha dato attuazione con il D.lgs. 2 febbraio 2001, n. 9534 (successivamente integrato dal D.lgs. 12 aprile 2001, n. 164 e dal D.lgs. 2 febbraio 2002, n. 26). Tale disciplina è stata in seguito affiancata da quella del Regolamento 6/2002/CE, del 12 dicembre 2001, ampiamente ispirato agli stessi principi introdotti dalla Direttiva. Servendosi di questi due strumenti normativi il legislatore comunitario ha potuto tenere conto della situazione normativa esistente nei diversi Stati membri, senza d’altro canto trascurare l’obiettivo fondamentale, ovvero la realizzazione del mercato unico. Infatti, attraverso lo strumento della Direttiva si sono potute eliminare le differenze più rilevanti che caratterizzavano le diverse impostazioni seguite nei Paesi europei, in modo da rendere comuni i concetti basilari della materia; con il Regolamento, invece, si è istituito un titolo comunitario unico e valido nell’intero territorio dell’Unione Europea35. Pertanto il sistema comunitario di tutela del design risulta articolato su due livelli: il primo costituito dalle diverse leggi nazionali, il cui oggetto di protezione consiste nei disegni e modelli registrati presso i vari Uffici nazionali competenti. Il secondo, europeo, istituito dal Regolamento 6/2002, che ha introdotto due titoli di privativa, vale a dire uno sul disegno o modello comunitario registrato (presso l’Ufficio per l’armonizzazione del mercato interno di Alicante), per un periodo massimo di venticinque anni; l’altro sui disegni e modelli non registrati, avente la limitata durata 33 Il Max-Plack-Institut di Monaco di Baviera presentò un progetto di regolamento comunitario il 3 aprile 1990. Nel giugno del 1991, la Commissione CE pubblicò il Libro Verde sulla tutela giuridica dei disegni industriali ( Doc III/F/5131/91), nonché un progetto di direttiva e di regolamento, in buona parte ispirati al lavoro del MPI. Si veda V. DI CATALDO, D. SARTI, M. SPOLIDORO, Riflessioni critiche sul libro Verde della Commissione delle Comunità Europee sulla tutela giuridica dei disegni industriali, in Riv. dir. ind., 1993, I, p. 49 ss.; per alcuni stralci del Libro Verde, in Riv. dir. ind., 1991, II, 238 ss.. Alla pubblicazione del Libro Verde seguirono due anni di consultazioni di esperti e di gruppi interessati, dopo i quali si giunse, nel dicembre 1993, alla presentazione della Proposta di Direttiva, e di quella di Regolamento, da parte della Commissione. Il Parlamento europeo ed il Consiglio arrivarono poi ad un accordo solo nel ’98, quanto alla Direttiva, e nel 2001, per il Regolamento. Sulla normativa comunitaria v. G. FLORIDIA, La nuova direttiva sulla protezione giuridica dei disegni e dei modelli. Presentazione, in Dir. ind., 1998, p. 284; D. SARTI, Il sistema di protezione comunitario dei disegni e modelli, in Contr. e impresa Europa, 1999, p. 751 ss.. 34 Il legislatore interno ha adottato la tecnica della novellazione, modificando incisivamente il R.D. 1411/1940, nonché alcune disposizioni della legge sul diritto d’autore, la n. 633 del 22 aprile 1941. 35 Vedremo, nel prosieguo della trattazione, che la stessa metodologia è stata adottata, a livello comunitario, per l’introduzione della disciplina sul marchio. 14 di tre anni, decorrenti dal momento in cui l’opera viene messa a disposizione del pubblico36. In seguito all’intervento comunitario la disciplina nazionale ha subito un cambiamento radicale, essendo stata uniformata ad un’impostazione decisamente diversa rispetto alla precedente, e a principi che le erano del tutto estranei37. Si può certamente affermare che l’approccio adottato non sia più riconducibile, quantomeno completamente, all’archetipo brevettuale: la Direttiva 98/71 e il suo recepimento da parte del legislatore interno rappresentano il culmine di un processo di progressivo affrancamento della disciplina del design dal c.d. patent approach. L’ordinamento comunitario è infatti giunto ad una soluzione di compromesso, caratterizzata dalla presenza di elementi propri di entrambi i modelli normativi di riferimento, elaborando un sistema di tutela complesso ed originale, vicino all’impianto dei segni distintivi e del diritto d’autore. Con le riforme in esame si è realizzata una sistematizzazione della materia, riconfigurando la stessa nozione di disegno e modello industriale, rielaborandone i requisiti di proteggibilità, il contenuto della tutela, nonché i rapporti con le altre forme di protezione38. Quasi a voler rimarcare il cambiamento è stato abbandonato il termine stesso di brevettazione (essendo ora il titolo definito registrazione) nonché l’aggettivo “ornamentali”, 36 L’introduzione di tale istituto rappresenta una novità per l’ordinamento italiano, che peraltro non lo prevede direttamente. In tal modo il legislatore comunitario ha inteso soddisfare l’esigenza di alcuni settori industriali di ottenere una tutela svincolata da formalità costitutive, potendo così presentare il prodotto al pubblico e verificarne la reazione, senza il rischio di perdere l’esclusiva sulla forma ideata. Si veda, F. TERRANO, Brevi note sul design comunitario, in Dir. ind., 2004, p. 17 ss.; S. GIUDICI, Il design non registrato, in Riv. dir. ind., 2007, I, p. 199 ss. L’autrice sottolinea che il diritto conferito con tale privativa avrebbe lo stesso contenuto di quello ottenibile con la registrazione; la differenza starebbe perciò, nell’inversione dell’onere della prova in capo al titolare del diritto, dovuta al fatto che l’atto costitutivo, in questo caso è costituito dalla divulgazione, anziché dal deposito della domanda di registrazione. 37 Così, G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 287-288; S. GIUDICI, La protezione giuridica dei disegni e dei modelli, in Riv. dir. ind., 2001, II, p. 60 ss.; A. VANZETTI - V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 67. Parte minoritaria della dottrina ha invece svalutato il carattere innovativo della nuova disciplina. In tal senso, S. ERCOLANI, Il disegno industriale tra brevetto, registrazione e diritto d’autore, in Riv. dir. autore, 2001, p. 443 ss.; M. PANUCCI, La nuova disciplina italiana dell’ “industrial design”, in Dir. ind., 2001, p. 125. 38 In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di) La protezione…, cit., p. 10; A. FITTANTE, Industrial design: durata ed entrata in vigore, in Dir. ind., 2007, p. 213. 15 relativo ai disegni e modelli39; inoltre il riconoscimento di un diritto di esclusiva sul design non registrato rappresenta un importante segnale di avvicinamento al sistema del copyright40. Ma il cambiamento più significativo è stato senz’altro realizzato con l’eliminazione del requisito dello “speciale ornamento”, e la sua sostituzione con quello del “carattere individuale”. La portata di tale innovazione verrà analizzata nel prosieguo della trattazione; è però necessario sottolineare fin d’ora che in questo modo la Direttiva 98/71 ha esteso la tutela a caratteristiche esteriori del prodotto cui sia ricollegabile un valore economico, in quanto rilevanti nell’apprezzamento del pubblico, a prescindere dal pregio estetico. Il legislatore comunitario ha inteso ovviare all’insufficiente protezione dell’industrial design adottando un approccio più realistico al fenomeno, capace di coglierne l’importanza economico-concorrenziale41. Volendo esprimere sinteticamente la portata innovativa della regolamentazione introdotta, possiamo affermare che, mentre nel sistema precedente disegni e modelli erano concepiti come creazioni capaci di determinare un progresso nell’estetica dei prodotti realizzati, a seguito della riforma sono piuttosto considerati semplici strumenti di un marketing creativo, ovvero elementi decisivi nella gara concorrenziale. Per questo motivo alcuni autori hanno parlato di “market approach”, o ancora di “design approach” per sottolineare, da un lato l’impossibilità di ricondurre il nuovo assetto giuridico al paradigma della protezione brevettuale o a quello del diritto d’autore; dall’altro la novità dell’impostazione seguita, in quanto diretta a tutelare gli investimenti economici 39 In tal senso, A. VANZETTI - V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 515-516. I due autori ritengono che i due cambiamenti terminologici sopra evidenziati, sottolineino il fatto che la tutela non è più condizionata al raggiungimento di un certo livello estetico 40 Infatti l’assenza di formalità costitutive rende tale privativa accostabile al diritto d’autore, dal quale però si differenzia per la breve durata dell’esclusiva, per la fattispecie costitutiva e per i diversi requisiti di protezione. 41 Si veda, R. BICHI, La tutela della forma del prodotto e le nuove prospettive introdotte dalla direttiva comunitaria n. 71/98, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 245, il quale non condivide l’impostazione adottata dal legislatore comunitario, ritenendo che una protezione della forma che prescinde da valutazioni estetiche sia rischiosa, in quanto <<l’industria che innova è piccola cosa, rispetto all’industria che produce, anche ispirandosi e imitando e che è in grado di rispondere a vaste esigenze di consumo: estendere il sistema a situazioni di privativa […] per reprimere il parassitismo, comprime il sistema industriale nel suo insieme.>> 16 delle imprese, indipendentemente dal valore ornamentale della forma realizzata per un certo prodotto42. Vedremo nel corso della trattazione che, con la Direttiva 98/71/CE, e con la sua attuazione da parte del legislatore italiano, si è verificata un’evidente frattura nell’equilibrio di complementarietà prima sussistente fra marchi di forma, tutela concorrenziale e disegni e modelli. La riforma in questione ha condotto infatti ad una riconsiderazione dell’intero sistema relativo alla tutela della forma, comportando significativi cambiamenti nell’assetto complessivo della materia43. 1.2 La disciplina attuale Il legislatore italiano ha adottato recentemente il Codice della Proprietà Industriale, D.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, che tuttavia non ha apportato modifiche rilevanti alla disciplina di disegni e modelli44. In tale materia, dunque sono state semplicemente accorpate e riordinate le norme, già anteriormente armonizzate alla Direttiva. Possiamo pertanto passare all’analisi dell’assetto giuridico attualmente vigente. Il Codice della Proprietà Industriale dedica alla materia dei disegni e modelli la sezione 42 In tal senso, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di) La protezione…, cit., p. 69, secondo cui <<la legge modelli sembra prendere ormai in considerazione la forma, quantomeno di riflesso, anche a tutela della sua funzione distintiva, della capacità identificativa dell’imprenditore, lasciandone in secondo piano il pregio estetico.>>; G. DALLE VEDOVE, Dal modello ornamentale all’industrial design, in Riv. dir. autore, 2001, p. 334; V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice della proprietà industriale, Milano, 2009, p. 132; G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 287-288; G. MONDINI, La Direttiva Comunitaria sulla protezione giuridica…, cit., p. 973; D. SARTI, Il sistema di protezione comunitario…, cit., p. 751; S. SANDRI, L’utilizzatore informato nel design, in Dir. ind., 2006, p. 412, il quale afferma che, in seguito alle riforme in esame, il design ha assunto la dignità di titolo autonomo di proprietà industriale. 43 Così, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 12; G. CASABURI, La nuova disciplina dei disegni e modelli e la disciplina dei marchi: interferenze e parallelismi, in Dir. ind., 2003, p. 110 ss.; G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 288; G. GARGIULO Industrial design e marchi di forma nella prospettiva del secondary meaning, in Dir. ind., 2008, p. 432; M. LAMANDINI – M. PAPPALARDO, Il “caso Smart” e il “valore sostanziale della forma”, in Dir. ind., 2008, p. 546; A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 69; A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge marchi, Milano, 2001, p. 142. 44 Il Codice della Proprietà industriale è stato adottato in attuazione della legge delega del 12 dicembre 2002, n. 273, recante “misure per favorire l’iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza”. Si è così realizzato un riassetto dell’intera disciplina relativa alla proprietà industriale, secondo criteri di omogeneità, chiarezza e semplificazione; pertanto il Regio Decreto 1411/1940 è stato abrogato, a seguito dell’entrata in vigore del suddetto Codice. 17 III del capo II, composta dagli artt. dal 31 al 44. L’art. 31 comincia con l’individuare l’oggetto della tutela. Il suo primo comma recita: <<possono costituire oggetto di registrazione come disegni e modelli l’aspetto dell’intero prodotto o di una sua parte quale risulta, in particolare, dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale ovvero dei materiali del prodotto stesso ovvero del suo ornamento, a condizione che siano nuovi ed abbiano carattere individuale>>45. Tale disposizione riproduce il contenuto dell’art. 5 della Legge-modelli, nella versione successiva alla novellazione operata col D.lgs. 95/2001. La definizione dell’oggetto della protezione comprende dunque qualsiasi aspetto visibile del prodotto, incluse le parti interne dello stesso; ed occorre sottolineare che l’elenco delle caratteristiche che combinate costituiscono il design ha valore meramente esemplificativo46 (come risulta evidente dall’uso dell’espressione “in particolare”). E’ appena il caso di notare che possono oggi essere registrate anche parti di un prodotto complesso, sempre che presentino di per sé i requisiti di accesso alla privativa47; e ancora che, lo specifico riferimento agli oggetti artigianali esclude che 45 L’accordo di Locarno, sottoscritto l’8 ottobre 1968 e ratificato dall’Italia con la Legge 22 maggio 1974, n. 348, ha istituito una classificazione internazionale comune del design, al fine di facilitarne la registrazione internazionale. L’art. 2 chiarisce che, la suddetta classificazione non vincola gli Stati aderenti nella determinazione dell’ambito di tutela dei disegno e modelli; questa tuttavia ha comunque un rilievo notevole, in quanto recepita dalle leggi nazionali di molti Paesi (fra i quali l’Italia), nonché dallo stesso Regolamento comunitario 6/2002, all’art. 40. 46 Occorre tenere presente che il colore non è di per sé proteggibile, se avulso dalla combinazione di forme o di altri colori cui appartiene. Al riguardo possiamo menzionare l’interessante caso giudiziario che ha visto contrapposti i nomi di due celebri stilisti: Christian Louboutin e Yves Saint Laurent. Se in primo grado i giudici newyorkesi avevano statuito che la suola di colore rosso (da sempre caratterizzante le famose scarpe di Louboutin) non potesse essere oggetto di esclusiva , la sentenza è stata recentemente ribaltata da parte della United States Court of Appeals, nella pronuncia del 24 gennaio 2012. Si veda, www.ca2.uscourts.gov. Osservazione analoga deve essere fatta rispetto alle caratteristiche della struttura superficiale e del materiale, poiché potranno essere oggetto di registrazione solo in quanto incidano sull’aspetto esteriore del prodotto, modificandolo. 47 Il problema si era posto, in passato, specialmente per le parti componenti la carrozzeria delle automobili: infatti le imprese produttrici di autoveicoli sostenevano la brevettabilità dei c.d. body panels, che formavano oggetto dell’attività industriale dei ricambisti indipendenti, cioè dei fabbricanti e rivenditori di pezzi di ricambio non originali. Giurisprudenza e dottrina europee erano divise in merito alla soluzione della questione. La Direttiva 98/71/CE ha esplicitamente ammesso la registrabilità di singole parti di prodotto; tuttavia le pressioni da parte delle imprese dei ricambisti indipendenti hanno imposto una soluzione di compromesso, realizzata attraverso la previsione della c.d. clausola di riparazione, oggi inserita nell’art 241 del CPI. Tale disposizione prevede che, fino alla modifica della Direttiva 98/71, a norma dell’art 18 della stessa, i diritti vantati sui componenti di un prodotto complesso non potranno essere fatti valere, per impedire fabbricazione e vendita dei 18 il riconoscimento della tutela sia subordinato al requisito dell’industrialità, come in passato sostenuto dalla giurisprudenza48. Pertanto, la registrazione di un disegno o di un modello protegge l’aspetto esterno del prodotto, in quanto abbia un rilievo puramente estetico, non anche un valore funzionale49. Come già accennato, non è più necessario il raggiungimento di un certo livello di gradevolezza: infatti il legislatore ha eliminato i riferimenti al carattere ornamentale50, così rendendo la creazione intellettuale non più proteggibile per il contribuito dato all’estetica dei prodotti, ma semplicemente in funzione della sua capacità di incidere sulle caratteristiche esteriori dei beni ideati. Questa conclusione verrà ampiamente argomentata nel prossimo paragrafo, dove analizzeremo nel dettaglio le conseguenze del passaggio dal requisito dello speciale ornamento a quello del carattere individuale, ed il significato di quest’ultimo. Passiamo perciò ad illustrare le ulteriori condizioni, la cui sussistenza è necessaria ai fini del riconoscimento dell’esclusiva. L’art. 32 del Codice della Proprietà Industriale, corrispondente all’art. 5-bis della vecchia Legge-modelli, stabilisce che componenti stessi. In sostanza, poiché in alcuni Paesi europei (fra i quali l’Italia) le imprese dei ricambisti indipendenti beneficiavano di un’interpretazione favorevole della disciplina nazionale, è stata necessaria la previsione di un’eccezione, per garantirne la sopravvivenza. Sul tema si vedano, P. FRASSI, Registrazione come disegno o modello di parti di prodotti complessi e clausola di riparazione, in Riv. dir. ind., 2003, II, p. 94 ss.; A. FRIGNANI – V. PIGNATA, La tutela della creatività nel modello ornamentale, con particolare riferimento ai pezzi di ricambio, in Riv. dir. ind., 2005, I, p. 89 ss.; G. GUGLIELMETTI, Pezzi di ricambio, interconnessioni e prodotti modulari nella nuova disciplina dei disegni e modelli, in Riv. dir. ind., 2002, I, p. 12 ss.. 48 Nella precedente disciplina la necessità del requisito del carattere industriale, inteso come attitudine del disegno o modello ad un’applicazione industriale si desumeva, oltre che dal riferimento all’art. 12 della Legge sulle invenzioni industriali, anche dalla disposizione dell’art. 2 n.°4 della Legge sul diritto d’autore che, basando la distinzione tra opere d’arte e disegni e modelli sul criterio della scindibilità del valore artistico dal carattere industriale del prodotto, ammetteva implicitamente che la categoria della c.d. arte industriale fosse caratterizzata dall’attitudine all’applicazione industriale. Si vedano, G. OPPO, Per una definizione dell’industrialità, in Riv. dir. civ., 1973, I, p. 7 ss.; App. Milano, 26 novembre 1999, in Giur. ann. dir. ind., 1999, 3406; Trib. Torino 10 giugno 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1998, 2561. 49 Infatti l’art. 36 CPI, in cui è stato trasfuso l’art. 7bis del R.D. 1411/1940, vieta la registrazione delle caratteristiche dell’aspetto del prodotto che siano determinate esclusivamente dalla funzione tecnica dello stesso. La ratio della norma è, evidentemente quella di evitare il cumulo con la tutela ottenibile attraverso la concessione di un brevetto per invenzione o per modello di utilità. Così, G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 292. 50 Conformemente a quanto previsto nella Direttiva 98/71/CE, è stato soppresso l’aggettivo “ornamentale” per individuare la categoria dei disegni e modelli, e il requisito dello “speciale ornamento” è stato sostituito da quello del “carattere individuale”. Si veda, G. GHIDINI – F. DE BENEDETTI (a cura di), sub art. 31, Codice della proprietà industriale commentato, Milano, 2006, p. 108-110. 19 un disegno o modello è da considerarsi nuovo, se nessun disegno o modello identico è stato divulgato anteriormente51. Il momento rilevante per stabilire se vi è già stata divulgazione di creazioni intellettuali identiche è quello della data di deposito della domanda di registrazione ovvero, qualora si rivendichi la priorità, si fa riferimento alla data di quest’ultima52. La stessa disposizione specifica anche che, disegni e modelli devono reputarsi identici qualora le loro caratteristiche differiscano solo per dettagli irrilevanti. Si può affermare che l’art. 32 CPI rinvii indirettamente il giudizio sulla registrabilità dell’opera alla valutazione del carattere individuale, in quanto, perché possa ritenersi sussistente il requisito della novità, è sufficiente che gli elementi distintivi presenti fra i due termini di paragone non siano del tutto marginali. In sostanza la verifica della novità si riduce ad un esame di carattere preventivo ed oggettivo di non identità53, volto cioè ad escludere i disegni e modelli copiati dal test di individualità, al quale si rimanda l’effettivo accertamento circa la differenza rispetto alle anteriorità rilevanti54. 51 La medesima previsione è contenuta negli artt. 5 della Direttiva 98/71/CE e 6 del Regolamento 02/6/CE. 52 Per effetto del diritto di priorità, stabilito nella Convenzione d’Unione di Parigi, chiunque abbia presentato una regolare domanda di registrazione in un qualsiasi Paese dell’Unione, può entro sei mesi, estendere il deposito della stessa anche agli altri Stati dell’Unione, con il beneficio che i depositi eseguiti successivamente non potranno essere invalidati da fatti accaduti dopo la data del primo deposito (sempre che siano effettuati nel termine indicato). Inoltre tali fatti non potranno far sorgere diritti a favore di terzi, ex art. 48 della Convenzione. Inoltre, dal 1°gennaio 2008, è in vigore un nuovo sistema di registrazione per proteggere a livello internazionale i disegni e modelli industriali, in forza del sistema dell’Aja concernente la registrazione internazionale di tali opere, che si applica ai Paesi aderenti all’Accordo dell’Aja. Questo sistema conferisce al titolare di un disegno o modello la possibilità di ottenere protezione nei territori delle parti contraenti, depositando una domanda presso l’Ufficio internazionale dell’organizzazione mondiale della proprietà industriale (OMPI). Il richiedente quindi può accedere alla tutela del disegno o modello in una serie di Stati, attraverso un’unica domanda, con gli stessi effetti che otterrebbe se la creazione fosse registrata nei singoli Paesi. 53 Si veda, V. DI CATALDO, Dai vecchi <<disegni e modelli ornamentali>> ai nuovi <<disegni e modelli>>. I requisiti di proteggibilità secondo il nuovo regime, in Eur. dir. priv., 2002, p. 72. L’autore sottolinea che le anteriorità rilevanti vanno confrontate con il nuovo disegno o modello, ciascuna isolatamente dall’altra, senza che siano composte in un “mosaico unitario”. Si veda pure, V. SCORDAMAGLIA, La nozione di “disegno e modello” ed i requisiti per la sua tutela nelle proposte di regolamentazione comunitaria, in Riv. dir. ind., 1995, I, p. 143, il quale afferma che il test di novità si sostanzia in un’operazione meccanica ed oggettiva, che non prevede un referente soggettivo particolare. 54 Così, N. ZORZI, La protezione dei disegni e modelli ornamentali in Europa, in Contr. e impr. Europa, 1997, p. 215. 20 La novità è dunque definita dal legislatore come assenza di divulgazione: tale nozione, perciò si rivela centrale nel sistema di tutela del design. Occorre osservare che il requisito della novità è oggi inteso in termini squisitamente relativi55, per cui l’effetto preclusivo da questo generato è attenuato sensibilmente56. Infatti, mentre per invenzioni e modelli di utilità vige il principio della novità assoluta, in base al quale qualunque divulgazione anteriore è distruttiva del requisito in esame, per disegni e modelli l’evento predivulgativo fa venir meno la novità solo se ragionevolmente conoscibile negli ambienti specializzati nel settore interessato, operanti nella Comunità Europea, e nel corso della normale attività commerciale57. Questo è quanto stabilito nel primo comma dell’art. 34 CPI58, dove il legislatore ci fornisce una definizione piuttosto dettagliata di divulgazione. La norma in esame, infatti dispone pure che il disegno o modello si considera divulgato se è stato reso accessibile al pubblico per effetto di registrazione o in altro modo, ovvero se è stato esposto, messo in commercio o altrimenti reso pubblico. In sostanza la divulgazione può consistere nella pubblicazione della domanda di registrazione da parte dell’amministrazione competente, ovvero in ogni fatto che renda la creazione potenzialmente conoscibile ad un numero indistinto di soggetti, purché però l’atto divulgativo fosse potenzialmente conoscibile nei settori interessati. Il requisito della novità è stato poi ulteriormente circoscritto dal legislatore, che nei commi successivi al primo dell’art. 34 CPI ha previsto una serie di ipotesi in cui la predivulgazione deve considerarsi non opponibile. 55 Oltre alla peculiare nozione di divulgazione data nell’art. 34 CPI, un ulteriore elemento che contribuisce a rendere la novità un concetto relativo è rilevabile nel fatto che, legittimato a far valere la nullità della registrazione ex art. 122 terzo comma, è solo il titolare dei diritti anteriori, o il suo avente causa o l’avente diritto, o ancora chi ha interesse all’utilizzazione. In tal senso, G. GARGIULO, Industrial design e marchi di forma nella prospettiva…, cit., p. 432. Va precisato che spetterà alla parte che richiede l’accertamento della nullità dell’opera, dimostrare quali disegni o modelli anteriori siano distruttivi della novità e del carattere individuale della stessa, nonché provare che la forma anteriore era accessibile al pubblico, in un momento precedente rispetto alla data di pubblicazione della domanda, o a quella di priorità. Così, L. C. UBERTAZZI (a cura di), sub art. 34, Codice della Proprietà Industriale…, cit., p. 194. 56 Così FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 297-298. 57 Secondo G. FLORIDIA, ivi, p. 298, la ratio di tale previsione sarebbe ravvisabile nella spiccata caratterizzazione territoriale delle tendenze che governano il design, che lo rende apprezzabile, e dunque meritevole di tutela, anche se importato da Paesi estranei alla Comunità Europea. 58 Tale disposizione corrisponde all’art. 5-quater della Legge-modelli, introdotto dal D.lgs. 95/2001. 21 Il secondo comma statuisce che il disegno o modello non si considera reso accessibile al pubblico per il solo fatto di essere stato rivelato ad un terzo, vincolato (esplicitamente o implicitamente) alla riservatezza. E ancora il quarto comma dispone che non costituisce divulgazione il fatto che l’opera sia stata resa accessibile al pubblico nei dodici mesi anteriori alla data di presentazione della domanda di registrazione, o a quella di priorità, se ciò derivi da un abuso nei confronti dell’autore o del suo avente causa. In tal modo il legislatore rafforza la tutela reale delle creazioni intellettuali oggetto dell’analisi, in quanto le rende proteggibili ancor prima che formino oggetto di domanda di registrazione. Ma la deroga più significativa rispetto alla disciplina generale del requisito della novità è rappresentata dall’istituto del c.d. periodo di grazia, introdotto nel terzo comma dell’art. 34 CPI. Tale disposizione prevede che non sia da considerarsi reso accessibile al pubblico il disegno o modello divulgato dall’autore, o dal suo avente causa, nei dodici mesi precedenti la data di deposito della domanda di registrazione o quella di priorità. Ciò significa che l’autore, o qualsiasi terzo da lui autorizzato, può rendere pubblica la sua creazione, senza correre il rischio di perdere la possibilità di acquisire il diritto di esclusiva sulla stessa; in tal modo potrà testare le reazioni del mercato e valutare se vi sia effettiva convenienza ad affrontare la registrazione59. E’ però necessario precisare che il periodo di grazia non equivale ad un termine di priorità, per cui il diritto di esclusiva accordato con la successiva registrazione non retroagisce al momento della predivulgazione. Ne deriva che il terzo che, senza abuso, nei dodici mesi precedenti il deposito della domanda dovesse realizzare e divulgare un identico disegno o modello, non violerebbe il diritto dell’autore o del suo avente causa; ed anzi priverebbe la loro creazione del requisito della novità, così rendendola non registrabile60. 59 La registrazione infatti, comporta una serie di spese e di oneri di non poco conto. Che quella appena illustrata sia la ratio della norma in esame è confermato dal considerando 20 del Regolamento 6/2002/CE, il quale recita: <<occorre altresì permettere all’autore o al suo avente causa di sottoporre alla prova del mercato i prodotti in cui il disegno o il modello è attuato, prima di decidere se chiedere o no la protezione del disegno o modello comunitario registrato (…)>>. 60 In tal senso, G. SENA, Note su disegni e modelli, in Riv. dir. ind., 2008, I, p. 309-310. L’autore ritiene che il fatto che non si abbia divulgazione nel periodo di grazia deriva dalla tutela riconosciuta al design non registrato. Sostiene inoltre che, per giungere a tale conclusione è necessario forzare l’espressione “divulgazione abusiva”, ricomprendendovi anche la mera copiatura (che a rigore non vi 22 Ulteriore requisito per il riconoscimento della privativa, oltre alla novità e al carattere individuale, è quello della liceità, previsto nell’art. 33-bis CPI. Questa disposizione è stata inserita dall’art. 18 del D.lgs. 13 agosto 2010, n. 13161 ed in tal modo il legislatore ha rimediato ad una dimenticanza nella quale era incorso il redattore del Codice. Infatti, nella disciplina di disegni e modelli mancava la previsione di questo requisito, laddove invece era stato inserito per tutti gli altri diritti di proprietà industriale62. L’art. 33-bis primo comma stabilisce che non può costituire oggetto di registrazione il disegno o modello contrario all’ordine pubblico o al buon costume; tuttavia si precisa anche che il disegno o modello non può essere considerato contrario all’ordine pubblico o al buon costume per il solo fatto di essere vietato da una disposizione di legge o amministrativa. Il secondo comma inoltre, aggiunge fra le cause di illiceità, la realizzazione di un disegno o modello che costituisca utilizzazione impropria di uno degli elementi elencati nell’art. 6-ter della Convenzione di Parigi, ovvero di segni, emblemi e stemmi diversi da quelli cui si riferisce tale disposizione, che rivestano un particolare interesse pubblico nello Stato. Una volta terminata l’analisi delle condizioni alla cui sussistenza è subordinato il riconoscimento della tutela, occorre esaminare brevemente gli effetti della registrazione. A norma dell’art. 38 CPI questi decorrono dalla data in cui la domanda e la relativa documentazione sono rese accessibili al pubblico; l’Ufficio italiano brevetti e marchi provvede alla pubblicazione subito dopo il deposito, salvo che il richiedente non abbia escluso l’accessibilità alla domanda per un periodo determinato63. Il diritto alla registrazione spetta all’autore del disegno o modello ed ai suoi aventi causa, a meno rientrerebbe); altrimenti l’istituto del periodo di grazia e quello del design non registrato non sarebbero conciliabili. 61 L’art. 19 della Legge 23 luglio 2009, n. 99 ha delegato il Governo all’adozione di disposizioni correttive e integrative del Codice della Proprietà Industriale. Tale intervento non ha comportato modifiche particolarmente rilevanti all’impianto codicistico. 62 Evidentemente non vi erano ragioni per una differenziazione sotto tale profilo: a dimostrazione di ciò il legislatore è intervenuto ad eliminare l’anomalia. 63 A norma del quinto comma dell’art. 38 CPI, tale periodo non può essere superiore a trenta mesi, decorrenti dalla data di deposito o da quella di priorità. Il comma successivo specifica pure che, nei confronti delle persone a cui la domanda viene notificata, da parte del richiedente, gli effetti della registrazione decorrono dalla data della notifica. 23 che l’opera non venga realizzata da un dipendente nell’esercizio delle sue mansioni, poiché in tal caso il diritto spetta al datore di lavoro, salvo patto contrario. Con il riconoscimento della privativa il titolare acquista il diritto esclusivo di utilizzare la creazione, nonché di vietarne l’uso a qualunque terzo che non abbia ottenuto il suo consenso. L’art. 41 CPI specifica in modo analitico le facoltà di cui si compone la privativa concessa con la registrazione, che si traducono in altrettanti divieti nei confronti dei terzi che non siano autorizzati dal titolare della stessa64. Gli ultimi commi della disposizione in esame contengono due importanti precisazioni circa la determinazione dell’ambito della protezione accordata con la registrazione: il terzo comma sancisce il principio dell’equivalenza. In base a tale principio i diritti derivanti dal conferimento della privativa si estendono a qualunque disegno o modello che non produca nell’utilizzatore informato una impressione generale diversa. Analizzeremo dettagliatamente nel prossimo paragrafo la figura dell’utilizzatore informato; per ora è sufficiente notare che il legislatore non ha limitato l’esclusiva a ciò che incide direttamente sull’aspetto esteriore del prodotto, ma l’ha estesa a quelle varianti apportate al design che, pur modificandone in certa misura la conformazione, producano nell’utilizzatore informato la medesima impressione generale. Infine il quarto comma chiarisce che nel determinare l’estensione della protezione occorre tener conto del margine di libertà di cui ha potuto beneficiare l’autore nella realizzazione del disegno o modello; analoga previsione è stata inserita nel secondo comma dell’art. 33, in relazione all’accertamento del carattere individuale. Parte rilevante della dottrina ritiene che con tali disposizioni il legislatore abbia recepito la cosiddetta dottrina della Crowded Art65. In base a tale opinione, derivante dal diritto 64 Il secondo comma dell’art. 41 CPI recita: <<Costituiscono in particolare atti di utilizzazione la fabbricazione, l’offerta, la commercializzazione, l’importazione, l’esportazione o l’impiego di un prodotto in cui il disegno o modello è incorporato o al quale è applicato, ovvero la detenzione di tale prodotto per tali fini.