INDICE - Camere di Commercio

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INDICE
PREMESSA ............................................................................................................................. 3
CAPITOLO I: LA DISCIPLINA DI DISEGNI E MODELLIErrore. Il segnalibro non è
definito.
1.1 Profili storici ed evoluzione dell’istituto ........................................................................ 6
1.1.1
La normativa italiana precedente l’intervento comunitario ............................. 6
1.1.2
L’intervento del legislatore comunitario ........................................................ 12
1.2
La disciplina attuale ............................................................................................... 17
1.3
Dallo speciale ornamento al carattere individuale ................................................. 25
CAPITOLO II: IL MARCHIO DI FORMA .......................................................................... 34
2.1 Profili storici ed evoluzione dell’istituto .......................................................................... 34
2.1.1 L’iniziale diffidenza nei confronti del marchio di forma ...................................... 34
2.1.2 L’intervento del legislatore comunitario ............................................................... 42
2.1.3 I limiti alla registrabilità dei marchi di forma ....................................................... 50
2.1.4 La forma che dà valore sostanziale al prodotto: l’interpretazione dominante fino al
D.lgs. 95/2001 ................................................................................................................ 55
2.2 La forma che dà valore sostanziale al prodotto: il cambio di rotta successivo al D.lgs.
95/2001............................................................................................................................... 61
2.3 Marchio di forma e concorrenza sleale ........................................................................ 69
CAPITOLO III: IL COORDINAMENTO TRA LA DISCIPLINA SUL MARCHIO DI
FORMA E QUELLA SUI DISEGNI E MODELLI .............................................................. 75
3.1 Disegni e modelli e marchi di forma a confronto: differenze e punti comuni ............. 75
1
3.2 Disegni e modelli e marchi di forma: cumulo o alternatività delle tutele? .................. 85
3.3. Marchi di forma e secondary meaning........................................................................ 99
BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................. 109
2
PREMESSA
Questo lavoro analizza il sistema normativo relativo alla tutela della forma dei
prodotti industriali, concentrandosi in particolare sull’individuazione dello specifico
ambito applicativo delle discipline concernenti i disegni e i modelli da un lato, e i
marchi di forma dall’altro.
Occorre preliminarmente precisare che il concetto di forma qui considerato è
decisamente ampio, da intendersi cioè come la sintesi di una serie di elementi
caratterizzanti il prodotto (quali le linee, il colore, il materiale con cui è realizzato ed
altri ancora), che sono oggetto di percezione sensoriale da parte del pubblico. Ci si
riferisce in sostanza alla forma come la risultante di tutti quei fattori, packaging
incluso, che contribuiscono a delineare l’identità di un prodotto, rendendolo
riconoscibile agli occhi dei consumatori.
L’oggetto della trattazione è degno d’attenzione per due fondamentali ragioni: la
prima deriva dal ruolo sempre più rilevante che la forma dei beni realizzati ha
assunto nell’ambito della produzione industriale nell’economia moderna.
E’ infatti evidente che nella società dei consumi le motivazioni che inducono a
preferire un certo prodotto, scegliendolo fra molti concorrenti, non rispondono solo
ad esigenze d’uso; fra le tante considerazioni che spingono il consumatore
all’acquisto, l’aspetto esteriore del manufatto, vale a dire il modo in cui questo si
presenta, gioca senz’altro un ruolo decisivo, talvolta persino in maniera
inconsapevole. Obiettivo costante di qualsiasi impresa è quello di suscitare
l’interesse del pubblico di riferimento: in tal senso l’apparenza del prodotto è
certamente determinante, potendo generare nel consumatore un insieme di sensazioni
ed emozioni che lo inducono all’atto d’acquisto. La forma insomma rappresenta un
mezzo di comunicazione che si pone come momento di mediazione fra
l’imprenditore
ed il suo naturale interlocutore, il consumatore, contribuendo in
misura essenziale al successo commerciale di un prodotto e dell’impresa che lo
3
realizza1. E occorre precisare che queste considerazioni non valgono solo per quelle
categorie di beni rispetto a cui l’estetica si pone come carattere essenziale (si pensi al
campo della moda), ma anche per quelle in cui essa consiste in un elemento
meramente marginale ed aggiuntivo.
Per questo motivo le imprese investono buona parte delle proprie risorse in ricerche
di marketing, studi di tecnica grafica e campagne pubblicitarie, allo scopo di
realizzare prodotti esteticamente attraenti, che catturino l’interesse del consumatore e
incidano sulle valutazioni relative alla convenienza dell’acquisto.2
Quanto al nostro Paese, è certamente possibile affermare che l’industrial design
rappresenti una della principali risorse dell’economia italiana, le cui imprese sono
leader in alcuni settori di notevole importanza quali la moda, l’arredamento,
l’oreficeria, l’oggettistica e così via3.
Inoltre l’eccellenza raggiunta nel campo del design ha consentito a molte piccole e
medie imprese, che notoriamente costituiscono il sistema portante del nostro vivere
economico, di sopravvivere nell’era della concorrenza globale.
Veniamo quindi alla seconda ragione che rende l’oggetto di questa analisi meritevole
d’attenzione: la forma di un prodotto d’uso, oltre a rispondere ad esigenze estetiche,
può al contempo assolvere ad altre e differenti funzioni, quali esprimere un’idea
artistica, risolvere un problema tecnico, o permettere di distinguere i beni realizzati
da un’azienda rispetto a quelli delle concorrenti. Pertanto l’ordinamento italiano,
integrato dalle disposizioni comunitarie, prevede diversi istituti volti a consentire la
protezione della forma: si tratta del diritto d’autore, del brevetto, dei disegni e
modelli, dei marchi ed infine della concorrenza sleale. Ciascuno di questi istituti è
informato a principi propri; l’applicazione dell’uno piuttosto che dell’altro può
quindi comportare notevoli differenze nella tutela. Tuttavia, nonostante la
1
Si veda l’intervento dell’Arch. BONETTO in Problemi della tutela del disegno industriale, in AA. VV.,
Disegno industriale e protezione europea. Convegno internazionale di Treviso 12-13 ottobre 1988,
Milano, 1989, p. 35 ss., in cui si evidenzia la fondamentale funzione svolta dal design, quale
strumento di comunicazione con il pubblico dei consumatori.
2
In questo senso: S. MAGELLI, L’estetica nel diritto della proprietà intellettuale, Padova, 1998, p. 1921; M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma e diritto d’autore, in Riv. dir. ind.,
2010, I, p. 7 ss.; S. SANDRI, La forma che dà valore sostanziale al prodotto, in Dir. Ind., 2009, p. 31 ss.
3
Si veda: G. FLORIDIA, Il regime transitorio dopo l’entrata in vigore del “cumulo”, in Dir. Ind.,2010, p.
205.
4
realizzazione di prodotti aventi forme esteticamente attraenti sia d’importanza
centrale nell’ambito della strategia aziendale, l’ordinamento non ha saputo finora
dare risposte soddisfacenti in termini di certezza del diritto. Infatti le diverse
normative che regolano la materia, prevalentemente di recente introduzione, tendono
a sovrapporsi, lasciando all’interprete il delicato compito di delimitarne con esattezza
i confini. Ciò vale in particolar modo per gli istituti che verranno esaminati
nell’ambito di questo lavoro4: come sarà ampiamente illustrato nel corso della
trattazione, la disciplina sul marchio di forma e quella relativa ai disegni e modelli
presentano diversi profili di incertezza, accentuati da una certa ambiguità delle
norme di riferimento.
Nonostante non siano mancati approfondimenti ed importanti contributi da parte
della dottrina, la soluzione di una serie di problemi interpretativi sembra non essere
stata ancora trovata. Gli autori sono infatti decisamente divisi nell’individuare i limiti
applicativi delle normative in questione, e lo stesso può dirsi a proposito della
giurisprudenza. Indubbiamente l’efficacia delle tutele predisposte dall’ordinamento
dipende, in buona parte, dalla chiarezza degli istituti di riferimento e dall’esatta
delimitazione dei loro confini; d’altra parte è evidente che senza la garanzia di
un’adeguata protezione nei confronti della contraffazione della forma dei prodotti
realizzati, nessuna impresa sarebbe interessata né stimolata ad investire in quella
direzione. E’ dunque necessario valutare con grande attenzione la disciplina dei due
sistemi normativi presi in esame (ovvero quella su disegni e modelli e sul marchio di
forma), per giungere ad individuare corretti principi di coordinamento, nel rispetto
dell’imperativo di non creare vincoli eccessivi alla libertà di concorrenza; pertanto,
con questo lavoro, si tenterà di fornire alcune indicazioni chiarificatrici e conclusive.
4
Si veda, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di) La
protezione della forma, Milano, 2007, p. 53. Secondo l’autore <<marchi di forma, disegni e modelli,
sono istituti tutti “di confine”, e talora difficilmente differenziabili, specie sotto il profilo
“ontologico”>>.
5
CAPITOLO I: LA DISCIPLINA DEI DISEGNI E
MODELLI
1.1 Profili storici ed evoluzione dell’istituto
1.1.1 La normativa italiana precedente l’intervento comunitario
La tutela di disegni e modelli può essere astrattamente ispirata a due distinti sistemi
normativi, contrapposti sotto una serie di aspetti: l’uno fondato sulla protezione
conferita tramite il diritto d’autore (c.d. copyright approach), l’altro basato sulla
tutela ottenibile attraverso l’istituto del brevetto (c.d. patent approach)5. La prima
impostazione considera il disegno o il modello come un’opera dell’ingegno di
carattere creativo assimilabile alle opere dell’arte figurativa; pertanto, un sistema di
protezione così concepito è imperniato su requisiti di tutela non severi6, sull’assenza
di formalità costitutive e sul riconoscimento di un lungo periodo di protezione7.
L’approccio fondato sull’archetipo brevettuale invece, prevede che la protezione sia
subordinata alla concessione, da parte dell’autorità amministrativa competente, di un
titolo, il cui rilascio dipende dalla sussistenza di alcuni requisiti piuttosto selettivi8.
Inoltre la durata della tutela è ben più limitata rispetto a quella del diritto d’autore.
5
Si veda, per tutti, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di),
La protezione…, cit., p. 54 ss.
6
Il diritto d’autore infatti, tutela qualsiasi opera che sia riconducibile all’apporto personale di chi l’ha
realizzata, indipendentemente dal merito, dunque prescindendo dal suo valore artistico. Così, P.
AUTERI, in AA. VV., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2009, p. 532.
7
La tutela conferita dal diritto d’autore ha una durata di settanta anni, decorrenti dalla morte
dell’artista.
8
Requisiti, come quelli della novità e dell’attività inventiva, la cui previsione ha lo scopo di consentire
una selezione delle creazioni da tutelare fondata, in un certo senso, sul merito. Così, P. AUTERI, in
AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 532.
6
La natura “ibrida” delle opere di design (la cui realizzazione, pur finalizzata
all’applicazione industriale, richiede necessariamente un certo apporto creativo)9 ne
consente, in linea teorica, la riconducibilità sia all’uno che all’altro modello; perciò
alla base della scelta, operata da ciascun ordinamento, di optare per un’impostazione
piuttosto che per l’altra, vi sono considerazioni di carattere ideologico ed
economico10. In sostanza la soluzione dipende da come i diversi ordinamenti
decidano di contemperare i contrapposti interessi in gioco: da un lato l’interesse
dell’autore ad essere remunerato per il proprio sforzo creativo, dall’altro quello della
collettività alla fruizione dei risultati ottenuti nel campo qui esaminato.
L’ordinamento italiano, in un primo momento, aveva decisamente optato per il
modello brevettuale11.
Infatti il R.D. 25 agosto 1940, n. 1411 (c.d. Legge-Modelli) disciplinava i modelli
industriali, distinguendoli in due categorie: la prima costituita dai disegni e modelli
9
Si veda, M. FRANZOSI, Design italiano e diritto italiano del design: una lezione per l’Europa?, in Riv.
dir. ind., 2009, I, p. 71 ss.; M.A. PEROT-MOREL, Le systeme français de la double protection des
dessins et modeles industriels, in AA. VV., Disegno industriale e protezione europea…, cit., p. 42-43
<<nous ne sommes pas sur un terrain juridique précis: les créations qu’il convient de protéger ont, en
effet, une nature double […] leur nature hybride les situe au “carrefour de l’art et de l’industrie” de
telle sorte qu’elles se trouvent inévitablement écartelées entre deux formes de protection très
différentes>>; A. A. QUAEDVLEG, Three times a Hybrid, in AA. VV., Intellectual Property and
Information Law, London-Boston, 1998, p. 49; J. H. REICHMAN, Legal Hybrids between the Patent
and Copyright Paradigms, in Col. Law Rev., 1994, p. 2423 ss. .
10
La dottrina, italiana ed europea è da sempre divisa circa l’opportunità di inquadrare il design nel
sistema del diritto d’autore o in quello della tutela brevettuale. Secondo alcuni autori
l’inquadramento delle opere dell’industrial design nell’ambito del diritto d’autore sarebbe
inaccettabile, sia per la diversità ontologica esistente fra queste e le creazioni dell’arte
tradizionalmente intesa, sia per le conseguenze economiche cui questo porterebbe, in quanto la
lunga durata della tutela autoriale distorcerebbe il mercato in senso monopolistico. Fra questi, F.
BENUSSI, La tutela del disegno industriale, Milano, 1975, p. 183-184; C. FELLNER, La protezione del
disegno industriale nel Regno Unito: diritto d’autore, disegni registrati, non registrati…e che altro
poi?, in AA. VV., Disegno industriale e protezione europea…, cit., p. 85 ss.. Altri autori, al contrario,
ritengono che le opere dell’industrial design siano in ogni caso frutto dell’apporto creativo
dell’autore, reso inoltre più difficoltoso dall’esigenza di rispettare determinate caratteristiche
tecnico-funzionali. Per questo sostengono la necessità di assimilare il design alle altre opere
dell’ingegno; soluzione che, secondo tali autori, non causerebbe gravi effetti anticoncorrenziali. Tra
questi, M. FRANZOSI, Arte e diritto, in Riv. dir. ind., 1977, I, p. 294; H. C. JEHORAM, Cumulative design
protection, a system for the EC?, in AA. VV., Disegno industriale e protezione europea…, cit., p. 55 ss.;
G. SENA, Industrial design e diritto d’autore, in Riv. dir. ind., 1991, II, p. 25.
11
Per tutti, R. BICHI, in AA. VV., Segni e forme distintive. La nuova disciplina. Atti del Convegno di
Milano 16-17 giugno 2000, Milano, 2001, p. 239, secondo il quale si trattava di <<una protezione che
svolge la funzione tipica dell’istituto brevettuale: difendere e premiare un’idea nuova attraverso il
riconoscimento del diritto allo sfruttamento esclusivo dell’idea stessa: ciò rende necessario che
sussista un pregio estetico che lo caratterizzi, in modo autonomo>>.
7
ornamentali, la seconda dai modelli di utilità. Tali istituti erano, da un punto di vista
concettuale, difficilmente accostabili, pur avendo entrambi ad oggetto la forma
nuova di un prodotto industriale. Infatti il brevetto ottenibile su un modello di utilità
tutelava (e tutela tutt’oggi) le forme nuove, in quanto dessero al prodotto una
specifica efficacia o comodità funzionale. Diversamente, la privativa concessa per un
disegno o un modello ornamentale12 proteggeva l’aspetto esterno del prodotto che
fosse privo di valori funzionali, ed avente dunque un rilievo puramente estetico.
Solo con la L. 14 febbraio 1987, n. 6013 le due categorie in esame vennero
effettivamente distinte quanto a trattamento: difatti, in seguito alla profonda revisione
della disciplina sulle invenzioni industriali14 (resasi necessaria per armonizzarla con
quella contenuta nella Convenzione sul Brevetto Europeo15), il legislatore prese atto
della distanza esistente tra modelli di utilità e disegni e modelli ornamentali, e della
maggiore affinità che legava i primi alle invenzioni industriali. Così la L. 60/1987
introdusse una serie di differenze all’interno delle discipline dei due istituti,
provocando un primo allontanamento del sistema di tutela del design dai tradizionali
principi del modello brevettuale: fra i cambiamenti più significativi in tal senso
occorre menzionare l’eliminazione di qualsiasi previsione di decadenza del brevetto
per mancanza d’uso. Ciò significa che il titolare del disegno o modello è stato
affrancato dall’onere di attuazione, potendo quindi decidere, senza condizionamenti,
in merito allo sfruttamento della propria opera. Tale posizione di libertà è inoltre
stata accentuata, prevedendo l’inapplicabilità ai disegni e modelli delle norme sulle
licenze obbligatorie16.
12
Occorre precisare che la tradizionale distinzione fra disegni e modelli industriali è fondata sulla
natura bidimensionale dei primi e tridimensionale dei secondi; tale ripartizione compare nel testo
italiano della Direttiva CE 98/71 come traduzione del termine inglese “design”, che include tanto i
disegni quanto i modelli.
13
Tale legge ha armonizzato la disciplina vigente con le disposizioni dell’Accordo de l’Aja, del 6
novembre 1925, ratificato dall’Italia con la l. 24 ottobre 1980, n. 744.
14
Revisione operata con il D.P.R. 22 giugno 1979, n. 338
15
La Convenzione sulla Concessione dei Brevetti Europei è stata stipulata a Monaco, il 5 ottobre
1973.
16
La scelta è fondata sulla considerazione che il disegno o modello ornamentale si distingue
radicalmente dall’invenzione e dal modello di utilità proprio in quanto il campo della sua
applicazione è quello dell’estetica. Per questo si è ritenuto che, pur trattandosi di un contributo
meritevole di compenso, non fosse necessario il contrappeso dell’onere di attuazione, privilegiando
in tal modo l’interesse del titolare del diritto. In sostanza il legislatore ha reputato sufficiente per la
soddisfazione dell’interesse generale, l’acquisizione al patrimonio culturale che avviene grazie al
8
Questa precisazione si rivelerà utile più avanti, quando verranno confrontate le
discipline dei due istituti oggetto di questo lavoro, trattandosi di uno dei punti di
differenza fra le stesse.
L’accostamento dei disegni e modelli all’istituto del modello di utilità rappresentava
un primo segnale dell’adesione ad un modello di tutela ispirato a quello brevettuale.
Ulteriori sintomi di tale scelta erano individuabili nell’art. 1 della Legge-Modelli, che
conteneva un generale rinvio alla disciplina sulle invenzioni industriali ( R.D. n.
1127/1939 ), in quanto applicabile, nonché nel fatto che il titolo della protezione
fosse in ogni caso un brevetto. Ma soprattutto, indice di tale opzione era il requisito
dello “speciale ornamento”, cui faceva riferimento l’art 5 del R.D. n. 1411/1940. La
disposizione infatti stabiliva: << possono costituire oggetto di brevetti per modelli e
disegni ornamentali i nuovi modelli e disegni atti a dare a determinati prodotti
industriali uno speciale ornamento, sia per la forma, sia per una particolare
combinazione di linee, di colori o di altri elementi >>. In base a questa norma la
protezione poteva essere accordata solo alle forme esteticamente più significative,
dotate di un certo livello di “ornamentalità”17: è dunque evidente l’affinità con il
modello brevettuale che, come già visto, è stato sempre caratterizzato dalla
previsione di requisiti d’accesso alla tutela piuttosto severi18.
E’ necessario soffermarsi ancora sul criterio dello speciale ornamento, in quanto,
come ampiamente vedremo nel prosieguo della trattazione, questo aveva assunto un
rilievo sistematico particolarmente significativo nel regime normativo previgente.
Dottrina e giurisprudenza maggioritarie, infatti, avevano individuato in tale requisito
la linea di demarcazione fra la tutela brevettuale del design e quella ottenibile
deposito, nonché la caduta in pubblico dominio a seguito della scadenza del brevetto.
Evidentemente tale soluzione impone la previsione di inapplicabilità delle licenze obbligatorie: del
resto, trattandosi di creazioni estetiche, ben difficilmente ci si troverebbe in una situazione di grave
sproporzione con i bisogni del Paese, che giustifichi la concessione della licenza. In tal senso, G.
FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 285-286; S. MAGELLI, L’estetica nel diritto…, cit., p.
70-71.
17
Così, A. VANZETTI - V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, p. 67.
18
Attualmente la legge indica fra le condizioni necessarie per il conseguimento del brevetto il
requisito dell’attività inventiva: l’art. 48 del codice della proprietà industriale specifica che
un’invenzione è considerabile come implicante un’attività inventiva se non risulta in modo evidente
dallo stato della tecnica, per una persona esperta del ramo. Tale requisito dunque rappresenta il
termine con cui viene definita l’originalità dell’invenzione, consistendo, in sostanza, nella
misurazione dell’apporto creativo dell’inventore. In tal senso, G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto
industriale…, cit., p. 254 ss..
9
attraverso la registrazione della forma come marchio (nonché quella concorrenziale
contro l’imitazione servile)19. Tuttavia non vi era uniformità di vedute circa la
definizione di tale parametro: le principali interpretazioni che ne furono date erano
variamente articolate sul più o meno accentuato grado di capacità estetico-innovativa
del disegno o modello.
Il significato attribuito dalla dottrina maggioritaria al criterio dello speciale
ornamento, in sostanza, era che questo imponesse la presenza di un pregio estetico,
ovvero di un apporto meritevole di essere premiato con la concessione di un diritto di
esclusiva20. I vari autori erano però divisi nell’individuare il contenuto di tale
contributo, che secondo alcuni doveva essere decisamente ampio, al punto da
provocare un progresso nell’estetica, elevando la forma al di sopra del normale
divenire del gusto del settore21. Altri invece ritenevano che il criterio in questione
prescindesse dal raggiungimento di qualsiasi livello, reputando sufficiente un apporto
estetico minimo.
Ulteriori divergenze derivavano dal fatto che ad un’interpretazione oggettiva, fondata
sulla convinzione che lo speciale ornamento fosse un parametro da applicarsi in
modo costante, se ne contrapponeva un’altra, che lo articolava in maniera diversa, a
seconda del settore merceologico cui apparteneva il prodotto. In base a quest’ultima
opinione se il bene cui il disegno o modello ineriva apparteneva ad un genere
affollato, il grado di originalità necessario poteva essere modesto; mentre il
contributo estetico doveva essere più consistente nel caso di prodotti appartenenti a
settori merceologici poco affollati22.
E’ dunque chiaro che lo speciale ornamento era parametro piuttosto ambiguo: ciò
non solo per la difficoltà di individuarne gli esatti contorni, ma soprattutto per il suo
19
Si veda per tutti, A. VANZETTI, I diversi livelli di tutela delle forme ornamentali e funzionali, in Riv.
dir. ind., 1994, I, p. 331 ss..
20
Si veda, V. DI CATALDO, I brevetti per invenzione e per modello, in Commentario al Codice Civile
diretto da P. SCHLESINGER, Milano, 1988, p. 219, secondo il quale non vi sarebbe altrimenti ragione
<<per offrire il monopolio a chi fa solo ciò che (seppur nuovo) rientra nell’ambito del normale, del
consueto, del fattibile da chiunque>>.
21
Si veda, R. BICHI, La tutela della forma del prodotto e le nuove prospettive introdotte dalla Direttiva
comunitaria n. 71/98 in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 240; E. BONASI BENUCCI La tutela
della forma nel diritto industriale, Milano, 1963, p. 266; Cass., 1869/1965, in cui la Corte ha
affermato che il modello ornamentale, oltre ad essere nuovo, dovesse <<trasmettere all’esperto del
settore dell’arte pertinente la ben fondata sensazione di una nuova estetica>>.
22
Si veda, S. MAGELLI, L’estetica nel diritto…, cit., p. 76.
10
carattere irriducibilmente soggettivo. Il fatto che tale requisito fosse legato a concetti,
(quali la creatività e la bellezza) anch’essi di non facile definizione, provocava
notevoli incertezze circa l’applicazione della disciplina sui disegni e modelli23. Per
questa ragione, in un secondo momento si andò progressivamente accreditando,
presso una parte di dottrina e giurisprudenza, un diverso criterio interpretativo,
fondato sul valore di mercato assunto dalla forma presso il pubblico. In base a questa
opinione, derivante dall’esigenza di rendere quanto più possibile oggettivo il
parametro, lo speciale ornamento doveva essere inteso come capacità della forma di
orientare le scelte d’acquisto; il che comunque significava ritenere meritevoli di
tutela i disegni o i modelli che presentassero caratteristiche estetiche notevoli, in
quanto rilevanti nell’apprezzamento dei consumatori24.
Come già accennato, il requisito dello speciale ornamento era il perno attorno al
quale ruotava l’intero sistema relativo alla tutela della forma: infatti in base alla tesi
più accreditata, anche in giurisprudenza, la protezione brevettuale sarebbe stata
appannaggio delle forme esteticamente più significative, per le quali si avvertiva
l’esigenza di ordine pubblicistico di evitare una monopolizzazione perpetua25.
Sarebbero state invece registrabili come marchio, nonché tutelabili contro la
concorrenza sleale per imitazione servile, le forme che non raggiungessero la soglia
dello speciale ornamento, in quanto, ovviamente dotate di capacità distintiva.
Il legislatore aveva dunque ritenuto che sussistesse un generale interesse alla caduta
23
In tal senso, L. LIUZZO Modelli, disegni, forme, marchi tridimensionali e la loro tutelabilità alla luce
della nuova disciplina, in Dir. ind., 2002, p. 213 ss.; l’autore evidenzia come il requisito dello speciale
ornamento desse adito a giudizi soggettivi, <<rischiando di trascinare i giudicanti dalla loro
immediata percezione della forma estetica assoggettandola al loro gusto o addirittura alle mode
momentanee>>.
24
Si tratta della tesi sostenuta da D. SARTI, La tutela dell’estetica del prodotto industriale, Milano,
1990, p. 255 ss.; e da A. VANZETTI I diversi livelli di tutela delle forme…, cit., p. 419. Tuttavia, mentre
il primo autore riteneva sufficiente che la forma influisse sull’apprezzamento del pubblico, pur senza
indurlo necessariamente all’acquisto, il secondo sottolineava che lo speciale ornamento doveva
sostanziarsi in una vera e propria ragione d’acquisto. In tal senso, Trib. Milano 27 luglio 1998, in
Giur. ann. dir. ind., 1998, 844; Trib. Milano 16 aprile 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1998, 3807. Invece,
nel senso che lo speciale ornamento rendesse la forma semplicemente più attraente, Cass. Civ. 7
dicembre 1994 n. 10516, in Giur. ann. dir. ind., 1995, 3030; Cass. Civ. 2 settembre 1997 n. 8400, in
Giur. ann. dir. ind., 1997, 3575.
25
Pertanto la privativa accordata dall’ordinamento aveva una durata temporale piuttosto limitata
(quindici anni dalla data del deposito). Il sistema di tutela previsto aveva anche l’implicito scopo di
fungere da stimolo al superamento della soluzione brevettata, da parte di altri soggetti. In tal senso,
S. MAGELLI, L’estetica nel diritto…, cit., p. 58 ss..
11
in pubblico dominio delle forme ornamentali; cosicché, ove simili forme non fossero
state brevettate, o ove il brevetto fosse scaduto, non se ne ammetteva la tutela contro
l’imitazione servile, né la registrabilità come marchio26.