>> 65 In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 11; C. GALLI, L’attuazione della Direttiva comunitaria sulla protezione di disegni e modelli, in Nuove leggi civ. comm., 2001, p. 890; L. LIUZZO, Strumenti di protezione delle forme nel campo della proprietà intellettuale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 48. Contra, S. SANDRI, L’utilizzatore informato…, cit., p. 415. L’autore contesta la tendenza ad applicare all’industrial design una teoria elaborata in relazione al diritto dei marchi, per di più in un 24 dei marchi nordamericano, nei settori affollati, in cui convivono numerosi prodotti dalle forme similari, anche differenze di poco conto rispetto alle forme già esistenti possono dar luogo ad un valido modello. E’ infatti evidente che le difficoltà incontrate dal designer nella realizzazione di una forma nuova saranno maggiori nel caso in cui, il prodotto cui la stessa inerisce, appartenga ad un settore merceologico particolarmente affollato. Di questo perciò il legislatore ha giustamente tenuto conto, imponendo un giudizio meno rigoroso, qualora il margine di libertà non sia molto ampio. Da ultimo è necessario esaminare la durata della tutela conferita con la registrazione; questo aspetto si rivelerà notevolmente importante nel corso della trattazione, rappresentando il principale elemento di distinzione della disciplina del design rispetto a quella del marchio di forma. L’art. 37 del Codice della Proprietà Industriale stabilisce che la privativa ha efficacia per cinque anni, decorrenti dalla data di presentazione della domanda. Tuttavia è possibile ottenere una proroga per uno o più periodi di cinque anni, fino ad un massimo di venticinque, sempre computati a partire dal momento del deposito della domanda di registrazione. 1.3 Dallo speciale ornamento al carattere individuale Abbiamo già visto come l’art. 32 del Codice della Proprietà Industriale rinvii implicitamente il giudizio circa la registrabilità del disegno o modello, alla valutazione del requisito del carattere individuale. Passiamo pertanto all’analisi di tale condizione, cui fa specifico riferimento l’art. 33 CPI66. Il primo comma di tale disposizione stabilisce che <<un disegno o modello ha carattere individuale se l’impressione generale che suscita nell’utilizzatore informato differisce dall’impressione generale suscitata in tale utilizzatore da qualsiasi disegno o modello che sia stato divulgato prima della data di presentazione della domanda di ordinamento diverso dal nostro. Afferma dunque che il riferimento al margine di libertà rimanda alla funzionalità che il prodotto deve realizzare con la sua forma. Il designer infatti deve conciliare funzionalità ed estetica; per questo la particolare funzione cui il prodotto deve assolvere può rappresentare un vincolo di non poco contro per l’ideatore della nuova forma. 66 La norma in esame riproduce il testo dell’art. 5-ter della Legge modelli, introdotto dall’art. 3 del D.lgs. 95/2001. 25 registrazione o, qualora si rivendichi la priorità, prima della data di quest’ultima>>. Il legislatore ha dunque eliminato qualsiasi riferimento all’elemento esteticoornamentale, in particolare sostituendo il criterio dello speciale ornamento con quello del carattere individuale: questo mutamento ha rappresentato un’importante svolta, non solo all’interno del sistema di protezione del design, ma anche nei rapporti con gli altri strumenti predisposti dell’ordinamento a tutela della forma dei prodotti industriali. Di tale secondo aspetto ci occuperemo dettagliatamente nei prossimi capitoli; possiamo però accennare fin d’ora che la soppressione del parametro dello speciale ornamento non consente più di escludere in maniera assoluta il cumulo della disciplina sul design con quella sui marchi di forma e sulla concorrenza sleale per imitazione servile. E’ ormai innegabile che sussista una parziale sovrapposizione fra le normative in questione, da cui deriva l’esigenza di coordinamento delle stesse, attraverso l’esatta individuazione dei reciproci confini. L’abolizione del requisito dello speciale ornamento ha indotto una parte consistente della dottrina a ritenere che la riforma della disciplina sui disegni e modelli abbia provocato un <<allargamento verso il basso>> della soglia di accesso alla tutela67: affermazione in linea di principio condivisibile, rispetto alla quale occorre però fare una precisazione. Se infatti è innegabile che il nuovo parametro si configuri come meno severo rispetto al precedente, in quanto il grado di originalità necessario per il riconoscimento dell’esclusiva è ora ridotto, bisogna pure specificare che il legislatore ha scelto un approccio del tutto innovativo, dunque un criterio qualitativamente diverso da quello dello speciale ornamento. Per questo appare preferibile evitare l’espressione “allargamento verso il basso”, che sembra piuttosto suggerire l’adozione di un criterio quantitativamente meno rigoroso68. 67 Così, G. DALLE VEDOVE, Dal modello ornamentale…, cit., p. 336, M. FRANZOSI, Design italiano e diritto italiano del design…, cit., p. 80; C. GALLI, L’attuazione della direttiva comunitaria sulla protezione…, cit., p. 889; G. MONDINI, La direttiva comunitaria sulla protezione giuridica…, cit., p. 975; L. LIUZZO, Strumenti di protezione delle forme nel campo della proprietà intellettuale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 48; A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 69. Si veda anche, Trib. Udine, 28 gennaio 2002, in Giur. it., 2002, 1664, con nota di M. RICOLFI. Anche dai lavori preparatori della Direttiva 98/71 sembra emergere l’intenzione del legislatore comunitario di fissare i requisiti di protezione del design ad un livello tendenzialmente basso. 68 In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 11. Si veda pure, S. SANDRI, L’utilizzatore informato…, cit., p. 412, il quale 26 La definizione di carattere individuale fornita dall’art. 33 CPI è fondata sulla nozione di utilizzatore informato, nozione decisamente ambigua e di non facile individuazione, la cui indeterminatezza si riflette sul requisito in esame, rendendone complessa l’interpretazione. La figura dell’utilizzatore informato, infatti, sembra collocarsi a cavallo fra la nozione di consumatore e quella di persona esperta del ramo (il designer), essendo il frutto di un compromesso, raggiunto in sede europea, fra chi intendeva mantenere alta la soglia di proteggibilità del design e chi, invece, desiderava abbassarla69. Dottrina e giurisprudenza sono decisamente divise a proposito della definizione di tale formula70, di cui vengono date diverse interpretazioni; la tesi maggiormente accreditata fa coincidere l’utilizzatore informato con il consumatore esperto, ovvero un buon conoscitore del mercato, in grado di riconoscere l’evoluzione di una certa tipologia di prodotti ed i dettagli che li caratterizzano71. Si tratta, in sostanza, dell’acquirente abituale, che in quanto tale è a conoscenza delle tendenze stilistiche del settore merceologico di riferimento, e a cui pertanto è richiesto un grado di diligenza e sensibilità superiore alla media. In base ad altre opinioni, invece, l’utilizzatore informato sarebbe da identificarsi con colui che è dotato di esperienza tecnica nel campo (vale a dire il designer), o ancora sottolinea che il requisito dello speciale ornamento non è stato abolito dal legislatore comunitario, ma semplicemente ignorato e sostituito, in quanto <<specilissimo>> dell’ordinamento italiano. 69 Si veda, A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 68. 70 E’ emblematico il caso di due procedimenti cautelari, definiti a poche settimane di distanza dalla Sezione Specializzata del Tribunale di Venezia, entrambi introdotti a tutela del medesimo design. Il Tribunale di Venezia è giunto a due decisioni contrastanti a causa di una diversa interpretazione del parametro dell’utilizzatore informato. Così, Trib. Venezia, ord. 8 luglio 2005, in www.IP-Italjuris.it, n. 1/2006, e Trib. Venezia, ord. 31 agosto 2005, ivi, n. 2/2006, con commento di S. SANDRI, A proposito dell’utilizzatore informato. 71 Così, D. BRAMBILLA, Carattere individuale e capacità distintiva della forma, in Dir. ind., 2007, p. 453 ss.; V. DI CATALDO, Dai vecchi <<disegni e modelli ornamentali>> ai nuovi <<disegni e modelli>>…, cit., p. 61 ss.; A. FITTANTE, Il nuovo diritto industriale e d’autore, Bari, 2009, p. 48; M. FRANZOSI, Design italiano e diritto italiano del design…, cit., p. 81; C. GALLI, L’attuazione della direttiva comunitaria sulla protezione…, cit., p. 889; G. GARGIULO, Industrial design e marchi di forma nella prospettiva…, cit., p. 432 ss.; L. LIUZZO, Strumenti di protezione delle forme nel campo della proprietà intellettuale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 48; S. MAGELLI, La tutela del design: prospettive comunitarie, in Dir. ind., 1997, p. 566; M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 13; A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 69; Trib. Torino, (ord.) 20 marzo 2008, in Dir. ind., 2008, p. 540 ss.; Trib. Venezia, 23 dicembre 2003, in Giur. anna. Dir. ind., 2004, 1237. 27 con l’operatore del settore, l’esperto di marketing, interessato a dare al prodotto una forma idonea ad imprimersi nella mente del pubblico72. La prima delle opinioni esposte sembra la più corretta, in quanto lo stesso termine “utilizzatore” richiama l’idea dell’uso che del bene fa il suo naturale destinatario, vale a dire l’acquirente finale73; la stessa “impressione generale”, cui fa riferimento l’art. 33 CPI, rinvia ad una valutazione d’insieme, quella valutazione che tipicamente il consumatore compie al momento della scelta di un prodotto. Se il legislatore avesse inteso riferirsi al designer o all’operatore del settore, si sarebbe forse servito di un’espressione diversa, tale da condurre ad un esame comparativo ed approfondito, che di norma nessun consumatore compie. D’altro canto la figura dell’utilizzatore informato è perfettamente in linea con un settore, quale quello del design, la cui clientela è generalmente attenta all’evoluzione del gusto e delle tendenze estetiche; il riferimento al consumatore medio, di scarsa avvedutezza, si sarebbe probabilmente rivelato del tutto inadeguato. Un ulteriore motivo di incertezza nella definizione del criterio in esame deriva dal fatto che non è chiaro se il legislatore intenda l’utilizzatore informato come colui che è in grado di cogliere anche differenze di scarso rilievo fra una forma e le altre, oppure come chi, avendo un’ampia conoscenza del mercato, verrà colpito solo da un design particolarmente originale. La dottrina infatti non ha mancato di sottolineare che il riferimento in questione potrebbe condurre ad un innalzamento della soglia di registrabilità, o ad un abbassamento, a seconda che si ritenga che l’utilizzatore informato noti anche piccole differenze di stile, oppure che possa formarsi un’impressione generale diversa solo se il disegno o modello presenti una configurazione particolarmente innovativa74; la lettera dell’art. 33 CPI, sotto tale profilo non offre alcun aiuto. 72 In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 11; S. SANDRI, L’utilizzatore informato…, cit., p. 411 ss.; V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 132-135; D. SARTI, Marchi di forma e imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 257. 73 Contra, S. SANDRI, ivi, p. 413, secondo cui il termine utilizzatore rinvia all’uso industrialecommerciale del design, fatto da parte dell’operatore del settore. 74 Si veda, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 75; G. FLORIDIA, in AA. VV. Diritto industriale…, cit., p. 296-297; L. LIUZZO, Modelli, disegni, forme marchi tridimensionali e la loro tutelabilità…, cit., p. 215; M. MONTANARI, 28 Identificare l’utilizzatore informato con l’acquirente capace di notare aspetti creativi anche non eclatanti, che sfuggirebbero al pubblico indistinto dei consumatori, provoca conseguenze di notevole impatto a livello sistematico. Seguendo questa impostazione, infatti, si arriva a ritenere che tutte le forme registrabili come marchio (nonché tutelabili contro l’imitazione servile ex art. 2598 n. 1 del c.c.) sarebbero automaticamente proteggibili come design, essendo dotate di una capacità distintiva “media”, percepibile da qualunque individuo. Per ottenere la protezione come disegno o modello, invece, sarebbe sufficiente un grado di originalità minore, rilevabile solo dal consumatore esperto, particolarmente attento ai dettagli. Questa interpretazione, largamente diffusa fra gli autori75, sembra fondata su un equivoco: in tal modo si giunge al risultato paradossale di ritenere le forme di design meno caratteristiche di quelle consistenti in semplici segni distintivi. Si corre perciò il rischio di stabilire un livello di protezione troppo basso, in cui si tutelano anche forme che si differenziano da quelle già note per dettagli meramente marginali ed insignificanti; la specificità dell’industrial design verrebbe meno, riducendosi ad una sorta di <<piccolo marchio di forma>>76. Conseguenza inaccettabile se si tiene conto del fatto che il design è un fenomeno considerato dai più come una particolare manifestazione dell’arte visiva (intesa nel suo significato estetico-moderno, come qualcosa dotato di un particolare valore culturale o simbolico77); non è certo questa la sede per definire il concetto di arte e stabilire se il design possa o meno rientrare in tale nozione. Tuttavia possiamo affermare che gli oggetti di design siano L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 13; A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 68-69. 75 Si veda, G. DALLE VEDOVE, Dal modello ornamentale…, cit., p. 336; V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme…, cit., p. 132-135; A. FITTANTE, Il nuovo diritto industriale…, cit., p. 50; G. GARGIULO, Industrial design e marchi di forma nella prospettiva…, cit., p. 433; L. LIUZZO, Strumenti di protezione delle forme nel campo della proprietà intellettuale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 48; G. MONDINI, La direttiva comunitaria sulla protezione giuridica…, cit., p. 975; V. SCORDAMAGLIA, La nozione di “disegno e modello” ed i requisiti per la sua tutela…, cit., p. 113 ss.; A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 69. In giurisprudenza si veda, Trib. Venezia, (ord.) 13 luglio 2005, in Foro it., 2005, XII, 3503, in tale pronuncia si afferma che l’utilizzatore informato coincide con <<un consumatore che utilizza materialmente il prodotto nel quale è incorporato il modello, la cui attenzione è però notevolmente superiore alla media, in quanto è costantemente informato sulle caratteristiche dei prodotti e sull’evoluzione dei medesimi, sicché è in grado di distinguerne le variazioni non percepibili agli occhi della media dei consumatori>>. 76 Come giustamente evidenziato da M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 14. 77 Cfr., S. VELOTTI, La filosofia e le arti: sentire, pensare, immaginare, Roma – Bari, 2011, p. 22. 29 generalmente considerati come particolarmente innovativi ed originali, e che i designer spesso incidono sull’evoluzione del gusto estetico, imponendo con il proprio lavoro nuove tendenze stilistiche. Ritenere che l’accesso alla tutela sia consentito a tutte le forme che presentino differenze talmente poco significative da essere rilevabili solo da un esperto del settore, ci sembra quindi del tutto scollato dalla realtà. Come evidenziato da Mario Franzosi, insomma, <<vi possono essere solo pochi design […] ciò che la legge dovrebbe proteggere. Il resto non è design brutto, ma semplicemente non è design>>78. Ci pare dunque che il criterio del carattere individuale, di per sé ben poco severo, debba essere definito facendo leva su un’interpretazione rigorosa del parametro dell’utilizzatore informato. Pertanto sembra più corretto ritenere che solo una forma particolarmente originale rispetto agli orientamenti stilistici precedenti possa suscitare l’interesse del consumatore esperto e, a fortiori, anche dell’acquirente comune79; del resto il riferimento al margine di libertà, contenuto nel secondo comma dell’art. 33 CPI, evoca lo sforzo innovativo dell’autore nella realizzazione dell’opera. Inoltre, un forte argomento a sostegno della lettura data si trae dal tredicesimo Considerando della Direttiva 71/98/CE, nonché dall’art. 6.1 e dal quattordicesimo Considerando del Regolamento 6/2002/CE: le disposizioni citate infatti, prevedono che il carattere individuale si fondi su una chiara differenza tra l’impressione generale suscitata nell’utilizzatore informato rispetto al patrimonio esistente di disegni e modelli80. Infine è doveroso domandarsi quale sarebbe 78 Così, M. FRANZOSI, Design italiano e diritto italiano del design…, cit., p. 81. Si veda pure, B. MUNARI, Arte come mestiere, Roma, 1997, p. 21, il quale evidenzia come l’origine del design derivi dalla corrente artistica del Bauhaus e si sia verificata nel 1919. L’autore sottolinea come il programma di tale prima scuola di design intendesse formare un nuovo tipo di artista, capace di interpretare i bisogni umani e realizzare opere d’arte che fossero al contempo oggetti d’uso comune. 79 In tal senso, G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2001, p. 280 ss.; M. FRANZOSI, ivi, p. 80-82; M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 14. 80 Il tredicesimo Considerando della Direttiva 98/71/CE recita: <<considerando che l’accertamento del carattere individuale di un disegno o modello dovrebbe essere fondato su una chiara differenza tra l’impressione generale suscitata in un utilizzatore informato che osservi il disegno o modello e quella suscitata in tale utilizzatore dal patrimonio esistente di disegni e modelli […]>>. L’art. 6.1 del Regolamento 02/6, in modo del tutto simile, stabilisce: <<si considera che un disegno o modello presenti un carattere individuale se l’impressione generale che suscita nell’utilizzatore informato differisce in modo significativo dall’impressione generale suscitata in tale utilizzatore da qualsiasi 30 l’interesse dell’ordinamento nel concedere la privativa su forme che presentino scarsa originalità: a tale quesito si deve rispondere che la concessione di esclusive monopolistiche rappresenta un’eccezione al fondamentale principio della libertà di concorrenza, ed in quanto tale esige un’interpretazione restrittiva, ove possibile. Intendere il parametro dell’utilizzatore informato secondo l’impostazione contestata, ritenendo che questi sia in grado di apprezzare come decisive differenze non individuabili da parte del consumatore medio, condurrebbe alla concessione di un numero eccessivo di monopoli, senza che vi sia un interesse dell’ordinamento che giustifichi tale situazione. Una volta identificato l’utilizzatore informato con il consumatore esperto del settore merceologico di riferimento, possiamo concludere che il requisito del carattere individuale si fonda sulla percezione del pubblico. Si tratta dunque di un criterio ben lontano da quello (precedente) del valore estetico, che si sostanzia in una forma qualificata di novità, ovvero nella capacità distintiva percepibile a livello qualificato. Ciò significa che il legislatore ha escluso dalla tutela i disegni e modelli che, pur differenziandosi da quelli già divulgati, suscitino nell’utilizzatore informato la sensazione di qualcosa di già visto, sulla base di un giudizio non eccessivamente rigoroso, in cui si tenga conto della libertà di cui ha beneficiato il designer al momento della creazione. In questa maniera l’ordinamento accorda l’esclusiva alle forme che siano capaci di imporsi all’attenzione del pubblico di riferimento, proteggendo quindi la funzione attrattiva delle stesse. Il carattere individuale può dunque essere definito come l’idoneità della forma ad istituire un “contatto privilegiato” fra il prodotto cui inerisce (quindi l’impresa che lo realizza) ed i consumatori81. Non si deve però incorrere nell’errore di ritenere che questo implichi necessariamente la capacità della forma di determinare le scelte d’acquisto; infatti il disegno o modello che si stato divulgato al pubblico […]>>. Infine, in termini analoghi, il quattordicesimo considerando dello stesso Regolamento richiede che il disegno o modello presenti, agli occhi dell’utilizzatore informato, una netta differenza rispetto all’insieme di disegni o modelli già esistenti. 81 Così, D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 256-257. 31 fenomeno del design è sempre più frequentemente finalizzato alla progettazione di forme che, grazie alle loro caratteristiche, assumono grande importanza come <<strumento promozionale di “comunicazione” del prodotto al pubblico>>82. Al design, insomma, è spesso demandato il compito di esprimere l’immagine globale di un’azienda; ne deriva che una forma capace di istituire un “contatto privilegiato” con il pubblico probabilmente riuscirà anche ad influenzarne le decisioni d’acquisto. Tuttavia quest’ultima prerogativa non è necessaria ai fini del riconoscimento della protezione. Possiamo dunque affermare che il requisito del carattere individuale, in sostanza, indichi il valore economico insito nel nuovo design; attraverso esso l’ordinamento tutela gli investimenti effettuati dalle imprese per la ricerca, la realizzazione ed il lancio del nuovo manufatto, escludendo dalla concorrenza chi, non avendo affrontato tali costi, si limiti a riprodurre il prodotto altrui, operando in condizioni di notevole vantaggio83. Si è pertanto passati da un sistema in cui l’esclusiva era riservata alle forme dotate di un certo livello estetico ad un altro, in cui si proteggono le caratteristiche esteriori dei beni, in quanto sia loro ricollegabile un valore economico, a prescindere dunque dal pregio estetico84. Tuttavia è bene precisare che la nuova impostazione non implica necessariamente l’esclusione di qualunque giudizio sul valore ornamentale della forma, quanto piuttosto che una valutazione di questo tipo sia collegata al valore di mercato insito nel disegno o modello. Il criterio del carattere individuale, infatti, rispecchia l’intenzione del legislatore comunitario di fondare il riconoscimento della tutela su un parametro il più possibile oggettivo85, in modo da evitare giudizi, quali quelli sulla bellezza e sul livello di creatività, irrimediabilmente soggettivi. Per tale ragione la definizione di carattere individuale cui siamo pervenuti sembra la più corretta, in quanto in linea con la sua ratio; le altre interpretazioni elaborate dalla dottrina, fondate sul tentativo di legare ancora la concessione dell’esclusiva al raggiungimento di un certo livello estetico, devono dunque essere 82 Ibidem. In tal senso, G. SENA, La diversa funzione e i diversi modelli di tutela della forma del prodotto, in Riv. dir. ind., 2002, I, p. 577 ss.. 84 In tal senso, R. BICHI, La tutela della forma del prodotto e le nuove prospettive introdotte dalla direttiva comunitaria n. 71/98, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 239 ss.. 85 Così, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 71-72. 83 32 accantonate86. Del resto è evidente che, nella maggioranza dei casi, una forma che sia in grado di suscitare l’interesse del consumatore esperto di design presenterà caratteristiche estetiche di rilievo; tuttavia il requisito del carattere individuale non consente più di escludere la tutela per le forme carenti di particolari pregi ornamentali, o addirittura sgradevoli, purché siano distintive ed attraenti agli occhi dell’utilizzatore informato87. Ciò consente di evitare pericolosi giudizi estetici, a tutto vantaggio per la certezza del diritto. 86 Si veda, R. BICHI, La tutela della forma del prodotto e le nuove prospettive introdotte dalla direttiva comunitaria n. 71/98, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 246, secondo il quale l’impressione generale suscitata dal disegno o modello nell’utilizzatore informato sarà diversa da quella che questi ha rispetto alle forme preesistenti proprio grazie alla presenza di <<un quid pluris creativo, di carattere estetico>>. Anche D. SARTI, ivi, p. 256, ritiene che il carattere individuale imponga di subordinare la protezione ad una valutazione di meritevolezza della creazione estetica. 87 Nulla esclude infatti che una forma dalle caratteristiche sgradevoli sia, proprio in quanto tale distintiva ed attraente agli occhi del pubblico. Il mercato offre non pochi esempi di prodotti industriali che si imprimono nella mente dei consumatori in virtù delle loro forme disarmoniche, arbitrarie o inusuali. Un esempio è rinvenibile in un caso recentemente venuto all’attenzione del Tribunale di Venezia: si trattava della forma di calzature che il collegio giudicante ha definito <<brutte>>, <<buffe>>, ma <<trendy>>, e proprio in quanto tali attrattive per i consumatori. Cfr. Trib. Venezia, 15 febbraio 2012, in Foro it., 2012, I, 1254. 33 CAPITOLO II: IL MARCHIO DI FORMA 2.1 Profili storici ed evoluzione dell’istituto 2.1.1 L’iniziale diffidenza nei confronti del marchio di forma Il marchio è il segno distintivo che individua una sottoclasse di beni, appartenenti ad un determinato genere, in funzione della sua origine imprenditoriale. La scienza economica ha da sempre evidenziato la fondamentale funzione che i marchi svolgono sul mercato: infatti, trattandosi di indicatori di provenienza che consentono alle aziende di differenziare i propri prodotti o servizi da quelli offerti dalle concorrenti, essi rappresentano un importante incentivo per le imprese ad offrire beni di qualità costante88. E’ evidente che, affinché le imprese investano su tale aspetto, è necessario che esse dispongano di un diritto esclusivo sul segno, che consenta loro di inibire l’uso del medesimo alle concorrenti; solo così i consumatori riusciranno a reperire agevolmente i prodotti desiderati, senza confonderli con beni dello stesso genere, aventi diversa origine imprenditoriale. L’ordinamento giuridico italiano, pertanto, garantisce alle aziende un diritto esclusivo sul proprio marchio, tutelandone non solo la tradizionale funzione distintiva, ma anche il c.d. selling power, la cui protezione si sostanzia essenzialmente nel riconoscimento del valore insito nel capitale pubblicitario incorporato nel segno89. 88 Si veda, G. AKERLOF, The Market for “Lemons”: Quality Uncertainty and the Market Mechanism, in Vol. 84 Quartetly Journal of Economics, 1970, p. 488 ss.; W. M. LANDES – R. A. POSNER, Trademark Law. An Economic Perspective, in XXX Journal of Law and Economics, 1987, p. 265 ss. 89 La riforma avvenuta con l’approvazione del D.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480 ha infatti innalzato il livello di protezione del marchio. Se in passato l’ordinamento aveva ritenuto meritevole di tutela solo la funzione distintiva del segno, oggi offre protezione anche alla funzione pubblicitaria del marchio. In tal senso, M. RICOLFI, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 65-66. 34 Sulla base di quanto appena detto, si può affermare che la protezione giuridica del marchio non risponda solo all’interesse delle imprese. La disciplina di tale segno distintivo infatti, da un lato consente di salvaguardare l’interesse di carattere pubblico al progresso economico e tecnico, che si realizza in virtù del corretto svolgimento del libero gioco concorrenziale; dall’altro permette di offrire protezione ai consumatori, garantendo la possibilità di operare scelte consapevoli fra le diverse alternative di acquisto presenti sul mercato90. In sostanza perciò, la privativa sul marchio risponde anche ad una finalità pro-concorrenziale, non comportando alcun costo monopolistico91. Queste osservazioni spiegano per quale ragione l’ordinamento conceda alle imprese un’esclusiva decisamente ampia: la combinazione dei fattori ora evidenziati fa sì che non sussistano motivi di limitare il potere monopolistico sotto il profilo temporale. Infatti, il diritto di privativa ottenuto sul segno distintivo ha una durata potenzialmente illimitata: a norma dell’art. 16 CPI, il titolare di un marchio può rinnovare la registrazione quante volte desideri92, e la rinnovazione costituisce un semplice prolungamento temporale della registrazione originaria, senza soluzione di continuità nei diritti da questa derivanti. Tale aspetto, presente non solo nell’ordinamento interno ma anche in quello comunitario ed internazionale, si rivelerà fondamentale ai fini dell’oggetto della nostra analisi. Tuttavia, la disciplina dell’istituto in esame presenta alcuni lineamenti che provocano il rischio del verificarsi di effetti anti-concorrenziali. Il caso in cui, probabilmente, tale rischio si presenta più forte, è insito proprio nella possibilità di tutelare come 90 Così, G. GHIDINI, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2008, p. 241-243; A. VANZETTI, Natura e funzioni giuridiche del marchio, in AA. VV., Problemi attuali del diritto industriale…, cit., p. 1170. Si veda anche la sentenza della Corte di Giustizia, del 6 maggio 2003, causa C-104/01, in www.eur-lex.europa.eu , in cui la Corte afferma che <<secondo costante giurisprudenza, il diritto di marchio costituisce un elemento essenziale del sistema di concorrenza non falsato, che il Trattato desidera stabilire e conservare>>. 91 Si veda, G. GHIDINI, ivi, p. 242: l’autore parla di <<monopolio a costo zero>>, precisando che tale situazione si realizza solo se ed in quanto la tutela del segno venga circoscritta esclusivamente alla funzione distintiva. 92 L’art. 16 CPI riproduce sostanzialmente il testo dell’art. 5 del R.D. 929/1942 (c.d. Legge-marchi), nella versione introdotta dall’art. 6 del D.lgs. 480/1992. L’art. 15 quarto comma CPI stabilisce che la registrazione ha la durata di dieci anni, decorrenti dalla data di deposito della domanda; allo stesso modo, il secondo comma dell’art. 16 CPI prevede che la rinnovazione si effettui per periodi di dieci anni, la cui decorrenza inizia dalla data di scadenza della registrazione precedente. 35 marchio la forma di un bene93, possibilità oggi espressamente riconosciuta da parte dell’ordinamento. Non a caso, infatti, sia la dottrina che la giurisprudenza dei principali Paesi europei assunsero, per un lungo periodo, un atteggiamento di tendenziale diffidenza nei confronti del marchio di forma94. Occorre subito precisare che l’istituto menzionato può essere costituito tanto da segni bidimensionali, quanto da segni tridimensionali; infatti, nonostante la maggioranza degli autori ritenga che il marchio di forma abbia necessariamente carattere tridimensionale, la più attenta dottrina non ha mancato di evidenziare l’equivoco alla base di tale impostazione. Possono infatti aversi marchi bidimensionali intrinsecamente connessi al prodotto (l’esempio tipico è rappresentato dai disegni ritmicamente ripetuti sui tessuti delle più importanti case di moda, quali Vuitton, Burberrys, etc.), così come, al contrario, esistono segni distintivi tridimensionali estrinseci ed indipendenti dal prodotto, che pertanto non sono qualificabili come marchi di forma (si pensi alle sculture poste sul cofano delle automobili Rolls Royce)95. 93 Per un’analisi di tutti i casi in cui, la disciplina del marchio tende a produrre effetti anticoncorrenziali si veda, ancora, G. GHIDINI, ivi , p. 243. 94 In un primo momento, infatti, l’Italia, la Gran Bretagna, la Germania e la Svizzera non ammettevano la validità del marchio di forma; e identico discorso vale anche per gli Stati Uniti d’America. Un’eccezione è invece rappresentata dalla Francia, la cui giurisprudenza riconosceva la validità di tale specie di marchio fin dall’inizio del secolo scorso, e la cui ammissibilità è stata espressamente sancita dall’art. 1 della L. del 31 dicembre 1964. Si veda, F. BENUSSI, La tutela del disegno…, cit., p. 162. E’ interessante notare che nell’ordinamento britannico, tradizionalmente sensibile al primato della ragione concorrenziale, l’atteggiamento ostativo perdurò sino agli inizi degli anni ’90. Si veda, W. R. CORNISH – D. LLEWELYN, Intellectual Property: Patents, Copyright, Trade Marks and Allied Rights, London, 2003, p. 652. I due autori fanno menzione di quello che è stato il caso internazionale principe in materia di marchi di forma (il caso relativo alla bottiglia della Coca-Cola), specificando che la ragione per cui ne fu negata la registrazione era legata al pericolo di creare monopoli potenzialmente perpetui sulla forma di beni industriali, così indirettamente monopolizzando la stessa attività produttrice di tali prodotti: <<many marks which were unregistrable under earlier legislation are now registered. For example, under the former law, the House of Lords refused to treat the shape of the “Coca-Cola” bottle as a trade mark […] : it is now registered>>. Cfr., House of Lords, Coca-Cola T. M., 1986, R. P. C., p. 421. 95 In tal senso, G. SENA, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale e marchio comunitario, Milano, 2007, p. 80-81. L’autore sottolinea che l’espressione “marchio di forma” non debba indurre in equivoco, conducendo ad identificare necessariamente questa categoria di marchi con oggetti tridimensionali. Si veda pure, G. GHIDINI, Profili evolutivi del diritto…, cit., p. 243, il quale richiama l’opinione di G. SENA. Tuttavia, mentre quest’ultimo ritiene che i segni tridimensionali estrinseci al prodotto non siano qualificabili come dei marchi di forma, il primo invece fa rientrare anche tali segni nella categoria in questione; noi riteniamo più corretta l’opinione di G. SENA, in quanto coerente con la lettera della legge. L’art. 7 CPI infatti, nell’individuare i segni registrabili come marchi, fa riferimento alla <<forma del prodotto o della confezione di esso>>. Quanto agli autori che identificano i marchi 36 Quanto all’ordinamento italiano, vi erano due motivi fondamentali che inducevano a rifiutare cittadinanza all’istituto in esame: il primo risiedeva, come già accennato, nel pericolo che il riconoscimento della sua ammissibilità provocasse inaccettabili risvolti anti-concorrenziali sul mercato. E’ evidente infatti che se si consentisse alle aziende di registrare ed utilizzare come segno distintivo, in via esclusiva e potenzialmente perpetua, la forma comune di qualsiasi prodotto, si finirebbe, quantomeno in alcuni casi, per creare un monopolio sulla stessa attività produttrice di quello specifico bene. E’ chiaro che un simile problema si pone soltanto di fronte ai marchi tridimensionali, ovvero per quei segni coincidenti con la conformazione stessa del prodotto finito o della sua confezione (nel caso in cui il prodotto non abbia forma tridimensionale e si presenti al pubblico come se la sua conformazione fosse quella del contenitore stesso: si pensi ai profumi o alle bibite). In sostanza, è solo quando il segno distintivo coincide con la forma del prodotto finito che si manifesta il rischio di apprezzabili effetti restrittivi sulla concorrenza. La seconda ragione addotta per giustificare l’inammissibilità dei marchi di forma si fondava sul principio di alternatività delle tutele: abbiamo già visto nel I° Capitolo come l’ordinamento avesse predisposto uno specifico sistema di protezione delle forme ornamentali e funzionali, basato su regole del tutto diverse da quelle previste dalla disciplina del marchio. In particolare la durata limitata dell’esclusiva e la sussistenza di requisiti d’accesso alla privativa piuttosto rigorosi, inducevano ad escludere che tali forme potessero essere tutelate anche come marchi. In sostanza, per dirla con le parole di Tullio Ascarelli, occorreva evitare che <<l’ambito della protezione del marchio [si confondesse] con quello dei modelli, [così finendo] per equivalere ad un brevetto per modello, e a tempo indeterminato>>96. Inoltre di forma solo con oggetti tridimensionali si veda, F. BENUSSI, ivi, p. 161; R. BICHI, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 242; V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 85; L. SORDELLI, Brevi cenni in tema di marchio tridimensionale e di contraffazione di marchio complesso, in Foro pad., 1963, p. 1431 ss.; M. STELLA RICHTER jr, in AA. VV., Commento tematico della legge marchi, Torino, 1998, p. 184 ss.. Tuttavia non pare che le due impostazioni conducano a risultati differenti: infatti, anche gli autori che escludono i segni bidimensionali dalla categoria in esame, sembrano sostenere l’applicabilità, mediante interpretazione estensiva o analogica, della disciplina dei marchi di forma anche ai c.d. marchi bidimensionali ornamentali. 96 Si veda, T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, p. 483. Analogamente C. VIVANTE, Trattato di diritto commerciale, Milano, 1924, p. 35, sosteneva che 37 l’eventualità di favorire effetti restrittivi sulla concorrenza era senz’altro più consistente nel caso in cui la forma di cui si mirasse ad ottenere la tutela come marchio rappresentasse un elemento essenziale per la funzionalità meccanica o estetica del prodotto. In tal caso dunque, il problema concorrenziale si intrecciava con quello, di carattere sistematico, relativo al coordinamento di normative diverse. Così, il R.D. 21 giugno 1942, n. 929 (c.d. Legge-marchi), all’art. 18 primo comma n. 3, stabiliva che non potevano costituire oggetto di brevetto, per l’uso esclusivo come marchi, le figure o i segni il cui carattere distintivo fosse inscindibilmente connesso con quello di utilità e di forma. Tale disposizione fu per lungo tempo oggetto di un vivace dibattito, a causa dell’ambiguità del suo tenore letterale. Il problema interpretativo non riguardava tanto l’individuazione della ratio della norma (che la dottrina, in modo piuttosto uniforme, tendeva ad identificare con l’esigenza di evitare la sovrapposizione della tutela brevettuale da parte di quella propria dei marchi), quanto invece l’ammissibilità stessa del marchio di forma. In un primo momento infatti, la maggioranza degli autori negava la possibilità di registrare come segno distintivo la forma di un bene97, a causa dei problemi sopra evidenziati e di una concezione rigorosa del principio di estraneità del marchio al prodotto98. Tuttavia una parte minoritaria della dottrina sosteneva comunque l’ammissibilità dell’istituto in esame99: tale opinione era fondata sulla considerazione <<nessuno può pretendere l’uso esclusivo di un marchio che consista in un disegno, in una forma, in un involto, in un colore capace di accrescere l’utilità della merce. Chi vuole questo diritto esclusivo cerchi la sua protezione nella legge che difende i modelli e i disegni di fabbrica, e l’otterrà per un periodo brevissimo; ma nessuno può confiscare perpetuamente a scapito del progresso di tutti un progresso industriale.>> 97 In tal senso, E. BONASI BENUCCI, La tutela della forma…, cit., p. 95; F. FERRARA jr, Teoria giuridica dell’azienda, Firenze, 1945, p. 222-223; G. FERRI, Manuale di diritto commerciale, Torino, 1972, p. 79; P. VERCELLONE, Il marchio, in P. RESCIGNO (a cura di), Trattato di diritto privato, Vol. XVIII, Torino, 1983, p. 103 ss.. 98 In base a tale principio il marchio, in quanto segno distintivo, dev’essere un’entità estranea e distinta dal bene di cui indica l’origine imprenditoriale, pur essendo ad esso connesso; se così non fosse non si tratterebbe di un segno distintivo, ma di una caratteristica qualitativa del prodotto. Vedremo nel paragrafo successivo come tale principio possa essere conciliato con l’istituto del marchio di forma. 99 Occorre precisare che gli autori che ammettevano la figura del marchio di forma non erano del tutto concordi fra di loro. Si veda, T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni…, p. 441-442, l’autore, pur riportando come opinione dominante quella contraria ai marchi tridimensionali che fossero intrinseci al prodotto funzionalmente ed esteticamente, riportava anche la tesi contraria 38 che la forma di un prodotto potesse svolgere anche una funzione distintiva, oltre che meramente estetica o meccanica, evidenziando indirettamente l’origine imprenditoriale del bene. Questi autori, pur non mettendo in discussione il principio di alternatività delle tutele, tentarono dunque di ricavare uno spazio residuale per il marchio di forma, attraverso una lettura <<artificiale>> e <<faticosa>> dell’art. 18 n. 3100. In base a tale interpretazione, le forme distintive prive di pregio ornamentale e di utilità tecnica (o non legate a questa da un collegamento inscindibile), che presentassero caratteristiche arbitrarie, non consuete, potevano essere validamente registrate come marchi di forma101. Questa lettura, in un primo momento poco accreditata, si diffuse notevolmente a partire dai primi anni Settanta, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza102; l’avvento dell’era della globalizzazione e la rapida evoluzione del sistema economico che ne conseguì, rendevano evidentemente necessario il riconoscimento di tutele più forti a beneficio delle imprese. Si giunse così ad accettare in modo pacifico la categoria del marchio di forma, seppure subordinandone l’ammissibilità alla sussistenza delle condizioni indicate. In particolare merita di essere ricordato il celebre caso concernente la forma della bottiglia di candeggina ACE, in quanto emblematico dell’impostazione seguita: infatti i giudici milanesi ritennero la conformazione del contenitore del tutto arbitraria, di fantasia103, affermando che la dicendosi convinto che il valore distintivo che la forma poteva assumere avrebbe dovuto essere tutelato. Allo stesso tempo però, Ascarelli sottolineava il pericolo di riconoscere una protezione potenzialmente illimitata per le forme in questione. Si veda pure, F. BROCK, I marchi di forma, in Riv. dir. ind., 1952, I, p. 38 ss.; R. FRANCESCHELLI, Trattato di diritto industriale, Parte generale, Vol. II, Milano, 1960, p. 278-279; ID., Sui marchi di forma, in Riv. dir. ind., 1960, II, p. 378 ss.; G. SENA, Utilità e funzione distintiva nella forma del prodotto, in Riv. dir. ind., 1957, I, p. 276 ss.; L. SORDELLI, Relazione tra marchio e forma del prodotto a fini di non confondibilità, in Riv. dir. ind., 1958, II, p. 442 ss.; A. VANZETTI, Il problema dei marchi di forma, in Riv. dir. comm., 1964, I, p. 421 ss. 100 Con questi aggettivi è stata definita l’interpretazione dell’art. 18 n. 3, necessaria per affermare l’ammissibilità dei marchi di forma. Si veda, A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 109 e 137. 101 L’opinione riferita riscosse alcuni consensi anche in giurisprudenza. A titolo esemplificativo si vedano, Trib. Milano, 25 ottobre 1962, in Foro pad., 1963, I, 1438; Trib. Milano, 19 gennaio 1961, in Foro it., 1961, I, 1254; Trib. Roma, 21 marzo 1960, in Giur. ital., 1960, I, 862. 102 Si veda, V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 85. 103 La bottiglia infatti fu descritta come costituita da un corpo cilindrico, che presentava due rilievi, l’uno in corrispondenza della base, l’altro all’inizio del collo; fu inoltre evidenziato che il contenitore in questione aveva un’estremità allungata, caratterizzata da un ingrossamento circolare a mezza altezza. E’ evidente come, con tale descrizione i giudici abbiano sottolineato il carattere arbitrario della forma esaminata. Si veda, Trib. Milano, 26 febbraio 1976, in Riv. dir. ind., 1977, II, p. 39 ss.. 39 bottiglia risultava <<di sgradevole presentazione>>, a causa dell’evidente disarmonia delle sue linee. La sentenza giunse quindi ad affermare la carenza di qualsiasi pregio estetico nel contenitore in questione, riconoscendone pertanto la validità come marchio di forma104. Tuttavia l’impostazione seguita in questa pronuncia fu criticata da una parte della dottrina che ne evidenziò l’irrazionalità, in quanto, escludendo che le forme dotate di qualsiasi pregio ornamentale potessero costituire validi marchi, si arrivava alla conclusione che fossero ammesse solo forme <<brutte>>105. Conclusione paradossale, se si considera che ben difficilmente un imprenditore sceglierà di contraddistinguere i propri prodotti con segni esteticamente sgradevoli; in tal modo, dunque l’ambito di operatività del marchio di forma sarebbe stato decisamente esiguo, per non dire inesistente. La dottrina più autorevole pertanto elaborò un’interpretazione, parzialmente diversa e correttiva rispetto a quella precedentemente affermatasi, in base alla quale la registrazione come marchio non sarebbe stata esclusa per ogni forma esteticamente gradevole, ma solo per quelle la cui conformazione superasse un certo livello estetico106. In sostanza l’opinione in esame individuava il confine fra tutela brevettuale e protezione del marchio nel requisito dello speciale ornamento, così assicurando uno spazio reale alla categoria dei marchi di forma. La stessa impostazione venne poi applicata alle forme utili, precisando che la registrazione come segno distintivo non sarebbe stata esclusa per ogni forma che presentasse caratteri funzionali, bensì esclusivamente per quelle che rappresentassero un nuovo concetto innovativo. E’ appena il caso di notare che, in base a tale impostazione, all’ampliamento della categoria delle forme idonee a costituire un marchio conseguì un corrispondente restringimento di quella relativa alle forme brevettabili. 104 Si veda pure, Cass., 21 maggio 1981 n. 333, in Giur. ann. dir. ind., 1981, 1372. In tale pronuncia la Suprema Corte afferma: <<la validità dei marchi di impresa, perciò non viene ammessa indiscriminatamente, ma solo quando trattasi di forma non consueta, arbitraria o di fantasia, alla quale cioè, siano estranei sia compiti estetici che quelli funzionali o, comunque, di utilità particolare>>. Inoltre si veda, Cass. 7 aprile 1974 n. 1213, in Giur. ann. dir. ind., 682; App. Milano 26 maggio 1978, in Giur. ann.dir. ind., 1056; Trib. Roma, 9 ottobre 1972, in Giur. ann. dir. ind., 182. 105 In tal senso, M. CARTELLA, Marchi di forma o marchi deformi?, nota a Trib. Milano, 26 febbraio 1976, in Riv. dir. ind., 1977, II, p. 39 ss.. 106 Così, A. VANZETTI, I diversi livelli di tutela delle forme…, cit., p. 331 ss.. 40 L’indirizzo da ultimo riferito fu poi recepito dalla prevalente giurisprudenza; ne troviamo un esempio nel noto caso relativo alla forma della bottiglia dell’Amaretto di Saronno107. Qui infatti il Tribunale riconobbe la tutelabilità come marchio di questa bottiglia, il cui aspetto (caratterizzato da un tappo a forma di parallelepipedo e da una lavorazione del vetro a bugnato) era piuttosto particolare e gradevole, dunque distintivo; i giudici specificarono che l’applicabilità della disciplina del marchio era possibile proprio perché la forma non presentava un pregio ornamentale particolarmente accentuato. Occorre infine fare un accenno ai marchi di forma costituiti da segni bidimensionali: quanto ad essi, la giurisprudenza si è trovata prevalentemente ad affrontare la questione relativa alla validità di marchi rappresentanti segni o disegni ritmicamente ripetuti sul prodotto (i c.d. marchi seriali di lettere)108, orientandosi nel senso di riconoscerne l’ammissibilità. Tale soluzione era fondata da un lato sull’assunto che il segno potesse essere suscettibile di diverse utilizzazioni, tra le quali appunto, l’apposizione seriale sui prodotti; dall’altro sulla considerazione che il disegno impresso su un tessuto dovesse considerarsi un elemento accessorio, indipendente e scindibile dalla forma del bene109, idoneo dunque a costituire un valido marchio. La giurisprudenza ha dunque ritenuto che tali marchi, essendo costituiti da lettere o disegni elaborati in una forma grafica caratterizzante, non potevano considerarsi denominativi, ma erano piuttosto marchi emblematici o figurativi. Volendo sinteticamente ripercorrere quanto appena visto, possiamo affermare che la figura del marchio di forma è stata, in un primo momento, estranea al nostro ordinamento, in quanto non espressamente prevista dal legislatore; successivamente, grazie soprattutto agli sforzi interpretativi compiuti dalla dottrina, l’istituto è stato riconosciuto come facente parte del sistema giuridico italiano. Pertanto, alla vigilia dell’intervento comunitario ne era pacifica l’ammissibilità. 107 Cfr. Trib. Milano, 8 aprile 1991, in Giur. ann. dir.ind., 1991, 2130. Si veda, S. MAGELLI, Sulla validità come marchi o modelli ornamentali dei disegni ritmicamente ripetuti sul prodotto, in Foro Pad., 1980, I, p. 295; V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme…, cit., p. 59. 109 Si veda, App. Milano, 18 luglio 1995, Giur. ann. dir. ind., 1995, 2316.; Trib. Milano, 28 gennaio 1993, in Giur. ann. dir. ind., 1993, 1081.; Cass., 28 giugno 1980 n. 4090, in Giur. ann. dir. ind., 1980, 2051; App. Milano, 26 maggio 1978, in Giur. ann. dir. ind., 1978, 1342. Una pronuncia più recente su questo stesso tema è quella del Trib. Firenze, 10 maggio 2001, Giur. ann. dir. ind., 2001, 851. 108 41 2.1.2 L’intervento del legislatore comunitario La disciplina del marchio è stata modificata in maniera significativa a seguito dell’intervento del legislatore comunitario, avvenuto con la Direttiva del 21 dicembre 1988, n. 89/104 CEE110. Come già accennato, la globalizzazione ha reso più aspra la competizione fra le imprese presenti sul mercato, così accentuando indirettamente l’importanza del marchio quale strumento in grado di esercitare una notevole forza attrattiva sul pubblico. Questa situazione indusse le aziende, soprattutto quelle di maggiori dimensioni, ad esercitare forti pressioni sulle istituzioni, in particolare quelle europee, per vedere rafforzata la tutela del marchio. Per quel che riguarda specificamente l’oggetto di questo lavoro, le imprese impegnate a sviluppare design d’avanguardia avvertivano l’esigenza di ottenere una protezione più prolungata nel tempo, preoccupate del fatto che, a fronte del lungo periodo necessario per imporre sul mercato nuove tendenze stilistiche, la durata del brevetto per modello ornamentale fosse troppo limitata; il rischio, in sostanza, era quello di veder scadere l’esclusiva proprio nel momento in cui la forma brevettata cominciasse ad attrarre una domanda di massa111. La Commissione europea ravvisò dunque l’opportunità di procedere ad un ravvicinamento del diritto dei marchi degli Stati membri, attraverso lo strumento della Direttiva che, come noto, consente di eliminare le disparità più marcate fra le diverse legislazioni interne, senza stravolgerle radicalmente; inoltre, con questo stesso intervento, venne perseguito l’obiettivo di rafforzare le prerogative del titolare del segno. Il risultato raggiunto con la Direttiva 89/104 fu un notevole ampliamento della tutela del marchio; l’ordinamento italiano si mise perciò in linea con quello europeo tramite l’approvazione del D.lgs. del 4 dicembre 1992, n. 480, che modificò in misura consistente il R. D. 929/42. La riforma infatti, non si limitò ad introdurre 110 Tale Direttiva è stata successivamente codificata con la Direttiva 2008/95/CE, del 22 ottobre 2008. 111 Si veda, G. GHIDINI, Industrial design e opere d’arte applicate all’industria (dialogo tra P. SPADA e P. AUTERI, commentato da G. GHIDINI), in Riv. dir. civile, 2002, p. 267 ss. 42 modifiche alla disciplina del marchio sotto diversi profili, ma comportò un cambiamento radicale nella fisionomia stessa dell’istituto, spostando l’asse portante della sua protezione dalla funzione distintiva a quella attrattiva112. E’ in questa prospettiva che occorre guardare all’inserimento del marchio di forma nella categoria dei segni distintivi: l’art. 16 del D.lgs. 480/92 infatti, contiene l’espressa menzione della forma del prodotto o della sua confezione, fra i segni idonei ad essere registrati come marchi. Tuttavia la tutelabilità del marchio di forma è stata ampiamente circoscritta, subordinando la possibilità di conseguire la registrazione al rispetto di alcuni limiti particolari, che riflettono i rischi evidenziati nel paragrafo precedente, legati a tale istituto113. Approfondiremo tra breve questo aspetto; qui è necessario soffermarsi ancora un momento sugli interventi del legislatore comunitario in materia di marchi. Infatti, poco dopo l’introduzione della Direttiva di ravvicinamento, il legislatore europeo approvò il Regolamento 94/40 CE, del 20 dicembre 1993, istitutivo del marchio comunitario. La disciplina così introdotta, sebbene largamente ispirata agli stessi principi contenuti nella Direttiva, prevedeva una novità rilevante: la creazione di un titolo di proprietà industriale europeo (appunto il marchio comunitario), ottenibile mediante un unico procedimento di registrazione ed idoneo a produrre gli stessi effetti in tutti gli Stati membri114. Alla base di tale innovazione vi era l’intento 112 In tal modo il legislatore ha accordato protezione agli investimenti pubblicitari incorporati nel segno, riconoscendo la rilevanza del suo “selling power”. L’eliminazione del c.d. vincolo aziendale, la possibilità di stipulare contratti di licenza non esclusiva nonché quella di ottenere la registrazione del segno con l’unico fine di sfruttarne il valore di scambio, sono solo alcune delle novità più significative introdotte dalla riforma, che dimostrano il radicale mutamento subito dall’istituto del marchio. Per un’analisi più approfondita si veda, M. RICOLFI, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 64 ss.. 113 A conferma di ciò bisogna sottolineare che il rischio del verificarsi di effetti anti-concorrenziali è stato chiaramente segnalato dalla stessa Commissione Europea, nell’ explanatory memorandum che accompagnò la proposta della Direttiva di armonizzazione. Infatti, nel commento agli articoli di questa, si affermava: <<the shape of goods will not be refused registration, unless the fact of registration would make it possible for an undertaking to monopolize that shape to the detriment of its competitors and of consumer>>. Si veda, A. FIRTH – E. GREDLEY – S. MANIATIS, Shapes as Trade Marks: Public Policy, Functional Considerations and Consumer Perceptions, in EIPR, 2001, p. 86 ss. 114 L’art. 1 paragrafo 2 infatti, stabilisce che il marchio comunitario <<produce gli stessi effetti in tutta la Comunità: esso può essere registrato, trasferito, formare oggetto di una rinuncia, di una decisione di decadenza dei diritti del titolare o di nullità e il suo uso può essere vietato solo per la totalità della Comunità>>. E’ bene precisare che, perché il marchio comunitario divenisse una realtà operativa, si è dovuto attendere fino al 1996, anno in cui è entrato in funzione “l’Ufficio di armonizzazione a livello di mercato interno” (UAMI), collocato ad Alicante. Si deve inoltre aggiungere che il marchio comunitario è in parte amministrato da istituzioni comunitarie, in parte da istituzioni che fanno capo 43 di incoraggiare le imprese ad operare su scala europea, senza tuttavia eliminare i marchi nazionali: in questo modo si è riconosciuta alle aziende la possibilità di scegliere il titolo più idoneo rispetto ai loro obiettivi di mercato, optando tra un marchio nazionale, un marchio comunitario o ancora un fascio di diritti regolati dai diversi ordinamenti nazionali (eventualità, quest’ultima, praticabile in base alla Direttiva 89/104 e alla Convenzione d’Unione di Parigi). Veniamo adesso all’oggetto specifico della nostra analisi: come già accennato, l’art. 2 della Direttiva indica fra i segni suscettibili di costituire un marchio d’impresa la forma del prodotto o del suo confezionamento115; l’ordinamento italiano si è uniformato a tale disposizione inserendo la medesima previsione nell’art. 16 della Legge-marchi. Inoltre il legislatore comunitario ha inserito nell’art. 3 paragrafo primo, lett. e)116 una serie di impedimenti assoluti alla registrazione specificamente dedicati al marchio di forma; anche questa norma è stata fedelmente riprodotta dal D.lgs. 480/92 ed inserita nell’art. 18 lett. c) del R.D. 929/42, sostituendo così il testo, tanto discusso, contenuto nel n. 3 del medesimo articolo. La disposizione in questione stabiliva: <<non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa […] : i segni costituiti esclusivamente dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto, dalla forma del prodotto necessaria agli Stati membri: infatti l’UAMI è competente per il procedimento di registrazione, mentre la contraffazione del titolo comunitario può essere fatta valere solo di fronte ai Tribunali dei marchi comunitari, costituiti dalle autorità giudiziarie di primo e secondo grado designate dai Paesi membri nei rispettivi territori (in Italia tale funzione è svolta dalle Sezioni Specializzate in Proprietà Industriale). 115 Identica disposizione è contenuta nell’art. 4 del Regolamento 94/40. E’ appena il caso di notare che, mentre in precedenza al concetto di marchio di forma veniva indistintamente ricondotta tanto la forma del prodotto quanto quella della confezione, con tale disposizione il legislatore ha chiarito che si tratta di due realtà diverse, pur assimilandole ai fini della registrabilità come marchio. In tal senso, M. STELLA RICHTER jr, in AA. VV., Commento tematico della legge…, cit., p. 170; A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 109. Contra: G. LA VILLA, Commento alla nuova legge sui marchi, in Riv. dir. ind., 1993, I, p. 304; l’autore infatti sostiene che il riferimento alla forma della confezione riguardi le forme bidimensionali, vale a dire le grafie ed i disegni del packaging. Sulla distinzione fra forma del prodotto e forma del confezionamento si è pronunciata pure la Corte di Giustizia, affermando che, sebbene le due entità possano funzionare entrambe come marchi di forma, in alcuni casi (quali ad esempio quelli di un prodotto liquido o di una polvere) la confezione finisce per essere così intrinsecamente connessa al prodotto, da costituirne la forma stessa. Cfr. Corte di giustizia, 12 febbraio 2004, causa C-218/01, in Foro it., 2004, IV, p.130 ss., con nota di G. CASABURI. 116 Anche in questo caso la medesima previsione è stata inserita nel Regolamento 94/40, all’art. 7 paragrafo 1 lett. e). 44 per ottenere un risultato tecnico, o dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto>>. Tale norma trova la sua origine nell’art. 1 2° comma della Legge Uniforme del Benelux del 1971, il quale fece da modello in sede comunitaria per la soluzione adottata117: questo dato, apparentemente di poco conto, si rivelerà di una certa importanza quando arriveremo ad analizzare il problema della sovrapposizione fra la disciplina del marchio di forma e quella sui disegni e modelli. E’ bene sottolineare sin da ora che la nuova versione dell’art. 18 ha provocato un primo scossone al sistema di protezione della forma dei prodotti industriali; questa affermazione sarà abbondantemente argomentata nel prosieguo della trattazione. La dottrina non ha mancato di evidenziare l’opportunità della modifica apportata alla disposizione in esame118: sebbene, come abbiamo visto, si era comunque giunti a ritenere ammissibile l’istituto del marchio di forma, ciò era possibile solo attraverso un’interpretazione della norma decisamente artificiosa. La riforma ha reso superflua tale operazione ermeneutica ed ha dunque avuto il merito di chiarire, nel senso dell’ammissibilità della registrazione, una serie di casi in precedenza considerati dubbi119. Va detto però che la nuova formulazione dell’art. 18, ferma restandone la maggior chiarezza, pare porsi in linea di continuità con il suo antecedente: le condizioni cui è subordinato il conseguimento del titolo infatti, sembrano ricalcare da un lato la preoccupazione di impedire la monopolizzazione perpetua di intere categorie di prodotti, dall’altro quella di evitare che la tutela del marchio consenta di aggirare i 117 Infatti l’art 1 2° comma della suddetta legge vieta l’adozione come marchio della <<forme imposée par la nature meme du produit>>, di quella <<qui influe valeur sur la essentielle du produit>> e di quella <<qui produit des résultats industriels>>. A conferma della discendenza della disposizione comunitaria da tale norma si può notare che la stessa non è stata modificata dal Protocollo adottato dal Comitato dei Ministri dell’Unione economica del Benelux, per adeguarla alla Direttiva. Si veda, R. ANNAND – H. NORMAN (a cura di), Blackstone’s Guide to the Trade Marks Act 1994, London, 1994, p. 65; A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 140. 118 In tal senso, A. VANZETTI – C. GALLI, ivi, p. 137. 119 Prima dell’intervento del legislatore comunitario, infatti, vi erano altre categorie di marchi, oltre a quello di forma, la cui ammissibilità era considerata dubbia: si pensi ai marchi di colore, di cui la giurisprudenza tendeva a riconoscere la registrabilità solo in caso di combinazioni cromatiche particolari, in base al presupposto che un colore di per sé sia sprovvisto di capacità distintiva. Si veda ancora, A. VANZETTI – C. GALLI, ivi, p. 110. Cfr., Cass., 15 luglio 1965, n. 1550, in Giur. it., 1966, I, 1, 30 ss.; App. Milano, 9 settembre 1975, in Giur. ann. dir. ind., 1975, 589. 45 limiti temporali previsti dalla legge sui modelli industriali120. Occorre inoltre precisare che, al di là dei peculiari limiti alla registrazione previsti dall’art. 18 lett. c), la disciplina del marchio di forma non si differenzia da quella prevista per le altre categorie di segni: vige cioè il principio della parità di trattamento fra le diverse tipologie di marchio, elaborato dalla giurisprudenza comunitaria in particolare in occasione del riconoscimento dei c.d. marchi non convenzionali (quali quello di colore, di suono, etc.), e più volte ribadito in una serie di pronunce121. Difatti, la possibilità di registrare qualunque tipo di marchio è subordinata in ogni caso alla sussistenza di due condizioni fondamentali, vale a dire la rappresentabilità grafica del segno e la sua capacità distintiva122. Quanto in particolare a quest’ultimo requisito, si tratta di una verifica che va di volta in volta ragguagliata ai beni destinati ad essere contraddistinti dal segno; la Corte di Giustizia ha ripetutamente affermato che tale valutazione è incentrata sulla percezione del pubblico, nonché sulla natura del prodotto di cui il segno deve indicare l’origine imprenditoriale123. Ciò deriva dal fatto che il marchio è indiscutibilmente un segno di comunicazione ed il consumatore ne è evidentemente il principale ricettore, per cui occorre accertare che questi percepisca tale entità come indicazione della provenienza del bene da una certa impresa, piuttosto che come una sua caratteristica. L’esame dev’essere compiuto facendo riferimento ad un parametro di consumatore medio, da intendersi come normalmente informato e ragionevolmente avveduto, tenendo conto del fatto che il livello d’attenzione del 120 In tal senso, V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 86; D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 251; M. STELLA RICHTER jr, in AA. VV., Commento tematico della legge…, cit., p. 184. 121 Cfr. Trib. Primo Grado, 19 settembre 2001, causa T-30/00; Trib. Primo Grado, 6 marzo 2003, causa T-128/01; Trib. Primo Grado, 3 dicembre 2003, causa T-305/02; Corte di Giustizia, 22 giugno 2006, causa C-24/05 P, tutte leggibili in www.eur-lex.europa.eu. Si veda pure, S. SANDRI, La protezione della forma nella giurisprudenza della corte di giustizia, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 161 ss.. 122 Tali condizioni, inserite dal D.lgs. 480/92 nel testo dell’art. 16 della Legge-marchi, sono state oggi trasposte nell’art. 7 del Codice della Proprietà Industriale, che sostanzialmente riproduce il suddetto art. 16. 123 Si veda, Corte di Giustizia, 11 novembre 1997, causa C-251/95; Corte di Giustizia, 22 giugno 1999, causa C-342/97; Trib. Primo Grado, 2 luglio 2008, causa T-340/06, tutte leggibili in www.eurlex.europa.eu. Si veda anche, D. BRAMBILLA, Carattere individuale e capacità distintiva…, cit., p. 453 ss.; S. SANDRI, La forma che dà valore sostanziale…, cit., p. 31 ss.. 46 pubblico varia sensibilmente a seconda della categoria dei beni o servizi considerati124. Tuttavia si rende necessaria una precisazione: sebbene i criteri di valutazione del carattere distintivo nei marchi di forma non siano più severi o diversi da quelli applicabili alle altre categorie di segni125, la percezione del pubblico interessato può non essere la stessa rispetto ai casi in cui si trovi davanti a prodotti contraddistinti con marchi figurativi o denominativi. Infatti, mentre queste tipologie di segni sono immediatamente percepite nella loro funzione essenziale di indicatori di provenienza, ciò non necessariamente accade qualora il marchio si confonda con l’aspetto del prodotto stesso126: così, se di norma non è richiesto un grado particolarmente elevato di originalità affinché si ritenga sussistente il requisito della capacità distintiva, per i marchi di forma è necessario che questi si discostino in misura significativa dalla configurazione abituale del prodotto127 (il che, peraltro, si ricava dal primo degli impedimenti alla registrazione indicati nell’art. 18 lett.c)). 124 Ad esempio, se si considerano beni tecnologicamente sofisticati deve assumersi un livello di attenzione più elevato. Si veda, Corte di Giustizia, 12 gennaio 2006, causa C-361/04, in Giur. it., 2006, p. 1187 con nota di C. SAPPA, Nomi di celebrità e rischio di confusione fra marchi: il caso “Picasso”; Corte di Giustizia, 22 giugno 1999, causa C-342/97, in Dir. ind., 1999, p. 317, con commento di G. FOGLIA. 