Tuttavia, le conseguenze di tale impostazione venivano frequentemente attenuate
dalla giurisprudenza, tramite l’applicazione della cosiddetta teoria delle varianti
innocue; teoria in base alla quale il principio della libera imitabilità delle forme
ornamentali non coperte da brevetto trovava un limite nell’obbligo dell’imitatore di
attivarsi per prevenire il rischio di confusione. Tale tesi, tutt’oggi accreditata, è
fondata sulla convinzione che l’estetica dei beni industriali sia la risultante di una
serie di elementi e dettagli, i quali non sempre contribuiscono tutti alla funzionalità
della forma. Ne deriva l’obbligo per l’imitatore di introdurre nel prodotto modifiche
(ovviamente non pregiudizievoli per le qualità tecniche e di gradevolezza) o di
adottare gli accorgimenti necessari (ad esempio l’apposizione del proprio marchio) in
modo da evitare la confondibilità sull’origine dei prodotti in conflitto27.
1.1.2 L’intervento del legislatore comunitario
La normativa sui disegni e modelli è mutata radicalmente in seguito all’intervento
del legislatore comunitario. Come già evidenziato, l’estetica dei prodotti industriali è
divenuta, nel corso degli ultimi decenni, uno strumento concorrenziale sempre più
26
G. MONDINI, La Direttiva Comunitaria sulla protezione giuridica di disegni e modelli, in Nuove leggi
civ. comm., 1999, p. 997, osserva che << se la ragione del limite temporale alla tutela brevettuale
risiede nell’interesse generale alla libera utilizzabilità delle innovazioni estetiche, è evidente che,
allorché una forma, pur gradevole, non raggiunga livelli peculiari di creatività ornamentale, viene
meno anche l’interesse alla sua caduta in pubblico dominio e prevale, pertanto, l’interesse
individuale dell’imprenditore di evitare fenomeni di imitazione confusoria >>.
27
Fra gli autori che sostengono tale teoria si vedano, E. BONASI BENUCCI, La tutela della forma…,
cit., p. 107 ss.; P. MARCHETTI, Riflessioni sui rapporti tra disciplina concorrenziale contro la
confondibilità e tutela brevettuale, in AA. VV., Problemi attuali del diritto industriale. Volume
celebrativo del XXV° anno della Rivista di diritto industriale, Milano, 1977, p. 753 ss.; D. SARTI, La
tutela dell’estetica…, cit., p. 50 ss.. La Corte di Cassazione ha espresso per la prima volta
compiutamente la teoria in esame nella sentenza del 27 maggio 1960, n. 1384, in Riv. dir. ind., 1960,
II, p. 121. A tale pronuncia ne sono seguite molte altre; tra queste: Cass. 10 settembre 1974 n. 2449,
in Giur. ann. dir. ind., 1974, 469; Cass. 18 settembre 1986 n. 5562, in Giur. ann. dir. ind., 1987, 2097;
App. Bologna, 8 gennaio 1994, in Giur. ann. dir. ind., 1994, 593; App. Milano 22 giugno 2001, in Giur.
ann. dir. ind., 2001, 4354. In senso contrario invece, V. DI CATALDO, L’imitazione servile, Milano,
1979, 197 ss.; G. GHIDINI Della concorrenza sleale, Torino, 2001, p. 165 ss.; Cass. 29 settembre 1978
n. 4355, in Giur. ann. dir. ind., 1978, 1011.
12
importante, in quanto elemento capace di garantire alle imprese un vantaggio
competitivo sulle concorrenti. Pertanto la disciplina dell’istituto in esame è stata
oggetto di specifico interesse da parte del legislatore europeo, sia nella prospettiva
della realizzazione di un mercato unico, sia sotto il profilo giuridico dell’attuazione
di un ordinamento comunitario. Inoltre, l’esigenza di armonizzazione di tale settore
era stata evidenziata, negli anni precedenti, non solo dalla dottrina28, ma anche dalla
Corte di Giustizia, in relazione al particolare tema della tutela dei pezzi di ricambio
per autoveicoli29. Determinanti sono state pure le pressioni dei diversi settori del
mondo imprenditoriale, che hanno a lungo lamentato l’insufficienza della protezione
offerta dai diversi ordinamenti europei e l’inadeguatezza di un approccio incapace di
cogliere l’importanza economica dell’industrial design30.
I diversi approcci adottati dai vari Stati membri rispetto al sistema di tutela di disegni
e modelli31 causarono un ampio dibattito su quale fosse il modello normativo
preferibile per tale categoria di opere; dibattito particolarmente acceso nel corso dei
lavori preparatori dell’intervento comunitario. Del resto non erano d’aiuto neppure le
convenzioni internazionali aventi ad oggetto la materia in esame: infatti, prendendo
in considerazione la Convenzione di Unione di Parigi (agli artt. 2 e 5-quinquies) e
l’accordo TRIPs (all’art 25), si può notare che entrambi32 si limitano ad imporre ai
Paesi aderenti di garantire la protezione di disegni e modelli, senza però optare per il
sistema basato sul diritto d’autore, piuttosto che per quello fondato sul modello
brevettuale.
28
Si veda: M. A. PEROT-MOREL, in AA. VV., Disegno industriale e protezione europea…, cit., p. 41-42;
H. C. JEHORAM Cumulative design protection, a system for the EC? ivi, p. 55.
29
Corte di Giustizia 14 settembre 1982, causa C-144/81, in Racc. giur. Corte, 1982, 2853; Corte di
Giustizia 5 ottobre 1988, causa C-53/87, in Giur. ann. dir. ind., 1988, 2360.
30
In tal senso, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La
protezione…, cit., p. 52, il quale afferma che le riforme legislative in esame sono il frutto delle
pressioni lobbistiche, soprattutto delle imprese operanti nel campo della moda e del design.
31
In alcuni ordinamenti, infatti, prevaleva una protezione basata sul diritto d’autore: è il caso della
Francia, della Grecia ( dove non esisteva neppure una legge specifica sul design ) e del Benelux. Negli
altri paesi europei, invece, la protezione di disegni e modelli era garantita da una legge ad hoc,
basata sulla registrazione. Si veda, L. C. UBERTAZZI ( estratto da ), Codice della proprietà industriale.
Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Padova, 2009, p. 175.
32
Si tratta delle due principali convenzioni internazionali che regolamentano la materia dei disegni e
modelli. La Convenzione di Parigini per la Protezione della Proprietà industriale, alla quale
aderiscono oltre 160 Paesi, è datata 1883, ed è stata più volte rivista e modificata attraverso vari
trattati. Il TRIPs Agreement invece è stato promosso nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del
Commercio e sottoscritto a Marrakech nel 1994.
13
Solo dopo un lungo iter33 la Comunità Europea giunse all’adozione della Direttiva n.
71/98/CE del 13 ottobre 1998, sulla protezione giuridica dei disegni e modelli, cui
l’Italia ha dato attuazione con il D.lgs. 2 febbraio 2001, n. 9534 (successivamente
integrato dal D.lgs. 12 aprile 2001, n. 164 e dal D.lgs. 2 febbraio 2002, n. 26). Tale
disciplina è stata in seguito affiancata da quella del Regolamento 6/2002/CE, del 12
dicembre 2001, ampiamente ispirato agli stessi principi introdotti dalla Direttiva.
Servendosi di questi due strumenti normativi il legislatore comunitario ha potuto
tenere conto della situazione normativa esistente nei diversi Stati membri, senza
d’altro canto trascurare l’obiettivo fondamentale, ovvero la realizzazione del mercato
unico. Infatti, attraverso lo strumento della Direttiva si sono potute eliminare le
differenze più rilevanti che caratterizzavano le diverse impostazioni seguite nei Paesi
europei, in modo da rendere comuni i concetti basilari della materia; con il
Regolamento, invece, si è istituito un titolo comunitario unico e valido nell’intero
territorio dell’Unione Europea35.
Pertanto il sistema comunitario di tutela del design risulta articolato su due livelli: il
primo costituito dalle diverse leggi nazionali, il cui oggetto di protezione consiste nei
disegni e modelli registrati presso i vari Uffici nazionali competenti. Il secondo,
europeo, istituito dal Regolamento 6/2002, che ha introdotto due titoli di privativa,
vale a dire uno sul disegno o modello comunitario registrato (presso l’Ufficio per
l’armonizzazione del mercato interno di Alicante), per un periodo massimo di
venticinque anni; l’altro sui disegni e modelli non registrati, avente la limitata durata
33
Il Max-Plack-Institut di Monaco di Baviera presentò un progetto di regolamento comunitario il 3
aprile 1990. Nel giugno del 1991, la Commissione CE pubblicò il Libro Verde sulla tutela giuridica dei
disegni industriali ( Doc III/F/5131/91), nonché un progetto di direttiva e di regolamento, in buona
parte ispirati al lavoro del MPI. Si veda V. DI CATALDO, D. SARTI, M. SPOLIDORO, Riflessioni critiche
sul libro Verde della Commissione delle Comunità Europee sulla tutela giuridica dei disegni industriali,
in Riv. dir. ind., 1993, I, p. 49 ss.; per alcuni stralci del Libro Verde, in Riv. dir. ind., 1991, II, 238 ss..
Alla pubblicazione del Libro Verde seguirono due anni di consultazioni di esperti e di gruppi
interessati, dopo i quali si giunse, nel dicembre 1993, alla presentazione della Proposta di Direttiva, e
di quella di Regolamento, da parte della Commissione. Il Parlamento europeo ed il Consiglio
arrivarono poi ad un accordo solo nel ’98, quanto alla Direttiva, e nel 2001, per il Regolamento. Sulla
normativa comunitaria v. G. FLORIDIA, La nuova direttiva sulla protezione giuridica dei disegni e dei
modelli. Presentazione, in Dir. ind., 1998, p. 284; D. SARTI, Il sistema di protezione comunitario dei
disegni e modelli, in Contr. e impresa Europa, 1999, p. 751 ss..
34
Il legislatore interno ha adottato la tecnica della novellazione, modificando incisivamente il R.D.
1411/1940, nonché alcune disposizioni della legge sul diritto d’autore, la n. 633 del 22 aprile 1941.
35
Vedremo, nel prosieguo della trattazione, che la stessa metodologia è stata adottata, a livello
comunitario, per l’introduzione della disciplina sul marchio.
14
di tre anni, decorrenti dal momento in cui l’opera viene messa a disposizione del
pubblico36.
In seguito all’intervento comunitario la disciplina nazionale ha subito un
cambiamento radicale, essendo stata uniformata ad un’impostazione decisamente
diversa rispetto alla precedente, e a principi che le erano del tutto estranei37. Si può
certamente affermare che l’approccio adottato non sia più riconducibile, quantomeno
completamente, all’archetipo brevettuale: la Direttiva 98/71 e il suo recepimento da
parte del legislatore interno rappresentano il culmine di un processo di progressivo
affrancamento della disciplina del design dal c.d. patent approach.
L’ordinamento comunitario è infatti giunto ad una soluzione di compromesso,
caratterizzata dalla presenza di elementi propri di entrambi i modelli normativi di
riferimento, elaborando un sistema di tutela complesso ed originale, vicino
all’impianto dei segni distintivi e del diritto d’autore. Con le riforme in esame si è
realizzata una sistematizzazione della materia, riconfigurando la stessa nozione di
disegno e modello industriale, rielaborandone i requisiti di proteggibilità, il
contenuto della tutela, nonché i rapporti con le altre forme di protezione38. Quasi a
voler rimarcare il cambiamento è stato abbandonato il termine stesso di brevettazione
(essendo ora il titolo definito registrazione) nonché l’aggettivo “ornamentali”,
36
L’introduzione di tale istituto rappresenta una novità per l’ordinamento italiano, che peraltro non
lo prevede direttamente. In tal modo il legislatore comunitario ha inteso soddisfare l’esigenza di
alcuni settori industriali di ottenere una tutela svincolata da formalità costitutive, potendo così
presentare il prodotto al pubblico e verificarne la reazione, senza il rischio di perdere l’esclusiva sulla
forma ideata. Si veda, F. TERRANO, Brevi note sul design comunitario, in Dir. ind., 2004, p. 17 ss.; S.
GIUDICI, Il design non registrato, in Riv. dir. ind., 2007, I, p. 199 ss. L’autrice sottolinea che il diritto
conferito con tale privativa avrebbe lo stesso contenuto di quello ottenibile con la registrazione; la
differenza starebbe perciò, nell’inversione dell’onere della prova in capo al titolare del diritto, dovuta
al fatto che l’atto costitutivo, in questo caso è costituito dalla divulgazione, anziché dal deposito della
domanda di registrazione.
37
Così, G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 287-288; S. GIUDICI, La protezione
giuridica dei disegni e dei modelli, in Riv. dir. ind., 2001, II, p. 60 ss.; A. VANZETTI - V. DI CATALDO,
Manuale…, cit., p. 67. Parte minoritaria della dottrina ha invece svalutato il carattere innovativo della
nuova disciplina. In tal senso, S. ERCOLANI, Il disegno industriale tra brevetto, registrazione e diritto
d’autore, in Riv. dir. autore, 2001, p. 443 ss.; M. PANUCCI, La nuova disciplina italiana dell’ “industrial
design”, in Dir. ind., 2001, p. 125.
38
In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura
di) La protezione…, cit., p. 10; A. FITTANTE, Industrial design: durata ed entrata in vigore, in Dir. ind.,
2007, p. 213.
15
relativo ai disegni e modelli39; inoltre il riconoscimento di un diritto di esclusiva sul
design non registrato rappresenta un importante segnale di avvicinamento al sistema
del copyright40.
Ma il cambiamento più significativo è stato senz’altro realizzato con l’eliminazione
del requisito dello “speciale ornamento”, e la sua sostituzione con quello del
“carattere individuale”. La portata di tale innovazione verrà analizzata nel prosieguo
della trattazione; è però necessario sottolineare fin d’ora che in questo modo la
Direttiva 98/71 ha esteso la tutela a caratteristiche esteriori del prodotto cui sia
ricollegabile un valore economico, in quanto rilevanti nell’apprezzamento del
pubblico, a prescindere dal pregio estetico.
Il legislatore comunitario ha inteso ovviare all’insufficiente protezione dell’industrial
design adottando un approccio più realistico al fenomeno, capace di coglierne
l’importanza economico-concorrenziale41. Volendo esprimere sinteticamente la
portata innovativa della regolamentazione introdotta, possiamo affermare che,
mentre nel sistema precedente disegni e modelli erano concepiti come creazioni
capaci di determinare un progresso nell’estetica dei prodotti realizzati, a seguito della
riforma sono piuttosto considerati semplici strumenti di un marketing creativo,
ovvero elementi decisivi nella gara concorrenziale. Per questo motivo alcuni autori
hanno parlato di “market approach”, o ancora di “design approach” per sottolineare,
da un lato l’impossibilità di ricondurre il nuovo assetto giuridico al paradigma della
protezione brevettuale o a quello del diritto d’autore; dall’altro la novità
dell’impostazione seguita, in quanto diretta a tutelare gli investimenti economici
39
In tal senso, A. VANZETTI - V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 515-516. I due autori ritengono che i
due cambiamenti terminologici sopra evidenziati, sottolineino il fatto che la tutela non è più
condizionata al raggiungimento di un certo livello estetico
40
Infatti l’assenza di formalità costitutive rende tale privativa accostabile al diritto d’autore, dal
quale però si differenzia per la breve durata dell’esclusiva, per la fattispecie costitutiva e per i diversi
requisiti di protezione.
41
Si veda, R. BICHI, La tutela della forma del prodotto e le nuove prospettive introdotte dalla direttiva
comunitaria n. 71/98, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 245, il quale non condivide
l’impostazione adottata dal legislatore comunitario, ritenendo che una protezione della forma che
prescinde da valutazioni estetiche sia rischiosa, in quanto <<l’industria che innova è piccola cosa,
rispetto all’industria che produce, anche ispirandosi e imitando e che è in grado di rispondere a vaste
esigenze di consumo: estendere il sistema a situazioni di privativa […] per reprimere il parassitismo,
comprime il sistema industriale nel suo insieme.>>
16
delle imprese, indipendentemente dal valore ornamentale della forma realizzata per
un certo prodotto42.
Vedremo nel corso della trattazione che, con la Direttiva 98/71/CE, e con la sua
attuazione da parte del legislatore italiano, si è verificata un’evidente frattura
nell’equilibrio di complementarietà prima sussistente fra marchi di forma, tutela
concorrenziale e disegni e modelli. La riforma in questione ha condotto infatti ad una
riconsiderazione dell’intero sistema relativo alla tutela della forma, comportando
significativi cambiamenti nell’assetto complessivo della materia43.
1.2 La disciplina attuale
Il legislatore italiano ha adottato recentemente il Codice della Proprietà Industriale,
D.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, che tuttavia non ha apportato modifiche rilevanti alla
disciplina di disegni e modelli44. In tale materia, dunque sono state semplicemente
accorpate e riordinate le norme, già anteriormente armonizzate alla Direttiva.
Possiamo pertanto passare all’analisi dell’assetto giuridico attualmente vigente. Il
Codice della Proprietà Industriale dedica alla materia dei disegni e modelli la sezione
42
In tal senso, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di) La
protezione…, cit., p. 69, secondo cui <<la legge modelli sembra prendere ormai in considerazione la
forma, quantomeno di riflesso, anche a tutela della sua funzione distintiva, della capacità
identificativa dell’imprenditore, lasciandone in secondo piano il pregio estetico.>>; G. DALLE
VEDOVE, Dal modello ornamentale all’industrial design, in Riv. dir. autore, 2001, p. 334; V. M. DE
SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice della proprietà industriale, Milano, 2009, p.
132; G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 287-288; G. MONDINI, La Direttiva
Comunitaria sulla protezione giuridica…, cit., p. 973; D. SARTI, Il sistema di protezione comunitario…,
cit., p. 751; S. SANDRI, L’utilizzatore informato nel design, in Dir. ind., 2006, p. 412, il quale afferma
che, in seguito alle riforme in esame, il design ha assunto la dignità di titolo autonomo di proprietà
industriale.
43
Così, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La
protezione…, cit., p. 12; G. CASABURI, La nuova disciplina dei disegni e modelli e la disciplina dei
marchi: interferenze e parallelismi, in Dir. ind., 2003, p. 110 ss.; G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto
industriale…, cit., p. 288; G. GARGIULO Industrial design e marchi di forma nella prospettiva del
secondary meaning, in Dir. ind., 2008, p. 432; M. LAMANDINI – M. PAPPALARDO, Il “caso Smart” e il
“valore sostanziale della forma”, in Dir. ind., 2008, p. 546; A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…,
cit., p. 69; A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge marchi, Milano, 2001, p. 142.
44
Il Codice della Proprietà industriale è stato adottato in attuazione della legge delega del 12
dicembre 2002, n. 273, recante “misure per favorire l’iniziativa privata e lo sviluppo della
concorrenza”. Si è così realizzato un riassetto dell’intera disciplina relativa alla proprietà industriale,
secondo criteri di omogeneità, chiarezza e semplificazione; pertanto il Regio Decreto 1411/1940 è
stato abrogato, a seguito dell’entrata in vigore del suddetto Codice.
17
III del capo II, composta dagli artt. dal 31 al 44. L’art. 31 comincia con l’individuare
l’oggetto della tutela. Il suo primo comma recita: <<possono costituire oggetto di
registrazione come disegni e modelli l’aspetto dell’intero prodotto o di una sua parte
quale risulta, in particolare, dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori,
della forma, della struttura superficiale ovvero dei materiali del prodotto stesso
ovvero del suo ornamento, a condizione che siano nuovi ed abbiano carattere
individuale>>45.
Tale disposizione riproduce il contenuto dell’art. 5 della Legge-modelli, nella
versione successiva alla novellazione operata col D.lgs. 95/2001. La definizione
dell’oggetto della protezione comprende dunque qualsiasi aspetto visibile del
prodotto, incluse le parti interne dello stesso; ed occorre sottolineare che l’elenco
delle caratteristiche che combinate costituiscono il design ha valore meramente
esemplificativo46 (come risulta evidente dall’uso dell’espressione “in particolare”).
E’ appena il caso di notare che possono oggi essere registrate anche parti di un
prodotto complesso, sempre che presentino di per sé i requisiti di accesso alla
privativa47; e ancora che, lo specifico riferimento agli oggetti artigianali esclude che
45
L’accordo di Locarno, sottoscritto l’8 ottobre 1968 e ratificato dall’Italia con la Legge 22 maggio
1974, n. 348, ha istituito una classificazione internazionale comune del design, al fine di facilitarne la
registrazione internazionale. L’art. 2 chiarisce che, la suddetta classificazione non vincola gli Stati
aderenti nella determinazione dell’ambito di tutela dei disegno e modelli; questa tuttavia ha
comunque un rilievo notevole, in quanto recepita dalle leggi nazionali di molti Paesi (fra i quali
l’Italia), nonché dallo stesso Regolamento comunitario 6/2002, all’art. 40.
46
Occorre tenere presente che il colore non è di per sé proteggibile, se avulso dalla combinazione di
forme o di altri colori cui appartiene. Al riguardo possiamo menzionare l’interessante caso giudiziario
che ha visto contrapposti i nomi di due celebri stilisti: Christian Louboutin e Yves Saint Laurent. Se in
primo grado i giudici newyorkesi avevano statuito che la suola di colore rosso (da sempre
caratterizzante le famose scarpe di Louboutin) non potesse essere oggetto di esclusiva , la sentenza è
stata recentemente ribaltata da parte della United States Court of Appeals, nella pronuncia del 24
gennaio 2012. Si veda, www.ca2.uscourts.gov. Osservazione analoga deve essere fatta rispetto alle
caratteristiche della struttura superficiale e del materiale, poiché potranno essere oggetto di
registrazione solo in quanto incidano sull’aspetto esteriore del prodotto, modificandolo.
47
Il problema si era posto, in passato, specialmente per le parti componenti la carrozzeria delle
automobili: infatti le imprese produttrici di autoveicoli sostenevano la brevettabilità dei c.d. body
panels, che formavano oggetto dell’attività industriale dei ricambisti indipendenti, cioè dei
fabbricanti e rivenditori di pezzi di ricambio non originali. Giurisprudenza e dottrina europee erano
divise in merito alla soluzione della questione. La Direttiva 98/71/CE ha esplicitamente ammesso la
registrabilità di singole parti di prodotto; tuttavia le pressioni da parte delle imprese dei ricambisti
indipendenti hanno imposto una soluzione di compromesso, realizzata attraverso la previsione della
c.d. clausola di riparazione, oggi inserita nell’art 241 del CPI. Tale disposizione prevede che, fino alla
modifica della Direttiva 98/71, a norma dell’art 18 della stessa, i diritti vantati sui componenti di un
prodotto complesso non potranno essere fatti valere, per impedire fabbricazione e vendita dei
18
il riconoscimento della tutela sia subordinato al requisito dell’industrialità, come in
passato sostenuto dalla giurisprudenza48.
Pertanto, la registrazione di un disegno o di un modello protegge l’aspetto esterno del
prodotto, in quanto abbia un rilievo puramente estetico, non anche un valore
funzionale49. Come già accennato, non è più necessario il raggiungimento di un certo
livello di gradevolezza: infatti il legislatore ha eliminato i riferimenti al carattere
ornamentale50, così rendendo la creazione intellettuale non più proteggibile per il
contribuito dato all’estetica dei prodotti, ma semplicemente in funzione della sua
capacità di incidere sulle caratteristiche esteriori dei beni ideati. Questa conclusione
verrà ampiamente argomentata nel prossimo paragrafo, dove analizzeremo nel
dettaglio le conseguenze del passaggio dal requisito dello speciale ornamento a
quello del carattere individuale, ed il significato di quest’ultimo.
Passiamo perciò ad illustrare le ulteriori condizioni, la cui sussistenza è necessaria ai
fini del riconoscimento dell’esclusiva. L’art. 32 del Codice della Proprietà
Industriale, corrispondente all’art. 5-bis della vecchia Legge-modelli, stabilisce che
componenti stessi. In sostanza, poiché in alcuni Paesi europei (fra i quali l’Italia) le imprese dei
ricambisti indipendenti beneficiavano di un’interpretazione favorevole della disciplina nazionale, è
stata necessaria la previsione di un’eccezione, per garantirne la sopravvivenza. Sul tema si vedano, P.
FRASSI, Registrazione come disegno o modello di parti di prodotti complessi e clausola di riparazione,
in Riv. dir. ind., 2003, II, p. 94 ss.; A. FRIGNANI – V. PIGNATA, La tutela della creatività nel modello
ornamentale, con particolare riferimento ai pezzi di ricambio, in Riv. dir. ind., 2005, I, p. 89 ss.; G.
GUGLIELMETTI, Pezzi di ricambio, interconnessioni e prodotti modulari nella nuova disciplina dei
disegni e modelli, in Riv. dir. ind., 2002, I, p. 12 ss..
48
Nella precedente disciplina la necessità del requisito del carattere industriale, inteso come
attitudine del disegno o modello ad un’applicazione industriale si desumeva, oltre che dal
riferimento all’art. 12 della Legge sulle invenzioni industriali, anche dalla disposizione dell’art. 2 n.°4
della Legge sul diritto d’autore che, basando la distinzione tra opere d’arte e disegni e modelli sul
criterio della scindibilità del valore artistico dal carattere industriale del prodotto, ammetteva
implicitamente che la categoria della c.d. arte industriale fosse caratterizzata dall’attitudine
all’applicazione industriale. Si vedano, G. OPPO, Per una definizione dell’industrialità, in Riv. dir. civ.,
1973, I, p. 7 ss.; App. Milano, 26 novembre 1999, in Giur. ann. dir. ind., 1999, 3406; Trib. Torino 10
giugno 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1998, 2561.
49
Infatti l’art. 36 CPI, in cui è stato trasfuso l’art. 7bis del R.D. 1411/1940, vieta la registrazione delle
caratteristiche dell’aspetto del prodotto che siano determinate esclusivamente dalla funzione
tecnica dello stesso. La ratio della norma è, evidentemente quella di evitare il cumulo con la tutela
ottenibile attraverso la concessione di un brevetto per invenzione o per modello di utilità. Così, G.
FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 292.
50
Conformemente a quanto previsto nella Direttiva 98/71/CE, è stato soppresso l’aggettivo
“ornamentale” per individuare la categoria dei disegni e modelli, e il requisito dello “speciale
ornamento” è stato sostituito da quello del “carattere individuale”. Si veda, G. GHIDINI – F. DE
BENEDETTI (a cura di), sub art. 31, Codice della proprietà industriale commentato, Milano, 2006, p.
108-110.
19
un disegno o modello è da considerarsi nuovo, se nessun disegno o modello identico
è stato divulgato anteriormente51. Il momento rilevante per stabilire se vi è già stata
divulgazione di creazioni intellettuali identiche è quello della data di deposito della
domanda di registrazione ovvero, qualora si rivendichi la priorità, si fa riferimento
alla data di quest’ultima52. La stessa disposizione specifica anche che, disegni e
modelli devono reputarsi identici qualora le loro caratteristiche differiscano solo per
dettagli irrilevanti.
Si può affermare che l’art. 32 CPI rinvii indirettamente il giudizio sulla registrabilità
dell’opera alla valutazione del carattere individuale, in quanto, perché possa ritenersi
sussistente il requisito della novità, è sufficiente che gli elementi distintivi presenti
fra i due termini di paragone non siano del tutto marginali. In sostanza la verifica
della novità si riduce ad un esame di carattere preventivo ed oggettivo di non
identità53, volto cioè ad escludere i disegni e modelli copiati dal test di individualità,
al quale si rimanda l’effettivo accertamento circa la
differenza rispetto alle
anteriorità rilevanti54.
51
La medesima previsione è contenuta negli artt. 5 della Direttiva 98/71/CE e 6 del Regolamento
02/6/CE.