125 Affermazione, anche questa, più volte ribadita da parte della giurisprudenza comunitaria. In particolare si veda la già citata sentenza del Tribunale di Primo Grado, in cui si dice che il Regolamento 40/94/CE <<non opera alcuna distinzione riguardo alle differenti categorie di marchi. Di conseguenza, non occorre applicare criteri più severi nel valutare il carattere distintivo dei marchi tridimensionali costituiti dalla forma dei prodotti stessi […] rispetto ai criteri applicati ad altre categorie di marchi>>. Cfr., Trib. Primo Grado, 3 dicembre 2003, causa T-305/02, in Foro it., 2004, IV, p. 130 ss., con nota di G. CASABURI; Analoga affermazione è rinvenibile nella sentenza della Corte di Giustizia, 22 giugno 2006,causa C-24/05 P., in www.eur-lex.europa.eu. Si veda pure un caso recentemente deciso dalla giurisprudenza italiana, relativo alla validità di un marchio costituito dalla forma di una merendina (“Kinder fetta al latte”) a parallelepipedo, rifinita con un taglio lineare e dalla successione di colori marrone-bianco-marrone. La Corte ha ritenuto tale forma banale, anche in considerazione della successione di colori (in quanto imposta dalla natura stessa del prodotto), affermando che <<la forma deve presentare una valenza specifica rispetto al prodotto che la incorpora; deve cioè presentare i requisiti della novità e della originalità in sé>>. In sostanza i giudici hanno reputato che la conformazione del prodotto mancasse di carattere distintivo, compiendo una valutazione in tutto analoga a quella effettuata per ogni categoria di marchio. Cfr. App. Torino, 2 gennaio 2004, Giur. it., 2005, 1867. 126 Si veda, Trib. Primo Grado, 28 gennaio 2004, causa T-146/02, in www.marchiocomunitario.it, 6/2004, con nota di S. SANDRI, Marchi di forma e interesse dei concorrenti nel caso dei “sacchetti” avanti al Tribunale di Primo Grado, oppure in Foro it., 2004, IV, p. 130 ss., con nota di G. CASABURI. 127 Si veda, Corte di Giustizia, 25 ottobre 2007, causa C-238/06 P., in www.eur-lex.europa.eu. 47 La questione relativa alle particolarità che il marchio di forma presenta in merito al requisito del carattere distintivo, rispetto alle categorie convenzionali di segni, è strettamente connessa a quella relativa al principio di estraneità del marchio al prodotto. Questo principio rappresenta un ulteriore presupposto di validità della registrazione di qualsivoglia tipo di marchio: in base ad esso il segno distintivo, proprio perché tale, dev’essere un’entità autonoma dal prodotto e dalle sue qualità, seppur con questo connessa e capace di differenziarlo128 (è chiaro che, se così non fosse, il marchio si ridurrebbe ad una mera caratteristica qualitativa del bene cui inerisce). Occorre allora domandarsi come conciliare il principio di estraneità alla categoria dei marchi di forma, categoria con esso apparentemente incompatibile. Secondo alcuni autori, in tal caso il principio non andrebbe riferito alla forma dello specifico prodotto di cui di volta in volta si tratti, ma piuttosto <<ad una struttura pienamente funzionale rispetto alla quale, nella fattispecie, gli elementi che danno alla forma il suo carattere distintivo si presentano come mere aggiunte, delle quali può immaginarsi l’assenza, senza che la piena utilità del prodotto venga meno>>129. In base a questa opinione bisognerebbe dunque comparare la forma standard del bene oggetto di analisi e quella che esso effettivamente presenta, in modo da valutare se gli elementi che caratterizzano la configurazione del prodotto siano astrattamente eliminabili (in quanto, appunto, estranei) senza che la natura di questo ne venga alterata. Tuttavia non ci pare che quest’interpretazione del principio di estraneità del marchio al prodotto sia la più corretta: ciò non solo perché la sua concreta applicazione porterebbe, a nostro avviso, a compiere valutazioni soggettive, e sarebbe pertanto causa di incertezza, ma soprattutto in quanto, anche in questo caso, il metro di valutazione sembra dover essere centrato sulla percezione del consumatore. Infatti, per costituire un valido marchio di forma il segno deve essere quantomeno 128 Il principio di estraneità del marchio al prodotto è desunto, dalla dottrina, dall’art. 7 CPI (ed in precedenza dall’art. 16 della Legge-marchi), nella parte in cui dispone che il marchio debba essere <<atto a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese>>. 129 In tal senso, A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 160-161. Una dottrina invece ritiene che, in seguito all’espresso riconoscimento da parte del legislatore dei c.d. marchi non convenzionali (ovvero i marchi di forma, di colore, di suono, etc.) il principio di estraneità non possa più ritenersi attuale; l’opinione sarebbe confermata dalla mancata previsione del suddetto principio nel Codice della Proprietà Industriale. Cfr., V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 44. 48 idealmente separabile dal prodotto, ma questa ideale estraneità non può che essere valutata sulla base della percezione del consumatore medio, in linea con tutta la disciplina dei segni distintivi. Bisognerà perciò tenere presenti le concrete modalità di utilizzazione e di presentazione del prodotto, nonché delle informazioni e suggestioni trasmesse attraverso la pubblicità; come affermato in una pronuncia del Tribunale di Napoli, <<solo il contesto concreto di uso, di pubblicizzazione ed in ultima analisi di conoscenza, fa sì che la forma di una cosa, pur continuando inevitabilmente ad essere tale, diventi anche altro da sé, vale a dire compendio di conoscenze, di suggestioni, di comunicazione: in una parola un marchio>>130. Riteniamo dunque che, nel caso dei marchi di forma, sia necessario compiere questo tipo di valutazioni per stabilire se il segno sia considerabile come estraneo al prodotto, nonché dotato di capacità distintiva. In merito a quest’ultimo requisito occorre fare un’ulteriore osservazione: in linea di principio il momento in cui viene accertata la sussistenza dei presupposti di validità della registrazione è quello del deposito della domanda per il conseguimento del titolo. Tuttavia, poiché l’impiego del marchio avviene per un certo periodo di tempo, le vicende successive alla data di deposito possono essere rilevanti per valutare il carattere distintivo del segno; per questa ragione la legge prevede due particolari fenomeni, opposti e simmetrici, denominati dalla dottrina secondary meaning e volgarizzazione. In virtù del primo un segno originariamente privo di capacità distintiva, può acquisirla successivamente grazie all’uso che ne venga fatto; l’utilizzo del segno, in sostanza, fa sì che al suo significato generico se ne aggiunga un secondo (appunto, secondary meaning), idoneo ad indicare la provenienza del prodotto da una determinata impresa. Il fenomeno della volgarizzazione, invece, si verifica quando un marchio inizialmente dotato di carattere distintivo, perda tale qualità (in particolare perché diviene denominazione generica del prodotto o servizio cui inerisce) a causa dell’uso o del non uso fattone dal suo titolare, così provocando la decadenza del segno131. 130 Cfr., Trib. Napoli, 26 luglio 2001 (ord.), in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 153, con nota di S. GIUDICI. Si veda pure, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 58. 131 I due istituti menzionati sono attualmente disciplinati dall’art. 13 del Codice della Proprietà Industriale, rispettivamente ai commi 2° e 4°. Per una più approfondita analisi si veda, M. RICOLFI, in 49 Nonostante i dubbi manifestati da una parte della dottrina, si deve ritenere che anche i due istituti appena menzionati possano trovare applicazione nel caso dei marchi di forma; la questione verrà analizzata dettagliatamente nel capitolo successivo, poiché a nostro avviso, il problema del coordinamento della disciplina sui marchi di forma con quella relativa ai disegni e modelli può trovare soluzione proprio attraverso il fenomeno del secondary meaning. Infine si deve aggiungere che pure gli ulteriori presupposti di validità della registrazione, ovvero la liceità e la novità, si applicano anche rispetto ai marchi di forma, e lo stesso è da dirsi in merito all’istituto del marchio di fatto. Poiché tali aspetti della disciplina dei segni distintivi non pongono specifici problemi relativamente alla figura del marchio di forma, non è necessario approfondirli oltre. E’ bene invece ribadire che per tutte le categorie di marchi, inclusi dunque quelli di forma, il legislatore prevede la possibilità di rinnovare quante volte si desideri la registrazione, mettendo così a disposizione dei titolari della privativa una tutela di durata potenzialmente perpetua. 2.1.3 I limiti alla registrabilità dei marchi di forma Veniamo ora ad analizzare gli impedimenti alla registrazione specificamente concernenti la categoria dei marchi di forma, mettendo innanzitutto in evidenza che il testo dell’art. 18 lett. c) della Legge-marchi è stato trasposto dal legislatore italiano nel Codice della Proprietà Industriale all’art. 9, senza apportarvi alcuna modifica. AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 81-85. Quanto in particolare al fenomeno della volgarizzazione, prima della riforma del 1992 si riteneva, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, che questo fosse legato ad un dato oggettivo, poiché la legge non faceva alcun riferimento al comportamento del titolare del segno o dei suoi concorrenti. Tuttavia, una corrente allora minoritaria della giurisprudenza aveva posto le basi della teoria soggettiva, affermando che la decadenza del segno non si verificava nel caso in cui il suo titolare si fosse adoperato in ogni maniera per impedirlo. In tal senso, Cass., 2 agosto 1956 n. 3018, in Foro it., 1957, I, 2029; Cass., 18 gennaio 1960 n. 28, in Foro it., 1960, II, 1231. Con la riforma del ’92 la teoria oggettiva è stata definitivamente accantonata, e la stessa impostazione introdotta con la novella della Legge-marchi è stata successivamente ripresa nel Codice della Proprietà Industriale, all’art. 13 comma 4°; pertanto oggi, ai fini del giudizio sulla decadenza del marchio per volgarizzazione, rileva esclusivamente il contegno del titolare del segno, inteso quale attività o inattività dello stesso. E’ appena il caso di notare che tale cambiamento rappresenta un ulteriore segnale del rafforzamento dell’esclusiva, avvenuto con il D.lgs. 480/92. In tal senso, G. SENA, Il nuovo diritto dei marchi. Marchio nazionale e marchio comunitario, Milano, 1998, p. 47 ss.. 50 Pertanto d’ora in poi faremo riferimento all’attuale disciplina contenuta nel Codice, in quanto coincidente con quella introdotta a seguito dell’intervento comunitario. La formulazione dell’art. 9 CPI non appare particolarmente chiara: un’autorevole dottrina ha infatti osservato che la “forma imposta dalla natura stessa del prodotto” non sembra differenziarsi molto da quella “necessaria per ottenere un risultato tecnico”, ed entrambe potrebbero ritenersi forme che danno “un valore sostanziale al prodotto”132. Evidentemente però, è necessario interpretare la disposizione in modo da attribuire ai tre limiti in essa stabiliti dei significati diversi, altrimenti non si spiegherebbe per quale ragione il legislatore abbia previsto tre ipotesi distinte. La definizione di esse esige una complessa analisi sistematica, in quanto, come sottolineato dalla Corte di Giustizia, la ratio dei tre impedimenti <<consiste nel fatto di evitare che la tutela del diritto di marchio sfoci nel conferimento al suo titolare di un monopolio su soluzioni tecniche o caratteristiche utilitarie di un prodotto>>133. Inoltre, sembra potersi affermare che i tre criteri previsti dalla disposizione in esame abbiano il ruolo di individuare le forme che, in quanto coessenziali all’esistenza stessa del prodotto, siano prive di funzione distintiva e non possano pertanto costituire validi marchi. Come già evidenziato, il carattere distintivo costituisce l’elemento di discrimine fondamentale per l’accesso alla tutela dei segni distintivi; riteniamo perciò che la forma di un prodotto o quella della sua confezione possano costituire un valido marchio solo qualora svolgano essenzialmente o prevalentemente una funzione distintiva134. Questa impostazione è del resto confermata dalla lettera 132 Così, A. VANZETTI, Commento alla Prima Direttiva del Consiglio delle Comunità Europee sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi di imprese, in Nuove leggi civ. comm., 1989, p. 1428 ss. 133 Cfr. Corte di Giustizia, 18 giugno 2002, causa C-244/00, in Giur. ann. dir. ind., 2002, 4464. Nello stesso senso anche, Corte di Giustizia, 12 febbraio 2004, causa C-218/01; Trib. Primo Grado, 28 gennaio 2004, cause riunite T-146/02 e T-153/02; Trib. Primo Grado, 3 dicembre 2003, causa T305/02; tutte in Foro it., 2004, IV, p. 130 ss., con nota di G. CASABURI. 134 In tal senso, L. LIUZZO, Strumenti di protezione delle forma nel campo della proprietà intellettuale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 46; G. SENA, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale…, cit., p. 83; secondo quest’ultimo autore, se non si ammettesse che la forma possa costituire un marchio solo svolgendo essenzialmente o prevalentemente funzione distintiva, si arriverebbe a concludere che ogni prodotto è il marchio di sé stesso, quantomeno come marchio di fatto. Si veda anche, Cass. 23 novembre 2001, n. 14863, in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 329 ss. In tale pronuncia la Suprema Corte afferma che <<la protezione di una forma come marchio presuppone la capacità della medesima di identificare un prodotto distinguendosi da esso>>. Ancora, Trib. Catania, 23 luglio 2003, in Foro it., X, 2003, p. 2832, con nota di G. CASABURI. 51 della norma, la quale non a caso contiene le espressioni “esclusivamente” e “necessaria”; tale aspetto verrà comunque approfondito nel corso della trattazione. Il primo criterio selettivo dettato dall’art. 9 CPI attiene alla forma imposta dalla natura stessa del prodotto: la dottrina unanimemente ritiene che tale limite faccia riferimento alla forma generalizzata di un certo tipo di bene135. Si tratta insomma della conformazione naturale del prodotto, che in quanto tale caratterizza tutti i beni appartenenti al medesimo genere merceologico; o ancora delle c.d. forme standardizzate, ovvero quelle divenute nel corso del tempo coessenziali all’esistenza stessa del prodotto. Senza questa previsione il titolare del diritto potrebbe monopolizzare la stessa attività di produzione della categoria cui appartiene il bene, e il marchio sarebbe inoltre del tutto privo di carattere distintivo. Si è giustamente osservato che la “forma imposta dalla natura stessa del prodotto” rappresenta il completamento della previsione oggi contenuta nella lett. b) 1° comma dell’art. 13 CPI136: tale norma infatti dispone che <<non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni […] costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono […]>>. In sostanza il primo dei limiti indicati nell’art. 9 CPI costituisce il corrispondente, per le forme, del disposto di cui all’art. 13 lett b), che invece regola segni consistenti in parole. Da quest’ultima notazione, peraltro, sembra doversi desumere l’applicabilità anche ai marchi di forma dell’istituto della volgarizzazione; può infatti accadere che una forma originariamente dotata di capacità distintiva, in quanto diversa da quella comunemente adottata per quel genere di prodotti, divenga banale a seguito di un uso intenso e prolungato da parte degli 135 In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), ivi, p. 6; G. CASABURI, La tutela delle forme tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), ivi, p. 56; V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 86-87; S. MAGELLI, L’estetica nel diritto…, cit., p. 104; M. PERUGINI, Il marchio di forma: dall’esclusione della forma utile od ornamentale al criterio del “valore sostanziale”, in Riv. dir. ind., 1992, I, p. 107; M. RICOLFI, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 86; G. SENA, ivi, p. 81; M. STELLA RICHTER jr, in AA. VV., Commento tematico della legge…, cit., p. 185; A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 138. Si veda pure, Cass., 23 novembre 2001, n. 14863, in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 329 ss.. Tale sentenza afferma che la forma imposta dalla natura stessa del prodotto deve intendersi quella naturale ovvero quella standardizzata del bene, noto appunto in quella configurazione. 136 Disposizione in precedenza inserita nella lett. b) dell’art. 18 della legge-marchi. Cfr., V. DI CATALDO, ivi, p. 86; M. STELLA RICHETR jr, ivi, p. 185. 52 operatori del settore. Un autorevole interprete ha definito questo fenomeno di perdita del carattere distintivo come <<processo di standardizzazione>>137. Del resto una diversa conclusione, fondata sull’idea che la decadenza per volgarizzazione si riferisca ai soli marchi denominativi, in quanto solo questi possono divenire <<denominazione generica del prodotto>>, non era sostenibile neppure sotto la vigenza della vecchia Legge-marchi, in quanto priva di qualsiasi giustificazione sistematica138; ma tale conclusione è oggi del tutto impraticabile, in quanto l’art. 13 4° comma stabilisce che la decadenza del marchio si verifichi ogni volta che il segno perda la sua capacità distintiva139. Per quanto riguarda i due restanti impedimenti alla registrazione indicati nell’art. 9 CPI, alla base di essi sta senz’altro l’intento di coordinare la protezione conferita dalla disciplina dei marchi con quella delle privative specificamente previste in altri settori del diritto della proprietà industriale. Del limite relativo alla “forma che dà valore sostanziale al prodotto” ci occuperemo nei prossimi paragrafi; qui non resta che esaminare il riferimento alla “forma necessaria per ottenere un risultato tecnico”. Anche in merito all’interpretazione di tale criterio la dottrina sembra non avere dubbi140: si tratta delle forme che conferiscono al prodotto un certo grado di utilità tecnica, ovvero le c.d. forme funzionali. Prima della riforma del 1992 era dubbio se la regola della non tutelabilità delle forme utili riguardasse solo le c.d. forme necessarie, vale a dire non suscettibili di varianti, o si estendesse anche a quelle che, pur essendo condizionate da esigenze tecniche, 137 In tal senso, V. DI CATALDO, ivi, p. 87. Si veda pure, P. FRASSI, L’acquisto della capacità distintiva delle forme industriali, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 281-283; ID., Forma del prodotto, secondary meaning e standardizzazione, in Riv. dir. ind., 1999, I, p. 142 ss.. 138 L’art. 41 lett. a) del R. D. 929/1942, nella versione novellata dal D.lgs. 480/1992, sembrava infatti riferire solo ai marchi denominativi il fenomeno della volgarizzazione, in quanto stabiliva che la decadenza del segno si sarebbe verificata quando questo fosse divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto o del servizio. Si veda, Trib. Milano, 22 gennaio 1981, in Giur. ann. dir. ind., 1981, 1397. In questa pronuncia i giudici milanesi affermano che, ove si interpretasse il suddetto art. 41 nel senso di escluderne l’applicabilità ai marchi diversi da quelli denominativi, sarebbe configurabile una questione di costituzionalità, in quanto <<non sembra manifestamente infondato ritenere che l’accordare tutela monopolistica ad un segno privo di capacità distintiva contrasta con il principio della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 della Costituzione>>. 139 Il testo della suddetta norma, infatti, dispone: <<il marchio decade se, per il fatto dell’attività o dell’inattività del suo titolare, sia divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto o servizio o abbia comunque perduto la sua capacità distintiva>>. 140 Il riferimento è agli stessi autori menzionati nella nota 47, a proposito della forma imposta della natura stessa del prodotto; a tale nota dunque si rimanda. 53 fossero comunque modificabili senza che venisse alterata la funzionalità del prodotto. Come correttamente evidenziato da alcuni autori, la disposizione introdotta con il D.lgs. 480/92 offre un dato testuale di un certo peso a sostegno della prima lettura: infatti, vietando la registrabilità dei segni consistenti <<esclusivamente>> in forme <<necessarie>>, la norma implicitamente ammette che la privativa venga accordata su forme che, pur avendo una funzione utile, non siano indispensabili al raggiungimento dell’effetto tecnico141. Affermazione confermata dal fatto che la regola che vieta la registrabilità delle forme necessarie ad ottenere un risultato tecnico trovi la sua spiegazione nell’esigenza di non vanificare la disciplina su invenzioni e modelli di utilità. Infatti la legislazione sui brevetti prevede una tutela specifica a favore delle innovazioni nel campo tecnico, subordinando la concessione del titolo (la cui durata peraltro è limitata a vent’anni senza possibilità di rinnovo) alla presenza di un apporto creativo. L’impedimento alla registrazione di cui si tratta stabilisce dunque la regola secondo cui le due protezioni sono alternative, per cui una forma che sia proteggibile come invenzione o modello di utilità non potrà accedere alla tutela come marchio; se così non fosse la disciplina dei segni distintivi, in base alla quale una protezione potenzialmente perpetua è ottenibile senza che sia necessario alcun apporto inventivo, consentirebbe di aggirare completamente i limiti posti dalla legislazione sui brevetti142. E’ appena il caso di notare come i risultati cui conduce tale lettura coincidano del tutto con quelli cui la dottrina era pervenuta già prima della riforma del ’92: i rapporti fra la disciplina del marchio e quella di invenzioni e modelli d’utilità sono pertanto rimasti inalterati. Da ultimo occorre precisare che il riferimento alla “tecnicità” non sembra doversi intendere in maniera eccessivamente rigorosa: riteniamo che rientrino nella categoria 141 In tal senso, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 58; V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 88-89; A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 139. Un’altra dottrina ha invece sostenuto che il criterio in esame faccia riferimento all’ipotesi in cui il marchio non contenga altro che forme necessarie, non presentando alcun elemento arbitrario ed indipendente nella sua configurazione. Così, L. LEONELLI – P. PEDERZINI – C. COSTA – R. CORONA, Commentario alla legge sui marchi d’impresa, Milano, 1993, p. 58. Si veda pure la già citata pronuncia del Tribunale di Napoli, in cui si afferma che <<una forma, pur utile, può comunque essere marchio se in concreto è tale la funzione che prevalentemente espleta>>. Cfr., Trib. Napoli, 26 luglio 2001 (ord.), in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 153, con nota di S. GIUDICI, Alcune riflessioni sui marchi di forma alla luce della nuova disciplina sui disegni e modelli. 142 Per tutti si veda, A. VANZETTI, I diversi livelli di tutela delle forme…, cit., p. 330 ss.. 54 in analisi, eventualmente in virtù di un’interpretazione estensiva, anche le forme necessarie per il raggiungimento di un risultato commerciale in senso lato (ad esempio quelle che consentono maggior facilità di stoccaggio o nel trasporto, o che permettono un miglior controllo delle condizioni di conservazione del prodotto, etc.), o che consentono di osservare determinate prescrizioni normative143. Pur trattandosi di situazioni che a stretto rigore non rientrano nella formula “risultato tecnico”, pare più corretto evitare la concessione di monopoli dalla durata potenzialmente illimitata su soluzioni di questo tipo. 2.1.4 La forma che dà valore sostanziale al prodotto: l’interpretazione dominante fino al D.lgs. 95/2001 Veniamo ora ad esaminare il terzo ed ultimo dei presupposti di validità della registrazione del marchio di forma, indicato nell’art. 9 CPI; su tale criterio è necessario soffermarsi in modo particolare, in quanto esso rappresenta il fulcro della questione relativa all’individuazione dell’esatto confine fra la disciplina sui disegni e modelli e la normativa sul marchio di forma. Si è già accennato al fatto che il D.lgs. 480/92 abbia provocato un primo scossone all’interno del sistema giuridico relativo alla tutela della forma dei prodotti industriali; tuttavia, lo stravolgimento radicale del suddetto sistema si è verificato con l’introduzione del D.lgs. 95/2001, di attuazione alla Direttiva 98/71/CE sulla protezione giuridica dei disegni e modelli. Infatti, fino all’entrata in vigore di questa nuova normativa, dottrina e giurisprudenza maggioritarie avevano dato un’interpretazione dell’espressione “forma che dà un valore sostanziale al prodotto” in linea con l’impostazione seguita nel nostro ordinamento fino alla riforma del ‘92. Attraverso una delicata analisi ermeneutica, essenzialmente fondata su considerazioni sistematiche piuttosto che sul dato normativo, la dottrina era riuscita a far “quadrare il cerchio”, individuando un ambito applicativo autonomo della disciplina sul design rispetto a quella sul marchio di forma, in linea con il principio 143 In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 24. 55 di alternatività delle tutele144. Come vedremo tra breve, tale soluzione è divenuta non più sostenibile in seguito all’intervento del legislatore comunitario del 2001. L’opinione largamente maggioritaria, dapprima in dottrina e poi anche fra la giurisprudenza, era fondata sull’idea che le forme capaci di dare al prodotto un valore sostanziale coincidessero con le c.d. forme ornamentali; data la scarsa chiarezza della formula utilizzata dal legislatore (formula che peraltro consiste nella mera traduzione letterale di quella inserita nell’art. 3.1 lett. e) della Direttiva145), per l’affermazione di tale orientamento furono decisive considerazioni di ordine sistematico146. Si trattava infatti di una lettura che uno dei suoi più autorevoli sostenitori aveva definito <<sostanzialmente obbligata>>147, in quanto consentiva di evitare che la registrazione del marchio rendesse potenzialmente perpetua una protezione che la legge sui disegni o modelli voleva invece temporanea. Tale risultato era possibile attribuendo all’espressione “forma che dà un valore sostanziale al prodotto” un significato equivalente a quello di “forma atta a dare a determinati prodotti industriali uno speciale ornamento”, di cui all’art. 5 della Leggemodelli148. Nel requisito dello speciale ornamento veniva dunque individuato lo 144 Si veda però, G. GHIDINI, Un appunto sul marchio di forma, in Riv. dir. ind., 2009, I, p. 83 ss. L’autore ritiene che l’interpretazione data dalla dottrina maggioritaria precedentemente al 2001 fosse fondata su un <<ardito slalom ermeneutico>>, fondamentalmente <<nominalistico>>, affermando dunque che tale soluzione fosse poco convincente anche prima dell’introduzione del D.lgs. 95/2001. 145 La versione inglese della Direttiva 89/104, all’art. 3.1 lett. e), infatti recita: <<he following shall not be registered or if registered shall be liable to be declared invalid: […] signs which consist exclusively of: […] the shape which gives substantial value to the goods>>. 146 Si veda, V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 89. 147 Così definisce la soluzione esaminata ADRIANO VANZETTI, I diversi livelli di tutela delle forme…, cit., p. 323 ss. 148 In tal senso, V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 89-90; C. GALLI, Attuazione della Direttiva n. 89/104/C.E.E. Commentario, in Nuove leggi civ. comm., 1995, p. 1174-1176; S. MAGELLI, L’estetica nel diritto…, cit., p. 104-105; G. MONDINI, La direttiva comunitaria sulla protezione giuridica…, cit., 996-997; M. RICOLFI, I segni distintivi. Diritto interno e comunitario, Torino, 1999, p. 66; D. SARTI, La tutela dell’estetica…, cit., p. 118 ss; A. VANZETTI, ivi, p. 323 ss.; A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 92-95. In giurisprudenza si veda, Cass., 17 gennaio 1995 n. 484, in Giur. ann. dir. ind., 1995, 78, in cui si afferma : << La registrazione come marchio di una forma è consentita quando il suo carattere ornamentale o funzionale non supera il gradiente minimo necessario a rendere tale forma brevettabile come modello, e ciò sia perché tale soluzione sembra quella che più razionalmente è idonea a chiarire i rapporti fra tutela del marchio e tutela dei modelli ornamentali, sia perché esprime una linea interpretativa che è accolta dal nuovo testo dell’art. 18 legge marchi introdotto dal D.lgs. n. 480/92>>; Trib. Catania, 30 novembre 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1999, 752 ; 56 spartiacque fra tutela brevettuale della forma, a norma della disciplina sui disegni e modelli, e tutela della forma come marchio (nonché contro l’imitazione servile, ex art. 2598 n. 1 c.c.). La dottrina più attenta aveva inoltre evidenziato la necessità di non intendere questa ricostruzione in maniera eccessivamente rigorosa, in modo da assicurare uno spazio reale ai marchi di forma149. Occorreva insomma mantenere l’impostazione seguita già alla vigilia dell’intervento comunitario, in base alla quale la registrabilità come marchio non doveva essere esclusa per qualunque forma dotata di gradevolezza estetica, ma solo per quelle che raggiungessero un certo livello ornamentale; ciò, del resto, conformemente a quella che abbiamo visto essere allora l’interpretazione più accreditata del criterio dello speciale ornamento. In base a questa ricostruzione perciò, la protezione brevettuale sarebbe stata appannaggio delle forme esteticamente più significative, che raggiungessero la soglia indicata dall’art. 5 della Legge-modelli, lasciando a tutte le altre la possibilità di ottenere la tutela del marchio o contro l’imitazione servile (ovviamente se ed in quanto dotate di capacità distintiva). In tal modo il confine fra le discipline menzionate veniva delineato con precisione; precisione però più apparente che effettiva se si considera che il requisito dello speciale ornamento era segnato da un certo margine di ambiguità, dovuto al suo carattere irrimediabilmente soggettivo. Tuttavia, si è già visto come la dottrina avesse tentato di superare simili inconvenienti, intendendo il parametro in termini di valore di mercato, come capacità della forma di orientare le scelte d’acquisto dei consumatori150. Pret. Modena, 26 gennaio 1999, in Giur. ann. dir. ind., 1999, 879 ; Comm. Ricorsi, 14 giugno 1999, in Giur. ann. dir. ind., 2000, 1209. 149 Si veda, M. CARTELLA, Marchi di forma o marchi deformi?..., cit., p. 39 ss; L. LIUZZO, Modelli, disegni, forme, marchi tridimensionali e la loro tutelabilità…, cit., p. 213 ss.; A. VANZETTI – C. GALLI, ivi, p. 138, i quali osservano che l’ambito di operatività dei marchi di forma sarebbe inesistente <<ove si pretendesse che ogni forma anche minimamente dotata di una valenza estetica non possa costituire un valido marchio, dato che […] non è seriamente pensabile che gli imprenditori adottino dei marchi brutti>>. 150 In questa direzione si è orientata peraltro la Terza Commissione di Ricorsi dell’UAMI, nel c.d. caso “Gancino Quadrato”, relativo alla conformazione di una fibbia per calzature della Ferragamo. Nella decisione infatti si legge: <<non è sufficiente che la forma sia gradevole o attrattiva per escluderne la registrabilità. Se così fosse, non sarebbe praticamente configurabile alcun marchio di forma, dato che nell’economia moderna non vi è alcun prodotto di interesse industriale che non sia oggetto di studio, ricerca e disegno industriale prima della sua immissione in commercio. Nel caso di specie, la forma della fibbia è un elemento aggiuntivo del prodotto, non fa parte della sua struttura, non ne costituisce in via esclusiva l’ornamento. Il suo apporto ornamentale, per quanto importante, non 57 La soluzione era in linea con l’esigenza, di carattere pubblicistico, di evitare una monopolizzazione perpetua delle innovazioni ornamentali, consentendone la caduta in pubblico dominio una volta decorso il termine di durata della privativa151; ciò, nonostante il principio della libera imitabilità delle forme non coperte da brevetto venisse parzialmente attenuato dall’applicazione della teoria delle varianti innocue, cui aderiva una parte della giurisprudenza152. L’opinione in esame, inoltre, aveva il pregio di risultare estremamente coerente, non solo perché in perfetto parallelismo con la soluzione individuata per le forme funzionali, indicata nel paragrafo precedente153, ma soprattutto in quanto assicurava ad ogni istituto previsto dall’ordinamento per la protezione della forma, un proprio ambito operativo autonomo, in armonia con il principio generale di alternatività delle tutele che attribuisce a ciascuno strumento giuridico una propria, specifica funzione154. Un’ulteriore considerazione a vantaggio dell’impostazione in esame derivava dal fatto che questa consentisse di evitare bruschi mutamenti interpretativi, ponendosi in linea di continuità con la tradizione culturale e giurisprudenziale del nostro Paese155. sembra accreditare il prodotto di un valore esclusivo, determinante. Si intuisce piuttosto […] che i consumatori degli articoli per i quali è rivendicato il marchio, effettuano le proprie scelte d’acquisto a ciò indotti da un insieme di fattori, diversamente concorrenti a seconda delle circostanze […] >>. La Commissione Ricorsi, insomma, afferma che la fibbia di cui si discute non possa considerarsi come una forma che conferisce valore sostanziale al prodotto, in quanto non risulta determinante nelle scelte d’acquisto. Si veda, Comm. Ricorsi, 3 maggio 2000, in Giur. ann. dir. ind., 2000, 4198. 