52
Per effetto del diritto di priorità, stabilito nella Convenzione d’Unione di Parigi, chiunque abbia
presentato una regolare domanda di registrazione in un qualsiasi Paese dell’Unione, può entro sei
mesi, estendere il deposito della stessa anche agli altri Stati dell’Unione, con il beneficio che i
depositi eseguiti successivamente non potranno essere invalidati da fatti accaduti dopo la data del
primo deposito (sempre che siano effettuati nel termine indicato). Inoltre tali fatti non potranno far
sorgere diritti a favore di terzi, ex art. 48 della Convenzione. Inoltre, dal 1°gennaio 2008, è in vigore
un nuovo sistema di registrazione per proteggere a livello internazionale i disegni e modelli
industriali, in forza del sistema dell’Aja concernente la registrazione internazionale di tali opere, che
si applica ai Paesi aderenti all’Accordo dell’Aja. Questo sistema conferisce al titolare di un disegno o
modello la possibilità di ottenere protezione nei territori delle parti contraenti, depositando una
domanda presso l’Ufficio internazionale dell’organizzazione mondiale della proprietà industriale
(OMPI). Il richiedente quindi può accedere alla tutela del disegno o modello in una serie di Stati,
attraverso un’unica domanda, con gli stessi effetti che otterrebbe se la creazione fosse registrata nei
singoli Paesi.
53
Si veda, V. DI CATALDO, Dai vecchi <<disegni e modelli ornamentali>> ai nuovi <<disegni e
modelli>>. I requisiti di proteggibilità secondo il nuovo regime, in Eur. dir. priv., 2002, p. 72. L’autore
sottolinea che le anteriorità rilevanti vanno confrontate con il nuovo disegno o modello, ciascuna
isolatamente dall’altra, senza che siano composte in un “mosaico unitario”. Si veda pure, V.
SCORDAMAGLIA, La nozione di “disegno e modello” ed i requisiti per la sua tutela nelle proposte di
regolamentazione comunitaria, in Riv. dir. ind., 1995, I, p. 143, il quale afferma che il test di novità si
sostanzia in un’operazione meccanica ed oggettiva, che non prevede un referente soggettivo
particolare.
54
Così, N. ZORZI, La protezione dei disegni e modelli ornamentali in Europa, in Contr. e impr. Europa,
1997, p. 215.
20
La novità è dunque definita dal legislatore come assenza di divulgazione: tale
nozione, perciò si rivela centrale nel sistema di tutela del design. Occorre osservare
che il requisito della novità è oggi inteso in termini squisitamente relativi55, per cui
l’effetto preclusivo da questo generato è attenuato sensibilmente56. Infatti, mentre per
invenzioni e modelli di utilità vige il principio della novità assoluta, in base al quale
qualunque divulgazione anteriore è distruttiva del requisito in esame, per disegni e
modelli l’evento predivulgativo fa venir meno la novità solo se ragionevolmente
conoscibile negli ambienti specializzati nel settore interessato, operanti nella
Comunità Europea, e nel corso della normale attività commerciale57.
Questo è quanto stabilito nel primo comma dell’art. 34 CPI58, dove il legislatore ci
fornisce una definizione piuttosto dettagliata di divulgazione. La norma in esame,
infatti dispone pure che il disegno o modello si considera divulgato se è stato reso
accessibile al pubblico per effetto di registrazione o in altro modo, ovvero se è stato
esposto, messo in commercio o altrimenti reso pubblico. In sostanza la divulgazione
può consistere nella pubblicazione della domanda di registrazione da parte
dell’amministrazione competente, ovvero in ogni fatto che renda la creazione
potenzialmente conoscibile ad un numero indistinto di soggetti, purché però l’atto
divulgativo fosse potenzialmente conoscibile nei settori interessati.
Il requisito della novità è stato poi ulteriormente circoscritto dal legislatore, che nei
commi successivi al primo dell’art. 34 CPI ha previsto una serie di ipotesi in cui la
predivulgazione deve considerarsi non opponibile.
55
Oltre alla peculiare nozione di divulgazione data nell’art. 34 CPI, un ulteriore elemento che
contribuisce a rendere la novità un concetto relativo è rilevabile nel fatto che, legittimato a far valere
la nullità della registrazione ex art. 122 terzo comma, è solo il titolare dei diritti anteriori, o il suo
avente causa o l’avente diritto, o ancora chi ha interesse all’utilizzazione. In tal senso, G. GARGIULO,
Industrial design e marchi di forma nella prospettiva…, cit., p. 432. Va precisato che spetterà alla
parte che richiede l’accertamento della nullità dell’opera, dimostrare quali disegni o modelli anteriori
siano distruttivi della novità e del carattere individuale della stessa, nonché provare che la forma
anteriore era accessibile al pubblico, in un momento precedente rispetto alla data di pubblicazione
della domanda, o a quella di priorità. Così, L. C. UBERTAZZI (a cura di), sub art. 34, Codice della
Proprietà Industriale…, cit., p. 194.
56
Così FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 297-298.
57
Secondo G. FLORIDIA, ivi, p. 298, la ratio di tale previsione sarebbe ravvisabile nella spiccata
caratterizzazione territoriale delle tendenze che governano il design, che lo rende apprezzabile, e
dunque meritevole di tutela, anche se importato da Paesi estranei alla Comunità Europea.
58
Tale disposizione corrisponde all’art. 5-quater della Legge-modelli, introdotto dal D.lgs. 95/2001.
21
Il secondo comma statuisce che il disegno o modello non si considera reso
accessibile al pubblico per il solo fatto di essere stato rivelato ad un terzo, vincolato
(esplicitamente o implicitamente) alla riservatezza. E ancora il quarto comma
dispone che non costituisce divulgazione il fatto che l’opera sia stata resa accessibile
al pubblico nei dodici mesi anteriori alla data di presentazione della domanda di
registrazione, o a quella di priorità, se ciò derivi da un abuso nei confronti dell’autore
o del suo avente causa. In tal modo il legislatore rafforza la tutela reale delle
creazioni intellettuali oggetto dell’analisi, in quanto le rende proteggibili ancor prima
che formino oggetto di domanda di registrazione.
Ma la deroga più significativa rispetto alla disciplina generale del requisito della
novità è rappresentata dall’istituto del c.d. periodo di grazia, introdotto nel terzo
comma dell’art. 34 CPI. Tale disposizione prevede che non sia da considerarsi reso
accessibile al pubblico il disegno o modello divulgato dall’autore, o dal suo avente
causa, nei dodici mesi precedenti la data di deposito della domanda di registrazione o
quella di priorità. Ciò significa che l’autore, o qualsiasi terzo da lui autorizzato, può
rendere pubblica la sua creazione, senza correre il rischio di perdere la possibilità di
acquisire il diritto di esclusiva sulla stessa; in tal modo potrà testare le reazioni del
mercato e valutare se vi sia effettiva convenienza ad affrontare la registrazione59.
E’ però necessario precisare che il periodo di grazia non equivale ad un termine di
priorità, per cui il diritto di esclusiva accordato con la successiva registrazione non
retroagisce al momento della predivulgazione. Ne deriva che il terzo che, senza
abuso, nei dodici mesi precedenti il deposito della domanda dovesse realizzare e
divulgare un identico disegno o modello, non violerebbe il diritto dell’autore o del
suo avente causa; ed anzi priverebbe la loro creazione del requisito della novità, così
rendendola non registrabile60.
59
La registrazione infatti, comporta una serie di spese e di oneri di non poco conto. Che quella
appena illustrata sia la ratio della norma in esame è confermato dal considerando 20 del
Regolamento 6/2002/CE, il quale recita: <<occorre altresì permettere all’autore o al suo avente
causa di sottoporre alla prova del mercato i prodotti in cui il disegno o il modello è attuato, prima di
decidere se chiedere o no la protezione del disegno o modello comunitario registrato (…)>>.
60
In tal senso, G. SENA, Note su disegni e modelli, in Riv. dir. ind., 2008, I, p. 309-310. L’autore ritiene
che il fatto che non si abbia divulgazione nel periodo di grazia deriva dalla tutela riconosciuta al
design non registrato. Sostiene inoltre che, per giungere a tale conclusione è necessario forzare
l’espressione “divulgazione abusiva”, ricomprendendovi anche la mera copiatura (che a rigore non vi
22
Ulteriore requisito per il riconoscimento della privativa, oltre alla novità e al carattere
individuale, è quello della liceità, previsto nell’art. 33-bis CPI. Questa disposizione è
stata inserita dall’art. 18 del D.lgs. 13 agosto 2010, n. 13161 ed in tal modo il
legislatore ha rimediato ad una dimenticanza nella quale era incorso il redattore del
Codice. Infatti, nella disciplina di disegni e modelli mancava la previsione di questo
requisito, laddove invece era stato inserito per tutti gli altri diritti di proprietà
industriale62. L’art. 33-bis primo comma stabilisce che non può costituire oggetto di
registrazione il disegno o modello contrario all’ordine pubblico o al buon costume;
tuttavia si precisa anche che il disegno o modello non può essere considerato
contrario all’ordine pubblico o al buon costume per il solo fatto di essere vietato da
una disposizione di legge o amministrativa. Il secondo comma inoltre, aggiunge fra
le cause di illiceità, la realizzazione di un disegno o modello che costituisca
utilizzazione impropria di uno degli elementi elencati nell’art. 6-ter della
Convenzione di Parigi, ovvero di segni, emblemi e stemmi diversi da quelli cui si
riferisce tale disposizione, che rivestano un particolare interesse pubblico nello Stato.
Una volta terminata l’analisi delle condizioni alla cui sussistenza è subordinato il
riconoscimento della tutela, occorre esaminare brevemente gli effetti della
registrazione.
A norma dell’art. 38 CPI questi decorrono dalla data in cui la domanda e la relativa
documentazione sono rese accessibili al pubblico; l’Ufficio italiano brevetti e marchi
provvede alla pubblicazione subito dopo il deposito, salvo che il richiedente non
abbia escluso l’accessibilità alla domanda per un periodo determinato63. Il diritto alla
registrazione spetta all’autore del disegno o modello ed ai suoi aventi causa, a meno
rientrerebbe); altrimenti l’istituto del periodo di grazia e quello del design non registrato non
sarebbero conciliabili.
61
L’art. 19 della Legge 23 luglio 2009, n. 99 ha delegato il Governo all’adozione di disposizioni
correttive e integrative del Codice della Proprietà Industriale. Tale intervento non ha comportato
modifiche particolarmente rilevanti all’impianto codicistico.
62
Evidentemente non vi erano ragioni per una differenziazione sotto tale profilo: a dimostrazione di
ciò il legislatore è intervenuto ad eliminare l’anomalia.
63
A norma del quinto comma dell’art. 38 CPI, tale periodo non può essere superiore a trenta mesi,
decorrenti dalla data di deposito o da quella di priorità. Il comma successivo specifica pure che, nei
confronti delle persone a cui la domanda viene notificata, da parte del richiedente, gli effetti della
registrazione decorrono dalla data della notifica.
23
che l’opera non venga realizzata da un dipendente nell’esercizio delle sue mansioni,
poiché in tal caso il diritto spetta al datore di lavoro, salvo patto contrario.
Con il riconoscimento della privativa il titolare acquista il diritto esclusivo di
utilizzare la creazione, nonché di vietarne l’uso a qualunque terzo che non abbia
ottenuto il suo consenso.
L’art. 41 CPI specifica in modo analitico le facoltà di cui si compone la privativa
concessa con la registrazione, che si traducono in altrettanti divieti nei confronti dei
terzi che non siano autorizzati dal titolare della stessa64. Gli ultimi commi della
disposizione
in
esame
contengono
due
importanti
precisazioni
circa
la
determinazione dell’ambito della protezione accordata con la registrazione: il terzo
comma sancisce il principio dell’equivalenza. In base a tale principio i diritti
derivanti dal conferimento della privativa si estendono a qualunque disegno o
modello che non produca nell’utilizzatore informato una impressione generale
diversa.
Analizzeremo
dettagliatamente
nel
prossimo
paragrafo
la
figura
dell’utilizzatore informato; per ora è sufficiente notare che il legislatore non ha
limitato l’esclusiva a ciò che incide direttamente sull’aspetto esteriore del prodotto,
ma l’ha estesa a quelle varianti apportate al design che, pur modificandone in certa
misura la conformazione, producano nell’utilizzatore informato la medesima
impressione generale.
Infine il quarto comma chiarisce che nel determinare l’estensione della protezione
occorre tener conto del margine di libertà di cui ha potuto beneficiare l’autore nella
realizzazione del disegno o modello; analoga previsione è stata inserita nel secondo
comma dell’art. 33, in relazione all’accertamento del carattere individuale. Parte
rilevante della dottrina ritiene che con tali disposizioni il legislatore abbia recepito la
cosiddetta dottrina della Crowded Art65. In base a tale opinione, derivante dal diritto
64
Il secondo comma dell’art. 41 CPI recita: <<Costituiscono in particolare atti di utilizzazione la
fabbricazione, l’offerta, la commercializzazione, l’importazione, l’esportazione o l’impiego di un
prodotto in cui il disegno o modello è incorporato o al quale è applicato, ovvero la detenzione di tale
prodotto per tali fini.>>
65
In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura
di), La protezione…, cit., p. 11; C. GALLI, L’attuazione della Direttiva comunitaria sulla protezione di
disegni e modelli, in Nuove leggi civ. comm., 2001, p. 890; L. LIUZZO, Strumenti di protezione delle
forme nel campo della proprietà intellettuale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 48.
Contra, S. SANDRI, L’utilizzatore informato…, cit., p. 415. L’autore contesta la tendenza ad applicare
all’industrial design una teoria elaborata in relazione al diritto dei marchi, per di più in un
24
dei marchi nordamericano, nei settori affollati, in cui convivono numerosi prodotti
dalle forme similari, anche differenze di poco conto rispetto alle forme già esistenti
possono dar luogo ad un valido modello.
E’ infatti evidente che le difficoltà
incontrate dal designer nella realizzazione di una forma nuova saranno maggiori nel
caso in cui, il prodotto cui la stessa inerisce, appartenga ad un settore merceologico
particolarmente affollato. Di questo perciò il legislatore ha giustamente tenuto conto,
imponendo un giudizio meno rigoroso, qualora il margine di libertà non sia molto
ampio.
Da ultimo è necessario esaminare la durata della tutela conferita con la registrazione;
questo aspetto si rivelerà notevolmente importante nel corso della trattazione,
rappresentando il principale elemento di distinzione della disciplina del design
rispetto a quella del marchio di forma. L’art. 37 del Codice della Proprietà Industriale
stabilisce che la privativa ha efficacia per cinque anni, decorrenti dalla data di
presentazione della domanda. Tuttavia è possibile ottenere una proroga per uno o più
periodi di cinque anni, fino ad un massimo di venticinque, sempre computati a partire
dal momento del deposito della domanda di registrazione.
1.3 Dallo speciale ornamento al carattere individuale
Abbiamo già visto come l’art. 32 del Codice della Proprietà Industriale rinvii
implicitamente il giudizio circa la registrabilità del disegno o modello, alla
valutazione del requisito del carattere individuale. Passiamo pertanto all’analisi di
tale condizione, cui fa specifico riferimento l’art. 33 CPI66.
Il primo comma di tale disposizione stabilisce che <<un disegno o modello ha
carattere individuale se l’impressione generale che suscita nell’utilizzatore informato
differisce dall’impressione generale suscitata in tale utilizzatore da qualsiasi disegno
o modello che sia stato divulgato prima della data di presentazione della domanda di
ordinamento diverso dal nostro. Afferma dunque che il riferimento al margine di libertà rimanda alla
funzionalità che il prodotto deve realizzare con la sua forma. Il designer infatti deve conciliare
funzionalità ed estetica; per questo la particolare funzione cui il prodotto deve assolvere può
rappresentare un vincolo di non poco contro per l’ideatore della nuova forma.
66
La norma in esame riproduce il testo dell’art. 5-ter della Legge modelli, introdotto dall’art. 3 del
D.lgs. 95/2001.
25
registrazione o, qualora si rivendichi la priorità, prima della data di quest’ultima>>.
Il legislatore ha dunque eliminato qualsiasi riferimento all’elemento esteticoornamentale, in particolare sostituendo il criterio dello speciale ornamento con quello
del carattere individuale: questo mutamento ha rappresentato un’importante svolta,
non solo all’interno del sistema di protezione del design, ma anche nei rapporti con
gli altri strumenti predisposti dell’ordinamento a tutela della forma dei prodotti
industriali. Di tale secondo aspetto ci occuperemo dettagliatamente nei prossimi
capitoli; possiamo però accennare fin d’ora che la soppressione del parametro dello
speciale ornamento non consente più di escludere in maniera assoluta il cumulo della
disciplina sul design con quella sui marchi di forma e sulla concorrenza sleale per
imitazione servile. E’ ormai innegabile che sussista una parziale sovrapposizione fra
le normative in questione, da cui deriva l’esigenza di coordinamento delle stesse,
attraverso l’esatta individuazione dei reciproci confini.
L’abolizione del requisito dello speciale ornamento ha indotto una parte consistente
della dottrina a ritenere che la riforma della disciplina sui disegni e modelli abbia
provocato un <<allargamento verso il basso>> della soglia di accesso alla tutela67:
affermazione in linea di principio condivisibile, rispetto alla quale occorre però fare
una precisazione. Se infatti è innegabile che il nuovo parametro si configuri come
meno severo rispetto al precedente, in quanto il grado di originalità necessario per il
riconoscimento dell’esclusiva è ora ridotto, bisogna pure specificare che il legislatore
ha scelto un approccio del tutto innovativo, dunque un criterio qualitativamente
diverso da quello dello speciale ornamento. Per questo appare preferibile evitare
l’espressione “allargamento verso il basso”, che sembra piuttosto suggerire
l’adozione di un criterio quantitativamente meno rigoroso68.
67
Così, G. DALLE VEDOVE, Dal modello ornamentale…, cit., p. 336, M. FRANZOSI, Design italiano e
diritto italiano del design…, cit., p. 80; C. GALLI, L’attuazione della direttiva comunitaria sulla
protezione…, cit., p. 889; G. MONDINI, La direttiva comunitaria sulla protezione giuridica…, cit., p.
975; L. LIUZZO, Strumenti di protezione delle forme nel campo della proprietà intellettuale, in G.
PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 48; A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 69. Si
veda anche, Trib. Udine, 28 gennaio 2002, in Giur. it., 2002, 1664, con nota di M. RICOLFI. Anche dai
lavori preparatori della Direttiva 98/71 sembra emergere l’intenzione del legislatore comunitario di
fissare i requisiti di protezione del design ad un livello tendenzialmente basso.
68
In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura
di), La protezione…, cit., p. 11. Si veda pure, S. SANDRI, L’utilizzatore informato…, cit., p. 412, il quale
26
La definizione di carattere individuale fornita dall’art. 33 CPI è fondata sulla nozione
di utilizzatore informato, nozione decisamente ambigua e di non facile
individuazione, la cui indeterminatezza si riflette sul requisito in esame, rendendone
complessa l’interpretazione. La figura dell’utilizzatore informato, infatti, sembra
collocarsi a cavallo fra la nozione di consumatore e quella di persona esperta del
ramo (il designer), essendo il frutto di un compromesso, raggiunto in sede europea,
fra chi intendeva mantenere alta la soglia di proteggibilità del design e chi, invece,
desiderava abbassarla69.
Dottrina e giurisprudenza sono decisamente divise a proposito della definizione di
tale formula70, di cui vengono date diverse interpretazioni; la tesi maggiormente
accreditata fa coincidere l’utilizzatore informato con il consumatore esperto, ovvero
un buon conoscitore del mercato, in grado di riconoscere l’evoluzione di una certa
tipologia di prodotti ed i dettagli che li caratterizzano71. Si tratta, in sostanza,
dell’acquirente abituale, che in quanto tale è a conoscenza delle tendenze stilistiche
del settore merceologico di riferimento, e a cui pertanto è richiesto un grado di
diligenza e sensibilità superiore alla media.
In base ad altre opinioni, invece, l’utilizzatore informato sarebbe da identificarsi con
colui che è dotato di esperienza tecnica nel campo (vale a dire il designer), o ancora
sottolinea che il requisito dello speciale ornamento non è stato abolito dal legislatore comunitario,
ma semplicemente ignorato e sostituito, in quanto <<specilissimo>> dell’ordinamento italiano.
69
Si veda, A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 68.
70
E’ emblematico il caso di due procedimenti cautelari, definiti a poche settimane di distanza dalla
Sezione Specializzata del Tribunale di Venezia, entrambi introdotti a tutela del medesimo design. Il
Tribunale di Venezia è giunto a due decisioni contrastanti a causa di una diversa interpretazione del
parametro dell’utilizzatore informato. Così, Trib. Venezia, ord. 8 luglio 2005, in www.IP-Italjuris.it, n.
1/2006, e Trib. Venezia, ord. 31 agosto 2005, ivi, n. 2/2006, con commento di S. SANDRI, A proposito
dell’utilizzatore informato.
71
Così, D. BRAMBILLA, Carattere individuale e capacità distintiva della forma, in Dir. ind., 2007, p.
453 ss.; V. DI CATALDO, Dai vecchi <<disegni e modelli ornamentali>> ai nuovi <<disegni e
modelli>>…, cit., p. 61 ss.; A. FITTANTE, Il nuovo diritto industriale e d’autore, Bari, 2009, p. 48; M.
FRANZOSI, Design italiano e diritto italiano del design…, cit., p. 81; C. GALLI, L’attuazione della
direttiva comunitaria sulla protezione…, cit., p. 889; G. GARGIULO, Industrial design e marchi di
forma nella prospettiva…, cit., p. 432 ss.; L. LIUZZO, Strumenti di protezione delle forme nel campo
della proprietà intellettuale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 48; S. MAGELLI, La tutela
del design: prospettive comunitarie, in Dir. ind., 1997, p. 566; M. MONTANARI, L’industrial design tra
modelli, marchi di forma…, cit., p. 13; A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 69; Trib.
Torino, (ord.) 20 marzo 2008, in Dir. ind., 2008, p. 540 ss.; Trib. Venezia, 23 dicembre 2003, in Giur.
anna. Dir. ind., 2004, 1237.
27
con l’operatore del settore, l’esperto di marketing, interessato a dare al prodotto una
forma idonea ad imprimersi nella mente del pubblico72.
La prima delle opinioni esposte sembra la più corretta, in quanto lo stesso termine
“utilizzatore” richiama l’idea dell’uso che del bene fa il suo naturale destinatario,
vale a dire l’acquirente finale73; la stessa “impressione generale”, cui fa riferimento
l’art. 33 CPI, rinvia ad una valutazione d’insieme, quella valutazione che tipicamente
il consumatore compie al momento della scelta di un prodotto. Se il legislatore
avesse inteso riferirsi al designer o all’operatore del settore, si sarebbe forse servito
di un’espressione diversa, tale da condurre ad un esame comparativo ed
approfondito, che di norma nessun consumatore compie. D’altro canto la figura
dell’utilizzatore informato è perfettamente in linea con un settore, quale quello del
design, la cui clientela è generalmente attenta all’evoluzione del gusto e delle
tendenze estetiche; il riferimento al consumatore medio, di scarsa avvedutezza, si
sarebbe probabilmente rivelato del tutto inadeguato.
Un ulteriore motivo di incertezza nella definizione del criterio in esame deriva dal
fatto che non è chiaro se il legislatore intenda l’utilizzatore informato come colui che
è in grado di cogliere anche differenze di scarso rilievo fra una forma e le altre,
oppure come chi, avendo un’ampia conoscenza del mercato, verrà colpito solo da un
design particolarmente originale. La dottrina infatti non ha mancato di sottolineare
che il riferimento in questione potrebbe condurre ad un innalzamento della soglia di
registrabilità, o ad un abbassamento, a seconda che si ritenga che l’utilizzatore
informato noti anche piccole differenze di stile, oppure che possa formarsi
un’impressione generale diversa solo se il disegno o modello presenti una
configurazione particolarmente innovativa74; la lettera dell’art. 33 CPI, sotto tale
profilo non offre alcun aiuto.
72
In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura
di), La protezione…, cit., p. 11; S. SANDRI, L’utilizzatore informato…, cit., p. 411 ss.; V. M. DE SANCTIS
(a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 132-135; D. SARTI, Marchi di forma e
imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in AA. VV., Segni e forme distintive…,
cit., p. 257.
73
Contra, S. SANDRI, ivi, p. 413, secondo cui il termine utilizzatore rinvia all’uso industrialecommerciale del design, fatto da parte dell’operatore del settore.
74
Si veda, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La
protezione…, cit., p. 75; G. FLORIDIA, in AA. VV. Diritto industriale…, cit., p. 296-297; L. LIUZZO,
Modelli, disegni, forme marchi tridimensionali e la loro tutelabilità…, cit., p. 215; M. MONTANARI,
28
Identificare l’utilizzatore informato con l’acquirente capace di notare aspetti creativi
anche non eclatanti, che sfuggirebbero al pubblico indistinto dei consumatori,
provoca conseguenze di notevole impatto a livello sistematico. Seguendo questa
impostazione, infatti, si arriva a ritenere che tutte le forme registrabili come marchio
(nonché tutelabili contro l’imitazione servile ex art. 2598 n. 1 del c.c.) sarebbero
automaticamente proteggibili come design, essendo dotate di una capacità distintiva
“media”, percepibile da qualunque individuo. Per ottenere la protezione come
disegno o modello, invece, sarebbe sufficiente un grado di originalità minore,
rilevabile solo dal consumatore esperto, particolarmente attento ai dettagli.
Questa interpretazione, largamente diffusa fra gli autori75, sembra fondata su un
equivoco: in tal modo si giunge al risultato paradossale di ritenere le forme di design
meno caratteristiche di quelle consistenti in semplici segni distintivi. Si corre perciò
il rischio di stabilire un livello di protezione troppo basso, in cui si tutelano anche
forme che si differenziano da quelle già note per dettagli meramente marginali ed
insignificanti; la specificità dell’industrial design verrebbe meno, riducendosi ad una
sorta di <<piccolo marchio di forma>>76. Conseguenza inaccettabile se si tiene conto
del fatto che il design è un fenomeno considerato dai più come una particolare
manifestazione dell’arte visiva (intesa nel suo significato estetico-moderno, come
qualcosa dotato di un particolare valore culturale o simbolico77); non è certo questa la
sede per definire il concetto di arte e stabilire se il design possa o meno rientrare in
tale nozione. Tuttavia possiamo affermare che gli oggetti di design siano
L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 13; A. VANZETTI – V. DI CATALDO,
Manuale…, cit., p. 68-69.
75
Si veda, G. DALLE VEDOVE, Dal modello ornamentale…, cit., p. 336; V. M. DE SANCTIS (a cura di), La
protezione delle forme…, cit., p. 132-135; A. FITTANTE, Il nuovo diritto industriale…, cit., p. 50; G.
GARGIULO, Industrial design e marchi di forma nella prospettiva…, cit., p. 433; L. LIUZZO, Strumenti
di protezione delle forme nel campo della proprietà intellettuale, in G. PETRAZ (a cura di), La
protezione…, cit., p. 48; G. MONDINI, La direttiva comunitaria sulla protezione giuridica…, cit., p. 975;
V. SCORDAMAGLIA, La nozione di “disegno e modello” ed i requisiti per la sua tutela…, cit., p. 113 ss.;
A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 69. In giurisprudenza si veda, Trib. Venezia, (ord.)
13 luglio 2005, in Foro it., 2005, XII, 3503, in tale pronuncia si afferma che l’utilizzatore informato
coincide con <<un consumatore che utilizza materialmente il prodotto nel quale è incorporato il
modello, la cui attenzione è però notevolmente superiore alla media, in quanto è costantemente
informato sulle caratteristiche dei prodotti e sull’evoluzione dei medesimi, sicché è in grado di
distinguerne le variazioni non percepibili agli occhi della media dei consumatori>>.
76
Come giustamente evidenziato da M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di
forma…, cit., p. 14.
77
Cfr., S. VELOTTI, La filosofia e le arti: sentire, pensare, immaginare, Roma – Bari, 2011, p. 22.
29
generalmente considerati come particolarmente innovativi ed originali, e che i
designer spesso incidono sull’evoluzione del gusto estetico, imponendo con il
proprio lavoro nuove tendenze stilistiche.
Ritenere che l’accesso alla tutela sia consentito a tutte le forme che presentino
differenze talmente poco significative da essere rilevabili solo da un esperto del
settore, ci sembra quindi del tutto scollato dalla realtà. Come evidenziato da Mario
Franzosi, insomma, <<vi possono essere solo pochi design […] ciò che la legge
dovrebbe proteggere. Il resto non è design brutto, ma semplicemente non è
design>>78.
Ci pare dunque che il criterio del carattere individuale, di per sé ben poco severo,
debba essere definito facendo leva su un’interpretazione rigorosa del parametro
dell’utilizzatore informato. Pertanto sembra più corretto ritenere che solo una forma
particolarmente originale rispetto agli orientamenti stilistici precedenti possa
suscitare l’interesse del consumatore esperto e, a fortiori, anche dell’acquirente
comune79; del resto il riferimento al margine di libertà, contenuto nel secondo
comma dell’art. 33 CPI, evoca lo sforzo innovativo dell’autore nella realizzazione
dell’opera. Inoltre, un forte argomento a sostegno della lettura data si trae dal
tredicesimo Considerando della Direttiva 71/98/CE, nonché dall’art. 6.1 e dal
quattordicesimo Considerando del Regolamento 6/2002/CE: le disposizioni citate
infatti, prevedono che il carattere individuale si fondi su una chiara differenza tra
l’impressione generale suscitata nell’utilizzatore informato rispetto al patrimonio
esistente di disegni e modelli80. Infine è doveroso domandarsi quale sarebbe
78
Così, M. FRANZOSI, Design italiano e diritto italiano del design…, cit., p. 81. Si veda pure, B.
MUNARI, Arte come mestiere, Roma, 1997, p. 21, il quale evidenzia come l’origine del design derivi
dalla corrente artistica del Bauhaus e si sia verificata nel 1919. L’autore sottolinea come il
programma di tale prima scuola di design intendesse formare un nuovo tipo di artista, capace di
interpretare i bisogni umani e realizzare opere d’arte che fossero al contempo oggetti d’uso comune.
79
In tal senso, G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza,
Torino, 2001, p. 280 ss.; M. FRANZOSI, ivi, p. 80-82; M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli,
marchi di forma…, cit., p. 14.
80
Il tredicesimo Considerando della Direttiva 98/71/CE recita: <<considerando che l’accertamento
del carattere individuale di un disegno o modello dovrebbe essere fondato su una chiara differenza
tra l’impressione generale suscitata in un utilizzatore informato che osservi il disegno o modello e
quella suscitata in tale utilizzatore dal patrimonio esistente di disegni e modelli […]>>. L’art. 6.1 del
Regolamento 02/6, in modo del tutto simile, stabilisce: <<si considera che un disegno o modello
presenti un carattere individuale se l’impressione generale che suscita nell’utilizzatore informato
differisce in modo significativo dall’impressione generale suscitata in tale utilizzatore da qualsiasi
30
l’interesse dell’ordinamento nel concedere la privativa su forme che presentino
scarsa originalità: a tale quesito si deve rispondere che la concessione di esclusive
monopolistiche rappresenta un’eccezione al fondamentale principio della libertà di
concorrenza, ed in quanto tale esige un’interpretazione restrittiva, ove possibile.
Intendere il parametro dell’utilizzatore informato secondo l’impostazione contestata,
ritenendo che questi sia in grado di apprezzare come decisive differenze non
individuabili da parte del consumatore medio, condurrebbe alla concessione di un
numero eccessivo di monopoli, senza che vi sia un interesse dell’ordinamento che
giustifichi tale situazione.
Una volta identificato l’utilizzatore informato con il consumatore esperto del settore
merceologico di riferimento, possiamo concludere che il requisito del carattere
individuale si fonda sulla percezione del pubblico. Si tratta dunque di un criterio ben
lontano da quello (precedente) del valore estetico, che si sostanzia in una forma
qualificata di novità, ovvero nella capacità distintiva percepibile a livello qualificato.
Ciò significa che il legislatore ha escluso dalla tutela i disegni e modelli che, pur
differenziandosi da quelli già divulgati, suscitino nell’utilizzatore informato la
sensazione di qualcosa di già visto, sulla base di un giudizio non eccessivamente
rigoroso, in cui si tenga conto della libertà di cui ha beneficiato il designer al
momento della creazione. In questa maniera l’ordinamento accorda l’esclusiva alle
forme che siano capaci di imporsi all’attenzione del pubblico di riferimento,
proteggendo quindi la funzione attrattiva delle stesse. Il carattere individuale può
dunque essere definito come l’idoneità della forma ad istituire un “contatto
privilegiato” fra il prodotto cui inerisce (quindi l’impresa che lo realizza) ed i
consumatori81.
Non si deve però incorrere nell’errore di ritenere che questo implichi
necessariamente la capacità della forma di determinare le scelte d’acquisto; infatti il
disegno o modello che si stato divulgato al pubblico […]>>. Infine, in termini analoghi, il
quattordicesimo considerando dello stesso Regolamento richiede che il disegno o modello presenti,
agli occhi dell’utilizzatore informato, una netta differenza rispetto all’insieme di disegni o modelli già
esistenti.
81
Così, D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in
AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 256-257.
31
fenomeno del design è sempre più frequentemente finalizzato alla progettazione di
forme che, grazie alle loro caratteristiche, assumono grande importanza come
<<strumento promozionale di “comunicazione” del prodotto al pubblico>>82. Al
design, insomma, è spesso demandato il compito di esprimere l’immagine globale di
un’azienda; ne deriva che una forma capace di istituire un “contatto privilegiato” con
il pubblico probabilmente riuscirà anche ad influenzarne le decisioni d’acquisto.
Tuttavia quest’ultima prerogativa non è necessaria ai fini del riconoscimento della
protezione.
Possiamo dunque affermare che il requisito del carattere individuale, in sostanza,
indichi il valore economico insito nel nuovo design; attraverso esso l’ordinamento
tutela gli investimenti effettuati dalle imprese per la ricerca, la realizzazione ed il
lancio del nuovo manufatto, escludendo dalla concorrenza chi, non avendo affrontato
tali costi, si limiti a riprodurre il prodotto altrui, operando in condizioni di notevole
vantaggio83. Si è pertanto passati da un sistema in cui l’esclusiva era riservata alle
forme dotate di un certo livello estetico ad un altro, in cui si proteggono le
caratteristiche esteriori dei beni, in quanto sia loro ricollegabile un valore economico,
a prescindere dunque dal pregio estetico84. Tuttavia è bene precisare che la nuova
impostazione non implica necessariamente l’esclusione di qualunque giudizio sul
valore ornamentale della forma, quanto piuttosto che una valutazione di questo tipo
sia collegata al valore di mercato insito nel disegno o modello. Il criterio del carattere
individuale, infatti, rispecchia l’intenzione del legislatore comunitario di fondare il
riconoscimento della tutela su un parametro il più possibile oggettivo85, in modo da
evitare giudizi, quali quelli sulla bellezza e sul livello di creatività, irrimediabilmente
soggettivi. Per tale ragione la definizione di carattere individuale cui siamo pervenuti
sembra la più corretta, in quanto in linea con la sua ratio; le altre interpretazioni
elaborate dalla dottrina, fondate sul tentativo di legare ancora la concessione
dell’esclusiva al raggiungimento di un certo livello estetico, devono dunque essere
82
Ibidem.
In tal senso, G. SENA, La diversa funzione e i diversi modelli di tutela della forma del prodotto, in
Riv. dir. ind., 2002, I, p. 577 ss..
84
In tal senso, R. BICHI, La tutela della forma del prodotto e le nuove prospettive introdotte dalla
direttiva comunitaria n. 71/98, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 239 ss..
85
Così, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La
protezione…, cit., p. 71-72.
83
32
accantonate86. Del resto è evidente che, nella maggioranza dei casi, una forma che sia
in grado di suscitare l’interesse del consumatore esperto di design presenterà
caratteristiche estetiche di rilievo; tuttavia il requisito del carattere individuale non
consente più di escludere la tutela per le forme carenti di particolari pregi
ornamentali, o addirittura sgradevoli, purché siano distintive ed attraenti agli occhi
dell’utilizzatore informato87. Ciò consente di evitare pericolosi giudizi estetici, a tutto
vantaggio per la certezza del diritto.
86
Si veda, R. BICHI, La tutela della forma del prodotto e le nuove prospettive introdotte dalla direttiva
comunitaria n. 71/98, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 246, secondo il quale
l’impressione generale suscitata dal disegno o modello nell’utilizzatore informato sarà diversa da
quella che questi ha rispetto alle forme preesistenti proprio grazie alla presenza di <<un quid pluris
creativo, di carattere estetico>>. Anche D. SARTI, ivi, p. 256, ritiene che il carattere individuale
imponga di subordinare la protezione ad una valutazione di meritevolezza della creazione estetica.
87
Nulla esclude infatti che una forma dalle caratteristiche sgradevoli sia, proprio in quanto tale
distintiva ed attraente agli occhi del pubblico. Il mercato offre non pochi esempi di prodotti
industriali che si imprimono nella mente dei consumatori in virtù delle loro forme disarmoniche,
arbitrarie o inusuali. Un esempio è rinvenibile in un caso recentemente venuto all’attenzione del
Tribunale di Venezia: si trattava della forma di calzature che il collegio giudicante ha definito
<<brutte>>, <<buffe>>, ma <<trendy>>, e proprio in quanto tali attrattive per i consumatori. Cfr.
Trib. Venezia, 15 febbraio 2012, in Foro it., 2012, I, 1254.
33
CAPITOLO II: IL MARCHIO DI FORMA
2.1 Profili storici ed evoluzione dell’istituto
2.1.1 L’iniziale diffidenza nei confronti del marchio di forma
Il marchio è il segno distintivo che individua una sottoclasse di beni, appartenenti ad
un determinato genere, in funzione della sua origine imprenditoriale. La scienza
economica ha da sempre evidenziato la fondamentale funzione che i marchi svolgono
sul mercato: infatti, trattandosi di indicatori di provenienza che consentono alle
aziende di differenziare i propri prodotti o servizi da quelli offerti dalle concorrenti,
essi rappresentano un importante incentivo per le imprese ad offrire beni di qualità
costante88.
E’ evidente che, affinché le imprese investano su tale aspetto, è necessario che esse
dispongano di un diritto esclusivo sul segno, che consenta loro di inibire l’uso del
medesimo alle concorrenti; solo così i consumatori riusciranno a reperire
agevolmente i prodotti desiderati, senza confonderli con beni dello stesso genere,
aventi diversa origine imprenditoriale. L’ordinamento giuridico italiano, pertanto,
garantisce alle aziende un diritto esclusivo sul proprio marchio, tutelandone non solo
la tradizionale funzione distintiva, ma anche il c.d. selling power, la cui protezione si
sostanzia essenzialmente nel riconoscimento del valore insito nel capitale
pubblicitario incorporato nel segno89.
88
Si veda, G. AKERLOF, The Market for “Lemons”: Quality Uncertainty and the Market Mechanism, in
Vol. 84 Quartetly Journal of Economics, 1970, p. 488 ss.; W. M. LANDES – R. A. POSNER, Trademark
Law. An Economic Perspective, in XXX Journal of Law and Economics, 1987, p. 265 ss.
89
La riforma avvenuta con l’approvazione del D.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480 ha infatti innalzato il
livello di protezione del marchio. Se in passato l’ordinamento aveva ritenuto meritevole di tutela
solo la funzione distintiva del segno, oggi offre protezione anche alla funzione pubblicitaria del
marchio. In tal senso, M. RICOLFI, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 65-66.
34
Sulla base di quanto appena detto, si può affermare che la protezione giuridica del
marchio non risponda solo all’interesse delle imprese. La disciplina di tale segno
distintivo infatti,
da un lato consente di salvaguardare l’interesse di carattere
pubblico al progresso economico e tecnico, che si realizza in virtù del corretto
svolgimento del libero gioco concorrenziale; dall’altro permette di offrire protezione
ai consumatori, garantendo la possibilità di operare scelte consapevoli fra le diverse
alternative di acquisto presenti sul mercato90. In sostanza perciò, la privativa sul
marchio risponde anche ad una finalità pro-concorrenziale, non comportando alcun
costo monopolistico91.
Queste osservazioni spiegano per quale ragione l’ordinamento conceda alle imprese
un’esclusiva decisamente ampia: la combinazione dei fattori ora evidenziati fa sì che
non sussistano motivi di limitare il potere monopolistico sotto il profilo temporale.
Infatti, il diritto di privativa ottenuto sul segno distintivo ha una durata
potenzialmente illimitata: a norma dell’art. 16 CPI, il titolare di un marchio può
rinnovare la registrazione quante volte desideri92, e la rinnovazione costituisce un
semplice prolungamento temporale della registrazione originaria, senza soluzione di
continuità nei diritti da questa derivanti. Tale aspetto, presente non solo
nell’ordinamento interno ma anche in quello comunitario ed internazionale, si
rivelerà fondamentale ai fini dell’oggetto della nostra analisi.
Tuttavia, la disciplina dell’istituto in esame presenta alcuni lineamenti che provocano
il rischio del verificarsi di effetti anti-concorrenziali. Il caso in cui, probabilmente,
tale rischio si presenta più forte, è insito proprio nella possibilità di tutelare come
90
Così, G. GHIDINI, Profili evolutivi del diritto industriale, Milano, 2008, p. 241-243; A. VANZETTI,
Natura e funzioni giuridiche del marchio, in AA. VV., Problemi attuali del diritto industriale…, cit., p.
1170. Si veda anche la sentenza della Corte di Giustizia, del 6 maggio 2003, causa C-104/01, in
www.eur-lex.europa.eu , in cui la Corte afferma che <<secondo costante giurisprudenza, il diritto di
marchio costituisce un elemento essenziale del sistema di concorrenza non falsato, che il Trattato
desidera stabilire e conservare>>.
91
Si veda, G. GHIDINI, ivi, p. 242: l’autore parla di <<monopolio a costo zero>>, precisando che tale
situazione si realizza solo se ed in quanto la tutela del segno venga circoscritta esclusivamente alla
funzione distintiva.
92
L’art. 16 CPI riproduce sostanzialmente il testo dell’art. 5 del R.D. 929/1942 (c.d. Legge-marchi),
nella versione introdotta dall’art. 6 del D.lgs. 480/1992. L’art. 15 quarto comma CPI stabilisce che la
registrazione ha la durata di dieci anni, decorrenti dalla data di deposito della domanda; allo stesso
modo, il secondo comma dell’art. 16 CPI prevede che la rinnovazione si effettui per periodi di dieci
anni, la cui decorrenza inizia dalla data di scadenza della registrazione precedente.
35
marchio la forma di un bene93, possibilità oggi espressamente riconosciuta da parte
dell’ordinamento. Non a caso, infatti, sia la dottrina che la giurisprudenza dei
principali Paesi europei assunsero, per un lungo periodo, un atteggiamento di
tendenziale diffidenza nei confronti del marchio di forma94.
Occorre subito precisare che l’istituto menzionato può essere costituito tanto da segni
bidimensionali, quanto da segni tridimensionali; infatti, nonostante la maggioranza
degli autori ritenga che il marchio di forma abbia necessariamente carattere
tridimensionale, la più attenta dottrina non ha mancato di evidenziare l’equivoco alla
base di tale impostazione. Possono infatti aversi marchi bidimensionali
intrinsecamente connessi al prodotto (l’esempio tipico è rappresentato dai disegni
ritmicamente ripetuti sui tessuti delle più importanti case di moda, quali Vuitton,
Burberrys, etc.), così come, al contrario, esistono segni distintivi tridimensionali
estrinseci ed indipendenti dal prodotto, che pertanto non sono qualificabili come
marchi di forma (si pensi alle sculture poste sul cofano delle automobili Rolls
Royce)95.
93
Per un’analisi di tutti i casi in cui, la disciplina del marchio tende a produrre effetti anticoncorrenziali si veda, ancora, G. GHIDINI, ivi , p. 243.
94
In un primo momento, infatti, l’Italia, la Gran Bretagna, la Germania e la Svizzera non
ammettevano la validità del marchio di forma; e identico discorso vale anche per gli Stati Uniti
d’America. Un’eccezione è invece rappresentata dalla Francia, la cui giurisprudenza riconosceva la
validità di tale specie di marchio fin dall’inizio del secolo scorso, e la cui ammissibilità è stata
espressamente sancita dall’art. 1 della L. del 31 dicembre 1964. Si veda, F. BENUSSI, La tutela del
disegno…, cit., p. 162. E’ interessante notare che nell’ordinamento britannico, tradizionalmente
sensibile al primato della ragione concorrenziale, l’atteggiamento ostativo perdurò sino agli inizi
degli anni ’90. Si veda, W. R. CORNISH – D. LLEWELYN, Intellectual Property: Patents, Copyright,
Trade Marks and Allied Rights, London, 2003, p. 652. I due autori fanno menzione di quello che è
stato il caso internazionale principe in materia di marchi di forma (il caso relativo alla bottiglia della
Coca-Cola), specificando che la ragione per cui ne fu negata la registrazione era legata al pericolo di
creare monopoli potenzialmente perpetui sulla forma di beni industriali, così indirettamente
monopolizzando la stessa attività produttrice di tali prodotti: <<many marks which were
unregistrable under earlier legislation are now registered. For example, under the former law, the
House of Lords refused to treat the shape of the “Coca-Cola” bottle as a trade mark […] : it is now
registered>>. Cfr., House of Lords, Coca-Cola T. M., 1986, R. P. C., p. 421.
95
In tal senso, G. SENA, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale e marchio comunitario, Milano, 2007,
p. 80-81. L’autore sottolinea che l’espressione “marchio di forma” non debba indurre in equivoco,
conducendo ad identificare necessariamente questa categoria di marchi con oggetti tridimensionali.
Si veda pure, G. GHIDINI, Profili evolutivi del diritto…, cit., p. 243, il quale richiama l’opinione di G.
SENA. Tuttavia, mentre quest’ultimo ritiene che i segni tridimensionali estrinseci al prodotto non
siano qualificabili come dei marchi di forma, il primo invece fa rientrare anche tali segni nella
categoria in questione; noi riteniamo più corretta l’opinione di G. SENA, in quanto coerente con la
lettera della legge. L’art. 7 CPI infatti, nell’individuare i segni registrabili come marchi, fa riferimento
alla <<forma del prodotto o della confezione di esso>>. Quanto agli autori che identificano i marchi
36
Quanto all’ordinamento italiano, vi erano due motivi fondamentali che inducevano a
rifiutare cittadinanza all’istituto in esame: il primo risiedeva, come già accennato, nel
pericolo che il riconoscimento della sua ammissibilità provocasse inaccettabili
risvolti anti-concorrenziali sul mercato. E’ evidente infatti che se si consentisse alle
aziende di registrare ed utilizzare come segno distintivo, in via esclusiva e
potenzialmente perpetua,
la forma comune di qualsiasi prodotto, si finirebbe,
quantomeno in alcuni casi, per creare un monopolio sulla stessa attività produttrice di
quello specifico bene. E’ chiaro che un simile problema si pone soltanto di fronte ai
marchi tridimensionali, ovvero per quei segni coincidenti con la conformazione
stessa del prodotto finito o della sua confezione (nel caso in cui il prodotto non abbia
forma tridimensionale e si presenti al pubblico come se la sua conformazione fosse
quella del contenitore stesso: si pensi ai profumi o alle bibite).
In sostanza, è solo quando il segno distintivo coincide con la forma del prodotto
finito che si manifesta il rischio di apprezzabili effetti restrittivi sulla concorrenza.
La seconda ragione addotta per giustificare l’inammissibilità dei marchi di forma si
fondava sul principio di alternatività delle tutele: abbiamo già visto nel I° Capitolo
come l’ordinamento avesse predisposto uno specifico sistema di protezione delle
forme ornamentali e funzionali, basato su regole del tutto diverse da quelle previste
dalla disciplina del marchio. In particolare la durata limitata dell’esclusiva e la
sussistenza di requisiti d’accesso alla privativa piuttosto rigorosi, inducevano ad
escludere che tali forme potessero essere tutelate anche come marchi. In sostanza,
per dirla con le parole di Tullio Ascarelli, occorreva evitare che <<l’ambito della
protezione del marchio [si confondesse] con quello dei modelli, [così finendo] per
equivalere ad un brevetto per modello, e a tempo indeterminato>>96. Inoltre
di forma solo con oggetti tridimensionali si veda, F. BENUSSI, ivi, p. 161; R. BICHI, in AA. VV., Segni e
forme distintive…, cit., p. 242; V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 85; L. SORDELLI, Brevi cenni in
tema di marchio tridimensionale e di contraffazione di marchio complesso, in Foro pad., 1963, p.
1431 ss.; M. STELLA RICHTER jr, in AA. VV., Commento tematico della legge marchi, Torino, 1998, p.
184 ss.. Tuttavia non pare che le due impostazioni conducano a risultati differenti: infatti, anche gli
autori che escludono i segni bidimensionali dalla categoria in esame, sembrano sostenere
l’applicabilità, mediante interpretazione estensiva o analogica, della disciplina dei marchi di forma
anche ai c.d. marchi bidimensionali ornamentali.
96
Si veda, T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, p. 483.
Analogamente C. VIVANTE, Trattato di diritto commerciale, Milano, 1924, p. 35, sosteneva che
37
l’eventualità di favorire effetti restrittivi sulla concorrenza era senz’altro più
consistente nel caso in cui la forma di cui si mirasse ad ottenere la tutela come
marchio rappresentasse un elemento essenziale per la funzionalità meccanica o
estetica del prodotto. In tal caso dunque, il problema concorrenziale si intrecciava
con quello, di carattere sistematico, relativo al coordinamento di normative diverse.
Così, il R.D. 21 giugno 1942, n. 929 (c.d. Legge-marchi), all’art. 18 primo comma n.
3, stabiliva che non potevano costituire oggetto di brevetto, per l’uso esclusivo come
marchi, le figure o i segni il cui carattere distintivo fosse inscindibilmente connesso
con quello di utilità e di forma. Tale disposizione fu per lungo tempo oggetto di un
vivace dibattito, a causa dell’ambiguità del suo tenore letterale. Il problema
interpretativo non riguardava tanto l’individuazione della ratio della norma (che la
dottrina, in modo piuttosto uniforme, tendeva ad identificare con l’esigenza di evitare
la sovrapposizione della tutela brevettuale da parte di quella propria dei marchi),
quanto invece l’ammissibilità stessa del marchio di forma.
In un primo momento infatti, la maggioranza degli autori negava la possibilità di
registrare come segno distintivo la forma di un bene97, a causa dei problemi sopra
evidenziati e di una concezione rigorosa del principio di estraneità del marchio al
prodotto98. Tuttavia una parte minoritaria della dottrina sosteneva comunque
l’ammissibilità dell’istituto in esame99: tale opinione era fondata sulla considerazione
<<nessuno può pretendere l’uso esclusivo di un marchio che consista in un disegno, in una forma, in
un involto, in un colore capace di accrescere l’utilità della merce. Chi vuole questo diritto esclusivo
cerchi la sua protezione nella legge che difende i modelli e i disegni di fabbrica, e l’otterrà per un
periodo brevissimo; ma nessuno può confiscare perpetuamente a scapito del progresso di tutti un
progresso industriale.>>
97
In tal senso, E. BONASI BENUCCI, La tutela della forma…, cit., p. 95; F. FERRARA jr, Teoria giuridica
dell’azienda, Firenze, 1945, p. 222-223; G. FERRI, Manuale di diritto commerciale, Torino, 1972, p.
79; P. VERCELLONE, Il marchio, in P. RESCIGNO (a cura di), Trattato di diritto privato, Vol. XVIII,
Torino, 1983, p. 103 ss..
98
In base a tale principio il marchio, in quanto segno distintivo, dev’essere un’entità estranea e
distinta dal bene di cui indica l’origine imprenditoriale, pur essendo ad esso connesso; se così non
fosse non si tratterebbe di un segno distintivo, ma di una caratteristica qualitativa del prodotto.
Vedremo nel paragrafo successivo come tale principio possa essere conciliato con l’istituto del
marchio di forma.
99
Occorre precisare che gli autori che ammettevano la figura del marchio di forma non erano del
tutto concordi fra di loro. Si veda, T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni…, p. 441-442,
l’autore, pur riportando come opinione dominante quella contraria ai marchi tridimensionali che
fossero intrinseci al prodotto funzionalmente ed esteticamente, riportava anche la tesi contraria
38
che la forma di un prodotto potesse svolgere anche una funzione distintiva, oltre che
meramente
estetica
o
meccanica,
evidenziando
indirettamente
l’origine
imprenditoriale del bene. Questi autori, pur non mettendo in discussione il principio
di alternatività delle tutele, tentarono dunque di ricavare uno spazio residuale per il
marchio di forma, attraverso una lettura <<artificiale>> e <<faticosa>> dell’art. 18 n.
3100. In base a tale interpretazione, le forme distintive prive di pregio ornamentale e
di utilità tecnica (o non legate a questa da un collegamento inscindibile), che
presentassero caratteristiche arbitrarie, non consuete, potevano essere validamente
registrate come marchi di forma101.
Questa lettura, in un primo momento poco accreditata, si diffuse notevolmente a
partire dai primi anni Settanta, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza102;
l’avvento dell’era della globalizzazione e la rapida evoluzione del sistema economico
che ne conseguì, rendevano evidentemente necessario il riconoscimento di tutele più
forti a beneficio delle imprese. Si giunse così ad accettare in modo pacifico la
categoria del marchio di forma, seppure subordinandone l’ammissibilità alla
sussistenza delle condizioni indicate. In particolare merita di essere ricordato il
celebre caso concernente la forma della bottiglia di candeggina ACE, in quanto
emblematico dell’impostazione seguita: infatti i giudici milanesi ritennero la
conformazione del contenitore del tutto arbitraria, di fantasia103, affermando che la
dicendosi convinto che il valore distintivo che la forma poteva assumere avrebbe dovuto essere
tutelato. Allo stesso tempo però, Ascarelli sottolineava il pericolo di riconoscere una protezione
potenzialmente illimitata per le forme in questione. Si veda pure, F. BROCK, I marchi di forma, in Riv.
dir. ind., 1952, I, p. 38 ss.; R. FRANCESCHELLI, Trattato di diritto industriale, Parte generale, Vol. II,
Milano, 1960, p. 278-279; ID., Sui marchi di forma, in Riv. dir. ind., 1960, II, p. 378 ss.; G. SENA, Utilità
e funzione distintiva nella forma del prodotto, in Riv. dir. ind., 1957, I, p. 276 ss.; L. SORDELLI,
Relazione tra marchio e forma del prodotto a fini di non confondibilità, in Riv. dir. ind., 1958, II, p. 442
ss.; A. VANZETTI, Il problema dei marchi di forma, in Riv. dir. comm., 1964, I, p. 421 ss.
100
Con questi aggettivi è stata definita l’interpretazione dell’art. 18 n. 3, necessaria per affermare
l’ammissibilità dei marchi di forma. Si veda, A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 109 e
137.