151 Si vedano, C. GALLI, L’attuazione della direttiva comunitaria sulla protezione…, cit., p. 885; G. MONDINI, La direttiva comunitaria sulla protezione giuridica…, cit., p. 997, il quale sottolinea che <<se […] la ragione del limite temporale alla tutela brevettuale risiede nell’interesse generale alla libera utilizzabilità delle innovazioni estetiche, è evidente che, allorché una forma, pur gradevole, non raggiunga livelli peculiari di creatività ornamentale, viene meno anche l’interesse alla sua caduta in pubblico dominio e prevale, pertanto, l’interesse individuale dell’imprenditore di evitare fenomeni di imitazione confusoria>>. 152 Di tale teoria abbiamo già parlato nel Capitolo I°: a quella sede pertanto si rinvia per ulteriori approfondimenti. 153 Per tutti si veda, A. VANZETTI, I diversi livelli di tutela delle forme…, cit., p. 323 ss. 154 Si veda, S. MAGELLI, L’estetica nel diritto…, cit., p. 104. L’autrice sottolinea come l’opinione esaminata fosse indispensabile per leggere la disposizione dell’art. 18 lett. c) della Legge-marchi in maniera coerente, evidenziando che <<escluse le forme già note e quelle innovative sul piano tecnico, contemplate dalle prime due ipotesi [vale a dire le forme imposte dalla natura stessa del prodotto e quelle necessarie per conseguire un risultato tecnico], restano da considerarsi solo quelle estetiche>>. 155 Infatti la soluzione elaborata dalla dottrina coincideva sostanzialmente con quella già individuata prima della riforma del ’92, che abbiamo ampiamente esposto nel primo paragrafo di questo 58 Occorre però evidenziare che, già prima della riforma del 2001, il presupposto su cui si fondava la teoria in esame era stato indebolito dall’affermarsi della dottrina della Crowded Art, in base alla quale il gradiente di incremento estetico necessario per la brevettazione come disegno o modello nei c.d. settori affollati poteva essere relativamente modesto; il che, nei rapporti fra questi istituti ed il marchio di forma si traduceva evidentemente nella non registrabilità della forma come marchio, in quanto le sottili differenze che questa presentava rispetto alle precedenti erano già sufficienti ad ottenere il titolo a norma della disciplina sull’industrial design156. Inoltre è necessario sottolineare che già anteriormente all’entrata in vigore del D.lgs. 95/2001 parte minoritaria della dottrina aveva elaborato una lettura contrapposta rispetto a quella appena descritta, incentrata sull’idea di ammettere il cumulo di tutele (così anticipando soluzioni che avrebbero riscosso maggiori consensi a seguito della riforma)157. Questa opinione traeva spunto dal fatto che la formula adottata dalla Direttiva 89/104, e successivamente recepita dal legislatore interno, derivasse da quella inserita nella Legge Uniforme del Benelux del 1971, interpretata dalla giurisprudenza locale nel senso di ammettere il cumulo tra la protezione del marchio e quella prevista dalla disciplina sui disegni e modelli158. Inoltre i sostenitori di tale tesi ritenevano che la possibilità del cumulo fosse contemplata nella stessa Leggemarchi, in quanto la nuova versione dell’art. 18 primo comma lett. f) stabiliva che non potessero costituire oggetto di registrazione <<i segni il cui uso costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto di terzi>>. Questi autori infatti osservavano che tale disposizione, confermata dall’art. Capitolo. In tal senso, M. STELLA RICHTER jr., in AA. VV., Commento tematico della legge…, cit., p. 185. 156 Si veda, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 7-8. 157 In tal senso, G. FLORIDIA, Nuove forme di protezione per l’industrial design, in Dir. ind., 1994, p. 821 ss.; G. LA VILLA, Introduzione al diritto dei marchi d’impresa, Torino, 1994, p. 43 ss.; M. R. PERUGINI, Il marchio di forma: dall’esclusione della forma utile od ornamentale al criterio…, cit., p. 96 ss.; G. SENA, Il nuovo diritto dei marchi. Marchio nazionale e comunitario, Milano, 1998, p. 30 ss. 158 In tal senso, Court Benelux, 23 dicembre 1985, in Ing.-Cons., 1986, p. 75 ss. Si tratta del c.d. caso Adidas, in cui la Corte afferma l’ammissibilità del cumulo, salvo che <<le produit est de nature telle que son aspect et sa forme déterminent fortement sa valeur marchande>>. 59 48 della medesima legge159, riconoscesse implicitamente l’astratta eventualità che su uno stesso segno concorressero le diverse privative indicate, in capo a titolari distinti, purché appunto ciò non avvenisse in violazione dei diritti degli uni o degli altri 160. In base a questa differente impostazione perciò, la locuzione “forma che dà un valore sostanziale al prodotto” non poteva coincidere con qualunque forma ornamentale, ma doveva piuttosto essere intesa come facente riferimento a quelle forme che influiscono in maniera determinante sull’apprezzamento del consumatore, inducendolo alla scelta di quel certo prodotto. Ne derivava che il criterio da seguire per decidere se una forma, non generalizzata né funzionale, fosse o meno appropriabile come marchio, consisteva nello stabilire se la stessa avrebbe potuto svolgere essenzialmente o prevalentemente una funzione distintiva161. Va aggiunto infine che in dottrina era stata sostenuta pure una terza opinione, intermedia rispetto alle due appena illustrate, in base alla quale la forma sostanziale che escludeva la tutela come marchio non coincideva con tutte le forme che superassero un certo gradiente estetico, ma soltanto con quelle idonee, per la natura del prodotto cui inerivano, ad incidere fortemente sulle scelte del pubblico162. 159 Infatti l’art. 48 3° comma della Legge-marchi prevedeva che la convalidazione del marchio potesse operare anche in relazione al vizio derivante dalla violazione dell’art. 18.1 lett. f). 160 Così, G. LA VILLA, Introduzione al diritto dei marchi…, cit., p. 44, il quale afferma che l’introduzione dell’art. 18.1 lett. f) rappresenti un’innovazione <<dirompente>>, in quanto sconvolge il principio dell’alternatività delle esclusive. 161 Si veda ancora, G. SENA, Il nuovo diritto dei marchi. Marchio nazionale…, cit., p. 34, secondo il quale si rendeva necessario un <<giudizio di prevalenza, valutando se il fatto che [un certo] prodotto abbia una forma originale ne condizioni fortemente l’affermazione commerciale, o meno>>. La tesi di cui si discute riscosse alcuni consensi anche in giurisprudenza. Si veda, Trib. Udine, 31 agosto 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1998, 862, che ha ammesso il cumulo fra la protezione del marchio e quella del modello ornamentale, sostenendo che dopo la riforma del 1992 non avrebbe più senso <<cercare una distinzione ontologica tra le forme che debbono essere tutelate come modelli ornamentali e quelle che possono costituire marchi di impresa>>. Si veda anche la già menzionata ordinanza del Tribunale di Napoli del 26 luglio 2001, in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 153, nella quale si afferma <<Non può trascurarsi che l’art. 18 l.m. contiene l’avverbio “esclusivamente”, il che comporta che le forme non riconducibili in via esclusiva ad una funzione utilitaristica (tecnica od ornamentale) o alle caratteristiche ontologiche della cosa, possono assolvere anche altre funzioni, vale a dire quella di marchio>>. 162 In tal senso, G. CASABURI, La nuova disciplina dei disegni e modelli…, cit., p. 100 ss. 60 2.2 La forma che dà valore sostanziale al prodotto: il cambio di rotta successivo al D.lgs. 95/2001 Veniamo ora ad analizzare il mutamento interpretativo concernente la categoria delle forme che danno valore sostanziale al prodotto, imposto dall’entrata in vigore della nuova disciplina sui disegni e modelli, di derivazione comunitaria. Abbiamo già accennato al fatto che la novella del 2001 ha comportato un notevole stravolgimento, non solo relativamente alla disciplina dell’industrial design, ma anche e soprattutto all’interno del sistema di tutela della forma dei prodotti industriali globalmente inteso, modificando i rapporti fra i diversi istituti previsti dall’ordinamento a tale scopo. Il legislatore comunitario ha infatti accolto le istanze che venivano dal mondo imprenditoriale, volte ad ottenere una protezione più forte e duratura rispetto ad un fattore tanto importante nella gara concorrenziale, coordinando le varie forme di tutela in maniera del tutto nuova rispetto all’impostazione fino a quel momento seguita nell’ordinamento italiano. Il cambiamento difatti non ha riguardato solo i rapporti fra il marchio di forma e i disegni e modelli, ma anche la relazione fra questi ultimi ed il diritto d’autore: in merito a tale profilo è appena il caso di accennare che la riforma è giunta ad ammettere il cumulo delle due protezioni, fino a quel momento sostanzialmente negato all’interno del nostro sistema giuridico163. 163 Infatti la disciplina nazionale precedente l’attuazione della Direttiva 98/71/CE prevedeva che le due tutele fossero alternative: l’art. 5 della Legge-modelli stabiliva che ai disegni e modelli non fossero applicabili le disposizioni sul diritto d’autore, ed in maniera corrispondente l’art. 2 n. 4 della Legge sul diritto d’autore escludeva che le opere dell’arte applicate all’industria venissero protette a norma di quella legge, salvo che il loro valore artistico fosse scindibile dal carattere industriale del prodotto cui erano associate. Il criterio della scindibilità fu inteso da dottrina e giurisprudenza nel senso di richiedere la possibilità concettuale di concepire il disegno o la forma come oggetto di contemplazione artistica, così finendo sostanzialmente per negare la protezione del diritto d’autore a tutte le forme tridimensionali, in quanto non concettualmente separabili dal prodotto stesso. Questa situazione è perdurata fino all’intervento comunitario, in quanto la suddetta Direttiva ha sancito esplicitamente il cumulo delle due tutele, lasciando però agli ordinamenti nazionali la possibilità di fissarne le condizioni. Così il legislatore italiano ha dato attuazione alla Direttiva eliminando il criterio della scindibilità ed inserendo nell’art. 2 della Legge sul diritto d’autore un numero 10, a norma del quale sono comprese nella protezione <<le opere del disegno industriale che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico>>. L’ordinamento italiano dunque ammette oggi il cumulo, subordinandolo alla condizione che l’opera presenti valore artistico, un quid pluris per la cui esatta definizione occorrerà attendere un’adeguata elaborazione giurisprudenziale. Per ulteriori approfondimenti sul tema della tutela autoriale dell’industrial design si veda, M. 61 Nel paragrafo precedente si è visto come dottrina e giurisprudenza maggioritarie avessero interpretato l’espressione “forma che dà un valore sostanziale al prodotto” attribuendole un significato equivalente a quello di “speciale ornamento”, requisito contemplato nell’art. 5 della Legge-modelli ai fini dell’accesso alla tutela brevettuale. E’ dunque evidente che l’eliminazione di tale requisito, e la sua sostituzione con il parametro del carattere individuale, abbiano imposto un cambiamento nella lettura della formula utilizzata nell’art. 9 CPI. Il criterio del carattere individuale è infatti qualitativamente diverso e decisamente meno severo rispetto al suo antecedente; esso, come già dimostrato, dev’essere inteso come capacità della forma di istituire un “contatto privilegiato” fra il prodotto ed il consumatore esperto, rendendolo ai suoi occhi distinguibile rispetto ai beni già presenti sul mercato. Questa definizione perciò non consente più di ricostruire una nozione di “valore sostanziale del prodotto” che sia contemporaneamente funzionale per delimitare le forme proteggibili come marchio ed individuare la soglia d’accesso alla tutela dei disegni o modelli. Ciò significa che l’equazione in base alla quale le forme capaci di conferire valore sostanziale al prodotto coincidono con quelle dotate di speciale ornamento, non può più essere utilizzata nel sistema successivo alla novella del 2001, sostituendo quest’ultimo termine con il requisito del carattere individuale. Una simile conclusione, del resto, non sarebbe neppure conforme all’intenzione storica del legislatore comunitario, in quanto nel corso dei lavori preparatori della Direttiva 98/71 non è mai emersa l’esigenza di determinare la soglia d’accesso alla tutela in modo da escludere le forme registrabili come marchio, né d’altro canto, il parametro del carattere individuale richiama in alcun modo la formula del valore sostanziale, come pure sarebbe stato possibile164. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 25 ss.; S. GIUZZARDI, La tutela d’autore del disegno industriale: incentivi all’innovazione e regime circolatorio, Milano, 2005, in particolare p. 66 ss.; G. FLORIDIA, in AA. VV. Diritto industriale…, cit., p. 308-311; V. SCORDAMAGLIA, Il diritto d’autore sulle opere del disegno industriale secondo la L. n. 46/2007, in Dir. ind., 2008, p. 81 ss.. 164 Tale aspetto è evidenziato da D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in AA. VV. Segni e forme distintive…, cit., p. 252. 62 Visto da un’altra prospettiva, quanto appena affermato comporta che la sussistenza dell’impedimento alla registrazione del marchio non dipenda più dalla possibilità di accedere all’esclusiva prevista dalle norme sui disegni e modelli165. Pertanto si deve concludere che l’impostazione elaborata in seguito alla riforma della Legge-marchi, che con estrema coerenza ricostruiva il sistema di protezione della forma in maniera da assicurare a ciascun istituto un ambito applicativo specifico ed esclusivo, è divenuta non più perseguibile con l’intervento della nuova disciplina sul design. Le modifiche da questa introdotte hanno messo in discussione i pilastri su cui si reggeva il suddetto sistema, comportando il superamento del principio di alternatività delle tutele, in contrasto con la tradizione dottrinale e giurisprudenziale del nostro Paese. Quest’ultimo aspetto verrà trattato dettagliatamente nel Capitolo successivo; qui è invece necessario soffermarsi sulla nuova interpretazione del criterio del valore sostanziale, poiché la determinazione di tale nozione è preliminare all’individuazione del confine fra la disciplina del marchio e quella sui disegni e modelli. A proposito della definizione dell’espressione “forma che dà un valore sostanziale al prodotto” la dottrina è a tutt’oggi fondamentalmente divisa in due distinti filoni, a seconda che la nozione venga o meno ricondotta ad un criterio estetico. Le due opinioni sono apparentemente molto simili, in quanto entrambe traducono la formula in esame facendo riferimento al valore di mercato del bene, vale a dire alla capacità della forma di rappresentare l’essenza o, appunto, la sostanza del prodotto stesso. Tuttavia esse possono condurre a risultati diversi, per cui è bene chiarire la differenza fra le due letture ed i motivi che spingono a propendere per l’una piuttosto che per l’altra. La prima impostazione tende a far coincidere le forme dotate di valore sostanziale con le c.d. forme ornamentali, ritenendo che la forma caratterizzata da particolari pregi estetici incida in maniera decisiva sull’apprezzamento del pubblico, divenendo 165 Tale conclusione è condivisa dalla dottrina largamente maggioritaria. A titolo meramente esemplificativo si vedano, G. CASABURI, La nuova disciplina dei disegni e modelli…, cit., p. 104; A. FITTANTE, Il nuovo diritto industriale…, cit., p. 45-49; G. SENA, La diversa funzione e i diversi modelli di tutela della forma…, cit., p. 583; A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 142-143. 63 così determinante nella scelta del prodotto. In base a tale opinione il valore sostanziale attribuito al bene si risolverebbe in un valore aggiunto di notevole rilevanza, un quid pluris che aumenta il valore commerciale del prodotto poiché, superando un certo livello estetico ne modifica l’identità, ed interferisce sul meccanismo di determinazione della scelte dei consumatori166. L’interpretazione qui riferita, insomma è fondata sull’idea che esista una corrispondenza tra valore estetico e vantaggio competitivo, continuando di fatto a fare riferimento alla nozione di speciale ornamento, non più vigente; la valutazione di preferibilità rispetto ai prodotti concorrenti deriverebbe quindi dall’apprezzamento del suo particolare pregio estetico, grazie al quale il bene si troverebbe in una posizione distaccata e privilegiata nell’ambito del settore merceologico di riferimento. Secondo tali autori la ratio dell’impedimento alla registrazione in esame sarebbe quella di evitare che le forme innovative sotto il profilo ornamentale restino, per un periodo tendenzialmente illimitato, appannaggio esclusivo di un solo produttore167. Questa opinione conduce a ritenere che il requisito dello speciale ornamento, pur non rappresentando più la linea di confine fra la tutela del marchio e quella dei disegni e modelli (in quanto anche forme che non raggiungono la soglia dello speciale ornamento potranno accedere a tale protezione), continui a fungere da spartiacque tra le forme registrabili e non registrabili come marchio. 166 In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 17-25; G. FLORIDIA, Il riassetto della proprietà industriale, Milano, 2006, p. 77; C. GALLI, L’attuazione della direttiva comunitaria sulla protezione…, cit., p. 890; G. GHIDINI, Un appunto sul marchio…, cit., p. 88; M. LAMANDINI – M. PAPPALARDO, Il difficile equilibrio tra “valore sostanziale” e carattere distintivo della forma. Commento a Trib. Venezia, 24 gennaio 2008, in Dir. ind., 2008, p. 325 ss.; L. LIUZZO, Modelli, disegni, forme, marchi tridimensionali e la loro tutelabilità…, cit., p. 215; M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 7 ss.; I. M. PRADO, Commento a Trib. Venezia, 15 febbraio 2012, in Dir. ind., 2012, p. 351 ss.; M. RICOLFI, Diritto industriale…, cit., p. 87; A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 163-165. In giurisprudenza si veda, Cass., 23 novembre 2001 n. 14863, in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 326 ss., in tale pronuncia la Suprema Corte afferma che la forma capace di attribuire valore sostanziale al prodotto è <<quella il cui pregio modifica l’identità di un prodotto in quanto tale perché ne aumenta il valore merceologico, senza perciò mutarne la funzione ontologica>>. Si veda pure, Trib. Bologna, 2 luglio 2008 (ord.), in www.utetgiuridica.it; e la già citata sentenza del Tribunale di Venezia, 24 gennaio 2008, in Dir. ind., 2008, p. 325 ss.. 167 In tal senso in particolare, M. MONTANARI, ivi, p. 17-18. L’autore ritiene che nella categoria delle forme che danno valore sostanziale al prodotto rientrino tutte le opere del design d’architettura propriamente inteso; per questo sottolinea la necessità di rifuggire dall’uso generico del termine design, spesso utilizzato in maniera del tutto impropria. 64 Quanto alla seconda lettura dell’espressione “valore sostanziale”, anch’essa pone al centro la percezione del consumatore e la capacità della forma di incidere sulle sue scelte d’acquisto. L’opinione in analisi considera dunque dotate di valore sostanziale le forme in grado di determinare in larga misura il comportamento del pubblico, sempre partendo dalla convinzione che la ratio della norma consista nell’evitare che la protezione del design, la cui durata temporale è circoscritta, venga bypassata attraverso l’applicazione della disciplina sul marchio168. Come detto, tale ricostruzione apparentemente non è molto distante da quella precedentemente illustrata; tuttavia essa presenta una differenza di non poco conto, in quanto si fonda sull’idea che questa capacità della forma di influenzare le decisioni d’acquisto dipenda dalla sua funzione attrattiva, piuttosto che da un elevato livello ornamentale. Tale dato risulta essenziale, poiché permette di prescindere da una valutazione tesa a determinare il livello estetico della forma, ovvero a quantificarlo per stabilire se si sia o meno raggiunta la soglia dello speciale ornamento; come già abbondantemente sottolineato infatti, si tratta di una valutazione ambigua e rischiosa, essendo estremamente difficile individuare dei parametri di riferimento certi. Per comprendere meglio la differenza fra le due interpretazioni esaminate è utile menzionare un caso recentemente sottoposto all’attenzione del Tribunale di Venezia: si trattava di un giudizio avente ad oggetto la forma di un particolare tipo di calzature (le celebri Crocs), forma registrata dalla parte attrice come marchio tridimensionale e di cui essa lamentava la contraffazione. Le convenute, invece sostenevano la nullità del segno, in quanto appunto dotato di valore sostanziale, quindi registrato in violazione dell’art. 9 CPI. I giudici hanno ritenuto la forma in grado di esercitare una notevole forza attrattiva sui consumatori, in virtù della sua peculiare conformazione, definita <<tozza>>, <<brutta>> e <<buffa>> ma proprio in quanto tale <<trendy>>, giungendo così a negare la validità del marchio perché costituito da una forma idonea ad influenzare le scelte d’acquisto del pubblico e 168 dotata perciò di valore Per questa seconda impostazione si vedano, A. FITTANTE, Il nuovo diritto industriale…, cit., p. 48; G. GARGIULO, Industrial design e marchi di forma nella prospettiva…, cit., p. 435; S. SANDRI, La forma che dà valore sostanziale…, cit., p. 31 ss.. 65 sostanziale169. Se il Tribunale di Venezia avesse applicato la prima delle opinioni illustrate sarebbe pervenuto all’opposta conclusione di ritenere la forma in questione priva di valore sostanziale, in quanto carente di particolari pregi ornamentali, anzi esteticamente sgradevole. L’incertezza cui conduce l’adozione di un criterio basato su valutazioni estetiche ci induce a preferire la seconda interpretazione esaminata: sebbene anch’essa muova dall’intenzione di oggettivizzare il parametro di riferimento, ancorandolo al valore commerciale del bene, ci sembra che tale obiettivo venga raggiunto in maniera più efficace aderendo all’altra impostazione. Del resto nessun autore è giunto a specificare in modo sufficientemente chiaro in cosa consista quello speciale ornamento che caratterizzerebbe le forme escluse dalla registrazione, per lo più limitandosi ad affermare che il livello estetico dev’essere individuato abbastanza in alto, o riempiendo la formula di contenuti piuttosto vacui170. Senza contare che si finisce per fare riferimento ad un requisito, quello dello speciale ornamento, non più vigente, il che non è più proponibile dopo la riforma del 2001. Pertanto riteniamo che la forma dia valore sostanziale al prodotto quando è in grado di determinare in larga misura il comportamento dei consumatori nell’acquisto del bene, rappresentando l’unico o uno degli essenziali elementi che spingono a sceglierlo nel panorama dei prodotti concorrenti171. In altre parole, come evidenziato da un illustre autore, <<è necessario verificare sul campo se la determinazione 169 Tuttavia nel caso di specie la tutela è stata comunque riconosciuta sotto il profilo della concorrenza sleale per imitazione servile. Si veda, Trib. Venezia, 15 febbraio 2012, in Foro. It., 2012, I, p. 1254 ss. leggibile anche in Dir. ind., 2012, p. 351 ss., con commento di I. M. PRADO. 170 A titolo esemplificativo si veda, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 19. L’autore infatti afferma che il problema fondamentale sia quello di definire a partire da quale livello di innovazione ornamentale si possa parlare di estetica che apporta uno speciale ornamento, limitandosi ad aggiungere che il livello <<dovrebbe essere collocato piuttosto in alto>>. 171 In tal senso si è espressa la Prima Commissione di Ricorso dell’UAMI nella decisione relativa al caso Bang & Olufsen, affermando che <<giving it a systematic and teleological interpretation, it appears that a shape gives substantial value to a good when it has the potential to determine to a large extent the consumer’s behaviour to buy the product. Article 7 (1) (e) (iii) RMC therefore concerns products which the relevant public buys largely for the value of their shape, that is to say, where the shape is the only or the essential selling features of the product. It must be more than a convincing design when compared to a product with identical other characteristics>>. Cfr. Comm. Ricorsi, 10 settembre 2008, www.eur-lex.europa.eu . 66 all’atto d’acquisto sia conclusiva, al netto cioè di quelle motivazioni che di norma accompagnano il consumatore in quel contesto>>, vale a dire il prezzo, la qualità, etc172. La definizione data evidenzia da un lato la rilevanza del comportamento del consumatore, considerato come il naturale recettore del segno, dall’altro il fatto che, per poter valutare la forma capace di attribuire valore sostanziale al prodotto, occorre che questa sia esclusivamente attributiva di quel valore, che rappresenti cioè la ragione fondamentale dell’acquisto. E’ evidente infatti che in un simile caso la funzione distintiva, tipica del marchio, viene oscurata da quella attrattiva svolta dalla conformazione del bene, che pertanto esercita un ruolo essenziale (o appunto sostanziale) nelle scelte del pubblico. Ciò che rileva insomma è come la forma venga percepita dai consumatori: bisogna valutare se questi sono orientati dalla sua capacità di indicare l’origine imprenditoriale del bene o, piuttosto, dalle sua particolare configurazione, bella o brutta che sia. Una volta delineata l’interpretazione più corretta della nozione in esame si possono fare alcune osservazioni. Innanzitutto il fatto che la forma sia dotata di valore sostanziale ci induce a ritenere che questa debba essere intrinseca al prodotto, poiché difficilmente i consumatori attribuiranno importanza determinante nelle loro scelte ad elementi estrinseci al bene. Questa considerazione porta ad escludere, quantomeno tendenzialmente, che possano farsi rientrare nella categoria in questione forme che costituiscono la confezione dei beni; nonostante il packeging svolga un ruolo notevole nell’istituire un contatto con il pubblico, non sembra sostenibile che sia in grado di incidere in modo definitivo sulle sue valutazioni, o almeno non su quelle del consumatore medio (che, come si è visto, rappresenta il parametro di riferimento per la disciplina dei segni distintivi)173. 172 Così, S. SANDRI, La forma che dà valore sostanziale…, cit., p. 36. L’autore evidenzia pure come oggi le aziende dispongano di strumenti di analisi socio-comportamentali sempre più sofisticati, che consentono di prevedere, con ragionevole approssimazione, la reattività del loro target di fronte alle nuove forme dei loro prodotti. Inoltre osserva che <<per accertare se e quando la forma conduca alla causa dell’atto di acquisto […] occorrerà che il mercato esprima dati obiettivi e comparabili che restino nella disponibilità conoscitiva e percettiva del consumatore interessato e non nella sfera di ritenzione soggettiva dell’imprenditore>>. 173 In tal senso, V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 62. 67 Un altro punto che occorre sottolineare è che l’adozione del criterio prescelto comporta una certa mobilità nei confini della categoria di cui si tratta: il riferimento all’idoneità della forma ad influire sulle decisioni d’acquisto fa sì che la nozione di valore sostanziale subisca l’evoluzione del mercato. Può accadere ad esempio che una certa forma, inizialmente capace di dare valore sostanziale al bene, in un secondo momento non sia più determinante nella percezione dei consumatori, magari a causa dei cambiamenti della moda e delle tendenze stilistiche; in un caso del genere, dunque, nulla escluderebbe la sua registrabilità come marchio. Infine riteniamo che la formula in esame debba essere intesa con una certa elasticità, valutando in concreto quale sia l’efficacia monopolistica conseguente al riconoscimento di una protezione potenzialmente perpetua; ci sembra cioè doveroso che si tenga presente, nei singoli casi, quale sia il settore merceologico di riferimento, nonché il margine di libertà concesso alla progettazione, o ancora ogni elemento utile al fine di determinare gli effetti che la registrazione del marchio potrebbe comportare sul mercato e sui consumatori174. Ad esempio, si dovrebbe negare valore sostanziale a quelle forme che, pur essendo rilevanti nelle decisioni d’acquisto, siano modificabili in tanti diversi modi, senza particolari sforzi da parte di chi le realizza; al contrario sembrerebbe preferibile riconoscere valore sostanziale alle forme di prodotti la cui configurazione influisce lievemente sulle scelte del pubblico, quando il margine di libertà nella progettazione sia di scarso rilievo. Ci sembra che in questa maniera la valutazione circa l’eventuale carattere sostanziale della forma sarà maggiormente in linea con la ratio a fondamento di tale limite. Da ultimo è bene evidenziare che la definizione qui data è improntata sul medesimo criterio a fondamento dell’interpretazione prescelta del requisito del carattere individuale, in quanto in entrambi i casi appare centrale la percezione del pubblico (sebbene nel secondo caso si faccia riferimento al consumatore esperto). Questo risultato perciò consente di valutare le forme dei prodotti industriali sulla base di principi comuni, ordinandole su di un’ideale scala ai piedi della quale si collocano le forme dotate di semplice carattere individuale, ed in cima quelle aventi 174 In tal senso, D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in AA. VV. Segni e forme distintive…, cit., p. 255. 68 valore sostanziale. E’ evidente infatti che queste ultime, in quanto capaci di influire sulle scelte d’acquisto, saranno anche dotate di carattere individuale, mentre non necessariamente si verificherà il contrario, essendo possibile che la conformazione di un bene attiri l’attenzione del consumatore (instaurando quel contatto privilegiato in cui si risolve il requisito in questione), pur senza indurlo a comprare il prodotto. Nel prossimo Capitolo verranno analizzate le conseguenze a livello sistematico di tale impostazione, ossia come in base ad essa si debba determinare il confine fra tutela del marchio e protezione dei disegni e modelli. 2.3 Marchio di forma e concorrenza sleale A questo punto della trattazione è necessario soffermarsi sulla tutela contro quegli atti di concorrenza sleale che si sostanziano nell’imitazione servile dei segni distintivi o dei prodotti di un concorrente. Si tratta della fattispecie regolata dall’art. 2598 n. 1 del Codice Civile ed essa risulta rilevante ai fini dell’oggetto di questo lavoro in quanto la forma dei prodotti industriali può trovare protezione anche a norma di tale disciplina. Tuttavia ciò che qui interessa è individuare l’ambito applicativo della disposizione in esame limitatamente al suo rapporto con la normativa sui marchi di forma e, di conseguenza, a quella sui disegni e modelli. Già il preambolo dell’art. 2598 c.c. evidenzia come la disciplina contro la concorrenza sleale per confondibilità si ponga in consecuzione rispetto alle disposizioni che concernono i segni distintivi; il n. 1 della disposizione, infatti, recita <<Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente>>. Tale norma dunque annovera l’imitazione servile fra i fatti lesivi del diritto ad una leale differenziazione sul mercato, precisando però che l’illecito si verifica solo se ed in quanto il comportamento imitatorio sia idoneo a creare confusione con i prodotti o 69 con l’attività del concorrente. Quest’ultima condizione, sulla cui sussistenza vi è concordia di opinioni tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, comporta un fondamentale corollario, anch’esso largamente condiviso: il fatto cioè, che le forme cui può essere riferito il divieto di imitazione servile devono essere dotate di capacità distintiva, ovvero risultare nuove rispetto a quelle già presenti sul mercato e non standardizzate, diverse quindi da quelle comuni alla categoria merceologica cui il bene appartiene175. E’ agevole notare come tale ultimo requisito sia analogo a quello previsto dalla disciplina dei segni distintivi; si deve inoltre aggiungere che vi è coincidenza anche rispetto al parametro in base a cui viene valutato il carattere distintivo, individuato in entrambi i casi nel consumatore medio, sufficientemente informato e ragionevolmente avveduto. Evidenziate le analogie più marcate fra i due istituti, è necessario analizzare la loro regolamentazione in modo da chiarire i rapporti fra l’ambito di protezione del marchio (in generale) e la tutela offerta contro gli atti di concorrenza sleale confusoria; la risoluzione di tale problema interpretativo è infatti preliminare per poter stabilire se il campo applicativo della disciplina contro l’imitazione servile coincida con quello della normativa sul marchio di forma. La questione è da sempre fra le più dibattute: prima dell’entrata in vigore del Codice del ‘42 la giurisprudenza sosteneva che la tutela del marchio si contrapponesse a quella contro la concorrenza sleale in quanto la prima era di natura reale e la seconda, invece, di natura personale176. Tale impostazione è stata però superata con l’adozione del Codice Civile, che ha previsto a tutti gli effetti un diritto soggettivo alla lealtà della concorrenza, concettualmente non distinguibile rispetto a quello conferito tramite la registrazione del marchio, ed oggi la Relazione Governativa al 175 A titolo meramente esemplificativo si veda, G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 351-355. 