101
L’opinione riferita riscosse alcuni consensi anche in giurisprudenza. A titolo esemplificativo si
vedano, Trib. Milano, 25 ottobre 1962, in Foro pad., 1963, I, 1438; Trib. Milano, 19 gennaio 1961, in
Foro it., 1961, I, 1254; Trib. Roma, 21 marzo 1960, in Giur. ital., 1960, I, 862.
102
Si veda, V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 85.
103
La bottiglia infatti fu descritta come costituita da un corpo cilindrico, che presentava due rilievi,
l’uno in corrispondenza della base, l’altro all’inizio del collo; fu inoltre evidenziato che il contenitore
in questione aveva un’estremità allungata, caratterizzata da un ingrossamento circolare a mezza
altezza. E’ evidente come, con tale descrizione i giudici abbiano sottolineato il carattere arbitrario
della forma esaminata. Si veda, Trib. Milano, 26 febbraio 1976, in Riv. dir. ind., 1977, II, p. 39 ss..
39
bottiglia risultava <<di sgradevole presentazione>>, a causa dell’evidente disarmonia
delle sue linee. La sentenza giunse quindi ad affermare la carenza di qualsiasi pregio
estetico nel contenitore in questione, riconoscendone pertanto la validità come
marchio di forma104.
Tuttavia l’impostazione seguita in questa pronuncia fu criticata da una parte della
dottrina che ne evidenziò l’irrazionalità, in quanto, escludendo che le forme dotate di
qualsiasi pregio ornamentale potessero costituire validi marchi, si arrivava alla
conclusione che fossero ammesse solo forme <<brutte>>105. Conclusione
paradossale, se si considera che ben difficilmente un imprenditore sceglierà di
contraddistinguere i propri prodotti con segni esteticamente sgradevoli; in tal modo,
dunque l’ambito di operatività del marchio di forma sarebbe stato decisamente
esiguo, per non dire inesistente.
La dottrina più autorevole pertanto elaborò un’interpretazione, parzialmente diversa
e correttiva rispetto a quella precedentemente affermatasi, in base alla quale la
registrazione come marchio non sarebbe stata esclusa per ogni forma esteticamente
gradevole, ma solo per quelle la cui conformazione superasse un certo livello
estetico106. In sostanza l’opinione in esame individuava il confine fra tutela
brevettuale e protezione del marchio nel requisito dello speciale ornamento, così
assicurando uno spazio reale alla categoria dei marchi di forma. La stessa
impostazione venne poi applicata alle forme utili, precisando che la registrazione
come segno distintivo non sarebbe stata esclusa per ogni forma che presentasse
caratteri funzionali, bensì esclusivamente per quelle che rappresentassero un nuovo
concetto innovativo. E’ appena il caso di notare che, in base a tale impostazione,
all’ampliamento della categoria delle forme idonee a costituire un marchio conseguì
un corrispondente restringimento di quella relativa alle forme brevettabili.
104
Si veda pure, Cass., 21 maggio 1981 n. 333, in Giur. ann. dir. ind., 1981, 1372. In tale pronuncia la
Suprema Corte afferma: <<la validità dei marchi di impresa, perciò non viene ammessa
indiscriminatamente, ma solo quando trattasi di forma non consueta, arbitraria o di fantasia, alla
quale cioè, siano estranei sia compiti estetici che quelli funzionali o, comunque, di utilità
particolare>>. Inoltre si veda, Cass. 7 aprile 1974 n. 1213, in Giur. ann. dir. ind., 682; App. Milano 26
maggio 1978, in Giur. ann.dir. ind., 1056; Trib. Roma, 9 ottobre 1972, in Giur. ann. dir. ind., 182.
105
In tal senso, M. CARTELLA, Marchi di forma o marchi deformi?, nota a Trib. Milano, 26 febbraio
1976, in Riv. dir. ind., 1977, II, p. 39 ss..
106
Così, A. VANZETTI, I diversi livelli di tutela delle forme…, cit., p. 331 ss..
40
L’indirizzo da ultimo riferito fu poi recepito dalla prevalente giurisprudenza; ne
troviamo un esempio nel noto caso relativo alla forma della bottiglia dell’Amaretto
di Saronno107. Qui infatti il Tribunale riconobbe la tutelabilità come marchio di
questa bottiglia, il cui aspetto (caratterizzato da un tappo a forma di parallelepipedo e
da una lavorazione del vetro a bugnato) era piuttosto particolare e gradevole, dunque
distintivo; i giudici specificarono che l’applicabilità della disciplina del marchio era
possibile proprio perché la forma non presentava un pregio ornamentale
particolarmente accentuato.
Occorre infine fare un accenno ai marchi di forma costituiti da segni bidimensionali:
quanto ad essi, la giurisprudenza si è trovata prevalentemente ad affrontare la
questione relativa alla validità di marchi rappresentanti segni o disegni ritmicamente
ripetuti sul prodotto (i c.d. marchi seriali di lettere)108, orientandosi nel senso di
riconoscerne l’ammissibilità. Tale soluzione era fondata da un lato sull’assunto che il
segno potesse essere suscettibile di diverse utilizzazioni, tra le quali appunto,
l’apposizione seriale sui prodotti; dall’altro sulla considerazione che il disegno
impresso su un tessuto dovesse considerarsi un elemento accessorio, indipendente e
scindibile dalla forma del bene109, idoneo dunque a costituire un valido marchio. La
giurisprudenza ha dunque ritenuto che tali marchi, essendo costituiti da lettere o
disegni elaborati in una forma grafica caratterizzante, non potevano considerarsi
denominativi, ma erano piuttosto marchi emblematici o figurativi.
Volendo sinteticamente ripercorrere quanto appena visto, possiamo affermare che la
figura del marchio di forma è stata, in un primo momento, estranea al nostro
ordinamento, in quanto non espressamente prevista dal legislatore; successivamente,
grazie soprattutto agli sforzi interpretativi compiuti dalla dottrina, l’istituto è stato
riconosciuto come facente parte del sistema giuridico italiano. Pertanto, alla vigilia
dell’intervento comunitario ne era pacifica l’ammissibilità.
107
Cfr. Trib. Milano, 8 aprile 1991, in Giur. ann. dir.ind., 1991, 2130.
Si veda, S. MAGELLI, Sulla validità come marchi o modelli ornamentali dei disegni ritmicamente
ripetuti sul prodotto, in Foro Pad., 1980, I, p. 295; V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle
forme…, cit., p. 59.
109
Si veda, App. Milano, 18 luglio 1995, Giur. ann. dir. ind., 1995, 2316.; Trib. Milano, 28 gennaio
1993, in Giur. ann. dir. ind., 1993, 1081.; Cass., 28 giugno 1980 n. 4090, in Giur. ann. dir. ind., 1980,
2051; App. Milano, 26 maggio 1978, in Giur. ann. dir. ind., 1978, 1342. Una pronuncia più recente su
questo stesso tema è quella del Trib. Firenze, 10 maggio 2001, Giur. ann. dir. ind., 2001, 851.
108
41
2.1.2 L’intervento del legislatore comunitario
La disciplina del marchio è stata modificata in maniera significativa a seguito
dell’intervento del legislatore comunitario, avvenuto con la Direttiva del 21 dicembre
1988, n. 89/104 CEE110. Come già accennato, la globalizzazione ha reso più aspra la
competizione fra le imprese presenti sul mercato, così accentuando indirettamente
l’importanza del marchio quale strumento in grado di esercitare una notevole forza
attrattiva sul pubblico. Questa situazione indusse le aziende, soprattutto quelle di
maggiori dimensioni, ad esercitare forti pressioni sulle istituzioni, in particolare
quelle europee, per vedere rafforzata la tutela del marchio.
Per quel che riguarda specificamente l’oggetto di questo lavoro, le imprese
impegnate a sviluppare design d’avanguardia avvertivano l’esigenza di ottenere una
protezione più prolungata nel tempo, preoccupate del fatto che, a fronte del lungo
periodo necessario per imporre sul mercato nuove tendenze stilistiche, la durata del
brevetto per modello ornamentale fosse troppo limitata; il rischio, in sostanza, era
quello di veder scadere l’esclusiva proprio nel momento in cui la forma brevettata
cominciasse ad attrarre una domanda di massa111.
La Commissione europea ravvisò dunque l’opportunità di procedere ad un
ravvicinamento del diritto dei marchi degli Stati membri, attraverso lo strumento
della Direttiva che, come noto, consente di eliminare le disparità più marcate fra le
diverse legislazioni interne, senza stravolgerle radicalmente; inoltre, con questo
stesso intervento, venne perseguito l’obiettivo di rafforzare le prerogative del titolare
del segno. Il risultato raggiunto con la Direttiva 89/104 fu un notevole ampliamento
della tutela del marchio; l’ordinamento italiano si mise perciò in linea con quello
europeo tramite l’approvazione del D.lgs. del 4 dicembre 1992, n. 480, che modificò
in misura consistente il R. D. 929/42. La riforma infatti, non si limitò ad introdurre
110
Tale Direttiva è stata successivamente codificata con la Direttiva 2008/95/CE, del 22 ottobre
2008.
111
Si veda, G. GHIDINI, Industrial design e opere d’arte applicate all’industria (dialogo tra P. SPADA e
P. AUTERI, commentato da G. GHIDINI), in Riv. dir. civile, 2002, p. 267 ss.
42
modifiche alla disciplina del marchio sotto diversi profili, ma
comportò un
cambiamento radicale nella fisionomia stessa dell’istituto, spostando l’asse portante
della sua protezione dalla funzione distintiva a quella attrattiva112.
E’ in questa prospettiva che occorre guardare all’inserimento del marchio di forma
nella categoria dei segni distintivi: l’art. 16 del D.lgs. 480/92 infatti, contiene
l’espressa menzione della forma del prodotto o della sua confezione, fra i segni
idonei ad essere registrati come marchi. Tuttavia la tutelabilità del marchio di forma
è stata ampiamente circoscritta, subordinando la possibilità di conseguire la
registrazione al rispetto di alcuni limiti particolari, che riflettono i rischi evidenziati
nel paragrafo precedente, legati a tale istituto113. Approfondiremo tra breve questo
aspetto; qui è necessario soffermarsi ancora un momento sugli interventi del
legislatore comunitario in materia di marchi.
Infatti, poco dopo l’introduzione della Direttiva di ravvicinamento, il legislatore
europeo approvò il Regolamento 94/40 CE, del 20 dicembre 1993, istitutivo del
marchio comunitario. La disciplina così introdotta, sebbene largamente ispirata agli
stessi principi contenuti nella Direttiva, prevedeva una novità rilevante: la creazione
di un titolo di proprietà industriale europeo (appunto il marchio comunitario),
ottenibile mediante un unico procedimento di registrazione ed idoneo a produrre gli
stessi effetti in tutti gli Stati membri114. Alla base di tale innovazione vi era l’intento
112
In tal modo il legislatore ha accordato protezione agli investimenti pubblicitari incorporati nel
segno, riconoscendo la rilevanza del suo “selling power”. L’eliminazione del c.d. vincolo aziendale, la
possibilità di stipulare contratti di licenza non esclusiva nonché quella di ottenere la registrazione del
segno con l’unico fine di sfruttarne il valore di scambio, sono solo alcune delle novità più significative
introdotte dalla riforma, che dimostrano il radicale mutamento subito dall’istituto del marchio. Per
un’analisi più approfondita si veda, M. RICOLFI, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 64 ss..
113
A conferma di ciò bisogna sottolineare che il rischio del verificarsi di effetti anti-concorrenziali è
stato chiaramente segnalato dalla stessa Commissione Europea, nell’ explanatory memorandum che
accompagnò la proposta della Direttiva di armonizzazione. Infatti, nel commento agli articoli di
questa, si affermava: <<the shape of goods will not be refused registration, unless the fact of
registration would make it possible for an undertaking to monopolize that shape to the detriment of
its competitors and of consumer>>. Si veda, A. FIRTH – E. GREDLEY – S. MANIATIS, Shapes as Trade
Marks: Public Policy, Functional Considerations and Consumer Perceptions, in EIPR, 2001, p. 86 ss.
114
L’art. 1 paragrafo 2 infatti, stabilisce che il marchio comunitario <<produce gli stessi effetti in tutta
la Comunità: esso può essere registrato, trasferito, formare oggetto di una rinuncia, di una decisione
di decadenza dei diritti del titolare o di nullità e il suo uso può essere vietato solo per la totalità della
Comunità>>. E’ bene precisare che, perché il marchio comunitario divenisse una realtà operativa, si è
dovuto attendere fino al 1996, anno in cui è entrato in funzione “l’Ufficio di armonizzazione a livello
di mercato interno” (UAMI), collocato ad Alicante. Si deve inoltre aggiungere che il marchio
comunitario è in parte amministrato da istituzioni comunitarie, in parte da istituzioni che fanno capo
43
di incoraggiare le imprese ad operare su scala europea, senza tuttavia eliminare i
marchi nazionali: in questo modo si è riconosciuta alle aziende la possibilità di
scegliere il titolo più idoneo rispetto ai loro obiettivi di mercato, optando tra un
marchio nazionale, un marchio comunitario o ancora un fascio di diritti regolati dai
diversi ordinamenti nazionali (eventualità, quest’ultima, praticabile in base alla
Direttiva 89/104 e alla Convenzione d’Unione di Parigi).
Veniamo adesso all’oggetto specifico della nostra analisi: come già accennato, l’art.
2 della Direttiva indica fra i segni suscettibili di costituire un marchio d’impresa la
forma del prodotto o del suo confezionamento115; l’ordinamento italiano si è
uniformato a tale disposizione inserendo la medesima previsione nell’art. 16 della
Legge-marchi. Inoltre il legislatore comunitario ha inserito nell’art. 3 paragrafo
primo, lett. e)116 una serie di impedimenti assoluti alla registrazione specificamente
dedicati al marchio di forma; anche questa norma è stata fedelmente riprodotta dal
D.lgs. 480/92 ed inserita nell’art. 18 lett. c) del R.D. 929/42, sostituendo così il testo,
tanto discusso, contenuto nel n. 3 del medesimo articolo.
La disposizione in questione stabiliva: <<non possono costituire oggetto di
registrazione come marchio d’impresa […] : i segni costituiti esclusivamente dalla
forma imposta dalla natura stessa del prodotto, dalla forma del prodotto necessaria
agli Stati membri: infatti l’UAMI è competente per il procedimento di registrazione, mentre la
contraffazione del titolo comunitario può essere fatta valere solo di fronte ai Tribunali dei marchi
comunitari, costituiti dalle autorità giudiziarie di primo e secondo grado designate dai Paesi membri
nei rispettivi territori (in Italia tale funzione è svolta dalle Sezioni Specializzate in Proprietà
Industriale).
115
Identica disposizione è contenuta nell’art. 4 del Regolamento 94/40. E’ appena il caso di notare
che, mentre in precedenza al concetto di marchio di forma veniva indistintamente ricondotta tanto
la forma del prodotto quanto quella della confezione, con tale disposizione il legislatore ha chiarito
che si tratta di due realtà diverse, pur assimilandole ai fini della registrabilità come marchio. In tal
senso, M. STELLA RICHTER jr, in AA. VV., Commento tematico della legge…, cit., p. 170; A. VANZETTI –
C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 109. Contra: G. LA VILLA, Commento alla nuova legge sui marchi, in
Riv. dir. ind., 1993, I, p. 304; l’autore infatti sostiene che il riferimento alla forma della confezione
riguardi le forme bidimensionali, vale a dire le grafie ed i disegni del packaging. Sulla distinzione fra
forma del prodotto e forma del confezionamento si è pronunciata pure la Corte di Giustizia,
affermando che, sebbene le due entità possano funzionare entrambe come marchi di forma, in
alcuni casi (quali ad esempio quelli di un prodotto liquido o di una polvere) la confezione finisce per
essere così intrinsecamente connessa al prodotto, da costituirne la forma stessa. Cfr. Corte di
giustizia, 12 febbraio 2004, causa C-218/01, in Foro it., 2004, IV, p.130 ss., con nota di G. CASABURI.
116
Anche in questo caso la medesima previsione è stata inserita nel Regolamento 94/40, all’art. 7
paragrafo 1 lett. e).
44
per ottenere un risultato tecnico, o dalla forma che dà un valore sostanziale al
prodotto>>. Tale norma trova la sua origine nell’art. 1 2° comma della Legge
Uniforme del Benelux del 1971, il quale fece da modello in sede comunitaria per la
soluzione adottata117: questo dato, apparentemente di poco conto, si rivelerà di una
certa importanza quando arriveremo ad analizzare il problema della sovrapposizione
fra la disciplina del marchio di forma e quella sui disegni e modelli. E’ bene
sottolineare sin da ora che la nuova versione dell’art. 18 ha provocato un primo
scossone al sistema di protezione della forma dei prodotti industriali; questa
affermazione sarà abbondantemente argomentata nel prosieguo della trattazione.
La dottrina non ha mancato di evidenziare l’opportunità della modifica apportata alla
disposizione in esame118: sebbene, come abbiamo visto, si era comunque giunti a
ritenere ammissibile l’istituto del marchio di forma, ciò era possibile solo attraverso
un’interpretazione della norma decisamente artificiosa. La riforma ha reso superflua
tale operazione ermeneutica ed ha dunque avuto il merito di chiarire, nel senso
dell’ammissibilità della registrazione, una serie di casi in precedenza considerati
dubbi119.
Va detto però che la nuova formulazione dell’art. 18, ferma restandone la maggior
chiarezza, pare porsi in linea di continuità con il suo antecedente: le condizioni cui è
subordinato il conseguimento del titolo infatti, sembrano ricalcare da un lato la
preoccupazione di impedire la monopolizzazione perpetua di intere categorie di
prodotti, dall’altro quella di evitare che la tutela del marchio consenta di aggirare i
117
Infatti l’art 1 2° comma della suddetta legge vieta l’adozione come marchio della <<forme
imposée par la nature meme du produit>>, di quella <<qui influe valeur sur la essentielle du produit>>
e di quella <<qui produit des résultats industriels>>. A conferma della discendenza della disposizione
comunitaria da tale norma si può notare che la stessa non è stata modificata dal Protocollo adottato
dal Comitato dei Ministri dell’Unione economica del Benelux, per adeguarla alla Direttiva. Si veda, R.
ANNAND – H. NORMAN (a cura di), Blackstone’s Guide to the Trade Marks Act 1994, London, 1994,
p. 65; A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 140.
118
In tal senso, A. VANZETTI – C. GALLI, ivi, p. 137.
119
Prima dell’intervento del legislatore comunitario, infatti, vi erano altre categorie di marchi, oltre a
quello di forma, la cui ammissibilità era considerata dubbia: si pensi ai marchi di colore, di cui la
giurisprudenza tendeva a riconoscere la registrabilità solo in caso di combinazioni cromatiche
particolari, in base al presupposto che un colore di per sé sia sprovvisto di capacità distintiva. Si veda
ancora, A. VANZETTI – C. GALLI, ivi, p. 110. Cfr., Cass., 15 luglio 1965, n. 1550, in Giur. it., 1966, I, 1,
30 ss.; App. Milano, 9 settembre 1975, in Giur. ann. dir. ind., 1975, 589.
45
limiti temporali previsti dalla legge sui modelli industriali120. Occorre inoltre
precisare che, al di là dei peculiari limiti alla registrazione previsti dall’art. 18 lett. c),
la disciplina del marchio di forma non si differenzia da quella prevista per le altre
categorie di segni: vige cioè il principio della parità di trattamento fra le diverse
tipologie di marchio, elaborato dalla giurisprudenza comunitaria in particolare in
occasione del riconoscimento dei c.d. marchi non convenzionali (quali quello di
colore, di suono, etc.), e più volte ribadito in una serie di pronunce121. Difatti, la
possibilità di registrare qualunque tipo di marchio è subordinata in ogni caso alla
sussistenza di due condizioni fondamentali, vale a dire la rappresentabilità grafica del
segno e la sua capacità distintiva122.
Quanto in particolare a quest’ultimo requisito, si tratta di una verifica che va di volta
in volta ragguagliata ai beni destinati ad essere contraddistinti dal segno; la Corte di
Giustizia ha ripetutamente affermato che tale valutazione è incentrata sulla
percezione del pubblico, nonché sulla natura del prodotto di cui il segno deve
indicare l’origine imprenditoriale123. Ciò deriva dal fatto che il marchio è
indiscutibilmente un segno di comunicazione ed il consumatore ne è evidentemente il
principale ricettore, per cui occorre accertare che questi percepisca tale entità come
indicazione della provenienza del bene da una certa impresa, piuttosto che come una
sua caratteristica. L’esame dev’essere compiuto facendo riferimento ad un parametro
di
consumatore
medio,
da
intendersi
come
normalmente
informato
e
ragionevolmente avveduto, tenendo conto del fatto che il livello d’attenzione del
120
In tal senso, V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 86; D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione
servile di fronte alla disciplina europea del design, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 251;
M. STELLA RICHTER jr, in AA. VV., Commento tematico della legge…, cit., p. 184.
121
Cfr. Trib. Primo Grado, 19 settembre 2001, causa T-30/00; Trib. Primo Grado, 6 marzo 2003, causa
T-128/01; Trib. Primo Grado, 3 dicembre 2003, causa T-305/02; Corte di Giustizia, 22 giugno 2006,
causa C-24/05 P, tutte leggibili in www.eur-lex.europa.eu. Si veda pure, S. SANDRI, La protezione
della forma nella giurisprudenza della corte di giustizia, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit.,
p. 161 ss..
122
Tali condizioni, inserite dal D.lgs. 480/92 nel testo dell’art. 16 della Legge-marchi, sono state oggi
trasposte nell’art. 7 del Codice della Proprietà Industriale, che sostanzialmente riproduce il suddetto
art. 16.
123
Si veda, Corte di Giustizia, 11 novembre 1997, causa C-251/95; Corte di Giustizia, 22 giugno 1999,
causa C-342/97; Trib. Primo Grado, 2 luglio 2008, causa T-340/06, tutte leggibili in www.eurlex.europa.eu. Si veda anche, D. BRAMBILLA, Carattere individuale e capacità distintiva…, cit., p. 453
ss.; S. SANDRI, La forma che dà valore sostanziale…, cit., p. 31 ss..
46
pubblico varia sensibilmente a seconda della categoria dei beni o servizi
considerati124.
Tuttavia si rende necessaria una precisazione: sebbene i criteri di valutazione del
carattere distintivo nei marchi di forma non siano più severi o diversi da quelli
applicabili alle altre categorie di segni125, la percezione del pubblico interessato può
non essere la stessa rispetto ai casi in cui si trovi davanti a prodotti contraddistinti
con marchi figurativi o denominativi. Infatti, mentre queste tipologie di segni sono
immediatamente percepite nella loro funzione essenziale di indicatori di provenienza,
ciò non necessariamente accade qualora il marchio si confonda con l’aspetto del
prodotto stesso126: così, se di norma non è richiesto un grado particolarmente elevato
di originalità affinché si ritenga sussistente il requisito della capacità distintiva, per i
marchi di forma è necessario che questi si discostino in misura significativa dalla
configurazione abituale del prodotto127 (il che, peraltro, si ricava dal primo degli
impedimenti alla registrazione indicati nell’art. 18 lett.c)).
124
Ad esempio, se si considerano beni tecnologicamente sofisticati deve assumersi un livello di
attenzione più elevato. Si veda, Corte di Giustizia, 12 gennaio 2006, causa C-361/04, in Giur. it., 2006,
p. 1187 con nota di C. SAPPA, Nomi di celebrità e rischio di confusione fra marchi: il caso “Picasso”;
Corte di Giustizia, 22 giugno 1999, causa C-342/97, in Dir. ind., 1999, p. 317, con commento di G.
FOGLIA.
125
Affermazione, anche questa, più volte ribadita da parte della giurisprudenza comunitaria. In
particolare si veda la già citata sentenza del Tribunale di Primo Grado, in cui si dice che il
Regolamento 40/94/CE <<non opera alcuna distinzione riguardo alle differenti categorie di marchi.
Di conseguenza, non occorre applicare criteri più severi nel valutare il carattere distintivo dei marchi
tridimensionali costituiti dalla forma dei prodotti stessi […] rispetto ai criteri applicati ad altre
categorie di marchi>>. Cfr., Trib. Primo Grado, 3 dicembre 2003, causa T-305/02, in Foro it., 2004, IV,
p. 130 ss., con nota di G. CASABURI; Analoga affermazione è rinvenibile nella sentenza della Corte di
Giustizia, 22 giugno 2006,causa C-24/05 P., in www.eur-lex.europa.eu. Si veda pure un caso
recentemente deciso dalla giurisprudenza italiana, relativo alla validità di un marchio costituito dalla
forma di una merendina (“Kinder fetta al latte”) a parallelepipedo, rifinita con un taglio lineare e
dalla successione di colori marrone-bianco-marrone. La Corte ha ritenuto tale forma banale, anche in
considerazione della successione di colori (in quanto imposta dalla natura stessa del prodotto),
affermando che <<la forma deve presentare una valenza specifica rispetto al prodotto che la
incorpora; deve cioè presentare i requisiti della novità e della originalità in sé>>. In sostanza i giudici
hanno reputato che la conformazione del prodotto mancasse di carattere distintivo, compiendo una
valutazione in tutto analoga a quella effettuata per ogni categoria di marchio. Cfr. App. Torino, 2
gennaio 2004, Giur. it., 2005, 1867.
126
Si veda, Trib. Primo Grado, 28 gennaio 2004, causa T-146/02, in www.marchiocomunitario.it,
6/2004, con nota di S. SANDRI, Marchi di forma e interesse dei concorrenti nel caso dei “sacchetti”
avanti al Tribunale di Primo Grado, oppure in Foro it., 2004, IV, p. 130 ss., con nota di G. CASABURI.
127
Si veda, Corte di Giustizia, 25 ottobre 2007, causa C-238/06 P., in www.eur-lex.europa.eu.
47
La questione relativa alle particolarità che il marchio di forma presenta in merito al
requisito del carattere distintivo, rispetto alle categorie convenzionali di segni, è
strettamente connessa a quella relativa al principio di estraneità del marchio al
prodotto. Questo principio rappresenta un ulteriore presupposto di validità della
registrazione di qualsivoglia tipo di marchio: in base ad esso il segno distintivo,
proprio perché tale, dev’essere un’entità autonoma dal prodotto e dalle sue qualità,
seppur con questo connessa e capace di differenziarlo128 (è chiaro che, se così non
fosse, il marchio si ridurrebbe ad una mera caratteristica qualitativa del bene cui
inerisce). Occorre allora domandarsi come conciliare il principio di estraneità alla
categoria dei marchi di forma, categoria con esso apparentemente incompatibile.
Secondo alcuni autori, in tal caso il principio non andrebbe riferito alla forma dello
specifico prodotto di cui di volta in volta si tratti, ma piuttosto <<ad una struttura
pienamente funzionale rispetto alla quale, nella fattispecie, gli elementi che danno
alla forma il suo carattere distintivo si presentano come mere aggiunte, delle quali
può immaginarsi l’assenza, senza che la piena utilità del prodotto venga meno>>129.
In base a questa opinione bisognerebbe dunque comparare la forma standard del bene
oggetto di analisi e quella che esso effettivamente presenta, in modo da valutare se
gli elementi che caratterizzano la configurazione del prodotto siano astrattamente
eliminabili (in quanto, appunto, estranei) senza che la natura di questo ne venga
alterata.
Tuttavia non ci pare che quest’interpretazione del principio di estraneità del marchio
al prodotto sia la più corretta: ciò non solo perché la sua concreta applicazione
porterebbe, a nostro avviso, a compiere valutazioni soggettive, e sarebbe pertanto
causa di incertezza, ma soprattutto in quanto, anche in questo caso, il metro di
valutazione sembra dover essere centrato sulla percezione del consumatore. Infatti,
per costituire un valido marchio di forma il segno deve essere quantomeno
128
Il principio di estraneità del marchio al prodotto è desunto, dalla dottrina, dall’art. 7 CPI (ed in
precedenza dall’art. 16 della Legge-marchi), nella parte in cui dispone che il marchio debba essere
<<atto a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese>>.
129
In tal senso, A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 160-161. Una dottrina invece ritiene
che, in seguito all’espresso riconoscimento da parte del legislatore dei c.d. marchi non convenzionali
(ovvero i marchi di forma, di colore, di suono, etc.) il principio di estraneità non possa più ritenersi
attuale; l’opinione sarebbe confermata dalla mancata previsione del suddetto principio nel Codice
della Proprietà Industriale. Cfr., V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…,
cit., p. 44.
48
idealmente separabile dal prodotto, ma questa ideale estraneità non può che essere
valutata sulla base della percezione del consumatore medio, in linea con tutta la
disciplina dei segni distintivi. Bisognerà perciò tenere presenti le concrete modalità
di utilizzazione e di presentazione del prodotto, nonché delle informazioni e
suggestioni trasmesse attraverso la pubblicità; come affermato in una pronuncia del
Tribunale di Napoli, <<solo il contesto concreto di uso, di pubblicizzazione ed in
ultima analisi di conoscenza, fa sì che la forma di una cosa, pur continuando
inevitabilmente ad essere tale, diventi anche altro da sé, vale a dire compendio di
conoscenze, di suggestioni, di comunicazione: in una parola un marchio>>130.
Riteniamo dunque che, nel caso dei marchi di forma, sia necessario compiere questo
tipo di valutazioni per stabilire se il segno sia considerabile come estraneo al
prodotto, nonché dotato di capacità distintiva.
In merito a quest’ultimo requisito occorre fare un’ulteriore osservazione: in linea di
principio il momento in cui viene accertata la sussistenza dei presupposti di validità
della registrazione è quello del deposito della domanda per il conseguimento del
titolo. Tuttavia, poiché l’impiego del marchio avviene per un certo periodo di tempo,
le vicende successive alla data di deposito possono essere rilevanti per valutare il
carattere distintivo del segno; per questa ragione la legge prevede due particolari
fenomeni, opposti e simmetrici, denominati dalla dottrina secondary meaning e
volgarizzazione. In virtù del primo un segno originariamente privo di capacità
distintiva, può acquisirla successivamente grazie all’uso che ne venga fatto; l’utilizzo
del segno, in sostanza, fa sì che al suo significato generico se ne aggiunga un
secondo (appunto, secondary meaning), idoneo ad indicare la provenienza del
prodotto da una determinata impresa.
Il fenomeno della volgarizzazione, invece, si verifica quando un marchio
inizialmente dotato di carattere distintivo, perda tale qualità (in particolare perché
diviene denominazione generica del prodotto o servizio cui inerisce) a causa dell’uso
o del non uso fattone dal suo titolare, così provocando la decadenza del segno131.
130
Cfr., Trib. Napoli, 26 luglio 2001 (ord.), in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 153, con nota di S. GIUDICI. Si
veda pure, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La
protezione…, cit., p. 58.
131
I due istituti menzionati sono attualmente disciplinati dall’art. 13 del Codice della Proprietà
Industriale, rispettivamente ai commi 2° e 4°. Per una più approfondita analisi si veda, M. RICOLFI, in
49
Nonostante i dubbi manifestati da una parte della dottrina, si deve ritenere che anche
i due istituti appena menzionati possano trovare applicazione nel caso dei marchi di
forma; la questione verrà analizzata dettagliatamente nel capitolo successivo, poiché
a nostro avviso, il problema del coordinamento della disciplina sui marchi di forma
con quella relativa ai disegni e modelli può trovare soluzione proprio attraverso il
fenomeno del secondary meaning.
Infine si deve aggiungere che pure gli ulteriori presupposti di validità della
registrazione, ovvero la liceità e la novità, si applicano anche rispetto ai marchi di
forma, e lo stesso è da dirsi in merito all’istituto del marchio di fatto. Poiché tali
aspetti della disciplina dei segni distintivi non pongono specifici problemi
relativamente alla figura del marchio di forma, non è necessario approfondirli oltre.
E’ bene invece ribadire che per tutte le categorie di marchi, inclusi dunque quelli di
forma, il legislatore prevede la possibilità di rinnovare quante volte si desideri la
registrazione, mettendo così a disposizione dei titolari della privativa una tutela di
durata potenzialmente perpetua.
2.1.3 I limiti alla registrabilità dei marchi di forma
Veniamo ora ad analizzare gli impedimenti alla registrazione specificamente
concernenti la categoria dei marchi di forma, mettendo innanzitutto in evidenza che il
testo dell’art. 18 lett. c) della Legge-marchi è stato trasposto dal legislatore italiano
nel Codice della Proprietà Industriale all’art. 9, senza apportarvi alcuna modifica.
AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 81-85. Quanto in particolare al fenomeno della volgarizzazione,
prima della riforma del 1992 si riteneva, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, che questo fosse
legato ad un dato oggettivo, poiché la legge non faceva alcun riferimento al comportamento del
titolare del segno o dei suoi concorrenti. Tuttavia, una corrente allora minoritaria della
giurisprudenza aveva posto le basi della teoria soggettiva, affermando che la decadenza del segno
non si verificava nel caso in cui il suo titolare si fosse adoperato in ogni maniera per impedirlo. In tal
senso, Cass., 2 agosto 1956 n. 3018, in Foro it., 1957, I, 2029; Cass., 18 gennaio 1960 n. 28, in Foro it.,
1960, II, 1231. Con la riforma del ’92 la teoria oggettiva è stata definitivamente accantonata, e la
stessa impostazione introdotta con la novella della Legge-marchi è stata successivamente ripresa nel
Codice della Proprietà Industriale, all’art. 13 comma 4°; pertanto oggi, ai fini del giudizio sulla
decadenza del marchio per volgarizzazione, rileva esclusivamente il contegno del titolare del segno,
inteso quale attività o inattività dello stesso. E’ appena il caso di notare che tale cambiamento
rappresenta un ulteriore segnale del rafforzamento dell’esclusiva, avvenuto con il D.lgs. 480/92. In
tal senso, G. SENA, Il nuovo diritto dei marchi. Marchio nazionale e marchio comunitario, Milano,
1998, p. 47 ss..
50
Pertanto d’ora in poi faremo riferimento all’attuale disciplina contenuta nel Codice,
in quanto coincidente con quella introdotta a seguito dell’intervento comunitario.
La formulazione dell’art. 9 CPI non appare particolarmente chiara: un’autorevole
dottrina ha infatti osservato che la “forma imposta dalla natura stessa del prodotto”
non sembra differenziarsi molto da quella “necessaria per ottenere un risultato
tecnico”, ed entrambe potrebbero ritenersi forme che danno “un valore sostanziale al
prodotto”132. Evidentemente però, è necessario interpretare la disposizione in modo
da attribuire ai tre limiti in essa stabiliti dei significati diversi, altrimenti non si
spiegherebbe per quale ragione il legislatore abbia previsto tre ipotesi distinte. La
definizione di esse esige una complessa analisi sistematica, in quanto, come
sottolineato dalla Corte di Giustizia, la ratio dei tre impedimenti <<consiste nel fatto
di evitare che la tutela del diritto di marchio sfoci nel conferimento al suo titolare di
un monopolio su soluzioni tecniche o caratteristiche utilitarie di un prodotto>>133.
Inoltre, sembra potersi affermare che i tre criteri previsti dalla disposizione in esame
abbiano il ruolo di individuare le forme che, in quanto coessenziali all’esistenza
stessa del prodotto, siano prive di funzione distintiva e non possano pertanto
costituire validi marchi. Come già evidenziato, il carattere distintivo costituisce
l’elemento di discrimine fondamentale per l’accesso alla tutela dei segni distintivi;
riteniamo perciò che la forma di un prodotto o quella della sua confezione possano
costituire un valido marchio solo qualora svolgano essenzialmente o prevalentemente
una funzione distintiva134. Questa impostazione è del resto confermata dalla lettera
132
Così, A. VANZETTI, Commento alla Prima Direttiva del Consiglio delle Comunità Europee sul
ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi di imprese, in Nuove leggi
civ. comm., 1989, p. 1428 ss.
133
Cfr. Corte di Giustizia, 18 giugno 2002, causa C-244/00, in Giur. ann. dir. ind., 2002, 4464. Nello
stesso senso anche, Corte di Giustizia, 12 febbraio 2004, causa C-218/01; Trib. Primo Grado, 28
gennaio 2004, cause riunite T-146/02 e T-153/02; Trib. Primo Grado, 3 dicembre 2003, causa T305/02; tutte in Foro it., 2004, IV, p. 130 ss., con nota di G. CASABURI.
134
In tal senso, L. LIUZZO, Strumenti di protezione delle forma nel campo della proprietà intellettuale,
in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 46; G. SENA, Il diritto dei marchi. Marchio
nazionale…, cit., p. 83; secondo quest’ultimo autore, se non si ammettesse che la forma possa
costituire un marchio solo svolgendo essenzialmente o prevalentemente funzione distintiva, si
arriverebbe a concludere che ogni prodotto è il marchio di sé stesso, quantomeno come marchio di
fatto. Si veda anche, Cass. 23 novembre 2001, n. 14863, in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 329 ss. In tale
pronuncia la Suprema Corte afferma che <<la protezione di una forma come marchio presuppone la
capacità della medesima di identificare un prodotto distinguendosi da esso>>. Ancora, Trib. Catania,
23 luglio 2003, in Foro it., X, 2003, p. 2832, con nota di G. CASABURI.
51
della norma, la quale non a caso contiene le espressioni “esclusivamente” e
“necessaria”; tale aspetto verrà comunque approfondito nel corso della trattazione.
Il primo criterio selettivo dettato dall’art. 9 CPI attiene alla forma imposta dalla
natura stessa del prodotto: la dottrina unanimemente ritiene che tale limite faccia
riferimento alla forma generalizzata di un certo tipo di bene135. Si tratta insomma
della conformazione naturale del prodotto, che in quanto tale caratterizza tutti i beni
appartenenti al medesimo genere merceologico; o ancora delle c.d. forme
standardizzate, ovvero quelle divenute nel corso del tempo coessenziali all’esistenza
stessa del prodotto. Senza questa previsione il titolare del diritto potrebbe
monopolizzare la stessa attività di produzione della categoria cui appartiene il bene, e
il marchio sarebbe inoltre del tutto privo di carattere distintivo.
Si è giustamente osservato che la “forma imposta dalla natura stessa del prodotto”
rappresenta il completamento della previsione oggi contenuta nella lett. b) 1° comma
dell’art. 13 CPI136: tale norma infatti dispone che <<non possono costituire oggetto
di registrazione come marchio d’impresa i segni […] costituiti esclusivamente dalle
denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi
si riferiscono […]>>. In sostanza il primo dei limiti indicati nell’art. 9 CPI
costituisce il corrispondente, per le forme, del disposto di cui all’art. 13 lett b), che
invece regola segni consistenti in parole. Da quest’ultima notazione, peraltro, sembra
doversi desumere l’applicabilità anche ai marchi di forma dell’istituto della
volgarizzazione; può infatti accadere che una forma originariamente dotata di
capacità distintiva, in quanto diversa da quella comunemente adottata per quel genere
di prodotti, divenga banale a seguito di un uso intenso e prolungato da parte degli
135
In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura
di), ivi, p. 6; G. CASABURI, La tutela delle forme tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), ivi, p.
56; V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 86-87; S. MAGELLI, L’estetica nel diritto…, cit., p. 104; M.
PERUGINI, Il marchio di forma: dall’esclusione della forma utile od ornamentale al criterio del “valore
sostanziale”, in Riv. dir. ind., 1992, I, p. 107; M. RICOLFI, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 86; G.
SENA, ivi, p. 81; M. STELLA RICHTER jr, in AA. VV., Commento tematico della legge…, cit., p. 185; A.
VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 138. Si veda pure, Cass., 23 novembre 2001, n. 14863,
in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 329 ss.. Tale sentenza afferma che la forma imposta dalla natura stessa del
prodotto deve intendersi quella naturale ovvero quella standardizzata del bene, noto appunto in
quella configurazione.
136
Disposizione in precedenza inserita nella lett. b) dell’art. 18 della legge-marchi. Cfr., V. DI
CATALDO, ivi, p. 86; M. STELLA RICHETR jr, ivi, p. 185.
52
operatori del settore. Un autorevole interprete ha definito questo fenomeno di perdita
del carattere distintivo come <<processo di standardizzazione>>137.
Del resto una diversa conclusione, fondata sull’idea che la decadenza per
volgarizzazione si riferisca ai soli marchi denominativi, in quanto solo questi
possono divenire <<denominazione generica del prodotto>>, non era sostenibile
neppure sotto la vigenza della vecchia Legge-marchi, in quanto priva di qualsiasi
giustificazione sistematica138; ma tale conclusione è oggi del tutto impraticabile, in
quanto l’art. 13 4° comma stabilisce che la decadenza del marchio si verifichi ogni
volta che il segno perda la sua capacità distintiva139.
Per quanto riguarda i due restanti impedimenti alla registrazione indicati nell’art. 9
CPI, alla base di essi sta senz’altro l’intento di coordinare la protezione conferita
dalla disciplina dei marchi con quella delle privative specificamente previste in altri
settori del diritto della proprietà industriale. Del limite relativo alla “forma che dà
valore sostanziale al prodotto” ci occuperemo nei prossimi paragrafi; qui non resta
che esaminare il riferimento alla “forma necessaria per ottenere un risultato tecnico”.
Anche in merito all’interpretazione di tale criterio la dottrina sembra non avere
dubbi140: si tratta delle forme che conferiscono al prodotto un certo grado di utilità
tecnica, ovvero le c.d. forme funzionali.
Prima della riforma del 1992 era dubbio se la regola della non tutelabilità delle forme
utili riguardasse solo le c.d. forme necessarie, vale a dire non suscettibili di varianti,
o si estendesse anche a quelle che, pur essendo condizionate da esigenze tecniche,
137
In tal senso, V. DI CATALDO, ivi, p. 87. Si veda pure, P. FRASSI, L’acquisto della capacità distintiva
delle forme industriali, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 281-283; ID., Forma del prodotto,
secondary meaning e standardizzazione, in Riv. dir. ind., 1999, I, p. 142 ss..
138
L’art. 41 lett. a) del R. D. 929/1942, nella versione novellata dal D.lgs. 480/1992, sembrava infatti
riferire solo ai marchi denominativi il fenomeno della volgarizzazione, in quanto stabiliva che la
decadenza del segno si sarebbe verificata quando questo fosse divenuto nel commercio
denominazione generica del prodotto o del servizio. Si veda, Trib. Milano, 22 gennaio 1981, in Giur.
ann. dir. ind., 1981, 1397. In questa pronuncia i giudici milanesi affermano che, ove si interpretasse il
suddetto art. 41 nel senso di escluderne l’applicabilità ai marchi diversi da quelli denominativi,
sarebbe configurabile una questione di costituzionalità, in quanto <<non sembra manifestamente
infondato ritenere che l’accordare tutela monopolistica ad un segno privo di capacità distintiva
contrasta con il principio della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 della Costituzione>>.
139
Il testo della suddetta norma, infatti, dispone: <<il marchio decade se, per il fatto dell’attività o
dell’inattività del suo titolare, sia divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto o
servizio o abbia comunque perduto la sua capacità distintiva>>.
140
Il riferimento è agli stessi autori menzionati nella nota 47, a proposito della forma imposta della
natura stessa del prodotto; a tale nota dunque si rimanda.
53
fossero comunque modificabili senza che venisse alterata la funzionalità del
prodotto. Come correttamente evidenziato da alcuni autori, la disposizione introdotta
con il D.lgs. 480/92 offre un dato testuale di un certo peso a sostegno della prima
lettura: infatti, vietando la registrabilità dei segni consistenti <<esclusivamente>> in
forme <<necessarie>>, la norma implicitamente ammette che la privativa venga
accordata su forme che, pur avendo una funzione utile, non siano indispensabili al
raggiungimento dell’effetto tecnico141. Affermazione confermata dal fatto che la
regola che vieta la registrabilità delle forme necessarie ad ottenere un risultato
tecnico trovi la sua spiegazione nell’esigenza di non vanificare la disciplina su
invenzioni e modelli di utilità. Infatti la legislazione sui brevetti prevede una tutela
specifica a favore delle innovazioni nel campo tecnico, subordinando la concessione
del titolo (la cui durata peraltro è limitata a vent’anni senza possibilità di rinnovo)
alla presenza di un apporto creativo. L’impedimento alla registrazione di cui si tratta
stabilisce dunque la regola secondo cui le due protezioni sono alternative, per cui una
forma che sia proteggibile come invenzione o modello di utilità non potrà accedere
alla tutela come marchio; se così non fosse la disciplina dei segni distintivi, in base
alla quale una protezione potenzialmente perpetua è ottenibile senza che sia
necessario alcun apporto inventivo, consentirebbe di aggirare completamente i limiti
posti dalla legislazione sui brevetti142. E’ appena il caso di notare come i risultati cui
conduce tale lettura coincidano del tutto con quelli cui la dottrina era pervenuta già
prima della riforma del ’92: i rapporti fra la disciplina del marchio e quella di
invenzioni e modelli d’utilità sono pertanto rimasti inalterati.
Da ultimo occorre precisare che il riferimento alla “tecnicità” non sembra doversi
intendere in maniera eccessivamente rigorosa: riteniamo che rientrino nella categoria
141
In tal senso, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La
protezione…, cit., p. 58; V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 88-89; A. VANZETTI – C. GALLI, La
nuova legge…, cit., p. 139. Un’altra dottrina ha invece sostenuto che il criterio in esame faccia
riferimento all’ipotesi in cui il marchio non contenga altro che forme necessarie, non presentando
alcun elemento arbitrario ed indipendente nella sua configurazione. Così, L. LEONELLI – P. PEDERZINI
– C. COSTA – R. CORONA, Commentario alla legge sui marchi d’impresa, Milano, 1993, p. 58. Si veda
pure la già citata pronuncia del Tribunale di Napoli, in cui si afferma che <<una forma, pur utile, può
comunque essere marchio se in concreto è tale la funzione che prevalentemente espleta>>. Cfr.,
Trib. Napoli, 26 luglio 2001 (ord.), in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 153, con nota di S. GIUDICI, Alcune
riflessioni sui marchi di forma alla luce della nuova disciplina sui disegni e modelli.
142
Per tutti si veda, A. VANZETTI, I diversi livelli di tutela delle forme…, cit., p. 330 ss..
54
in analisi, eventualmente in virtù di un’interpretazione estensiva, anche le forme
necessarie per il raggiungimento di un risultato commerciale in senso lato (ad
esempio quelle che consentono maggior facilità di stoccaggio o nel trasporto, o che
permettono un miglior controllo delle condizioni di conservazione del prodotto, etc.),
o che consentono di osservare determinate prescrizioni normative143. Pur trattandosi
di situazioni che a stretto rigore non rientrano nella formula “risultato tecnico”, pare
più corretto evitare la concessione di monopoli dalla durata potenzialmente illimitata
su soluzioni di questo tipo.
2.1.4 La forma che dà valore sostanziale al prodotto: l’interpretazione
dominante fino al D.lgs. 95/2001
Veniamo ora ad esaminare il terzo ed ultimo dei presupposti di validità della
registrazione del marchio di forma, indicato nell’art. 9 CPI; su tale criterio è
necessario soffermarsi in modo particolare, in quanto esso rappresenta il fulcro della
questione relativa all’individuazione dell’esatto confine fra la disciplina sui disegni e
modelli e la normativa sul marchio di forma.
Si è già accennato al fatto che il D.lgs. 480/92 abbia provocato un primo scossone
all’interno del sistema giuridico relativo alla tutela della forma dei prodotti
industriali; tuttavia, lo stravolgimento radicale del suddetto sistema si è verificato
con l’introduzione del D.lgs. 95/2001, di attuazione alla Direttiva 98/71/CE sulla
protezione giuridica dei disegni e modelli. Infatti, fino all’entrata in vigore di questa
nuova
normativa,
dottrina
e
giurisprudenza
maggioritarie
avevano
dato
un’interpretazione dell’espressione “forma che dà un valore sostanziale al prodotto”
in linea con l’impostazione seguita nel nostro ordinamento fino alla riforma del ‘92.
Attraverso
una
delicata
analisi
ermeneutica,
essenzialmente
fondata
su
considerazioni sistematiche piuttosto che sul dato normativo, la dottrina era riuscita a
far “quadrare il cerchio”, individuando un ambito applicativo autonomo della
disciplina sul design rispetto a quella sul marchio di forma, in linea con il principio
143
In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura
di), La protezione…, cit., p. 24.
55
di alternatività delle tutele144. Come vedremo tra breve, tale soluzione è divenuta non
più sostenibile in seguito all’intervento del legislatore comunitario del 2001.
L’opinione largamente maggioritaria, dapprima in dottrina e poi anche fra la
giurisprudenza, era fondata sull’idea che le forme capaci di dare al prodotto un
valore sostanziale coincidessero con le c.d. forme ornamentali; data la scarsa
chiarezza della formula utilizzata dal legislatore (formula che peraltro consiste nella
mera traduzione letterale di quella inserita nell’art. 3.1 lett. e) della Direttiva145), per
l’affermazione di tale orientamento furono decisive considerazioni di ordine
sistematico146. Si trattava infatti di una lettura che uno dei suoi più autorevoli
sostenitori aveva definito <<sostanzialmente obbligata>>147, in quanto consentiva di
evitare che la registrazione del marchio rendesse potenzialmente perpetua una
protezione che la legge sui disegni o modelli voleva invece temporanea.
Tale risultato era possibile attribuendo all’espressione “forma che dà un valore
sostanziale al prodotto” un significato equivalente a quello di “forma atta a dare a
determinati prodotti industriali uno speciale ornamento”, di cui all’art. 5 della Leggemodelli148. Nel requisito dello speciale ornamento veniva dunque individuato lo
144
Si veda però, G. GHIDINI, Un appunto sul marchio di forma, in Riv. dir. ind., 2009, I, p. 83 ss.
L’autore ritiene che l’interpretazione data dalla dottrina maggioritaria precedentemente al 2001
fosse fondata su un <<ardito slalom ermeneutico>>, fondamentalmente <<nominalistico>>,
affermando dunque che tale soluzione fosse poco convincente anche prima dell’introduzione del
D.lgs. 95/2001.
145
La versione inglese della Direttiva 89/104, all’art. 3.1 lett. e), infatti recita: <<he following shall not
be registered or if registered shall be liable to be declared invalid: […] signs which consist exclusively
of: […] the shape which gives substantial value to the goods>>.
146
Si veda, V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 89.
147
Così definisce la soluzione esaminata ADRIANO VANZETTI, I diversi livelli di tutela delle forme…,
cit., p. 323 ss.
148
In tal senso, V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 89-90; C. GALLI, Attuazione della Direttiva n.
89/104/C.E.E. Commentario, in Nuove leggi civ. comm., 1995, p. 1174-1176; S. MAGELLI, L’estetica
nel diritto…, cit., p. 104-105; G. MONDINI, La direttiva comunitaria sulla protezione giuridica…, cit.,
996-997; M. RICOLFI, I segni distintivi. Diritto interno e comunitario, Torino, 1999, p. 66; D. SARTI, La
tutela dell’estetica…, cit., p. 118 ss; A. VANZETTI, ivi, p. 323 ss.; A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova
legge…, cit., p. 92-95. In giurisprudenza si veda, Cass., 17 gennaio 1995 n. 484, in Giur. ann. dir. ind.,
1995, 78, in cui si afferma : << La registrazione come marchio di una forma è consentita quando il
suo carattere ornamentale o funzionale non supera il gradiente minimo necessario a rendere tale
forma brevettabile come modello, e ciò sia perché tale soluzione sembra quella che più
razionalmente è idonea a chiarire i rapporti fra tutela del marchio e tutela dei modelli ornamentali,
sia perché esprime una linea interpretativa che è accolta dal nuovo testo dell’art. 18 legge marchi
introdotto dal D.lgs. n. 480/92>>; Trib. Catania, 30 novembre 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1999, 752 ;
56
spartiacque fra tutela brevettuale della forma, a norma della disciplina sui disegni e
modelli, e tutela della forma come marchio (nonché contro l’imitazione servile, ex
art. 2598 n. 1 c.c.). La dottrina più attenta aveva inoltre evidenziato la necessità di
non intendere questa ricostruzione in maniera eccessivamente rigorosa, in modo da
assicurare uno spazio reale ai marchi di forma149. Occorreva insomma mantenere
l’impostazione seguita già alla vigilia dell’intervento comunitario, in base alla quale
la registrabilità come marchio non doveva essere esclusa per qualunque forma dotata
di gradevolezza estetica, ma solo per quelle che raggiungessero un certo livello
ornamentale; ciò, del resto, conformemente a quella che abbiamo visto essere allora
l’interpretazione più accreditata del criterio dello speciale ornamento.
In base a questa ricostruzione perciò, la protezione brevettuale sarebbe stata
appannaggio delle forme esteticamente più significative, che raggiungessero la soglia
indicata dall’art. 5 della Legge-modelli, lasciando a tutte le altre la possibilità di
ottenere la tutela del marchio o contro l’imitazione servile (ovviamente se ed in
quanto dotate di capacità distintiva). In tal modo il confine fra le discipline
menzionate veniva delineato con precisione; precisione però più apparente che
effettiva se si considera che il requisito dello speciale ornamento era segnato da un
certo margine di ambiguità, dovuto al suo carattere irrimediabilmente soggettivo.
Tuttavia, si è già visto come la dottrina avesse tentato di superare simili
inconvenienti, intendendo il parametro in termini di valore di mercato, come capacità
della forma di orientare le scelte d’acquisto dei consumatori150.
Pret. Modena, 26 gennaio 1999, in Giur. ann. dir. ind., 1999, 879 ; Comm. Ricorsi, 14 giugno 1999, in
Giur. ann. dir. ind., 2000, 1209.
149
Si veda, M. CARTELLA, Marchi di forma o marchi deformi?..., cit., p. 39 ss; L. LIUZZO, Modelli,
disegni, forme, marchi tridimensionali e la loro tutelabilità…, cit., p. 213 ss.; A. VANZETTI – C. GALLI,
ivi, p. 138, i quali osservano che l’ambito di operatività dei marchi di forma sarebbe inesistente
<<ove si pretendesse che ogni forma anche minimamente dotata di una valenza estetica non possa
costituire un valido marchio, dato che […] non è seriamente pensabile che gli imprenditori adottino
dei marchi brutti>>.
150
In questa direzione si è orientata peraltro la Terza Commissione di Ricorsi dell’UAMI, nel c.d. caso
“Gancino Quadrato”, relativo alla conformazione di una fibbia per calzature della Ferragamo. Nella
decisione infatti si legge: <<non è sufficiente che la forma sia gradevole o attrattiva per escluderne la
registrabilità. Se così fosse, non sarebbe praticamente configurabile alcun marchio di forma, dato
che nell’economia moderna non vi è alcun prodotto di interesse industriale che non sia oggetto di
studio, ricerca e disegno industriale prima della sua immissione in commercio. Nel caso di specie, la
forma della fibbia è un elemento aggiuntivo del prodotto, non fa parte della sua struttura, non ne
costituisce in via esclusiva l’ornamento. Il suo apporto ornamentale, per quanto importante, non
57
La soluzione era in linea con l’esigenza, di carattere pubblicistico, di evitare una
monopolizzazione perpetua delle innovazioni ornamentali, consentendone la caduta
in pubblico dominio una volta decorso il termine di durata della privativa151; ciò,
nonostante il principio della libera imitabilità delle forme non coperte da brevetto
venisse parzialmente attenuato dall’applicazione della teoria delle varianti innocue,
cui aderiva una parte della giurisprudenza152.