176 Ibidem. Inoltre sull’annoso dibattito circa la natura domenicale o meno della tutela sui segni distintivi non titolati si vedano, T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni…, cit., p. 354 ss. e 477 ss.; P. AULETTA, in SCIALOJA – BRANCA (a cura di ), Commentario al codice civile, sub artt. 25552601, Milano, 1947, p. 163; G. SENA, Confondibilità e confusione. I diritti non titolati nel codice della proprietà industriale, in Riv. dir. ind., 2006, I, p. 17; A. VANZETTI, I segni distintivi non registrati nel progetto di <<codice>>, in Riv. dir. ind., 2004, I, p. 99 ss.. 70 Codice della Proprietà Industriale dichiara espressamente che la tutela concorrenziale è di natura dominicale177. Un’ulteriore differenza stava poi nel fatto che la protezione dei segni distintivi c.d. di fatto (quelli cioè non registrati) veniva abitualmente ricondotta alle norme sulla concorrenza sleale, in particolare proprio all’art. 2598 n.1; anche questa distinzione però è venuta meno, con l’adozione del Codice della Proprietà Industriale, che ha radicalmente modificato i rapporti fra i diritti di proprietà industriale e la tutela concorrenziale dei segni distintivi non registrati. Il Codice ha infatti formalmente introdotto la distinzione fra diritti titolati e non titolati, trasferendo anche questi ultimi nel campo della proprietà industriale, in particolare rafforzando l’equiparazione fra marchio di fatto e marchio registrato; la protezione dei diritti non titolati, prima ottenibile solo con i mezzi giurisdizionali propri della concorrenza sleale, è stata equiparata a quella dei diritti titolati, a norma del Capo III° del Codice178. Un importate punto di differenziazione fra le due discipline in questione è a tutt’oggi rinvenibile nel fatto che l’ambito di protezione del marchio si estende ad un rischio di confusione da intendersi in astratto, mentre quello relativo alla concorrenza sleale confusoria può essere giudicato solamente in concreto, non essendo tale tutela subordinata al compimento di alcuna formalità costitutiva179. La sussistenza del carattere distintivo nel segno dev’essere infatti valutata ab initio al momento della 177 In tale Relazione infatti si afferma che << le norme sulla concorrenza sleale degli artt. 2598-2601 c.c. costituiscono il fondamento di un diritto alla lealtà della concorrenza che, nei suoi tratti essenziali e nel corredo sanzionatorio, non differisce né punto né poco dai diritti di proprietà industriale>>. 178 Il Capo III° del Codice della Proprietà Industriale contiene la disciplina della tutela giurisdizionale di tutti i diritti di proprietà industriale regolati dallo stesso. Quanto in particolare al marchio di fatto, nella Relazione Governativa al Codice troviamo scritto che questo <<costituisce oggetto di proprietà industriale non diversamente di come lo è un marchio registrato>> e la comprensione di tale istituto tra i diritti di proprietà industriale è sancita negli artt. 1 e 2 del CPI. 179 Si veda D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 258 ss.. Occorre specificare che la considerazione appena riportata è valida esclusivamente per i marchi registrati; è evidente infatti che il rischio di confusione potrà essere valutato solo in concreto rispetto ai segni di fatto, mancando anche in questo caso la registrazione, quale atto costitutivo del diritto. 71 registrazione, dunque a priori, salva poi la possibilità di farne valere successivamente la nullità per mancanza di tale requisito180. Si deve pertanto concludere che, a livello generale, l’ambito di protezione dei marchi sia più esteso di quello tutelabile contro l’imitazione servile; tuttavia riteniamo che questa considerazione non valga per i marchi di forma. Nel prossimo Capitolo verrà infatti dimostrato che per tale categoria di segni la capacità distintiva non possa che essere valutata in concreto, in quanto acquisibile solo in virtù del fenomeno di “secondarizzazione”; riteniamo cioè che i marchi di forma possano considerarsi dotati di carattere distintivo solo qualora si verifichi il secondary meaning che, come già visto, opera in un momento successivo rispetto a quello della registrazione. Viene dunque meno anche questo ulteriore elemento di differenziazione fra le discipline esaminate e sembra perciò che manchino elementi sufficienti a giustificare l’idea che le due normative abbiano un ambito applicativo diverso. In effetti, pur potendosi riscontrare altri punti di disuguaglianza, questi sono essenzialmente dovuti al fatto che nel caso della concorrenza sleale non è prevista alcuna formalità costitutiva181; tali distinzioni pertanto risultano irrilevanti rispetto al problema qui affrontato. Ciò che invece deve guidare l’interprete è la considerazione che tanto la tutela contro l’imitazione servile quanto quella del marchio di forma sono ottenibili per una durata potenzialmente illimitata. Si tratta di un dato decisivo poiché, se la ratio dell’impedimento alla registrazione esaminato nel paragrafo precedente consiste nell’evitare la concessione di monopoli perpetui su forme capaci di incidere sensibilmente sulle scelte dei consumatori, si deve escludere che un simile risultato possa essere raggiunto tramite l’applicazione dell’art. 2598 n° 1 c.c.. Se così non 180 Infatti non solo la capacità distintiva del marchio può venir meno in virtù del fenomeno della volgarizzazione (di cui si è già parlato), ma l’art. 117 CPI prevede che la registrazione non pregiudichi le azioni relative alla validità e all’appartenenza del diritto. Ciò significa che il segno può essere dichiarato nullo (anche) per mancanza di carattere distintivo, nonostante sia stato in precedenza registrato. 181 Ciò rende necessariamente diversa la fattispecie costitutiva del diritto nei due istituti in esame. Si veda, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 31-32. L’autore ha inserito una tabella che ricostruisce tutti i punti di contatto e le differenze fra le varie discipline predisposte dall’ordinamento a tutela della forma dei prodotti industriali. 72 fosse, infatti, il limite di cui all’art. 9 CPI potrebbe essere in qualunque momento aggirato e vanificato servendosi della disciplina sulla concorrenza sleale confusoria. Si deve dunque concludere che le forme idonee a conferire al prodotto valore sostanziale non possono essere protette a norma dell’art. 2598 n°. 1 c.c.; l’ambito di operatività di tale disposizione è pertanto indirettamente circoscritto dalla disciplina sul marchio di forma182. Alcuni autori sostengono che un discorso parzialmente diverso debba farsi rispetto ai casi in cui vengano imitati soltanto elementi di corollario della forma, che essendo del tutto accessori non contribuirebbero in nessuna maniera a determinare la configurazione del prodotto. A riguardo si parla di forme complesse, costituite cioè da una pluralità di elementi, alcuni dei quali aventi una funzione essenziale (o appunto sostanziale), altri invece un rilievo meramente residuale. La dottrina in esame ritiene che l’imitazione confusoria di questi elementi marginali possa essere repressa a norma dell’art. 2598 c.c., se ed in quanto essi siano dotati di carattere distintivo183. 182 Gli autori non concordano su questo punto; tuttavia l’opinione qui sostenuta è condivisa dalla dottrina maggioritaria. Si vedano, R. BICHI, La tutela della forma del prodotto e le nuove prospettive introdotte dalla direttiva comunitaria n. 71/98, in Segni e forme distintive…, cit., p. 243-245; M. CARTELLA, ivi, p. 14-17; V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 64 e 289 ss.; V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 85-92; A. FITTANTE, Il nuovo diritto industriale…, cit., p. 49-51; I. M. PRADO, in commento a Tribunale di Venezia 15 febbraio 2012…, cit., p. 351 ss.; A. VANZETTI I diversi livelli di tutela delle forme…, cit., p. 331 ss.; A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 164; in giurisprudenza si vedano, Cass., 17 dicembre 2008 n. 29522, in Dir. ind., 2009, p. 166 ss.; Trib. Milano, (ord.) 29 gennaio 2009, in Dir. ind., 2009, p. 557 ss., con commento di I. M. PRADO; in tale pronuncia si osserva che<<Ove si tratti di forme che conferiscono un valore sostanziale al prodotto deve dubitarsi che ad esse sia ricollegabile alcuna funzione di identificazione di origine, costituendo semmai tali forme altrettanti elementi che influenzano in via diretta la propensione all’acquisto del consumatore e non sono pertanto, in assenza di diritti di privativa, suscettibili di esclusive monopolistiche in deroga al principio di libera disponibilità concorrenziale>>. Contra, D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 261-263. Si veda pure F. BENUSSI, La tutela del disegno…, cit., p. 164, il quale, sotto il vigore della precedente disciplina, precisava che l’art. 2598 n. 1 tutela le forme dei prodotti in maniera solo indiretta, in quanto il bene giuridico protetto dalla norma è la confusione dei prodotti nei confronti del pubblico dei consumatori. Nel senso di ritenere che la disciplina del marchio di forma e quella sulla concorrenza sleale confusoria abbiano ambiti applicativi diversi, in giurisprudenza si veda la già citata sentenza del Tribunale di Venezia, 15 febbraio 2012, in Foro it., 2012, I, p. 1254 ss. 183 Si vedano, M. LAMANDINI – M. PAPPALARDO, Il caso “Smart”…, cit., p. 545 ss.; ID., Il difficile equilibrio tra “valore sostanziale” e carattere distintivo della forma…, cit., p. 334; I. M. PRADO, Commento a Trib. Venezia, 15 febbraio 2012…, cit., p. 351 ss.. 73 A noi sembra che tale opinione debba essere rigettata: non si vede infatti come sia possibile che alcune parti della forma di un bene possano non contribuire a determinarla; se pure si riconoscesse tale eventualità ci chiediamo poi come possano questi elementi avere capacità distintiva, dato il loro carattere del tutto accessorio. Inoltre, anche ammesso che ciò sia possibile, la valutazione che un simile criterio porta ad operare pare estremamente difficile e soggetta al rischio di giudizi fortemente arbitrari. Riteniamo dunque che le forme capaci di conferire valore sostanziale al prodotto non siano mai proteggibili a norma dell’art. 2598 n°. 1 c.c.. Tale lettura, del resto, era già accreditata in dottrina e giurisprudenza prima della riforma del 2001, con la differenza che, coerentemente con l’impostazione allora seguita, si escludeva l’applicazione della suddetta disposizione a tutte le forme che fossero brevettabili come modello ornamentale. L’introduzione della nuova disciplina sul design ha perciò influito anche sui rapporti tra la tutela dei disegni e modelli e la protezione contro gli atti di concorrenza sleale, senza però intaccare la relazione fra tale normativa e quella sul marchio di forma. 74 CAPITOLO III: IL COORDINAMENTO TRA LA DISCIPLINA SUL MARCHIO DI FORMA E QUELLA SUI DISEGNI E MODELLI 3.1 Disegni e modelli e marchi di forma a confronto: differenze e punti comuni Nei due Capitoli precedenti abbiamo esaminato le discipline relative ai marchi di forma e ai disegni e modelli, in particolare mettendo in luce gli aspetti più problematici delle due normative, rispetto ai quali abbiamo evidenziato le soluzioni interpretative a nostro avviso più convincenti. L’analisi fin qui svolta è necessaria per poter affrontare la questione che questo lavoro si propone di risolvere, ovvero il problema del coordinamento delle discipline dei due istituti in esame. Dall’esame della due normative emerge la notevole vicinanza esistente fra l’istituto del marchio di forma e quello dei disegni e modelli. Vicinanza innegabilmente accentuata in seguito all’intervento della Direttiva comunitaria 98/71 e al suo recepimento da parte del legislatore interno, con il D.lgs. 95/2001. Come già sottolineato, la riforma ha influito sul rapporto tra i due istituti di cui si tratta, creando nuove analogie e rendendo più marcate quelle già esistenti, al punto da far divenire le loro discipline quasi del tutto sovrapponibili184. La difficoltà nell’individuare l’esatto confine fra le due normative deriva innanzitutto dal fatto che esse hanno entrambe ad oggetto la protezione della forma di prodotti commerciali, nonché dalla circostanza che gli istituti ivi previsti sono difficilmente distinguibili anche sotto il profilo “ontologico”185. Si intende dire che, già in base a considerazioni di senso comune risulta arduo stabilire se ci si trovi di fronte ad una forma i cui pregi estetici sono rilevanti al punto da permetterne la qualificazione come design, o addirittura come opera d’arte, o al contrario come un’entità 184 In tal senso, per tutti, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 68-69. 185 Cfr., G. CASABURI, ivi, p. 53. 75 semplicemente gradevole ma carente di particolare originalità, la cui realizzazione non ha richiesto uno sforzo creativo considerevole. Nel prevedere un sistema di tutela della forma l’ordinamento giuridico si trova insomma davanti all’esigenza di regolamentare un fenomeno difficilmente valutabile, che ha a che fare con concetti, quali l’estetica o l’arte, mutevoli e non definibili186. L’indagine fin qui svolta ha evidenziato le difficoltà nell’individuare dei parametri logico-concettuali certi; e si è pure sottolineato come le riforme che nell’ultimo ventennio hanno riguardato l’ambito della protezione della forma, tutte di matrice comunitaria, abbiano tentato di rendere maggiormente oggettivi i principi che regolano questa materia ed i criteri di accesso ai diversi tipi di tutela predisposti dall’ordinamento187. Lo stesso intento deve, a nostro avviso, guidare l’interprete nell’analisi di questo particolare sistema giuridico: è cioè necessario considerare sempre l’esigenza di scegliere criteri di valutazione il più possibile certi ed oggettivi, in modo da evitare giudizi arbitrari. Quanto in particolare all’individuazione dello specifico ambito applicativo delle discipline relative al marchio di forma ed ai disegni e modelli occorre pure tenere presente quanto puntualmente osservato in dottrina, ovvero che <<l’efficacia della tutela dipende dalla chiarezza degli istituti e dei loro confini applicativi; se si perseguono ampliamenti di protezione attraverso formulazioni equivoche e forzate nella definizione dei presupposti […] si ottiene solo il risultato di esaltare l’incertezza in sede di tutela giudiziaria>>188. Queste ultime riflessioni devono essere tenute in primaria considerazione nella ricerca della soluzione più corretta al problema affrontato in questo lavoro, soluzione che si sostanzia nella scelta di sostenere la teoria dell’alternatività delle tutele o piuttosto quella del cumulo. Entrambe le impostazioni verranno dettagliatamente analizzate nel prossimo paragrafo, illustrando gli argomenti a fondamento dell’una e 186 Cfr., S. MAGELLI, L’estetica nel diritto…, cit., p. 3 ss. Si veda ad esempio, V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 130, il quale afferma che il requisito del carattere individuale appare ispirato ad obiettività, in quanto il suo accertamento <<è affidato ad una operazione di confronto oggettiva e meccanica delle caratteristiche formali appartenenti a un disegno o modello rispetto alle anteriorità rilevanti>>. 188 Così, R. BICHI, La tutela della forma del prodotto e le nuove prospettive introdotte dalla Direttiva comunitaria n. 71/98, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 248. 187 76 dell’altra; prima però occorre mettere a confronto le discipline del marchio di forma e dei disegni e modelli al fine di evidenziarne affinità e differenze, in modo da poter valutare pienamente le conseguenze dell’opzione fra le due teorie suddette. E’ insomma essenziale comparare le due normative per poter stabilire quali siano nella pratica gli effetti della scelta per un tipo di tutela piuttosto che per l’altra, in modo da valutare se vi siano concrete motivazioni ed opportunità per i titolari della privativa alla base della teoria del cumulo. Ad un primo esame superficiale sembrerebbe che l’unica differenza rilevante fra le due normative sia rappresentato dalla diversa durata dell’esclusiva: infatti da un lato la legge impone dei limiti temporali piuttosto stringenti, in quanto l’art. 37 del Codice della Proprietà Industriale prevede che la durata della registrazione di un disegno o modello sia di cinque anni, decorrenti dalla data di presentazione della domanda, e prorogabili fino ad un massimo di venticinque anni. Come già visto invece il titolare del marchio di forma ha la possibilità di rinnovare la registrazione, avente durata decennale, quante volte desideri, potendo dunque godere di una protezione potenzialmente perpetua189. Per il resto le due discipline in esame sembrerebbero ampiamente sovrapponibili: quanto in particolare ai requisiti di accesso alla tutela, la nozione di carattere individuale, sebbene non coincida precisamente con quella di capacità distintiva prevista dal diritto dei marchi (dato il riferimento all’utilizzatore informato piuttosto che al consumatore medio), si avvicina moltissimo a quest’ultima. La dottrina più attenta non ha mancato di evidenziare tale profilo, osservando che la nozione di carattere individuale può astrattamente essere intesa in due accezioni diverse, vale a dire come capacità della forma di influenzare le decisioni d’acquisto, o piuttosto come la sua attitudine a caratterizzare il prodotto agli occhi del 189 E’ fin troppo ovvio quanto sia importante per le imprese sapere con certezza quale sarà la durata dell’esclusiva ottenibile sulla forma dei propri prodotti, al fine di poter valutare l’entità degli investimenti da compiere nella ricerca per la realizzazione del nuovo manufatto, nonché per la pubblicità ed il lancio dello stesso. Tale aspetto è stato in particolare sottolineato da STEFANO SANDRI, in La forma che dà valore sostanziale…, cit., p. 33. 77 consumatore esperto, distinguendolo da quelli già presenti sul mercato190. Abbiamo dimostrato nel primo Capitolo come quest’ultima definizione sia la più corretta: la formula “carattere individuale” fa riferimento alla capacità attrattiva della forma, vale a dire alla sua idoneità ad istituire un contatto privilegiato fra il prodotto cui inerisce e l’utilizzatore informato. Si tratta dunque di una nozione che finisce sostanzialmente per coincidere con quella di “carattere distintivo”, in quanto si risolve in una forma qualificata di novità, ovvero nella capacità distintiva percepibile non dal consumatore medio, bensì da quello esperto191. Se prima della riforma sulla protezione giuridica dei disegni e modelli il riconoscimento dell’esclusiva era subordinato al fatto che la forma presentasse caratteristiche estetiche notevoli ed innovative, la sostituzione del requisito dello speciale ornamento con quello del carattere individuale ha sganciato la tutela da qualsiasi gradiente estetico, introducendo così un criterio senza dubbio meno rigoroso. Certo, si è detto di come intendere l’utilizzatore informato come l’esperto la cui attenzione viene catturata solo da un design particolarmente originale consenta di temperare la scarsa severità della formula in questione; ma resta comunque innegabile che questo nuovo criterio abbia provocato uno spostamento della linea di confine fra l’istituto del marchio di forma e quello dei disegni e modelli, rendendo accessibile tale tutela a forme che in precedenza avrebbero potuto ottenere solo la protezione prevista per i segni distintivi. E’ chiaro che se l’unica differenza fra le due discipline di cui si tratta risiedesse nella diversa durata temporale dell’esclusiva, l’istituto dei disegni e modelli sarebbe privo di ragion d’essere. Nessuna impresa sceglierebbe di registrare come design la 190 In tal senso, G. P. DI SANTO, Il diritto industriale 10 anni dopo. Il punto su…i modelli, in Dir. ind., 2002, p. 323 ss.; D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 251-252. L’affinità tra il requisito del carattere individuale e quello della capacità distintiva è stata messa in risalto anche da altri autori. Si vedano, D. BRAMBILLA, Carattere individuale e capacità distintiva…, cit., p. 456; G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 75; G. GHIDINI, Profili evolutivi del diritto…, cit., p. 247; ID., Un appunto sul marchio…, cit., p. 91; A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 68-69. 191 Questa interpretazione peraltro è avvalorata dal fatto che il primo progetto di Direttiva sulla protezione giuridica dei disegni e modelli definiva il requisito in esame con l’espressione <<carattere distintivo>>. Cfr., D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 252. 78 conformazione dei propri prodotti, di fronte alla possibilità di ottenere in ogni caso una protezione avente lo stesso contenuto ed i medesimi effetti, per un periodo potenzialmente illimitato. Certo, non bisogna dimenticare la categoria delle forme idonee a conferire ai prodotti cui ineriscono valore sostanziale, poiché in questi casi la registrazione del marchio è senz’altro preclusa, secondo quanto disposto dall’art. 9 CPI; ma al di là di questa particolare specie, l’ambito delle forme proteggibili in base alla disciplina sui segni distintivi resterebbe comunque molto esteso, così mettendo fortemente in luce l’irrazionalità dell’attuale assetto normativo. Se così fosse, la tesi del cumulo sarebbe a nostro avviso inammissibile, poiché un suo riconoscimento consentirebbe sostanzialmente di cancellare l’istituto dei disegni e modelli, avendo come unico effetto quello di permettere di aggirare il limite temporale previsto da questa disciplina. A ben vedere però ci sono ulteriori differenze fra la regolamentazione del marchio di forma e quella relativa ai disegni e modelli, differenze apparentemente poco significative, che invece possono generare importanti opportunità e vantaggi per il titolare dell’esclusiva. Un primo aspetto che occorre mettere in evidenza risiede nel fatto che la protezione ottenibile a seguito della registrazione come disegno o modello si estende solo nei limiti della sostanziale identità della forma rispetto alle altre presenti sul mercato, laddove invece la tutela del marchio ha in linea di principio un’ampiezza maggiore, coprendo anche i casi di segni somiglianti o confondibili192 193. Si è detto “in linea di 192 Si pensi ad esempio al fenomeno dei cc.dd. marchi difensivi o protettivi, ossia quei marchi che rappresentano variazioni di uno stesso marchio che l’imprenditore può far registrare insieme al segno principale in modo da ampliare l’ambito di protezione del segno. Tale uso strategico della registrazione è indirettamente avallato da parte del legislatore, in quanto l’art. 24 4° comma del Codice della Proprietà Industriale prevede che la decadenza del marchio per non uso non si verifichi qualora il titolare dello stesso sia al contempo titolare di uno o più marchi simili e faccia effettivamente uso di almeno uno di questi. Ciò significa che l’ordinamento ammette la possibilità di registrare un segno senza utilizzarlo, al solo scopo di conseguire una tutela più ampia su di un altro marchio di cui si è titolari. Ed è appena il caso di segnalare che l’istituto del marchio difensivo è peculiare dell’ordinamento italiano; peraltro la Corte di Giustizia ha recentemente negato che tale nozione abbia cittadinanza nell’ordinamento comunitario (caso Bainbridge). Si veda, Corte di Giustizia, 13 settembre 2007, causa C-234/06, in www.eur-lex.europa.eu. In dottrina cfr., M. RICOLFI, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 112-113. 193 Questo aspetto è stato puntualmente messo in luce da M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 37. 79 principio”, poiché l’ambito di protezione del marchio varia di caso in caso, potendo essere più o meno vasto a seconda che il segno sia o non sia registrato, sia qualificabile come un marchio forte o debole194 ed infine sia o meno rinomato. Da quanto appena osservato si deduce che in alcuni casi le imprese concorrenti all’azienda che ha ottenuto la registrazione della forma come disegno o modello, per evitare di compiere l’illecito di contraffazione nell’imitare tale forma, potranno limitarsi ad apportare alla conformazione dei propri prodotti delle varianti meno significative rispetto a quelle che sarebbero state necessarie se l’azienda fosse stata titolare di un marchio. Si faccia però molta attenzione alla precisazione relativa al possibile variare dell’ambito di tutela del marchio a seconda delle sue concrete caratteristiche: ciò significa che nella pratica ben può accadere che siano sufficienti differenze scarsamente rilevanti per evitare di porre in essere la contraffazione di un marchio (si pensi ad un segno debole e poco conosciuto). In sostanza una simile valutazione non può essere compiuta a priori, prescindendo dalle circostanze del caso concreto. Tuttavia, si deve pure evidenziare fin d’ora che le conclusioni cui giungeremo nei prossimi paragrafi ci porteranno a ritenere che i marchi di forma siano segni di per sé forti e, almeno generalmente, dotati di 194 La distinzione fra marchi forti e marchi deboli attiene al grado di distintività del segno e dipende dal nesso, più o meno significativo, che lo stesso presenta rispetto al prodotto o servizio contraddistinto. I marchi deboli sono caratterizzati da un grado di originalità piuttosto scarso, in quanto il segno richiama o fa riferimento a caratteristiche del prodotto o servizio, oppure alla sua destinazione etc.. Si tratta di norma di marchi denominativi, costituiti dai termini che indicano il genere di bene contraddistinto; a tali parole vengono pertanto accostati dei prefissi o suffissi o altre combinazioni di lettere, in modo tale da renderle distintive. Si pensi ad esempio a molti marchi di farmaci, costituiti dal nome del principio attivo con cui sono realizzati o dalla parola che indica il genere di medicinale al quale appartengono , cui si aggiunge appunto un suffisso o un prefisso (“fluorvitin” per medicinali a base di fluoro). I marchi forti invece presentano una più spiccata originalità, e pertanto sono di per sé maggiormente distintivi: ad esempio, il marchio “Caffè Noir” per contraddistinguere calzature rientra in questa categoria, in quanto non ha alcuna aderenza concettuale con i prodotti contrassegnati. La distinzione tra marchi forti e deboli è di notevole importanza, poiché incide sull’intensità della tutela. Infatti, mentre per i primi ai fini della valutazione della confondibilità e della contraffazione, sono ritenute illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l’essenza individualizzante che lo caratterizza, per i marchi deboli, bastano ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni o aggiunte. Si deve precisare che questa distinzione è pacifica pur non trovando riscontro in alcuna disposizione, essendo stata elaborata da parte della giurisprudenza. Cfr., V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 46; V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 80-81. In giurisprudenza si veda, App. Milano, 26 ottobre 1971, in Giur. ann. dir. ind., 1972, 218. 80 rinomanza; pertanto la differenza appena individuata fra i due istituti in esame sembra essere particolarmente significativa ai fini della nostra analisi. Si deve inoltre rilevare che l’art. 39 CPI prevede la possibilità di depositare una domanda di registrazione multipla, ovvero relativa a più disegni e modelli, purché questi siano destinati ad essere attuati o incorporati nella stessa classe di beni195. La ratio della disposizione sta evidentemente nell’intento di semplificare dal punto di vista procedimentale e fiscale la registrazione, in particolare per prodotti destinati a costituire una collezione o una linea (si pensi alle collezioni realizzate dagli stilisti nel campo della moda); si tratta di un’opportunità di non poco conto per le imprese, poiché i tempi ed i costi necessari per effettuare un procedimento di registrazione rappresentano un fattore estremamente rilevante nell’ambito della strategia aziendale. Orbene una simile possibilità non è invece prevista dal diritto dei marchi. D’altra parte, sempre in merito al procedimento di registrazione si deve evidenziare che per i disegni e modelli non è previsto alcun esame preventivo, né possono essere proposte opposizioni nell’ambito della procedura. Discorso opposto deve farsi per i marchi: in base al diritto nazionale infatti, qualsiasi interessato può depositare osservazioni ed i soggetti indicati dall’art. 177 CPI possono avviare una procedura di opposizione al fine di impedire la registrazione196. Inoltre il diritto comunitario prevede un procedimento di registrazione ancora più articolato, in quanto durante lo stesso viene svolto d’ufficio anche l’esame preventivo per verificare la sussistenza dei presupposti necessari ad ottenere il titolo197. Si deve anche aggiungere che, se per i disegni o modelli la valutazione circa il requisito della novità è di carattere universale, per i marchi il giudizio viene compiuto tenendo conto dell’ambito territoriale (dunque spesso più limitato) in cui 195 L’art. 39 CPI fa riferimento alla classificazione internazionale contenuta nell’Accordo di Locarno, il quale prevede diverse classi omogenee di beni. Si veda, www.brevettazione.it 196 Si vedano gli artt. Dal 174 al 177 del Codice della Proprietà Industriale; in base a quest’ultima disposizione, legittimati a proporre opposizione sono: il titolare del marchio già registrato nello Stato o con efficacia nello Stato da data anteriore, colui che ha depositato domanda di registrazione di un marchio in data anteriore o avente effetto da data anteriore, il licenziatario dell’uso esclusivo del marchio, le persone gli enti e le associazioni di cui all’art. 8 del medesimo Codice. 197 Cfr., M. RICOLFI, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 70-72. 81 opera il segno o in cui lo stesso è conosciuto (salvo però che non si tratti di marchio dotato di rinomanza). Un’ulteriore differenza riscontrabile fra le discipline dei due istituti sta nell’eventualità che il titolare del marchio decada dal proprio diritto di esclusiva, a causa del non uso del segno, ininterrotto per un periodo di cinque anni, salvo però che il mancato utilizzo non sia giustificato da un legittimo motivo. Tale previsione, contenuta nell’art. 24 CPI (che peraltro prevede anche alcune limitate eccezioni), non è stata inserita nella normativa concernente i disegni e modelli. Si tratta di una differenza non trascurabile in quanto, se si ammettesse la possibilità di cumulare le due tutele, il titolare del marchio che avesse al contempo registrato a diverso titolo la forma di cui questo si compone potrebbe godere comunque dell’esclusiva, a norma degli artt. 31 ss. del Codice della Proprietà Industriale198. Si vuole dire che il deposito a titolo di disegno o modello consente di riservare la privativa sulla forma fino ad un massimo di venticinque anni, anche in mancanza d’uso. Questa osservazione è ancor più significativa se si considera che in alcuni casi la giurisprudenza ha ritenuto nulli i marchi la cui registrazione era stata rinnovata allo scadere del quinquennio ininterrotto di non uso, reputando che si trattasse di un deposito eseguito in malafede, con l’unico obiettivo di prorogare la privativa anziché utilizzare effettivamente il segno199. Sempre in merito alla decadenza dal diritto di esclusiva, dobbiamo sottolineare che l’istituto della volgarizzazione è previsto solo nell’ambito del diritto dei segni distintivi, mentre il legislatore non fa alcun riferimento a simile fenomeno all’interno della normativa sui disegni e modelli; sembra pertanto che la decadenza per volgarizzazione operi esclusivamente rispetto ai marchi200. Anche questo dato presenta un certo peso. Ne deriva che la disciplina sulla protezione del design garantisce al titolare della privativa di mantenere l’esclusiva per tutta la sua durata, senza che fatti successivi alla registrazione possano provocare 198 Si vedano, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 37-38. 199 Cfr., Trib. Torino, 14 giugno 2000, in Giur. ann. dir. ind., 2000, 1247. 200 Questo aspetto è stato messo in evidenza da M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 16-17. 