L’opinione in esame, inoltre, aveva il pregio di risultare estremamente coerente, non
solo perché
in perfetto parallelismo con la soluzione individuata per le forme
funzionali, indicata nel paragrafo precedente153, ma soprattutto in quanto assicurava
ad ogni istituto previsto dall’ordinamento per la protezione della forma, un proprio
ambito operativo autonomo, in armonia con il principio generale di alternatività delle
tutele che attribuisce a ciascuno strumento giuridico una propria, specifica
funzione154.
Un’ulteriore considerazione a vantaggio dell’impostazione in esame derivava dal
fatto che questa consentisse di evitare bruschi mutamenti interpretativi, ponendosi in
linea di continuità con la tradizione culturale e giurisprudenziale del nostro Paese155.
sembra accreditare il prodotto di un valore esclusivo, determinante. Si intuisce piuttosto […] che i
consumatori degli articoli per i quali è rivendicato il marchio, effettuano le proprie scelte d’acquisto a
ciò indotti da un insieme di fattori, diversamente concorrenti a seconda delle circostanze […] >>. La
Commissione Ricorsi, insomma, afferma che la fibbia di cui si discute non possa considerarsi come
una forma che conferisce valore sostanziale al prodotto, in quanto non risulta determinante nelle
scelte d’acquisto. Si veda, Comm. Ricorsi, 3 maggio 2000, in Giur. ann. dir. ind., 2000, 4198.
151
Si vedano, C. GALLI, L’attuazione della direttiva comunitaria sulla protezione…, cit., p. 885; G.
MONDINI, La direttiva comunitaria sulla protezione giuridica…, cit., p. 997, il quale sottolinea che
<<se […] la ragione del limite temporale alla tutela brevettuale risiede nell’interesse generale alla
libera utilizzabilità delle innovazioni estetiche, è evidente che, allorché una forma, pur gradevole,
non raggiunga livelli peculiari di creatività ornamentale, viene meno anche l’interesse alla sua caduta
in pubblico dominio e prevale, pertanto, l’interesse individuale dell’imprenditore di evitare fenomeni
di imitazione confusoria>>.
152
Di tale teoria abbiamo già parlato nel Capitolo I°: a quella sede pertanto si rinvia per ulteriori
approfondimenti.
153
Per tutti si veda, A. VANZETTI, I diversi livelli di tutela delle forme…, cit., p. 323 ss.
154
Si veda, S. MAGELLI, L’estetica nel diritto…, cit., p. 104. L’autrice sottolinea come l’opinione
esaminata fosse indispensabile per leggere la disposizione dell’art. 18 lett. c) della Legge-marchi in
maniera coerente, evidenziando che <<escluse le forme già note e quelle innovative sul piano
tecnico, contemplate dalle prime due ipotesi [vale a dire le forme imposte dalla natura stessa del
prodotto e quelle necessarie per conseguire un risultato tecnico], restano da considerarsi solo quelle
estetiche>>.
155
Infatti la soluzione elaborata dalla dottrina coincideva sostanzialmente con quella già individuata
prima della riforma del ’92, che abbiamo ampiamente esposto nel primo paragrafo di questo
58
Occorre però evidenziare che, già prima della riforma del 2001, il presupposto su cui
si fondava la teoria in esame era stato indebolito dall’affermarsi della dottrina della
Crowded Art, in base alla quale il gradiente di incremento estetico necessario per la
brevettazione come disegno o modello nei c.d. settori affollati poteva essere
relativamente modesto; il che, nei rapporti fra questi istituti ed il marchio di forma si
traduceva evidentemente nella non registrabilità della forma come marchio, in quanto
le sottili differenze che questa presentava rispetto alle precedenti erano già sufficienti
ad ottenere il titolo a norma della disciplina sull’industrial design156.
Inoltre è necessario sottolineare che già anteriormente all’entrata in vigore del D.lgs.
95/2001 parte minoritaria della dottrina aveva elaborato una lettura contrapposta
rispetto a quella appena descritta, incentrata sull’idea di ammettere il cumulo di
tutele (così anticipando soluzioni che avrebbero riscosso maggiori consensi a seguito
della riforma)157. Questa opinione traeva spunto dal fatto che la formula adottata
dalla Direttiva 89/104, e successivamente recepita dal legislatore interno, derivasse
da quella inserita nella Legge Uniforme del Benelux del 1971, interpretata dalla
giurisprudenza locale nel senso di ammettere il cumulo tra la protezione del marchio
e quella prevista dalla disciplina sui disegni e modelli158. Inoltre i sostenitori di tale
tesi ritenevano che la possibilità del cumulo fosse contemplata nella stessa Leggemarchi, in quanto la nuova versione dell’art. 18 primo comma lett. f) stabiliva che
non potessero costituire oggetto di registrazione <<i segni il cui uso costituirebbe
violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto di
terzi>>. Questi autori infatti osservavano che tale disposizione, confermata dall’art.
Capitolo. In tal senso, M. STELLA RICHTER jr., in AA. VV., Commento tematico della legge…, cit., p.
185.
156
Si veda, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di),
La protezione…, cit., p. 7-8.
157
In tal senso, G. FLORIDIA, Nuove forme di protezione per l’industrial design, in Dir. ind., 1994, p.
821 ss.; G. LA VILLA, Introduzione al diritto dei marchi d’impresa, Torino, 1994, p. 43 ss.; M. R.
PERUGINI, Il marchio di forma: dall’esclusione della forma utile od ornamentale al criterio…, cit., p. 96
ss.; G. SENA, Il nuovo diritto dei marchi. Marchio nazionale e comunitario, Milano, 1998, p. 30 ss.
158
In tal senso, Court Benelux, 23 dicembre 1985, in Ing.-Cons., 1986, p. 75 ss. Si tratta del c.d. caso
Adidas, in cui la Corte afferma l’ammissibilità del cumulo, salvo che <<le produit est de nature telle
que son aspect et sa forme déterminent fortement sa valeur marchande>>.
59
48 della medesima legge159, riconoscesse implicitamente l’astratta eventualità che su
uno stesso segno concorressero le diverse privative indicate, in capo a titolari distinti,
purché appunto ciò non avvenisse in violazione dei diritti degli uni o degli altri 160.
In base a questa differente impostazione perciò, la locuzione “forma che dà un valore
sostanziale al prodotto” non poteva coincidere con qualunque forma ornamentale, ma
doveva piuttosto essere intesa come facente riferimento a quelle forme che
influiscono
in
maniera
determinante
sull’apprezzamento
del
consumatore,
inducendolo alla scelta di quel certo prodotto. Ne derivava che il criterio da seguire
per decidere se una forma, non generalizzata né funzionale, fosse o meno
appropriabile come marchio, consisteva nello stabilire se la stessa avrebbe potuto
svolgere essenzialmente o prevalentemente una funzione distintiva161.
Va aggiunto infine che in dottrina era stata sostenuta pure una terza opinione,
intermedia rispetto alle due appena illustrate, in base alla quale la forma sostanziale
che escludeva la tutela come marchio non coincideva con tutte le forme che
superassero un certo gradiente estetico, ma soltanto con quelle idonee, per la natura
del prodotto cui inerivano, ad incidere fortemente sulle scelte del pubblico162.
159
Infatti l’art. 48 3° comma della Legge-marchi prevedeva che la convalidazione del marchio potesse
operare anche in relazione al vizio derivante dalla violazione dell’art. 18.1 lett. f).
160
Così, G. LA VILLA, Introduzione al diritto dei marchi…, cit., p. 44, il quale afferma che l’introduzione
dell’art. 18.1 lett. f) rappresenti un’innovazione <<dirompente>>, in quanto sconvolge il principio
dell’alternatività delle esclusive.
161
Si veda ancora, G. SENA, Il nuovo diritto dei marchi. Marchio nazionale…, cit., p. 34, secondo il
quale si rendeva necessario un <<giudizio di prevalenza, valutando se il fatto che [un certo] prodotto
abbia una forma originale ne condizioni fortemente l’affermazione commerciale, o meno>>. La tesi
di cui si discute riscosse alcuni consensi anche in giurisprudenza. Si veda, Trib. Udine, 31 agosto
1998, in Giur. ann. dir. ind., 1998, 862, che ha ammesso il cumulo fra la protezione del marchio e
quella del modello ornamentale, sostenendo che dopo la riforma del 1992 non avrebbe più senso
<<cercare una distinzione ontologica tra le forme che debbono essere tutelate come modelli
ornamentali e quelle che possono costituire marchi di impresa>>. Si veda anche la già menzionata
ordinanza del Tribunale di Napoli del 26 luglio 2001, in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 153, nella quale si
afferma <<Non può trascurarsi che l’art. 18 l.m. contiene l’avverbio “esclusivamente”, il che
comporta che le forme non riconducibili in via esclusiva ad una funzione utilitaristica (tecnica od
ornamentale) o alle caratteristiche ontologiche della cosa, possono assolvere anche altre funzioni,
vale a dire quella di marchio>>.
162
In tal senso, G. CASABURI, La nuova disciplina dei disegni e modelli…, cit., p. 100 ss.
60
2.2 La forma che dà valore sostanziale al prodotto: il cambio di rotta
successivo al D.lgs. 95/2001
Veniamo ora ad analizzare il mutamento interpretativo concernente la categoria delle
forme che danno valore sostanziale al prodotto, imposto dall’entrata in vigore della
nuova disciplina sui disegni e modelli, di derivazione comunitaria.
Abbiamo già accennato al fatto che la novella del 2001 ha comportato un notevole
stravolgimento, non solo relativamente alla disciplina dell’industrial design, ma
anche e soprattutto all’interno del sistema di tutela della forma dei prodotti industriali
globalmente inteso, modificando i rapporti fra i diversi istituti previsti
dall’ordinamento a tale scopo. Il legislatore comunitario ha infatti accolto le istanze
che venivano dal mondo imprenditoriale, volte ad ottenere una protezione più forte e
duratura rispetto ad un fattore tanto importante nella gara concorrenziale,
coordinando le varie forme di tutela in maniera del tutto nuova rispetto
all’impostazione fino a quel momento seguita nell’ordinamento italiano. Il
cambiamento difatti non ha riguardato solo i rapporti fra il marchio di forma e i
disegni e modelli, ma anche la relazione fra questi ultimi ed il diritto d’autore: in
merito a tale profilo è appena il caso di accennare che la riforma è giunta ad
ammettere il cumulo delle due protezioni, fino a quel momento sostanzialmente
negato all’interno del nostro sistema giuridico163.
163
Infatti la disciplina nazionale precedente l’attuazione della Direttiva 98/71/CE prevedeva che le
due tutele fossero alternative: l’art. 5 della Legge-modelli stabiliva che ai disegni e modelli non
fossero applicabili le disposizioni sul diritto d’autore, ed in maniera corrispondente l’art. 2 n. 4 della
Legge sul diritto d’autore escludeva che le opere dell’arte applicate all’industria venissero protette a
norma di quella legge, salvo che il loro valore artistico fosse scindibile dal carattere industriale del
prodotto cui erano associate. Il criterio della scindibilità fu inteso da dottrina e giurisprudenza nel
senso di richiedere la possibilità concettuale di concepire il disegno o la forma come oggetto di
contemplazione artistica, così finendo sostanzialmente per negare la protezione del diritto d’autore
a tutte le forme tridimensionali, in quanto non concettualmente separabili dal prodotto stesso.
Questa situazione è perdurata fino all’intervento comunitario, in quanto la suddetta Direttiva ha
sancito esplicitamente il cumulo delle due tutele, lasciando però agli ordinamenti nazionali la
possibilità di fissarne le condizioni. Così il legislatore italiano ha dato attuazione alla Direttiva
eliminando il criterio della scindibilità ed inserendo nell’art. 2 della Legge sul diritto d’autore un
numero 10, a norma del quale sono comprese nella protezione <<le opere del disegno industriale
che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico>>. L’ordinamento italiano dunque
ammette oggi il cumulo, subordinandolo alla condizione che l’opera presenti valore artistico, un quid
pluris per la cui esatta definizione occorrerà attendere un’adeguata elaborazione giurisprudenziale.
Per ulteriori approfondimenti sul tema della tutela autoriale dell’industrial design si veda, M.
61
Nel paragrafo precedente si è visto come dottrina e giurisprudenza maggioritarie
avessero interpretato l’espressione “forma che dà un valore sostanziale al prodotto”
attribuendole un significato equivalente a quello di “speciale ornamento”, requisito
contemplato nell’art. 5 della Legge-modelli ai fini dell’accesso alla tutela
brevettuale. E’ dunque evidente che l’eliminazione di tale requisito, e la sua
sostituzione con il parametro del carattere individuale, abbiano imposto un
cambiamento nella lettura della formula utilizzata nell’art. 9 CPI.
Il criterio del carattere individuale è infatti qualitativamente diverso e decisamente
meno severo rispetto al suo antecedente; esso, come già dimostrato, dev’essere inteso
come capacità della forma di istituire un “contatto privilegiato” fra il prodotto ed il
consumatore esperto, rendendolo ai suoi occhi distinguibile rispetto ai beni già
presenti sul mercato. Questa definizione perciò non consente più di ricostruire una
nozione di “valore sostanziale del prodotto” che sia contemporaneamente funzionale
per delimitare le forme proteggibili come marchio ed individuare la soglia d’accesso
alla tutela dei disegni o modelli. Ciò significa che l’equazione in base alla quale le
forme capaci di conferire valore sostanziale al prodotto coincidono con quelle dotate
di speciale ornamento, non può più essere utilizzata nel sistema successivo alla
novella del 2001, sostituendo quest’ultimo termine con il requisito del carattere
individuale. Una simile conclusione, del resto, non sarebbe neppure conforme
all’intenzione storica del legislatore comunitario, in quanto nel corso dei lavori
preparatori della Direttiva 98/71 non è mai emersa l’esigenza di determinare la soglia
d’accesso alla tutela in modo da escludere le forme registrabili come marchio, né
d’altro canto, il parametro del carattere individuale richiama in alcun modo la
formula del valore sostanziale, come pure sarebbe stato possibile164.
CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La
protezione…, cit., p. 25 ss.; S. GIUZZARDI, La tutela d’autore del disegno industriale: incentivi
all’innovazione e regime circolatorio, Milano, 2005, in particolare p. 66 ss.; G. FLORIDIA, in AA. VV.
Diritto industriale…, cit., p. 308-311; V. SCORDAMAGLIA, Il diritto d’autore sulle opere del disegno
industriale secondo la L. n. 46/2007, in Dir. ind., 2008, p. 81 ss..
164
Tale aspetto è evidenziato da D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla
disciplina europea del design, in AA. VV. Segni e forme distintive…, cit., p. 252.
62
Visto da un’altra prospettiva, quanto appena affermato comporta che la sussistenza
dell’impedimento alla registrazione del marchio non dipenda più dalla possibilità di
accedere all’esclusiva prevista dalle norme sui disegni e modelli165.
Pertanto si deve concludere che l’impostazione elaborata in seguito alla riforma della
Legge-marchi, che con estrema coerenza ricostruiva il sistema di protezione della
forma in maniera da assicurare a ciascun istituto un ambito applicativo specifico ed
esclusivo, è divenuta non più perseguibile con l’intervento della nuova disciplina sul
design. Le modifiche da questa introdotte hanno messo in discussione i pilastri su cui
si reggeva il suddetto sistema, comportando il superamento del principio di
alternatività delle tutele, in contrasto con la tradizione dottrinale e giurisprudenziale
del nostro Paese. Quest’ultimo aspetto verrà trattato dettagliatamente nel Capitolo
successivo; qui è invece necessario soffermarsi sulla nuova interpretazione del
criterio del valore sostanziale, poiché la determinazione di tale nozione è preliminare
all’individuazione del confine fra la disciplina del marchio e quella sui disegni e
modelli.
A proposito della definizione dell’espressione “forma che dà un valore sostanziale al
prodotto” la dottrina è a tutt’oggi fondamentalmente divisa in due distinti filoni, a
seconda che la nozione venga o meno ricondotta ad un criterio estetico. Le due
opinioni sono apparentemente molto simili, in quanto entrambe traducono la formula
in esame facendo riferimento al valore di mercato del bene, vale a dire alla capacità
della forma di rappresentare l’essenza o, appunto, la sostanza del prodotto stesso.
Tuttavia esse possono condurre a risultati
diversi, per cui è bene chiarire la
differenza fra le due letture ed i motivi che spingono a propendere per l’una piuttosto
che per l’altra.
La prima impostazione tende a far coincidere le forme dotate di valore sostanziale
con le c.d. forme ornamentali, ritenendo che la forma caratterizzata da particolari
pregi estetici incida in maniera decisiva sull’apprezzamento del pubblico, divenendo
165
Tale conclusione è condivisa dalla dottrina largamente maggioritaria. A titolo meramente
esemplificativo si vedano, G. CASABURI, La nuova disciplina dei disegni e modelli…, cit., p. 104; A.
FITTANTE, Il nuovo diritto industriale…, cit., p. 45-49; G. SENA, La diversa funzione e i diversi modelli
di tutela della forma…, cit., p. 583; A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 142-143.
63
così determinante nella scelta del prodotto. In base a tale opinione il valore
sostanziale attribuito al bene si risolverebbe in un valore aggiunto di notevole
rilevanza, un quid pluris che aumenta il valore commerciale del prodotto poiché,
superando un certo livello estetico ne modifica l’identità, ed interferisce sul
meccanismo di determinazione della scelte dei consumatori166.
L’interpretazione qui riferita, insomma è fondata sull’idea che esista una
corrispondenza tra valore estetico e vantaggio competitivo, continuando di fatto a
fare riferimento alla nozione di speciale ornamento, non più vigente; la valutazione
di preferibilità rispetto ai prodotti concorrenti deriverebbe quindi dall’apprezzamento
del suo particolare pregio estetico, grazie al quale il bene si troverebbe in una
posizione distaccata e privilegiata nell’ambito del settore merceologico di
riferimento. Secondo tali autori la ratio dell’impedimento alla registrazione in esame
sarebbe quella di evitare che le forme innovative sotto il profilo ornamentale restino,
per un periodo tendenzialmente illimitato, appannaggio esclusivo di un solo
produttore167.
Questa opinione conduce a ritenere che il requisito dello speciale ornamento, pur non
rappresentando più la linea di confine fra la tutela del marchio e quella dei disegni e
modelli (in quanto anche forme che non raggiungono la soglia dello speciale
ornamento potranno accedere a tale protezione), continui a fungere da spartiacque tra
le forme registrabili e non registrabili come marchio.
166
In tal senso, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura
di), La protezione…, cit., p. 17-25; G. FLORIDIA, Il riassetto della proprietà industriale, Milano, 2006,
p. 77; C. GALLI, L’attuazione della direttiva comunitaria sulla protezione…, cit., p. 890; G. GHIDINI, Un
appunto sul marchio…, cit., p. 88; M. LAMANDINI – M. PAPPALARDO, Il difficile equilibrio tra “valore
sostanziale” e carattere distintivo della forma. Commento a Trib. Venezia, 24 gennaio 2008, in Dir.
ind., 2008, p. 325 ss.; L. LIUZZO, Modelli, disegni, forme, marchi tridimensionali e la loro tutelabilità…,
cit., p. 215; M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 7 ss.; I. M.
PRADO, Commento a Trib. Venezia, 15 febbraio 2012, in Dir. ind., 2012, p. 351 ss.; M. RICOLFI, Diritto
industriale…, cit., p. 87; A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale…, cit., p. 163-165. In giurisprudenza
si veda, Cass., 23 novembre 2001 n. 14863, in Riv. dir. ind., 2002, II, p. 326 ss., in tale pronuncia la
Suprema Corte afferma che la forma capace di attribuire valore sostanziale al prodotto è <<quella il
cui pregio modifica l’identità di un prodotto in quanto tale perché ne aumenta il valore
merceologico, senza perciò mutarne la funzione ontologica>>. Si veda pure, Trib. Bologna, 2 luglio
2008 (ord.), in www.utetgiuridica.it; e la già citata sentenza del Tribunale di Venezia, 24 gennaio
2008, in Dir. ind., 2008, p. 325 ss..
167
In tal senso in particolare, M. MONTANARI, ivi, p. 17-18. L’autore ritiene che nella categoria delle
forme che danno valore sostanziale al prodotto rientrino tutte le opere del design d’architettura
propriamente inteso; per questo sottolinea la necessità di rifuggire dall’uso generico del termine
design, spesso utilizzato in maniera del tutto impropria.
64
Quanto alla seconda lettura dell’espressione “valore sostanziale”, anch’essa pone al
centro la percezione del consumatore e la capacità della forma di incidere sulle sue
scelte d’acquisto. L’opinione in analisi considera dunque dotate di valore sostanziale
le forme in grado di determinare in larga misura il comportamento del pubblico,
sempre partendo dalla convinzione che la ratio della norma consista nell’evitare che
la protezione del design, la cui durata temporale è circoscritta, venga bypassata
attraverso l’applicazione della disciplina sul marchio168.
Come detto, tale ricostruzione apparentemente non è molto distante da quella
precedentemente illustrata; tuttavia essa presenta una differenza di non poco conto,
in quanto si fonda sull’idea che questa capacità della forma di influenzare le
decisioni d’acquisto dipenda dalla sua funzione attrattiva, piuttosto che da un elevato
livello ornamentale. Tale dato risulta essenziale, poiché permette di prescindere da
una valutazione tesa a determinare il livello estetico della forma, ovvero a
quantificarlo per stabilire se si sia o meno raggiunta la soglia dello speciale
ornamento; come già abbondantemente sottolineato infatti, si tratta di una
valutazione ambigua e rischiosa, essendo estremamente difficile individuare dei
parametri di riferimento certi.
Per comprendere meglio la differenza fra le due interpretazioni esaminate è utile
menzionare un caso recentemente sottoposto all’attenzione del Tribunale di Venezia:
si trattava di un giudizio avente ad oggetto la forma di un particolare tipo di calzature
(le celebri Crocs), forma registrata dalla parte attrice come marchio tridimensionale e
di cui essa lamentava la contraffazione. Le convenute, invece sostenevano la nullità
del segno, in quanto appunto dotato di valore sostanziale, quindi registrato in
violazione dell’art. 9 CPI. I giudici hanno ritenuto la forma in grado di esercitare una
notevole forza attrattiva sui consumatori, in virtù della sua peculiare conformazione,
definita <<tozza>>, <<brutta>> e <<buffa>> ma proprio in quanto tale <<trendy>>,
giungendo così a negare la validità del marchio perché costituito da una forma idonea
ad influenzare le scelte d’acquisto del pubblico e
168
dotata perciò di valore
Per questa seconda impostazione si vedano, A. FITTANTE, Il nuovo diritto industriale…, cit., p. 48;
G. GARGIULO, Industrial design e marchi di forma nella prospettiva…, cit., p. 435; S. SANDRI, La forma
che dà valore sostanziale…, cit., p. 31 ss..
65
sostanziale169. Se il Tribunale di Venezia avesse applicato la prima delle opinioni
illustrate sarebbe pervenuto all’opposta conclusione di ritenere la forma in questione
priva di valore sostanziale, in quanto carente di particolari pregi ornamentali, anzi
esteticamente sgradevole.
L’incertezza cui conduce l’adozione di un criterio basato su valutazioni estetiche ci
induce a preferire la seconda interpretazione esaminata: sebbene anch’essa muova
dall’intenzione di oggettivizzare il parametro di riferimento, ancorandolo al valore
commerciale del bene, ci sembra che tale obiettivo venga raggiunto in maniera più
efficace aderendo all’altra impostazione. Del resto nessun autore è giunto a
specificare in modo sufficientemente chiaro in cosa consista quello speciale
ornamento che caratterizzerebbe le forme escluse dalla registrazione, per lo più
limitandosi ad affermare che il livello estetico dev’essere individuato abbastanza in
alto, o riempiendo la formula di contenuti piuttosto vacui170. Senza contare che si
finisce per fare riferimento ad un requisito, quello dello speciale ornamento, non più
vigente, il che non è più proponibile dopo la riforma del 2001.
Pertanto riteniamo che la forma dia valore sostanziale al prodotto quando è in grado
di determinare in larga misura il comportamento dei consumatori nell’acquisto del
bene, rappresentando l’unico o uno degli essenziali elementi che spingono a
sceglierlo nel panorama dei prodotti concorrenti171. In altre parole, come evidenziato
da un illustre autore, <<è necessario verificare sul campo se la determinazione
169
Tuttavia nel caso di specie la tutela è stata comunque riconosciuta sotto il profilo della
concorrenza sleale per imitazione servile. Si veda, Trib. Venezia, 15 febbraio 2012, in Foro. It., 2012, I,
p. 1254 ss. leggibile anche in Dir. ind., 2012, p. 351 ss., con commento di I. M. PRADO.
170
A titolo esemplificativo si veda, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale,
in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 19. L’autore infatti afferma che il problema
fondamentale sia quello di definire a partire da quale livello di innovazione ornamentale si possa
parlare di estetica che apporta uno speciale ornamento, limitandosi ad aggiungere che il livello
<<dovrebbe essere collocato piuttosto in alto>>.
171
In tal senso si è espressa la Prima Commissione di Ricorso dell’UAMI nella decisione relativa al
caso Bang & Olufsen, affermando che <<giving it a systematic and teleological interpretation, it
appears that a shape gives substantial value to a good when it has the potential to determine to a
large extent the consumer’s behaviour to buy the product. Article 7 (1) (e) (iii) RMC therefore
concerns products which the relevant public buys largely for the value of their shape, that is to say,
where the shape is the only or the essential selling features of the product. It must be more than a
convincing design when compared to a product with identical other characteristics>>. Cfr. Comm.
Ricorsi, 10 settembre 2008, www.eur-lex.europa.eu .
66
all’atto d’acquisto sia conclusiva, al netto cioè di quelle motivazioni che di norma
accompagnano il consumatore in quel contesto>>, vale a dire il prezzo, la qualità,
etc172.
La definizione data evidenzia da un lato la rilevanza del comportamento del
consumatore, considerato come il naturale recettore del segno, dall’altro il fatto che,
per poter valutare la forma capace di attribuire valore sostanziale al prodotto, occorre
che questa sia esclusivamente attributiva di quel valore, che rappresenti cioè la
ragione fondamentale dell’acquisto. E’ evidente infatti che in un simile caso la
funzione distintiva, tipica del marchio, viene oscurata da quella attrattiva svolta dalla
conformazione del bene, che pertanto esercita un ruolo essenziale (o appunto
sostanziale) nelle scelte del pubblico. Ciò che rileva insomma è come la forma venga
percepita dai consumatori: bisogna valutare se questi sono orientati dalla sua capacità
di indicare l’origine imprenditoriale del bene o, piuttosto, dalle sua particolare
configurazione, bella o brutta che sia.
Una volta delineata l’interpretazione più corretta della nozione in esame si possono
fare alcune osservazioni. Innanzitutto il fatto che la forma sia dotata di valore
sostanziale ci induce a ritenere che questa debba essere intrinseca al prodotto, poiché
difficilmente i consumatori attribuiranno importanza determinante nelle loro scelte
ad elementi estrinseci al bene. Questa considerazione porta ad escludere,
quantomeno tendenzialmente, che possano farsi rientrare nella categoria in questione
forme che costituiscono la confezione dei beni; nonostante il packeging svolga un
ruolo notevole nell’istituire un contatto con il pubblico, non sembra sostenibile che
sia in grado di incidere in modo definitivo sulle sue valutazioni, o almeno non su
quelle del consumatore medio (che, come si è visto, rappresenta il parametro di
riferimento per la disciplina dei segni distintivi)173.