82 la decadenza dal diritto. Il che risulta di primaria importanza se si considera che di norma un periodo di venticinque anni sarà sufficiente a recuperare gli investimenti fatti e a raccoglierne i frutti201. Un ultimo punto su cui occorre soffermarsi attiene alla tutela delle forme non registrate. Si è già visto come, a seguito dell’emanazione del Regolamento 2002/6/CE, tale possibilità sussista tanto per i marchi quanto per i disegni e modelli, sebbene in quest’ultimo caso il diritto comunitario abbia notevolmente circoscritto la durata della protezione, limitandola a tre anni decorrenti dal momento in cui il prodotto cui la forma inerisce viene messo a disposizione del pubblico. Il marchio di fatto invece, consente una protezione senza limiti temporali, qualsiasi sia la categoria cui il segno appartiene (marchio di forma, o denominativo, o di colore, etc.). Non è tanto su questa differenza temporale, di per sé rilevante ma di agevole constatazione, che si intende porre l’attenzione; si vuole piuttosto osservare che, sebbene l’ordinamento comunitario garantisca una protezione di durata triennale per i disegni e modelli non registrati, la neutralizzazione della predivulgazione quale fatto invalidante la successiva registrazione è limitata all’anno. In sostanza, dopo dodici mesi dal momento in cui il prodotto è stato immesso sul mercato, il design viene considerato già divulgato202; ciò significa che, trascorso tale brevissimo periodo, la forma deve considerarsi carente del requisito della novità, dunque non più registrabile a titolo di disegno o modello. Questa affermazione, pur non essendo espressamente contenuta in nessuna disposizione, trova fondamento nella necessità di coordinare l’istituto del periodo di grazia (di cui abbiamo parlato nel I° Capitolo), la cui durata è appunto di dodici mesi, 201 Tuttavia a questo punto potrebbe sorgere un dubbio: occorre cioè domandarsi se, data la sostanziale identità fra la nozione di carattere individuale e quella di capacità distintiva, non sia il caso di ritenere applicabile anche ai disegni o modelli gli istituti previsti dal legislatore nell’ambito del diritto dei marchi, in relazione appunto alla capacità distintiva. Ci si riferisce proprio al secondary meaning ed alla volgarizzazione, ovvero a fenomeni che, come visto, incidono sul carattere distintivo del segno; nonostante la disciplina sull’industrial design taccia su questo specifico punto, si potrebbe forse ritenere che tali fenomeni possano influire anche sul carattere individuale. Si tratta tuttavia di una questione molto complessa, implicante una serie di valutazioni che esulano dallo scopo della trattazione, cui pertanto non è possibile dare una risposta esauriente in tale sede. 202 Si veda ancora, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 36-37. 83 con quello dei disegni e modelli di fatto; come sostenuto da un’autorevole dottrina203, gli istituti suddetti possono considerarsi compatibili solo ritenendo che il fatto che il periodo di grazia non sia rilevante ai fini della predivulgazione derivi proprio dalla tutela riconosciuta nei confronti del design non registrato. Orbene se il titolare di un disegno o modello di fatto intendesse procedere alla registrazione, in virtù di quanto appena detto, sarebbe costretto a farlo entro un anno dal momento in cui la forma è messa a disposizione del pubblico. Ed è proprio su questo punto che si vuole porre l’accento: l’obiettivo dichiarato del legislatore comunitario nel prevedere l’istituto dei disegni e modelli di fatto sta nell’intento di consentire alle imprese di sottoporre alla prova del mercato i propri prodotti, in modo da poter valutare se valga la pena procedere alla registrazione per ottenere una tutela più duratura. Tuttavia, nel caso in cui il successo commerciale del manufatto tardi ad arrivare e si manifesti solo una volta decorsi i dodici mesi dalla divulgazione, la registrazione sarà a quel punto preclusa ed il titolare dell’esclusiva dovrà accontentarsi della ben più limitata protezione del disegno o modello di fatto. Se si ammettesse la tesi del cumulo una simile situazione sarebbe facilmente risolvibile, in quanto la forma sarebbe comunque proteggibile quale marchio di fatto (sebbene tale istituto non sia riconosciuto in tutti gli ordinamenti europei), nonché registrabile come segno distintivo senza limiti di tempo. Volendo fare un bilancio di quanto evidenziato in quest’ultima parte dell’indagine, dal confronto fra le discipline del marchio di forma e dei disegni e modelli sono emerse una serie di differenze piuttosto significative nel contenuto ed negli effetti della tutela dei due istituti. E’ inoltre interessante notare come non sia possibile determinare quale delle due regolamentazioni sia più favorevole per il titolare dell’esclusiva. Sotto alcuni aspetti infatti, la normativa sulla protezione del design offre vantaggi considerevoli rispetto a quella relativa ai segni distintivi; si pensi ad esempio alla maggiore snellezza del procedimento di registrazione, o alla possibilità di mantenere la privativa indipendentemente dall’utilizzo effettivo dell’oggetto della stessa. D’altra parte però, 203 Cfr., G. SENA, Note su disegni e modelli…, cit., p. 309 ss.. 84 anche la disciplina del marchio di forma offre opportunità ulteriori rispetto a quella relativa all’altro istituto in esame, prima fra tutte la possibilità di godere di una tutela potenzialmente perpetua. Queste osservazioni dunque ci portano ad affermare che, basandoci esclusivamente sul confronto fra i due istituti, la teoria del cumulo non sarebbe priva di senso, in quanto le difformità esistenti fra le due normative renderebbero utile una loro sovrapposizione. Effettivamente, laddove dovessimo ritenere ammissibile la tesi del cumulo, il titolare dell’esclusiva potrebbe beneficiare dei vantaggi offerti da entrambe le discipline, combinando gli aspetti favorevoli dell’una e dell’altra. Ciò detto occorre verificare se una simile ipotesi sia praticabile; dobbiamo insomma passare ad esaminare gli argomenti a sostegno delle due contrapposte impostazioni (appunto quella dell’alternatività delle tutele e quella del cumulo), in modo da stabilire in che modo coordinare i due istituti oggetto di questo studio. 3.2 Disegni e modelli e marchi di forma: cumulo o alternatività delle tutele? Si è già visto nel Capitolo precedente come, fino all’entrata in vigore del D.lgs. 95/2001, dottrina e giurisprudenza decisamente maggioritarie avessero fornito una ricostruzione estremamente coerente e razionale del sistema giuridico relativo alla tutela della forma dei prodotti industriali: l’interpretazione prevalente, infatti, assicurava a ciascun istituto un proprio ambito applicativo, specifico ed esclusivo. Quanto in particolare all’oggetto di questa analisi, si era individuato nel requisito dello speciale ornamento lo spartiacque fra tutela dei disegni e modelli e quella del marchio di forma, in modo da escludere radicalmente la possibilità di una sovrapposizione delle due discipline. L’adozione della Direttiva 98/71/CE ha poi comportato un brusco cambiamento nella lettura dei rapporti fra gli istituti in esame: la nuova disciplina europea dell’industrial design sembra infatti ispirata ad una concezione opposta rispetto a quella 85 tradizionalmente seguita nel nostro Paese. Da quel momento, pertanto, la maggioranza degli autori che fino ad allora avevano fermamente sostenuto la tesi dell’alternatività delle tutele, ha modificato la propria interpretazione, ritenendo di non poter più negare la sovrapposizione delle due protezioni204, ed anche la giurisprudenza prevalente si è orientata nello stesso senso. Tuttavia una corrente ormai minoritaria continua a negare la possibilità di una convergenza fra le due normative, ritenendo la teoria dell’alternatività come l’unica via percorribile nella definizione dei rapporti fra marchio di forma e disegni e modelli205. Andiamo dunque ad analizzare i presupposti e le argomentazioni su cui vengono basate le due diverse impostazioni, partendo proprio dalla tesi che considera a tutt’oggi alternative le tutele. Questa opinione viene fondata su due ordini di argomenti: i primi di carattere letterale, derivanti cioè dall’analisi del dato normativo; i secondi improntati invece su considerazioni sistematiche. Vengono innanzitutto esaminate le disposizioni che, secondo i sostenitori della contrapposta tesi, imporrebbero il cumulo delle tutele, vale a dire gli artt. 16 e 96 par. 1, ed i Considerando 7 e 31, rispettivamente della Direttiva 98/71/CE e del Regolamento 2002/6/CE. La prima delle disposizioni menzionate, che trova il suo equivalente nell’art. 96.1 del Regolamento citato, stabilisce che <<sono impregiudicate le disposizioni comunitarie o nazionali applicabili ai disegni o 204 In particolare si veda, A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 142-143. I due autori, prima ancora che l’emanata Direttiva 98/71 fosse recepita da parte del legislatore nazionale, affermavano: <<si deve tuttavia segnalare che la situazione verrà necessariamente a mutare quando sarà attuata anche nel nostro Paese la Direttiva n. 98/71/CE sulla protezione giuridica dei disegni e dei modelli. […] Verosimilmente […] si potranno avere forme in pari tempo brevettabili come modello ornamentale e registrabili come marchio: ciò tuttavia sarà ammissibile soltanto per quelle forme che, comunque, non conferiscano valore sostanziale al prodotto>>. 205 In tal senso, S. ALVANINI, in Prodotti di design e marchi tridimensionali. Commento a Tribunale di Primo Grado, 6 ottobre 2001, causa T-508/08, in Dir. ind., 2002, p. 207 ss.; R. BICHI, La tutela della forma del prodotto e le nuove prospettive introdotte dalla Direttiva comunitaria n. 71/98, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 239 ss.; G. MONDINI, La direttiva comunitaria sulla protezione giuridica…, cit., p. 998, il quale sostiene che il legislatore comunitario abbia inteso mantenere il principio del divieto di cumulo, conservando validità le motivazioni che ne suggerivano l’applicazione nell’assetto precedente. In giurisprudenza si veda, Cass., 16 luglio 2004 n. 13159, in Foro it., 2005, I, 145, in cui si sostiene che l’impedimento alla registrazione come marchio delle forme che danno valore sostanziale al prodotto <<si traduce nella tutela del pubblico interesse ad impedire il perpetuarsi di una esclusiva e si risolve nell’affermazione che tutte le forme brevettabili non siano tutelabili come marchio>>. Si veda pure, Trib. Di Venezia, (ord.) 10 aprile 2006, in Giur. ann. dir. ind., 2006, 5016. 86 modelli non registrati, ai marchi d’impresa o ad altri segni distintivi, ai brevetti per invenzione, ai modelli di utilità, ai caratteri tipografici, alla responsabilità civile e alla concorrenza sleale>>. D’altro canto, il Considerando 7 afferma che <<la presente Direttiva non esclude l’applicazione ai disegni e ai modelli delle norme di diritto interno o comunitario che sanciscono una protezione diversa da quella attribuita dalla registrazione o dalla pubblicazione come disegno o modello, quali le disposizioni concernenti i diritti sui disegni ed i modelli non registrati, i marchi, i brevetti per invenzioni e i modelli di utilità, la concorrenza sleale e la responsabilità civile>>. In termini analoghi poi, è formulato il Considerando 31 del Regolamento suddetto. I sostenitori della tesi del cumulo ritengono che tali disposizioni indichino chiaramente l’intento del legislatore comunitario nel senso di ammettere la duplicazione delle protezioni206, facendo anche leva sul fatto che il Libro Verde del 1991 sulla protezione giuridica dei disegni e modelli, prevedesse chiaramente tale possibilità, dandola anzi per presupposta207. Al contrario, gli autori che difendono la teoria dell’alternatività obiettano che i riferimenti normativi appena indicati siano quantomeno ambigui, poiché non contengono alcun esplicito riconoscimento del cumulo; tali disposizioni dunque non imporrebbero affatto una simile conclusione, potendo al più essere interpretati nel senso di non escluderla a priori. Questa conclusione viene poi rafforzata dal confronto fra le suddette disposizioni e quelle che regolano i rapporti tra disegni e modelli e l’istituto del diritto d’autore, ovvero l’art. 17 ed il Considerando 8 della Direttiva 98/71. L’art. 17 infatti, stabilisce che <<i disegni o modelli protetti come disegni o modelli registrati in uno Stato membro a norma della presente Direttiva sono ammessi a beneficiare altresì della protezione della Legge sul diritto d’autore vigente in tale Stato fin dal momento in cui il disegno o modello è stato creato o stabilito in una qualsiasi forma. Ciascuno 206 In tal senso, per tutti, G. SENA, La diversa funzione e i diversi modelli di tutela della forma…, cit., p. 577 ss.; ID., Il diritto dei marchi. Marchio nazionale…, cit., p. 82 ss.. 207 Cfr., Libro Verde, § 11.6.2., 165, in cui si afferma che se non si ammettesse il cumulo verrebbe legittimata <<l’appropriazione sleale dell’avviamento commerciale ricollegabile ad un disegno ben introdotto, ma il cui periodo di tutela viene a scadere>>. Si vedano anche, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 77; D. BRAMBILLA, Carattere individuale e capacità distintiva…, cit., p. 455. 87 Stato membro determina l’estensione della protezione e le condizioni alle quali essa è concessa, compreso il grado di originalità che il disegno o modello deve possedere>>. Negli stessi termini inoltre, è formulato il Considerando 8208. Effettivamente da questo confronto emerge un’evidente differenza nel contenuto dei due gruppi di disposizioni: è infatti innegabile che il cumulo sia espressamente previsto nella regolazione del rapporto tra disegni e modelli e diritto d’autore. Le norme riferite non presentano sul punto alcun margine di ambiguità. Di tutt’altro tenore invece sono gli artt. 16 della Direttiva e 96.1 del Regolamento; essi non possono essere letti nel senso di imporre agli Stati membri la sovrapposizione fra la tutela del marchio di forma e quella sul design, limitandosi piuttosto a non escludere tale eventualità209. Discorso analogo può farsi in merito alla relazione fra modelli di utilità e disegni e modelli, in quanto la possibilità di fruire di entrambe le protezioni è chiaramente prevista nell’art. 40 comma 1° del Codice della Proprietà Industriale. La disposizione, infatti, recita: <<se un disegno o modello possiede i requisiti di registrabilità ed al tempo stesso accresce l’utilità dell’oggetto al quale si riferisce, possono essere chiesti contemporaneamente il brevetto per modello di utilità e la registrazione per disegno o modello, ma l’una e l’altra protezione non possono venire cumulate in un solo titolo>>. 208 Il Considerando 8 infatti recita: <<considerando che, in mancanza di un’armonizzazione normativa sul diritto d’autore, è importante stabilire il principio della cumulabilità della protezione offerta dalla normativa specifica sui disegni e modelli registrati con quella offerta dal diritto d’autore, pur lasciando gli Stati membri liberi di determinare la portata e le condizioni della protezione del diritto d’autore>>. Ancora, la medesima previsione è contenuta nell’art. 96 par. 2 del Regolamento 2002/6/CE, il quale stabilisce che << disegni e modelli protetti in quanto tali da un disegno o modello comunitario sono altresì ammessi a beneficiare della protezione della legge sul diritto d'autore vigente negli Stati membri fin dal momento in cui il disegno o modello è stato ideato o stabilito in una qualsiasi forma. Ciascuno Stato membro determina l'estensione della protezione e le condizioni alle quali essa è concessa, compreso il grado di originalità che il disegno o modello deve possedere>>. 209 In tal senso, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 88-89; M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 10-11, il quale, pur sostenendo la tesi del cumulo obietta che questa non possa essere fondata sugli artt. 16 della Direttiva e 96.1 del Regolamento, affermando che <<a ben vedere le disposizioni citate sembrano semplicemente escludere un’incompatibilità a priori fra regolamentazioni diverse; ma ciò non implica, necessariamente, anche una sicura compatibilità fra l’istituto del marchio d’impresa e del disegno o modello>>. L’autore poi evidenzia la differenza fra le suddette norme e quelle che la Direttiva dedica al rapporto fra disegni e modelli e diritto d’autore, sottolineando che solo in quest’ultimo caso si prevede espressamente la cumulabilità delle protezioni. 88 Si deve infine sottolineare che la teoria del cumulo non trova supporto neppure nell’accordo TRIPs, i cui articoli 25 e 26 si limitano a stabilire soltanto la misura minima dei diritti del titolare del disegno o modello, lasciando liberi i Paesi firmatari nella scelta del tipo di protezione210. Sotto tale profilo dunque, condividiamo le argomentazioni a sostegno dell’alternatività delle protezioni, ritenendo anzi che basandosi soltanto sul dato letterale, nulla impedisca che proprio all’interno delle due discipline in esame possa individuarsi per via interpretativa un divieto di cumulo, ad esempio a causa di un’incompatibilità concettuale tra i due istituti211. D’altro canto però, questi argomenti non sono da soli sufficienti a dimostrare la correttezza della tesi che nega la duplicazione delle tutele, avendo il limitato effetto di evidenziare la mancanza di un espresso riconoscimento normativo del cumulo. Andiamo quindi ad analizzare il secondo ordine di argomentazioni, ovvero quelle fondate su considerazioni sistematiche. Gli autori che rifiutano la possibilità di una duplicazione delle tutele pongono l’accento sull’insanabile contraddizione che una simile eventualità comporterebbe: come conciliare una disciplina che prevede un’esclusiva avente una durata necessariamente limitata, con un’altra che, al contrario, consente di poter protrarre ad infinitum la privativa? Questa obiezione, ben più consistente rispetto a quelle indicate fino a questo punto della trattazione, è effettivamente incontestabile; non si può negare che un sistema in cui, da un lato si impongono limitazioni temporali tassative sulla tutela di una certa entità, e dall’altro si permette la creazione di monopoli potenzialmente perpetui aventi ad oggetto la medesima entità, sia un sistema quantomeno irrazionale. L’ipotesi che sia possibile aggirare la disciplina sui disegni e modelli registrando al contempo la stessa forma come marchio sembra in effetti insostenibile. D’altro canto però, si deve pure ammettere che il legislatore europeo (e di conseguenza quello nazionale) non si è mostrato particolarmente sensibile a questo aspetto; la medesima contraddizione, seppur meno evidente, caratterizza anche i 210 Si veda, S. SANDRI, La nuova disciplina della proprietà intellettuale dopo i GATT-Trips, Padova, 1996, p. 77. 211 Cfr., M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 10. 89 rapporti fra il diritto d’autore ed i disegni e modelli. Come si è visto, non si può avere alcun dubbio in merito all’ammissibilità del cumulo delle protezioni di tali istituti, in quanto la possibile sovrapposizione è espressamente sancita dal diritto europeo come da quello italiano (rispettivamente agli artt. 17 della Direttiva 98/71 e 2 n.° 4 della Legge sul diritto d’autore). Eppure la durata della tutela “autoriale”, pur avendo delle limitazioni temporali precise, è notevolmente più consistente rispetto a quella prevista per i disegni e modelli: in quest’ultimo caso, come detto, si tratta di venticinque anni, mentre nel primo l’esclusiva si estende per settanta anni, che per di più decorrono dalla morte dell’autore. Dunque, nonostante la grave contraddizione, l’ordinamento consente senz’altro la convergenza delle due protezioni appena menzionate; del resto si può notare che una simile impostazione è già da tempo seguita senza particolari difficoltà in alcuni Stati europei, primo fra tutti la Francia, il cui sistema è basato sulla c.d. teoria dell’unità dell’arte 212. Infine, i sostenitori della tesi dell’alternatività fanno leva sul principio della libertà di concorrenza, principio fondamentale tanto nell’ordinamento interno quanto in quello europeo. Si afferma infatti che il cumulo comporterebbe inaccettabili effetti restrittivi sul piano concorrenziale, consentendo la creazione di un numero eccessivo di monopoli aventi una durata potenzialmente illimitata; il mercato, insomma, verrebbe in tal modo piegato in senso pro-monopolistico213. Il principio della libertà di 212 Per un’illustrazione della teoria dell’unità dell’arte si veda, M. A. PEROT-MOREL, Le systeme français de la double protection des dessins et modeles industriels, in AA. VV., Disegno industriale e protezione europea…, cit., p. 41 ss.. Quanto ai Paesi che da tempo ammettono il cumulo di tutele, si veda, L. C. UBERTAZZI (estratto da), Codice della proprietà industriale…, cit., p. 175-176. 213 In tal senso, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 90-91, il quale ritiene che simili rilievi valgano in certa misura anche contro il legislatore (nazionale o comunitario), che negli ultimi anni avrebbe assecondato una certa tendenza oligopolistica del mercato, <<accentuato la tutela delle posizioni individuali di monopolio, così alterando parzialmente l’equilibrio tra tutela dei diritti esclusivi e quella degli interessi generali>>. Si veda pure, G. GHIDINI, Profili evolutivi del diritto…, cit., p. 243 ss.; ID., Un appunto sul marchio…, cit., p. 83 ss.. Contra, D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 253. L’autore non condivide questa concezione dei diritti di esclusiva in termini di eccezione al principio generale di libera concorrenza, ritenendo piuttosto che <<in realtà i diritti esclusivi possono normalmente svolgere una funzione filoconcorrenziale: […] in tale prospettiva la scadenza di una determinata protezione non necessariamente implica l’intenzione del legislatore di impedire la sopravvivenza di altre privative di durata più lunga e perciò cumulabili>>. 90 concorrenza, invece, imporrebbe di optare per la teoria dell’alternatività delle tutele, dovendosi sempre preferire una lettura delle norme in senso pro-concorrenziale. Anche quest’ultima considerazione è in certa misura condivisibile. La questione relativa agli effetti dei diritti di esclusiva è da sempre fra le più dibattute tra gli economisti, e a tutt’oggi si riscontrano opinioni fortemente divergenti, in quanto alcuni ritengono che abbiano una funzione di stimolo, dunque pro-concorrenziale, altri invece li considerano dannosi per l’equilibrio del mercato 214. Non si pretende perciò di fornire in questa sede una risposta conclusiva a tale quesito. Tuttavia, ci sembra di poter affermare che in linea di principio i diritti esclusivi nel campo della proprietà industriale possano svolgere anche una funzione filoconcorrenziale, fungendo da incentivo per coloro che creano o inventano. Infatti, gli autori hanno la possibilità di veder remunerati i propri sforzi attraverso il riconoscimento della privativa; tuttavia, affinché ciò avvenga, è necessario che sussista un equilibrio fra l’interesse individuale dell’autore e quello di carattere generale al libero godimento delle invenzioni o creazioni che comportano un arricchimento per l’intera collettività. Ora, ci pare di poter sostenere che tale equilibrio mancherebbe del tutto se si ammettesse la possibilità di ottenere in ogni caso una tutela potenzialmente perpetua sulle forme dei prodotti industriali. Certo, ancora una volta dobbiamo ricordare il disposto dell’art. 9 CPI, che vieta la registrazione come marchio delle forme capaci di conferire al prodotto valore sostanziale; ma al di là di questa categoria, l’ambito sembra troppo esteso perché non si tenga conto degli effetti in senso promonopolistico che il cumulo indiscriminato comporterebbe. Detto questo però, riteniamo che non si possa comunque aderire alla tesi dell’alternatività delle protezioni. Si è visto infatti come i suoi sostenitori evidenzino la necessità di optare per una lettura delle norme in senso pro-concorrenziale, ma è proprio questo, a nostro avviso, il punto critico di tale argomentazione. Non ci pare infatti che l’attuale assetto normativo consenta un’interpretazione tesa ad ammettere l’alternatività delle tutele, in quanto una simile lettura non trova alcun 214 A titolo meramente esemplificativo si veda, M. BOLDRIN – D. K. LEVINE, Abolire la proprietà intellettuale, Roma-Bari, 2012. In quest’opera i due celebri economisti sostengono la necessità di abolire l’intero sistema del copyright e dei brevetti, ritenendo che i due istituti siano del tutto dannosi per il mercato. Una posizione così radicale permette di cogliere la complessità della questione, sulla quale ancora oggi la scienza economica non ha fornito una risposta unanime. 91 riscontro nella disciplina dei due istituti in esame. In dottrina si è affermato che il divieto di registrare come marchio i prodotti di design sarebbe espressamente impedito dalla specifica disciplina sui marchi di forma, ovvero dalla previsione di cui all’art. 9 CPI, che fa riferimento alle forme capaci di conferire valore sostanziale al prodotto215. Si è già visto però come tale categoria sia piuttosto circoscritta rispetto all’intero panorama delle forme dei beni industriali per cui, una volta chiarito che in quest’ultimo caso la registrazione come marchio è senz’altro preclusa, resta uno spazio decisamente vasto in cui la tesi dell’alternatività non può trovare applicazione. Una conclusione diversa sarebbe possibile soltanto ritenendo che il criterio del valore sostanziale valga a delimitare anche l’ambito delle forme proteggibili a titolo di disegno o modello (oltre che quelle registrabili come marchio), fungendo da parametro per l’accesso a simile tutela. Ma si sono già ampiamente esposte le ragioni per cui quest’affermazione, dopo la riforma del 2001, non sia più condivisibile: il nuovo requisito del carattere individuale non offre nessun appiglio ad una simile interpretazione. Ove si applicasse in ogni caso la teoria dell’alternatività, volta a consentire l’accesso alla tutela dei segni distintivi solo alle forme non registrabili come design, la scarsa severità del criterio del carattere individuale comporterebbe che la categoria del marchio di forma verrebbe sostanzialmente svuotata ed il disposto dell’art. 7 del Codice della Proprietà Industriale, che espressamente prevede la possibilità di registrare come marchio la forma di un prodotto o della sua confezione, resterebbe di fatto lettera morta216. Infatti, una volta escluse le forme capaci di dare valore sostanziale ai beni cui ineriscono, bisognerebbe accantonare anche quelle dotate di carattere individuale, ovvero quelle distinguibili rispetto alle anteriorità agli occhi dell’utilizzatore informato. Resterebbero fuori soltanto le forme caratterizzate da differenze 215 In tal senso, S. ALVANINI, Prodotti di design e marchi tridimensionali. Commento…, cit., p. 216217. 216 Cfr., M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 12. L’autore afferma che <<il nuovo assetto normativo è tale che il negare la cumulabilità della tutela, in un sistema in cui in pratica qualunque forma nuova, a prescindere da un contenuto ornamentale, può essere depositata come modello, significherebbe ridurre l’istituto del marchio di forma ad un istituto soltanto virtuale>>. Si veda pure, G. SENA, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale…, cit., p. 82, il quale rileva che se il confine fra tutela del marchio e tutela del design si identificasse nella formula del valore sostanziale, si finirebbe per svuotare di significato la regola generale che consente esplicitamente la registrazione come marchio di forma. 92 percepibili solo dal consumatore medio che, non conoscendo il mercato, reputerebbe distintiva anche la configurazione di un prodotto che in realtà è molto simile ad altri già noti. Ora, che questa categoria sarebbe eccessivamente ristretta, per non dire sostanzialmente inesistente, è dimostrato da due osservazioni: innanzitutto si deve tenere conto del fatto che l’art. 32 CPI prevede che sia sufficiente la non identità rispetto alle anteriorità rilevanti per ritenere sussistente il requisito della novità; si tratta dunque di una differenza minima. D’altro canto l’art. 33 CPI, nel prescrivere il criterio del carattere individuale, richiede una valutazione piuttosto sommaria, sia in quanto fondata sull’impressione generale dell’utilizzatore informato piuttosto che su un giudizio analitico, sia in quanto la disposizione imponga che si tenga presente il margine di libertà di cui l’autore ha beneficiato nella progettazione. La scarsa severità del parametro di accesso alla tutela dei disegni o modelli insomma, rende l’esclusiva facilmente conseguibile, per cui ne rimarrebbe fuori una categoria di forme troppo esigua per giustificare la previsione del marchio di forma, quale specie esplicitamente prevista da parte del legislatore. Per non parlare poi del fatto che, se si adottasse una simile lettura, sarebbe decisamente problematico stabilire parametri certi in base ai quali valutare quali forme siano distintive agli occhi del consumatore informato e quali, invece, lo siano semplicemente per il consumatore medio. Il rischio che in tal modo si dia adito a giudizi arbitrari sarebbe troppo forte. Riteniamo pertanto che la teoria dell’alternatività debba essere scartata. Un illustre autore ha sostenuto che, a seguito della riforma del 2001, la disciplina sul marchio di forma e quella sui disegni e modelli regolerebbero essenzialmente la stessa materia217, in quanto <<sarebbe assai formalistico non riconoscere che il carattere individuale […non sia] nulla di diverso dalla capacità distintiva tout court>>. L’autore infatti, ritiene che il parametro dell’utilizzatore informato esprima la naturale evoluzione nell’odierna epoca dell’informazione diffusa, in cui sarebbe venuta meno la ragione del tradizionale riferimento al consumatore medio, sottolineando come questo venga da tempo applicato in modo articolato da parte della giurisprudenza, ovvero tenendo conto del settore merceologico di riferimento. 217 Così, G. GHIDINI, Profili evolutivi del diritto…, cit., p. 246-250; ID., Un appunto sul marchio…, cit., p. 91-100. 93 In base a tali riflessioni l’autore giunge ad affermare che due siano le possibili alternative rispetto al problema del coordinamento delle normative in esame: o ammettere la tesi del cumulo, o ritenere che la disciplina sul marchio di forma sia stata oggetto di abrogazione tacita da parte della successiva novella sui disegni o modelli218. La teoria del cumulo viene però esclusa da questa dottrina ritenendo che essa, da un lato comporterebbe gravissimi effetti anti-concorrenziali, dall’altro provocherebbe un <<aperto conflitto sistematico>>, in quanto consentirebbe di aggirare i precisi limiti temporali imposti dalla disciplina sull’industrial design. L’autore pertanto ritiene che l’unica soluzione accettabile sia che intervenga una pronuncia della Corte di Giustizia che sancisca espressamente la prevalenza della normativa sui disegni e modelli rispetto a quella sul marchio di forma. E’ infatti dubbio che il diritto comunitario ammetta l’istituto dell’abrogazione tacita; ne deriva che l’unica maniera di risolvere il conflitto sarebbe una simile pronuncia, o un intervento dello stesso legislatore europeo (che peraltro lo stesso autore giudica improbabile). Sebbene si condividano alcuni rilievi dell’impostazione appena illustrata, essa non può che essere criticata: sono ormai trascorsi più di dieci anni dall’entrata in vigore della “nuova” disciplina sul design, e la Corte di Giustizia non ha mai rilevato un conflitto con il diritto dei marchi. Non possiamo prevedere se una simile eventualità si verificherà in futuro, ma fino a quando l’assetto normativo rimarrà inalterato l’interprete è obbligato a ricercare una soluzione. Soluzione che, come già detto, non può essere individuata nella teoria dell’alternatività delle tutele; oltre alle critiche già evidenziate si deve aggiungere che l’adozione di tale impostazione equivarrebbe a rimanere ancorati alla lettura tradizionalmente seguita nel nostro Paese, lettura non più attuale dopo la riforma del 2001 e dunque improponibile. Si deve invece accettare che l’intervento comunitario sulla disciplina dei disegni e modelli abbia stravolto il sistema di protezione della forma, adottando un’impostazione decisamente innovativa. Pertanto non rimane che passare all’analisi della tesi del 218 Ibidem. Si deve però specificare che tale autore ritiene che il problema sussista solo per i c.d. marchi tridimensionali intrinseci, in quanto solo rispetto ad essi si pone il rischio di apprezzabili effetti restrittivi sulla concorrenza. Pertanto, in base a questa lettura, la disciplina dei segni distintivi continuerebbe ad operare rispetto ai marchi di forma bidimensionali, o tridimensionali estrinseci. 94 cumulo, per valutare se attraverso questa sia possibile delineare una soluzione soddisfacente. Abbiamo già evidenziato come, nelle discipline dei due istituti in esame, non sia rinvenibile un esplicito riconoscimento normativo del cumulo; questo però non implica che tale ipotesi debba essere necessariamente accantonata, tanto più considerando che gli artt. 17 della Direttiva 98/71 e 96.1 del Regolamento 2002/6 specificano che una simile eventualità non sia esclusa. La dottrina maggioritaria è sostanzialmente divisa in tre filoni, ovvero fra coloro che ritengono applicabile il cumulo in ogni caso (salvo ovviamente per le forme dotate di valore sostanziale), coloro che invece tentano di limitare tale possibilità distinguendo le forme in diverse categorie, ed infine coloro che ammettono il cumulo solo se si verifica il fenomeno del secondary meaning219. Queste diverse impostazioni sono tutte fondate da un lato, sul riferimento agli artt. 96.1 e 17 del Regolamento e della Direttiva sui disegni e modelli (nonché al Considerando 7 della stessa), nonché alla già menzionata Legge del Benelux del 1971, da cui la disciplina comunitaria ha tratto spunto; dall’altro sul cambiamento imposto dalla sostituzione del requisito dello speciale ornamento con quello del carattere individuale. Avendo già ampiamente esaminato tali argomentazioni, possiamo passare all’analisi delle diverse opinioni. La prima tesi ritiene ammissibile il cumulo in ogni caso in cui una forma, che non sia idonea ad attribuire valore sostanziale al prodotto, risulti distintiva non solo in base alla percezione dell’utilizzatore informato, ma anche agli occhi del consumatore medio220. Tale lettura parte dell’idea che, secondo l’assetto normativo attualmente vigente, l’unica differenza esistente fra i segni distintivi e l’industrial design risieda nella soglia minima di accesso alla protezione; soglia che sarebbe più bassa nel caso 219 Gli autori che sostengono le tre distinte impostazioni verranno menzionati nell’ambito dell’illustrazione di ciascuna di esse. A quella sede pertanto si rimanda. 220 In tal senso, A. FITTANTE, Il nuovo diritto industriale…, cit., p. 45 ss.; A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 69, in cui si afferma: <<si può dunque concludere che quando si tratti di forme il cui carattere individuale consiste in un vero e proprio carattere distintivo (differenza percepibile dal consumatore medio), esse potranno essere tutelate anche con l’azione di imitazione servile o come marchi, a prescindere dalla loro registrazione come modelli: con conseguente possibile cumulo delle due tutele>>. 95 dei disegni e modelli, essendo il consumatore esperto in grado di cogliere dettagli distintivi che invece sfuggirebbero a quello medio. Nel I° Capitolo abbiamo spiegato i motivi che ci inducono a preferire un’interpretazione diversa del parametro dell’utilizzatore informato, in base alla quale tale soggetto andrebbe indentificato con colui che, essendo un buon conoscitore del mercato, possa venire colpito solo da una forma particolarmente originale. Alla base dell’opinione appena riferita vi è invece una visione opposta, tesa a ritenere che il consumatore informato percepisca dettagli irrilevanti agli occhi di quello inesperto, in grado di cogliere soltanto le differenze più eclatanti. Questa osservazione rappresenta la prima ragione per la quale si ritiene di dover scartare l’opinione in esame. Un secondo motivo, di carattere più generale, deriva dalle considerazioni già svolte in merito alla contraddizione insita in un sistema così impostato: se si ammettesse il cumulo indiscriminato, lasciando fuori solo le forme con caratteristiche distintive tanto insignificanti da essere percepibili solo da parte dell’utilizzatore informato, il conflitto sistematico sarebbe inaccettabile. Non si può a nostro avviso riconoscere che l’ordinamento preveda due istituti, la cui regolamentazione peraltro si distingue sotto diversi ed importanti profili (come illustrato nel paragrafo precedente), disciplinanti di fatto lo stesso oggetto; il sistema risulterebbe così del tutto irrazionale. L’inammissibilità di una simile contraddizione ha indotto parte della dottrina a ricercare una diversa soluzione, sempre nell’ambito della tesi del cumulo, distinguendo le forme in diverse categorie. Anche all’interno di questa seconda opinione si possono individuare diverse letture. La prima, elaborata da Davide Sarti, distingue le forme in tre classi, a seconda dalla loro maggiore o minore capacità di influire sulle decisioni d’acquisto dei consumatori221: vi sarebbero dunque beni la cui configurazione risulterebbe determinante nella scelta del pubblico, al punto che con una diversa conformazione il prodotto non sarebbe stato acquistato. Si tratta delle forme dotate di valore sostanziale per cui, rispetto ad esse, il cumulo andrebbe 221 Si veda, D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 258. 96 escluso in ogni caso. Una seconda categoria sarebbe invece costituita dalle forme che, pur non incidendo in maniera definitiva sulla decisione di comprare il prodotto, avrebbero la capacità di attrarre il consumatore, stabilendo un primo contatto privilegiato grazie alla loro gradevolezza estetica. Il riferimento è evidentemente alle forme aventi carattere individuale, rispetto alle quali quindi sarebbe sempre possibile la sovrapposizione delle tutele. Infine vi sarebbe una terza categoria, intermedia, comprendente le forme che, pur non essendo determinanti nelle decisioni d’acquisto, avrebbero comunque un peso importante nella scelta del prodotto. L’autore ritiene che in questi casi sarebbe sempre applicabile la disciplina dei disegni e modelli, mentre la possibilità di ottenere la registrazione come marchio andrebbe valutata caso per caso, a seconda degli effetti che una simile eventualità provocherebbe sull’assetto concorrenziale del mercato. Prima di passare alla critica dell’opinione appena illustrata andiamo ad esaminare l’altra, fondata sulla distinzione delle forme in diverse categorie, in quanto i rilievi che andremo a muovere valgono in parte per entrambe le letture. Questa ulteriore classificazione, elaborata da Massimo Montanari222, non è molto distante da quella di D. Sarti; anche qui infatti le forme sono differenziate in tre gruppi, a seconda che il prodotto abbia una configurazione piuttosto semplice (sebbene gradevole), o invece sia originale al punto da colpire l’utilizzatore informato, o ancora presenti una forma tale da divenire nella valutazione del pubblico <<il prodotto stesso>>. La prima categoria sarebbe dunque costituita da forme non particolarmente caratteristiche, registrabili perciò soltanto come marchio. La seconda sarebbe invece composta da prodotti con una configurazione innovativa e più caratteristica; per queste forme sarebbe quindi sempre ammissibile il cumulo. Infine, il terzo gruppo sarebbe costituito dalle forme idonee a conferire al bene cui ineriscono valore sostanziale; inutile dire che, in questo caso, l’unica tutela ammissibile sarebbe quella prevista dalla disciplina sui disegni e modelli. Le due opinioni riferite non sembrano condivisibili. Sebbene entrambe siano frutto di un importante sforzo interpretativo e presentino il pregio di una notevole coerenza, i risultati cui pervengono non sono a nostro avviso convincenti. 222 Si veda, M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 7 ss.. 97 In primo luogo ambo le impostazioni continuano a fare riferimento, in maniera più o meno esplicita, all’estetica della forma, ed in questo lavoro si è già abbondantemente sottolineata la necessità di prescindere da concetti tanto soggettivi ed inafferrabili, quali la bellezza; a quelle osservazioni pertanto si rinvia. Inoltre la differenziazione in tre categorie così simili fra loro sembra problematica: come distinguere, ad esempio, le forme che determinano le scelte del pubblico da quelle che, pur influendo su tali scelte, non sono decisive? Quali parametri di riferimento dovrebbe utilizzare la giurisprudenza? Sembra insomma che l’adozione di un simile criterio, ben lungi dall’essere risolutivo, causerebbe nuove incertezze, con l’ulteriore rischio che i giudici, al fine di impedire arbitri, applicherebbero il più delle volte il cumulo, così da evitare imbarazzanti valutazioni su presunte differenze fra i vari prodotti. A nostro avviso tutte le interpretazioni esaminate in questo paragrafo (ci si riferisce sia alla tesi a favore dell’alternatività, sia alle diverse teorie sul cumulo) adottano un approccio metodologico errato, in quanto non pongono l’accento su quello che, secondo chi scrive, rappresenta il punto centrale della questione. Si vuole dire che per delineare la soluzione più corretta al problema del coordinamento fra la disciplina del marchio di forma e quella sui disegni e modelli occorre partire dalla diversa funzione che caratterizza i due istituti. Il marchio, infatti, è un segno distintivo ed in quanto tale deve sempre svolgere tale funzione, indipendentemente dal tipo di segno di cui si tratti; al contrario i disegni e modelli non hanno alcuna funzione di indicatore d’origine. Questo comporta che la ricerca di una soluzione convincente debba partire dall’assunto che la forma di un prodotto o della sua confezione possa costituire un valido marchio solo qualora svolga essenzialmente o prevalentemente una funzione distintiva223. L’autonomia del marchio di forma, intesa innanzitutto come autonomia concettuale prima che normativa, deve in ogni caso essere salvaguardata. 223 Così, D. BRAMBILLA, Carattere individuale e capacità distintiva…, cit., p. 453 ss.; M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 12; G. GARGIULO, Industrial design e marchi di forma nella prospettiva…, cit., p. 435; G. SENA, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale..., cit., p. 83. 98 Se ne deduce che le due discipline in esame, sebbene possano convergere, tutelino in linea di principio funzioni diverse della forma del prodotto. Questo particolare modo di impostare il problema porta a ritenere che la soluzione passi attraverso l’istituto del secondary meaning; andiamo dunque ad esaminare il procedimento logico che conduce a tale risultato. 3.3. Marchi di forma e secondary meaning La disciplina sui disegni e modelli e quella sul marchio di forma tutelano dunque funzioni diverse: la prima infatti, <<riguarda la forma in sé>>224, ovvero attiene alla capacità attrattiva insita nella configurazione di un prodotto. Il diritto dei marchi invece, fa riferimento <<all’altro da sé di una forma>>225, ovvero agli ulteriori possibili messaggi e suggestioni che vengono comunicati dal segno. Questa affermazione però, merita una precisazione. Nel Capitolo precedente si è evidenziato come, con la riforma della Legge-marchi del 1992, l’ordinamento abbia esteso la tutela dei segni distintivi anche ad aspetti ulteriori rispetto alla capacità distintiva; a seguito di tale intervento normativo infatti, il diritto dei marchi protegge anche la funzione attrattiva insita nel segno. Questa osservazione ha indotto una dottrina a ritenere che il marchio avrebbe ormai perso gran parte della sua capacità di indicare l’origine imprenditoriale del prodotto cui inerisce, avendo invece assunto prevalentemente la funzione di strumento di tutela del valore attrattivo della forma226. Tale conclusione non è a nostro avviso condivisibile: sebbene la disciplina del marchio protegga anche il c.d. selling power insito nel segno, non crediamo che questa componente sia preponderante rispetto alla capacità distintiva, o comunque 224 Cfr., D. BRAMBILLA, ivi, p. 457. Ibidem. Si veda pure la già citata ordinanza del Tribunale di Napoli, del 26 luglio 2001, in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 153 ss., nella quale si afferma: <<il contesto concreto di uso, di pubblicizzazione, di conoscenza, fa sì che la forma di una cosa, pur continuando inevitabilmente ad esser tale, diventi (eventualmente attraverso un processo di secondary meaning) anche “altro da sé”, vale a dire compendio di conoscenze, di suggestioni, di comunicazioni: in una parola, un marchio>>. 226 Così, M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 12. L’autore infatti nega che la differenza fra l’istituto del marchio di forma e quello dei disegni e modelli sia rinvenibile nella diversa funzione tutelata dai due. 225 99 che lo sia a tal punto da offuscare pressoché completamente simile carattere. Si intende dire che la funzione distintiva deve essere ritenuta a tutt’oggi essenziale per qualsiasi tipo di marchio, dovendone rappresentare quantomeno una delle principali caratteristiche; ciò, peraltro, è confermato dal disposto dell’art. 7 CPI che espressamente prevede come condizione alla registrazione l’idoneità del segno <<a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese>>. Inoltre, l’importanza della funzione distintiva quale prerogativa del marchio dev’essere a nostro avviso particolarmente esaltata quando si ha a che fare con un istituto come il marchio di forma, che pone notevoli difficoltà nell’individuazione dei suoi esatti confini, presentando marcate analogie con altri strumenti di tutela messi a disposizione dall’ordinamento. Negare la centralità della funzione distintiva equivarrebbe ad ammettere che la disciplina sui disegni e modelli e quella sul marchio di forma proteggono lo stesso oggetto; conclusione che, come già sottolineato, metterebbe in luce l’irrazionalità di un sistema che mantiene distinti i due istituti, prevedendo discipline divergenti sotto vari profili, peraltro affatto marginali. In sostanza l’unica maniera di evitare tale grave contraddizione sta nell’ammettere che la funzione distintiva sia ancora una prerogativa fondamentale del marchio e che proprio in questo aspetto vada individuata la principale differenza tra disegni e modelli e marchi di forma. Questa impostazione è avvalorata dalla considerazione che, di fronte al marchio di forma, la percezione del pubblico può non essere la stessa rispetto ai casi in cui si trovi davanti ad un segno denominativo o figurativo; in quest’ultimo caso infatti il consumatore (quantomeno quello “medio”) comprende immediatamente che il segno sta lì ad indicare l’origine imprenditoriale del bene, mentre questo può non essere altrettanto evidente quando ci si trovi difronte ad un marchio di forma. Il fatto che il segno coincida con l’aspetto esterno del prodotto stesso rende necessario porre particolarmente l’accento sul carattere distintivo, che la forma presenterà solo se sia capace di rappresentare agli occhi del pubblico qualcosa di ulteriore rispetto alla semplice configurazione del bene. La forma, insomma, potrà essere un valido marchio solo qualora sia idealmente separabile dal prodotto che caratterizza, 100 evocando implicitamente nei consumatori un insieme di conoscenze, suggestioni e comunicazioni. Per risolvere il problema del coordinamento fra disciplina dei disegni e modelli e quella sul marchio di forma occorre quindi tenere ben presente la differenza fra la mera forma di un qualsiasi prodotto industriale e la forma distintiva; differenza imperniata sulla percezione del pubblico. Si è infatti visto come, da un lato tale elemento caratterizzi tutta la disciplina dei marchi, dall’altro come anche la giurisprudenza comunitaria abbia più volte posto l’accento sull’importanza della percezione del consumatore, quale naturale recettore del messaggio insito nel segno227. Quanto appena detto ci porta ad affermare che, per stabilire se una forma sia o meno registrabile come marchio, occorre valutare se questa venga percepita come segno distintivo da parte del pubblico di riferimento, ovvero se i consumatori individuino in quella forma l’indicazione dell’impresa produttrice da cui il prodotto proviene. Solo in tal caso infatti, la forma esplica la funzione tipica di un segno distintivo e, pertanto, solo in tal caso merita la tutela come marchio. Questa interpretazione è del resto confermata dall’impostazione seguita negli ultimi anni dalla giurisprudenza comunitaria, imperniata su una riconsiderazione della nozione di capacità distintiva; difatti, se tradizionalmente nel nostro Paese si riteneva che la verifica in merito alla sussistenza del carattere distintivo si esaurisse nell’esame della descrittività e della genericità del segno, la Corte di Giustizia ha in più occasioni rilevato come il requisito in questione abbia una sua valenza autonoma, particolarmente evidente per i marchi coincidenti con l’aspetto esterno del prodotto (ovvero i marchi di forma e di colore). Così, in una serie di pronunce, la giurisprudenza europea ha sottolineato che la sussistenza della capacità distintiva debba essere valutata anche in positivo, ovvero in relazione all’idoneità della forma ad essere percepita dai consumatori come segno distintivo228. Emblematico in tal 227 Un autore che particolarmente si è concentrato sulla centralità della percezione dei consumatori in tutta la disciplina dei marchi è S. SANDRI, di cui si veda, Percepire il marchio: dall’identità del segno alla confondibilità, Forlì, 2007. 228 Per i marchi di forma si vedano in particolare, Tribunale di Primo Grado, 6 marzo 2003, causa T57/00, in Foro it., XII, p. 573ss.; Corte di Giustizia, 22 giugno 2006, causa C-24/05; Corte di Giustizia, 12 gennaio 2006, causa C-173/04; Corte di Giustizia, 7 ottobre 2004, causa C-136/02; per i marchi di 101 senso è il celebre caso Philips vs. Remington, in cui la Corte di Giustizia ha evidenziato come i criteri di valutazione del carattere distintivo nel marchio di forma non divergano da quelli relativi all’esame di simile requisito negli altri marchi. La sentenza pertanto mette in luce la necessità che, anche nel caso dei marchi di forma, il segno sia idoneo ad indicare l’origine imprenditoriale del bene, in modo che <<una parte sostanziale degli ambienti interessati [associ] tale forma del prodotto a quell’operatore ad esclusione di qualsiasi altra impresa o, in assenza di contraria indicazione, [creda] che i prodotti aventi tale forma provengano da quest’ultimo>>229. Si deve anche notare come l’interpretazione fornita, basata sull’idea che una forma possa costituire un valido marchio solo qualora venga percepita come distintiva da parte del consumatore medio, sia perfettamente in linea con la definizione di valore sostanziale individuata nelle pagine precedenti. Si è detto infatti che la configurazione di un prodotto può ritenersi idonea ad attribuirgli valore sostanziale qualora rappresenti la ragione essenziale dell’acquisto, vale a dire quando <<la sostanza oggettuale della forma prevale ontologicamente e funzionalmente sul carattere distintivo>> 230 della stessa; in un simile caso, la forma rappresenta per il pubblico semplicemente un oggetto, un bene, dunque non un marchio. L’idea che l’impedimento alla registrazione di cui all’art. 9 CPI operi quando la conformazione del bene rappresenti la ragione fondamentale della scelta di un certo prodotto è in perfetta coerenza con l’affermazione secondo cui il marchio di forma sia valido solo se percepito come segno distintivo dal pubblico di riferimento. Ciò in quanto, se il consumatore attribuisce importanza determinante alla provenienza del colore si veda, Corte di Giustizia, 24 giugno 2004, causa C-49/02, tutte leggibili in www.eurlex.europa.eu. In dottrina questo particolare orientamento della giurisprudenza comunitaria è stato evidenziato da, D. BRAMBILLA, Carattere individuale e capacità distintiva…, cit., p. 456; V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 38-39. 229 Cfr., Corte di Giustizia, 18 giugno 2002, causa C-299/99, in Giur. ann. dir. ind., 4464. La materia del contendere riguardava la società Koninklijke Philips Electronics NV che, nel 1985, aveva depositato un marchio consistente nella rappresentazione grafica della parte superiore di un rasoio, formato da tre testine circolari a lame rotanti, disposte a forma di triangolo equilatero. La società Remington Consumer Products Ltd aveva cominciato, nel 1995, la produzione e commercializzazione nel Regno Unito di rasoi aventi una conformazione molto simile a quelli della Philips. In dottrina si veda, L. PATRUNO, Pietre preziose, rasoi elettrici e dolciumi: i dubbi risolti del consumatore trasformano il marchio in certezza, in Dir. pubblico comparato e europeo, 2002, p. 1753 ss.. 230 Così, C. GALLI, Nuovo regime dei marchi di forma (anche avanti alla Commissione dei ricorsi) e dei Designs, disponibile su www.iplawgalli.it. 102 bene da una certa impresa, la forma non dev’essere ritenuta capace di attribuire allo stesso valore sostanziale; al contrario, qualora la ragione principale dell’acquisto risieda nella configurazione del prodotto che, grazie alla sua forza attrattiva, induce il pubblico a sceglierlo fra i vari concorrenti, la forma non svolge la funzione tipica del marchio e, pertanto, non può essere protetta in base alla disciplina sui segni distintivi. Si ritiene insomma che il verificarsi di una di queste circostanze escluda necessariamente l’altra. Si prenda ad esempio il caso delle borse realizzate da famose case di moda (Luis Vuitton, Burberry, etc.): è molto frequente, in Italia come all’estero, incontrare venditori ambulanti che offrono fedeli imitazioni di tali borse. I consumatori di norma sono consapevoli di non trovarsi di fronte all’originale, eppure spesso acquistano la borsa, sapendo inoltre che potrebbero comprare allo stesso prezzo, da un regolare negoziante, borse di qualità superiore che non riportano il marchio celebre. E’ evidente come, in un simile caso, la ragione determinante dell’acquisto risieda nel marchio stesso, che aggiunge al prodotto un valore ulteriore. Al contrario, il consumatore che dovesse scegliere una borsa soltanto in virtù delle sue particolari caratteristiche esteriori, senza interessarsi all’origine imprenditoriale della stessa, sarebbe indotto all’acquisto del valore sostanziale che la forma attribuisce al bene231. Parte della dottrina ha posto l’accento sull’espressione <<esclusivamente>>, contenuta nell’art. 9 CPI (nonché negli artt. 3.1 e) e 7.1 e), rispettivamente della Direttiva e del Regolamento sul marchio), ritenendo che essa indicherebbe la necessità di ammettere la registrazione del segno qualora la forma dotata di valore sostanziale significativo presenti 232 al contempo qualche ulteriore elemento distintivo . 231 Si veda, C. ALBERTINI, Il caso Burberrys: marchi di forma (anche se bidimensionali) e rapporto tra azione di contraffazione e azione di concorrenza sleale confusoria, nota a Cass. 29 maggio 1999 n. 5243, in Giust. Civ., 1999, I, 3326 ss.. L’autore rileva che l’induzione all’acquisto deriva <<non dalla pregevolezza estetica del disegno, quanto piuttosto dal fatto che esso richiama la famosa maison, quindi anche l’atmosfera elitaria che esso evoca>>. Si veda pure, V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 63. 232 Così, V. M. DE SANCTIS (a cura di), ivi, p. 52-53; G. SENA, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale…, cit., p. 81-82. 103 E’ evidente come la ricostruzione che abbiamo fornito fin qui sia incompatibile con la lettura appena esposta: a nostro avviso, infatti, si deve tenere conto di quale sia l’aspetto prevalente nella percezione del consumatore, considerando se questo prediliga il prodotto in virtù della sua conformazione o piuttosto per la sua origine da una certa azienda. Inoltre l’interpretazione criticata porterebbe a ritenere pressoché tutte le forme dotate di valore sostanziale registrabili come marchio, in quanto ben difficilmente queste non presenteranno aspetti distintivi, essendo tanto attraenti da rappresentare la ragione dell’acquisto. Ciò comporterebbe che il limite previsto dall’art. 9 CPI sarebbe di fatto vanificato, con la grave conseguenza che si verrebbe a creare un’eccessiva concentrazione di monopoli potenzialmente perpetui, aventi ad oggetto la forma di prodotti industriali233. Nel corso della trattazione si è ampiamente sottolineato come il legislatore comunitario, nel prevedere la figura del marchio di forma abbia imposto una serie di limitazioni, al fine di evitare effetti gravemente restrittivi sulla concorrenza. Il pericolo di pregiudicare il mercato in senso pro-monopolistico impone di circoscrivere opportunamente il fenomeno del marchio di forma. La soluzione individuata in questo lavoro risponde innanzitutto a tale obiettivo, poiché restringe al minimo le ipotesi di concessione dell’esclusiva sulla forma, quale segno distintivo. Non potendosi più ammettere la tesi dell’alternatività delle protezioni (per i motivi esposti nel paragrafo precedente), la conclusione cui si è giunti consente il cumulo soltanto nell’ipotesi in cui la forma, oltre ad avere carattere individuale (ovvero la capacità di stabilire un contatto privilegiato con l’utilizzatore esperto), indichi al contempo agli occhi del consumatore medio l’origine imprenditoriale del bene. E’ insomma questo il terreno sul quale può verificarsi la sovrapposizione della tutela del marchio a quella sui disegni e modelli; si tratta di un ambito piuttosto ristretto, soprattutto tenendo conto di quanto stiamo per dire in merito al fenomeno del secondary meaning. 233 Tale pericolo è stato puntualmente evidenziato da G. GHIDINI, Profili evolutivi del diritto…, cit., p. 245; ID., Un appunto sul marchio…, cit., p. 89. 104 Resta infatti da stabilire quando si possa ritenere che una forma sia distintiva agli occhi del pubblico di riferimento. Ora, a noi sembra che l’unica risposta possibile a simile interrogativo sia che la conformazione di un prodotto indichi l’origine imprenditoriale del bene soltanto qualora si verifichi la “secondarizzazione” del segno. E’ infatti attraverso l’uso che la forma di un prodotto è in grado di imporsi all’attenzione del pubblico non solo in sé considerata, ma anche come simbolo di un messaggio, ovvero come <<compendio di conoscenze, suggestioni, comunicazioni>>234; ciò deriva dal concreto uso sul mercato ed in particolar modo dalla pubblicizzazione del bene fatta dall’azienda produttrice. Tale impostazione è condivisa da una parte della dottrina, ed è stata anche sostenuta dalla Corte di Giustizia in alcune sue pronunce235. Ad essa possono farsi due fondamentali obiezioni: la prima deriva dal fatto che, secondo alcuni autori, l’istituto del secondary meaning non sarebbe applicabile ai marchi di forma236. Questa opinione trovava fondamento nel tenore letterale degli artt. 19 e 47bis della vecchia Legge-marchi, i quali configuravano il fenomeno della “secondarizzazione” quale deroga agli artt. 17.1 lett. a) e 18.1 lett. b), senza cioè menzionare la lettera c) di quest’ultima disposizione, la quale conteneva appunto la disciplina specifica sui marchi di forma. Già prima dell’entrata in vigore del Codice della Proprietà Industriale la migliore dottrina aveva dimostrato come una tale interpretazione fosse errata, in quanto il fenomeno del secondary meaning attiene esclusivamente alla capacità distintiva, e non ha nulla a che fare con il diverso problema dell’idoneità di una forma a costituire un valido marchio237. Inoltre, l’art. 13 CPI ha eliminato ogni possibile dubbio, in 234 Così, la più volte citata ordinanza del Tribunale di Napoli, 26 luglio 2001, in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 153 ss.. 235 Si veda in particolare, Corte di Giustizia, 7 luglio 2005, causa C-353/03, in www.eur-lex.europa.eu. In dottrina si veda, D. BRAMBILLA, Carattere individuale e capacità distintiva…, cit., p. 457; M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 12-13; G. GARGIULO, Industrial design e marchi di forma nella prospettiva…, cit., p. 435-436; L. LIUZZO, Strumenti di protezione delle forme nel campo della proprietà intellettuale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 43 ss.. 236 In particolare si veda, G. OLIVIERI, in AA. VV., Commento tematico alla legge…, cit., p. 207 ss.. 237 Per un’esauriente esposizione dei motivi che, già prima dell’entrata in vigore del Codice della Proprietà Industriale, inducevano ad ammettere l’applicabilità del secondary meaning ai marchi di 105 quanto la disciplina del secondary meaning deroga espressamente al 1° comma di tale disposizione, il quale fa riferimento a tutti i tipi di marchio privi di carattere distintivo, riferendosi poi in particolare a quelli denominativi. Del resto una conclusione diversa non avrebbe trovato alcuna giustificazione, ed anzi si sarebbe rivelata del tutto iniqua, non comprendendosi per quale ragione una forma originariamente priva di capacità distintiva, non possa acquisire tale carattere in virtù dell’uso che ne venga fatto sul mercato. Una seconda possibile obiezione alla soluzione proposta in questo lavoro potrebbe consistere nell’osservazione che, come più volte specificato dalla giurisprudenza comunitaria ed italiana238, la “secondarizzazione” non può operare in modo da rendere idonee alla registrazione forme che rientrano nelle categorie previste dall’art. 9 CPI. Si deve però precisare che la soluzione qui sostenuta non comporta affatto che le forme dotate di valore sostanziale possano venire “riabilitate” grazie al fenomeno del secondary meaning; per queste infatti, la registrazione come segno distintivo deve essere esclusa in ogni caso. Il secondary meaning potrà operare solo rispetto a forme che, nel momento dell’immissione sul mercato siano attrattive, ma non al punto da rappresentare la ragione essenziale della scelta d’acquisto. L’impostazione proposta comporta che la valutazione circa la possibilità per la forma di costituire un valido marchio debba essere compiuta ex post, nel momento in cui il prodotto sia già stato pubblicizzato ed immesso sul mercato. Ciò implica che fino al momento del successo commerciale, vale a dire fino a quando nella mente del pubblico la forma non sia divenuta indicatore dell’origine imprenditoriale del bene (ovvero “altro da sé”), l’azienda non potrà ottenere la registrazione del segno. Potrà invece usufruire in ogni caso della protezione a titolo di disegno o modello nonché, forma si veda, P. FRASSI, L’acquisto della capacità distintiva delle forme industriali, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 275 ss.. 238 In particolare si veda, Corte di Giustizia, 18 giugno 2002, causa C-299/99, in Giur. ann. dir. ind., 4464; App. Milano, 7 maggio 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2002, 4431. Il fatto che il secondary meaning non possa rendere registrabili forme dotate di valore sostanziale è stato evidenziato da diversi autori. Si vedano, P. FRASSI, ivi, p. 257 ss.; L. LIUZZO, Strumenti di protezione delle forme nel campo della proprietà intellettuale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 43 ss.; G. GARGIULO, Industrial design e marchi di forma nella prospettiva…, cit., p. 435-436; G. SENA, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale…, cit., p. 84-86. Contra, M. LAMANDINI – M. PAPPALARDO, Il difficile equilibrio tra valore sostanziale e carattere distintivo della forma…, cit., p. 332 ss.. 106 qualora il successo giunga prima che l’impresa abbia ottenuto la registrazione, della tutela del marchio di fatto. L’unico caso in cui, a nostro avviso, la validità del marchio di forma possa prescindere dal verificarsi del secondary meaning, è quello dei segni che già godono di una certa rinomanza. Qualora un’azienda conosciuta registri come marchio una forma che questa già utilizza, ad esempio come marchio denominativo o figurativo, potrà procedere immediatamente alla registrazione in quanto il segno ha da tempo assunto agli occhi dei consumatori carattere distintivo. Si pensi ai contratti di merchandising, che frequentemente hanno ad oggetto le forme che riproducono il marchio denominativo dell’impresa licenziante239. In tutti gli altri casi è invece necessario l’operare del secondary meaning: non si vede infatti come la forma del prodotto o della sua confezione possano avere da subito un significato distintivo, quando siano utilizzate per la prima volta dall’impresa produttrice. Anche qualora si tratti di prodotti aventi una configurazione particolarmente inusuale, che perciò li rende facilmente memorizzabili da parte del pubblico, sarà comunque necessario un certo periodo di tempo perché i consumatori colleghino a quella forma l’azienda produttrice; potrà allora essere sufficiente un periodo di tempo molto breve, ma in ogni caso indispensabile ai fini dell’acquisto della capacità distintiva. A conferma di ciò si può notare che qualsiasi impresa che abbia l’esclusiva su una certa forma appone in ogni caso anche il proprio marchio denominativo o figurativo sul bene contrassegnato; basti pensare alla bottiglia della Coca-Cola, sulla quale l’azienda non ha mai mancato di indicare il proprio brand240. Da quanto detto fin qui si può ricavare che il marchio di forma nasce normalmente come marchio di fatto e che, quantomeno di norma, esso è un marchio forte (in quanto avente notevole capacità distintiva, una volta conseguita l’affermazione sul mercato) e dotato di rinomanza241. 239 Cfr., V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 80-81. L’esempio è tratto da, G. GHIDINI, Un appunto sul marchio…, cit., p. 98. 241 Così, V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 50-51. 240 107 L’opportunità della soluzione individuata deriva tanto da considerazioni giuridiche quanto economiche: sotto il primo profilo essa rappresenta l’unica maniera di coordinare la disciplina sui disegni e modelli con quella del marchio di forma, ammettendo il cumulo solo in precise e limitate ipotesi. Sotto il secondo aspetto, la conclusione cui siamo giunti permette di soddisfare pienamente il principio della libertà di concorrenza, in quanto una tutela tendenzialmente perpetua viene riconosciuta solo a quei produttori che, grazie agli ingenti sforzi soprattutto in termini di investimenti pubblicitari, siano riusciti a rendere la forma realmente distintiva. Solo tali aziende meritano a nostro avviso una protezione tanto forte e duratura, che potranno eventualmente combinare con quella propria dell’industrial design; le altre potranno invece godere soltanto di tale tutela che in linea di principio consente comunque il recupero dei costi d’impresa ed un’adeguata remunerazione degli investimenti, nonché alcuni vantaggi ulteriori rispetto alla disciplina dei segni distintivi (si veda quanto evidenziato nel primo paragrafo di questo Capitolo). 108 BIBLIOGRAFIA AKERLOF G., The Market for “Lemons”: Quality Uncertainty and the Market Mechanism, in Vol. 84 Quartetly Journal of Economics, 1978. ALBERTINI C., Il caso Burberrys: marchi di forma (anche se bidimensionali) e rapport di azione di contraffazione e azione di concorrenza sleale confusoria, nota a Cass. 29 maggio 1999 n. 5243, in Giust. Civ., I, 1999. ALVANINI S., Prodotti di design e marchi tridimensionali. 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