172
Così, S. SANDRI, La forma che dà valore sostanziale…, cit., p. 36. L’autore evidenzia pure come
oggi le aziende dispongano di strumenti di analisi socio-comportamentali sempre più sofisticati, che
consentono di prevedere, con ragionevole approssimazione, la reattività del loro target di fronte alle
nuove forme dei loro prodotti. Inoltre osserva che <<per accertare se e quando la forma conduca alla
causa dell’atto di acquisto […] occorrerà che il mercato esprima dati obiettivi e comparabili che
restino nella disponibilità conoscitiva e percettiva del consumatore interessato e non nella sfera di
ritenzione soggettiva dell’imprenditore>>.
173
In tal senso, V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 62.
67
Un altro punto che occorre sottolineare è che l’adozione del criterio prescelto
comporta una certa mobilità nei confini della categoria di cui si tratta: il riferimento
all’idoneità della forma ad influire sulle decisioni d’acquisto fa sì che la nozione di
valore sostanziale subisca l’evoluzione del mercato. Può accadere ad esempio che
una certa forma, inizialmente capace di dare valore sostanziale al bene, in un secondo
momento non sia più determinante nella percezione dei consumatori, magari a causa
dei cambiamenti della moda e delle tendenze stilistiche; in un caso del genere,
dunque, nulla escluderebbe la sua registrabilità come marchio.
Infine riteniamo che la formula in esame debba essere intesa con una certa elasticità,
valutando in concreto quale sia l’efficacia monopolistica conseguente al
riconoscimento di una protezione potenzialmente perpetua; ci sembra cioè doveroso
che si tenga presente, nei singoli casi, quale sia il settore merceologico di
riferimento, nonché il margine di libertà concesso alla progettazione, o ancora ogni
elemento utile al fine di determinare gli effetti che la registrazione del marchio
potrebbe comportare sul mercato e sui consumatori174. Ad esempio, si dovrebbe
negare valore sostanziale a quelle forme che, pur essendo rilevanti nelle decisioni
d’acquisto, siano modificabili in tanti diversi modi, senza particolari sforzi da parte
di chi le realizza; al contrario sembrerebbe preferibile riconoscere valore sostanziale
alle forme di prodotti la cui configurazione influisce lievemente sulle scelte del
pubblico, quando il margine di libertà nella progettazione sia di scarso rilievo. Ci
sembra che in questa maniera la valutazione circa l’eventuale carattere sostanziale
della forma sarà maggiormente in linea con la ratio a fondamento di tale limite.
Da ultimo è bene evidenziare che la definizione qui data è improntata sul medesimo
criterio a fondamento dell’interpretazione prescelta del requisito del carattere
individuale, in quanto in entrambi i casi appare centrale la percezione del pubblico
(sebbene nel secondo caso si faccia riferimento al consumatore esperto).
Questo risultato perciò consente di valutare le forme dei prodotti industriali sulla
base di principi comuni, ordinandole su di un’ideale scala ai piedi della quale si
collocano le forme dotate di semplice carattere individuale, ed in cima quelle aventi
174
In tal senso, D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del
design, in AA. VV. Segni e forme distintive…, cit., p. 255.
68
valore sostanziale. E’ evidente infatti che queste ultime, in quanto capaci di influire
sulle scelte d’acquisto, saranno anche dotate di carattere individuale, mentre non
necessariamente si verificherà il contrario, essendo possibile che la conformazione di
un bene attiri l’attenzione del consumatore (instaurando quel contatto privilegiato in
cui si risolve il requisito in questione), pur senza indurlo a comprare il prodotto.
Nel prossimo Capitolo verranno analizzate le conseguenze a livello sistematico di
tale impostazione, ossia come in base ad essa si debba determinare il confine fra
tutela del marchio e protezione dei disegni e modelli.
2.3 Marchio di forma e concorrenza sleale
A questo punto della trattazione è necessario soffermarsi sulla tutela contro quegli
atti di concorrenza sleale che si sostanziano nell’imitazione servile dei segni
distintivi o dei prodotti di un concorrente. Si tratta della fattispecie regolata dall’art.
2598 n. 1 del Codice Civile ed essa risulta rilevante ai fini dell’oggetto di questo
lavoro in quanto la forma dei prodotti industriali può trovare protezione anche a
norma di tale disciplina. Tuttavia ciò che qui interessa è individuare l’ambito
applicativo della disposizione in esame limitatamente al suo rapporto con la
normativa sui marchi di forma e, di conseguenza, a quella sui disegni e modelli.
Già il preambolo dell’art. 2598 c.c. evidenzia come la disciplina contro la
concorrenza sleale per confondibilità si ponga in consecuzione rispetto alle
disposizioni che concernono i segni distintivi; il n. 1 della disposizione, infatti, recita
<<Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di
brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: usa nomi o segni distintivi
idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati
da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro
mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un
concorrente>>.
Tale norma dunque annovera l’imitazione servile fra i fatti lesivi del diritto ad una
leale differenziazione sul mercato, precisando però che l’illecito si verifica solo se ed
in quanto il comportamento imitatorio sia idoneo a creare confusione con i prodotti o
69
con l’attività del concorrente. Quest’ultima condizione, sulla cui sussistenza vi è
concordia di opinioni tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, comporta un
fondamentale corollario, anch’esso largamente condiviso: il fatto cioè, che le forme
cui può essere riferito il divieto di imitazione servile devono essere dotate di capacità
distintiva, ovvero risultare nuove rispetto a quelle già presenti sul mercato e non
standardizzate, diverse quindi da quelle comuni alla categoria merceologica cui il
bene appartiene175. E’ agevole notare come tale ultimo requisito sia analogo a quello
previsto dalla disciplina dei segni distintivi; si deve inoltre aggiungere che vi è
coincidenza anche rispetto al parametro in base a cui viene valutato il carattere
distintivo, individuato in entrambi i casi nel consumatore medio, sufficientemente
informato e ragionevolmente avveduto.
Evidenziate le analogie più marcate fra i due istituti, è necessario analizzare la loro
regolamentazione in modo da chiarire i rapporti fra l’ambito di protezione del
marchio (in generale) e la tutela offerta contro gli atti di concorrenza sleale
confusoria; la risoluzione di tale problema interpretativo è infatti preliminare per
poter stabilire se il campo applicativo della disciplina contro l’imitazione servile
coincida con quello della normativa sul marchio di forma.
La questione è da sempre fra le più dibattute: prima dell’entrata in vigore del Codice
del ‘42 la giurisprudenza sosteneva che la tutela del marchio si contrapponesse a
quella contro la concorrenza sleale in quanto la prima era di natura reale e la
seconda, invece, di natura personale176. Tale impostazione è stata però superata con
l’adozione del Codice Civile, che ha previsto a tutti gli effetti un diritto soggettivo
alla lealtà della concorrenza, concettualmente non distinguibile rispetto a quello
conferito tramite la registrazione del marchio, ed oggi la Relazione Governativa al
175
A titolo meramente esemplificativo si veda, G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p.
351-355.
176
Ibidem. Inoltre sull’annoso dibattito circa la natura domenicale o meno della tutela sui segni
distintivi non titolati si vedano, T. ASCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni…, cit., p. 354 ss. e
477 ss.; P. AULETTA, in SCIALOJA – BRANCA (a cura di ), Commentario al codice civile, sub artt. 25552601, Milano, 1947, p. 163; G. SENA, Confondibilità e confusione. I diritti non titolati nel codice della
proprietà industriale, in Riv. dir. ind., 2006, I, p. 17; A. VANZETTI, I segni distintivi non registrati nel
progetto di <<codice>>, in Riv. dir. ind., 2004, I, p. 99 ss..
70
Codice della Proprietà Industriale dichiara espressamente che la tutela concorrenziale
è di natura dominicale177.
Un’ulteriore differenza stava poi nel fatto che la protezione dei segni distintivi c.d. di
fatto (quelli cioè non registrati) veniva abitualmente ricondotta alle norme sulla
concorrenza sleale, in particolare proprio all’art. 2598 n.1; anche questa distinzione
però è venuta meno, con l’adozione del Codice della Proprietà Industriale, che ha
radicalmente modificato i rapporti fra i diritti di proprietà industriale e la tutela
concorrenziale dei segni distintivi non registrati.
Il Codice ha infatti formalmente introdotto la distinzione fra diritti titolati e non
titolati, trasferendo anche questi ultimi nel campo della proprietà industriale, in
particolare rafforzando l’equiparazione fra marchio di fatto e marchio registrato; la
protezione dei diritti non titolati, prima ottenibile solo con i mezzi giurisdizionali
propri della concorrenza sleale, è stata equiparata a quella dei diritti titolati, a norma
del Capo III° del Codice178.
Un importate punto di differenziazione fra le due discipline in questione è a tutt’oggi
rinvenibile nel fatto che l’ambito di protezione del marchio si estende ad un rischio
di confusione da intendersi in astratto, mentre quello relativo alla concorrenza sleale
confusoria può essere giudicato solamente in concreto, non essendo tale tutela
subordinata al compimento di alcuna formalità costitutiva179. La sussistenza del
carattere distintivo nel segno dev’essere infatti valutata ab initio al momento della
177
In tale Relazione infatti si afferma che << le norme sulla concorrenza sleale degli artt. 2598-2601
c.c. costituiscono il fondamento di un diritto alla lealtà della concorrenza che, nei suoi tratti
essenziali e nel corredo sanzionatorio, non differisce né punto né poco dai diritti di proprietà
industriale>>.
178
Il Capo III° del Codice della Proprietà Industriale contiene la disciplina della tutela giurisdizionale
di tutti i diritti di proprietà industriale regolati dallo stesso. Quanto in particolare al marchio di fatto,
nella Relazione Governativa al Codice troviamo scritto che questo <<costituisce oggetto di proprietà
industriale non diversamente di come lo è un marchio registrato>> e la comprensione di tale istituto
tra i diritti di proprietà industriale è sancita negli artt. 1 e 2 del CPI.
179
Si veda D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design,
in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 258 ss.. Occorre specificare che la considerazione
appena riportata è valida esclusivamente per i marchi registrati; è evidente infatti che il rischio di
confusione potrà essere valutato solo in concreto rispetto ai segni di fatto, mancando anche in
questo caso la registrazione, quale atto costitutivo del diritto.
71
registrazione, dunque a priori, salva poi la possibilità di farne valere successivamente
la nullità per mancanza di tale requisito180.
Si deve pertanto concludere che, a livello generale, l’ambito di protezione dei marchi
sia più esteso di quello tutelabile contro l’imitazione servile; tuttavia riteniamo che
questa considerazione non valga per i marchi di forma. Nel prossimo Capitolo verrà
infatti dimostrato che per tale categoria di segni la capacità distintiva non possa che
essere valutata in concreto, in quanto acquisibile solo in virtù del fenomeno di
“secondarizzazione”; riteniamo cioè che i marchi di forma possano considerarsi
dotati di carattere distintivo solo qualora si verifichi il secondary meaning che, come
già visto, opera in un momento successivo rispetto a quello della registrazione.
Viene dunque meno anche questo ulteriore elemento di differenziazione fra le
discipline esaminate e sembra perciò che manchino elementi sufficienti a giustificare
l’idea che le due normative abbiano un ambito applicativo diverso. In effetti, pur
potendosi riscontrare altri punti di disuguaglianza, questi sono essenzialmente dovuti
al fatto che nel caso della concorrenza sleale non è prevista alcuna formalità
costitutiva181; tali distinzioni pertanto risultano irrilevanti rispetto al problema qui
affrontato.
Ciò che invece deve guidare l’interprete è la considerazione che tanto la tutela contro
l’imitazione servile quanto quella del marchio di forma sono ottenibili per una durata
potenzialmente illimitata. Si tratta di un dato decisivo poiché, se la ratio
dell’impedimento alla registrazione esaminato nel paragrafo precedente consiste
nell’evitare la concessione di monopoli perpetui su forme capaci di incidere
sensibilmente sulle scelte dei consumatori, si deve escludere che un simile risultato
possa essere raggiunto tramite l’applicazione dell’art. 2598 n° 1 c.c.. Se così non
180
Infatti non solo la capacità distintiva del marchio può venir meno in virtù del fenomeno della
volgarizzazione (di cui si è già parlato), ma l’art. 117 CPI prevede che la registrazione non pregiudichi
le azioni relative alla validità e all’appartenenza del diritto. Ciò significa che il segno può essere
dichiarato nullo (anche) per mancanza di carattere distintivo, nonostante sia stato in precedenza
registrato.
181
Ciò rende necessariamente diversa la fattispecie costitutiva del diritto nei due istituti in esame. Si
veda, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La
protezione…, cit., p. 31-32. L’autore ha inserito una tabella che ricostruisce tutti i punti di contatto e
le differenze fra le varie discipline predisposte dall’ordinamento a tutela della forma dei prodotti
industriali.
72
fosse, infatti, il limite di cui all’art. 9 CPI potrebbe essere in qualunque momento
aggirato e vanificato servendosi della disciplina sulla concorrenza sleale confusoria.
Si deve dunque concludere che le forme idonee a conferire al prodotto valore
sostanziale non possono essere protette a norma dell’art. 2598 n°. 1 c.c.; l’ambito di
operatività di tale disposizione è pertanto indirettamente circoscritto dalla disciplina
sul marchio di forma182.
Alcuni autori sostengono che un discorso parzialmente diverso debba farsi rispetto ai
casi in cui vengano imitati soltanto elementi di corollario della forma, che essendo
del tutto accessori non contribuirebbero in nessuna maniera a determinare la
configurazione del prodotto. A riguardo si parla di forme complesse, costituite cioè
da una pluralità di elementi, alcuni dei quali aventi una funzione essenziale (o
appunto sostanziale), altri invece un rilievo meramente residuale. La dottrina in
esame ritiene che l’imitazione confusoria di questi elementi marginali possa essere
repressa a norma dell’art. 2598 c.c., se ed in quanto essi siano dotati di carattere
distintivo183.
182
Gli autori non concordano su questo punto; tuttavia l’opinione qui sostenuta è condivisa dalla
dottrina maggioritaria. Si vedano, R. BICHI, La tutela della forma del prodotto e le nuove prospettive
introdotte dalla direttiva comunitaria n. 71/98, in Segni e forme distintive…, cit., p. 243-245; M.
CARTELLA, ivi, p. 14-17; V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 64
e 289 ss.; V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 85-92; A. FITTANTE, Il nuovo diritto industriale…,
cit., p. 49-51; I. M. PRADO, in commento a Tribunale di Venezia 15 febbraio 2012…, cit., p. 351 ss.; A.
VANZETTI I diversi livelli di tutela delle forme…, cit., p. 331 ss.; A. VANZETTI – V. DI CATALDO,
Manuale…, cit., p. 164; in giurisprudenza si vedano, Cass., 17 dicembre 2008 n. 29522, in Dir. ind.,
2009, p. 166 ss.; Trib. Milano, (ord.) 29 gennaio 2009, in Dir. ind., 2009, p. 557 ss., con commento di
I. M. PRADO; in tale pronuncia si osserva che<<Ove si tratti di forme che conferiscono un valore
sostanziale al prodotto deve dubitarsi che ad esse sia ricollegabile alcuna funzione di identificazione
di origine, costituendo semmai tali forme altrettanti elementi che influenzano in via diretta la
propensione all’acquisto del consumatore e non sono pertanto, in assenza di diritti di privativa,
suscettibili di esclusive monopolistiche in deroga al principio di libera disponibilità concorrenziale>>.
Contra, D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design, in
AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 261-263. Si veda pure F. BENUSSI, La tutela del disegno…,
cit., p. 164, il quale, sotto il vigore della precedente disciplina, precisava che l’art. 2598 n. 1 tutela le
forme dei prodotti in maniera solo indiretta, in quanto il bene giuridico protetto dalla norma è la
confusione dei prodotti nei confronti del pubblico dei consumatori. Nel senso di ritenere che la
disciplina del marchio di forma e quella sulla concorrenza sleale confusoria abbiano ambiti applicativi
diversi, in giurisprudenza si veda la già citata sentenza del Tribunale di Venezia, 15 febbraio 2012, in
Foro it., 2012, I, p. 1254 ss.
183
Si vedano, M. LAMANDINI – M. PAPPALARDO, Il caso “Smart”…, cit., p. 545 ss.; ID., Il difficile
equilibrio tra “valore sostanziale” e carattere distintivo della forma…, cit., p. 334; I. M. PRADO,
Commento a Trib. Venezia, 15 febbraio 2012…, cit., p. 351 ss..
73
A noi sembra che tale opinione debba essere rigettata: non si vede infatti come sia
possibile che alcune parti della forma di un bene possano non contribuire a
determinarla; se pure si riconoscesse tale eventualità ci chiediamo poi come possano
questi elementi avere capacità distintiva, dato il loro carattere del tutto accessorio.
Inoltre, anche ammesso che ciò sia possibile, la valutazione che un simile criterio
porta ad operare pare estremamente difficile e soggetta al rischio di giudizi
fortemente arbitrari.
Riteniamo dunque che le forme capaci di conferire valore sostanziale al prodotto non
siano mai proteggibili a norma dell’art. 2598 n°. 1 c.c.. Tale lettura, del resto, era già
accreditata in dottrina e giurisprudenza prima della riforma del 2001, con la
differenza che, coerentemente con l’impostazione allora seguita, si escludeva
l’applicazione della suddetta disposizione a tutte le forme che fossero brevettabili
come modello ornamentale. L’introduzione della nuova disciplina sul design ha
perciò influito anche sui rapporti tra la tutela dei disegni e modelli e la protezione
contro gli atti di concorrenza sleale, senza però intaccare la relazione fra tale
normativa e quella sul marchio di forma.
74
CAPITOLO III: IL COORDINAMENTO TRA LA
DISCIPLINA SUL MARCHIO DI FORMA E QUELLA
SUI DISEGNI E MODELLI
3.1 Disegni e modelli e marchi di forma a confronto: differenze e
punti comuni
Nei due Capitoli precedenti abbiamo esaminato le discipline relative ai marchi di
forma e ai disegni e modelli, in particolare mettendo in luce gli aspetti più
problematici delle due normative, rispetto ai quali abbiamo evidenziato le soluzioni
interpretative a nostro avviso più convincenti. L’analisi fin qui svolta è necessaria per
poter affrontare la questione che questo lavoro si propone di risolvere, ovvero il
problema del coordinamento delle discipline dei due istituti in esame.
Dall’esame della due normative emerge la notevole vicinanza esistente fra l’istituto
del marchio di forma e quello dei disegni e modelli. Vicinanza innegabilmente
accentuata in seguito all’intervento della Direttiva comunitaria 98/71 e al suo
recepimento da parte del legislatore interno, con il D.lgs. 95/2001. Come già
sottolineato, la riforma ha influito sul rapporto tra i due istituti di cui si tratta,
creando nuove analogie e rendendo più marcate quelle già esistenti, al punto da far
divenire le loro discipline quasi del tutto sovrapponibili184.
La difficoltà nell’individuare l’esatto confine fra le due normative deriva innanzitutto
dal fatto che esse hanno entrambe ad oggetto la protezione della forma di prodotti
commerciali, nonché dalla circostanza che gli istituti ivi previsti sono difficilmente
distinguibili anche sotto il profilo “ontologico”185. Si intende dire che, già in base a
considerazioni di senso comune risulta arduo stabilire se ci si trovi di fronte ad una
forma i cui pregi estetici sono rilevanti al punto da permetterne la qualificazione
come design, o addirittura come opera d’arte, o al contrario come un’entità
184
In tal senso, per tutti, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a
cura di), La protezione…, cit., p. 68-69.
185
Cfr., G. CASABURI, ivi, p. 53.
75
semplicemente gradevole ma carente di particolare originalità, la cui realizzazione
non ha richiesto uno sforzo creativo considerevole.
Nel prevedere un sistema di tutela della forma l’ordinamento giuridico si trova
insomma davanti all’esigenza di regolamentare un fenomeno difficilmente valutabile,
che ha a che fare con concetti, quali l’estetica o l’arte, mutevoli e non definibili186.
L’indagine fin qui svolta ha evidenziato le difficoltà nell’individuare dei parametri
logico-concettuali certi; e si è pure sottolineato come le riforme che nell’ultimo
ventennio hanno riguardato l’ambito della protezione della forma, tutte di matrice
comunitaria, abbiano tentato di rendere maggiormente oggettivi i principi che
regolano questa materia ed i criteri di accesso ai diversi tipi di tutela predisposti
dall’ordinamento187.
Lo stesso intento deve, a nostro avviso, guidare l’interprete nell’analisi di questo
particolare sistema giuridico: è cioè necessario considerare sempre l’esigenza di
scegliere criteri di valutazione il più possibile certi ed oggettivi, in modo da evitare
giudizi arbitrari.
Quanto in particolare all’individuazione dello specifico ambito applicativo delle
discipline relative al marchio di forma ed ai disegni e modelli occorre pure tenere
presente quanto puntualmente osservato in dottrina, ovvero che <<l’efficacia della
tutela dipende dalla chiarezza degli istituti e dei loro confini applicativi; se si
perseguono ampliamenti di protezione attraverso formulazioni equivoche e forzate
nella definizione dei presupposti […] si ottiene solo il risultato di esaltare
l’incertezza in sede di tutela giudiziaria>>188.
Queste ultime riflessioni devono essere tenute in primaria considerazione nella
ricerca della soluzione più corretta al problema affrontato in questo lavoro, soluzione
che si sostanzia nella scelta di sostenere la teoria dell’alternatività delle tutele o
piuttosto quella del cumulo. Entrambe le impostazioni verranno dettagliatamente
analizzate nel prossimo paragrafo, illustrando gli argomenti a fondamento dell’una e
186
Cfr., S. MAGELLI, L’estetica nel diritto…, cit., p. 3 ss.
Si veda ad esempio, V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p.
130, il quale afferma che il requisito del carattere individuale appare ispirato ad obiettività, in quanto
il suo accertamento <<è affidato ad una operazione di confronto oggettiva e meccanica delle
caratteristiche formali appartenenti a un disegno o modello rispetto alle anteriorità rilevanti>>.
188
Così, R. BICHI, La tutela della forma del prodotto e le nuove prospettive introdotte dalla Direttiva
comunitaria n. 71/98, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 248.
187
76
dell’altra; prima però occorre mettere a confronto le discipline del marchio di forma
e dei disegni e modelli al fine di evidenziarne affinità e differenze, in modo da poter
valutare pienamente le conseguenze dell’opzione fra le due teorie suddette. E’
insomma essenziale comparare le due normative per poter stabilire quali siano nella
pratica gli effetti della scelta per un tipo di tutela piuttosto che per l’altra, in modo da
valutare se vi siano concrete motivazioni ed opportunità per i titolari della privativa
alla base della teoria del cumulo.
Ad un primo esame superficiale sembrerebbe che l’unica differenza rilevante fra le
due normative sia rappresentato dalla diversa durata dell’esclusiva: infatti da un lato
la legge impone dei limiti temporali piuttosto stringenti, in quanto l’art. 37 del
Codice della Proprietà Industriale prevede che la durata della registrazione di un
disegno o modello sia di cinque anni, decorrenti dalla data di presentazione della
domanda, e prorogabili fino ad un massimo di venticinque anni. Come già visto
invece il titolare del marchio di forma ha la possibilità di rinnovare la registrazione,
avente durata decennale, quante volte desideri, potendo dunque godere di una
protezione potenzialmente perpetua189.
Per il resto le due discipline in esame sembrerebbero ampiamente sovrapponibili:
quanto in particolare ai requisiti di accesso alla tutela, la nozione di carattere
individuale, sebbene non coincida precisamente con quella di capacità distintiva
prevista dal diritto dei marchi (dato il riferimento all’utilizzatore informato piuttosto
che al consumatore medio), si avvicina moltissimo a quest’ultima.
La dottrina più attenta non ha mancato di evidenziare tale profilo, osservando che la
nozione di carattere individuale può astrattamente essere intesa in due accezioni
diverse, vale a dire come capacità della forma di influenzare le decisioni d’acquisto,
o piuttosto come la sua attitudine a caratterizzare il prodotto agli occhi del
189
E’ fin troppo ovvio quanto sia importante per le imprese sapere con certezza quale sarà la durata
dell’esclusiva ottenibile sulla forma dei propri prodotti, al fine di poter valutare l’entità degli
investimenti da compiere nella ricerca per la realizzazione del nuovo manufatto, nonché per la
pubblicità ed il lancio dello stesso. Tale aspetto è stato in particolare sottolineato da STEFANO
SANDRI, in La forma che dà valore sostanziale…, cit., p. 33.
77
consumatore esperto, distinguendolo da quelli già presenti sul mercato190. Abbiamo
dimostrato nel primo Capitolo come quest’ultima definizione sia la più corretta: la
formula “carattere individuale” fa riferimento alla capacità attrattiva della forma,
vale a dire alla sua idoneità ad istituire un contatto privilegiato fra il prodotto cui
inerisce e l’utilizzatore informato. Si tratta dunque di una nozione che finisce
sostanzialmente per coincidere con quella di “carattere distintivo”, in quanto si
risolve in una forma qualificata di novità, ovvero nella capacità distintiva percepibile
non dal consumatore medio, bensì da quello esperto191.
Se prima della riforma sulla protezione giuridica dei disegni e modelli il
riconoscimento dell’esclusiva era subordinato al fatto che la forma presentasse
caratteristiche estetiche notevoli ed innovative, la sostituzione del requisito dello
speciale ornamento con quello del carattere individuale ha sganciato la tutela da
qualsiasi gradiente estetico, introducendo così un criterio senza dubbio meno
rigoroso. Certo, si è detto di come intendere l’utilizzatore informato come l’esperto
la cui attenzione viene catturata solo da un design particolarmente originale consenta
di temperare la scarsa severità della formula in questione; ma resta comunque
innegabile che questo nuovo criterio abbia provocato uno spostamento della linea di
confine fra l’istituto del marchio di forma e quello dei disegni e modelli, rendendo
accessibile tale tutela a forme che in precedenza avrebbero potuto ottenere solo la
protezione prevista per i segni distintivi.
E’ chiaro che se l’unica differenza fra le due discipline di cui si tratta risiedesse nella
diversa durata temporale dell’esclusiva, l’istituto dei disegni e modelli sarebbe privo
di ragion d’essere. Nessuna impresa sceglierebbe di registrare come design la
190
In tal senso, G. P. DI SANTO, Il diritto industriale 10 anni dopo. Il punto su…i modelli, in Dir. ind.,
2002, p. 323 ss.; D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del
design, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 251-252. L’affinità tra il requisito del carattere
individuale e quello della capacità distintiva è stata messa in risalto anche da altri autori. Si vedano,
D. BRAMBILLA, Carattere individuale e capacità distintiva…, cit., p. 456; G. CASABURI, La tutela della
forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 75; G. GHIDINI, Profili
evolutivi del diritto…, cit., p. 247; ID., Un appunto sul marchio…, cit., p. 91; A. VANZETTI – V. DI
CATALDO, Manuale…, cit., p. 68-69.
191
Questa interpretazione peraltro è avvalorata dal fatto che il primo progetto di Direttiva sulla
protezione giuridica dei disegni e modelli definiva il requisito in esame con l’espressione <<carattere
distintivo>>. Cfr., D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del
design, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 252.
78
conformazione dei propri prodotti, di fronte alla possibilità di ottenere in ogni caso
una protezione avente lo stesso contenuto ed i medesimi effetti, per un periodo
potenzialmente illimitato. Certo, non bisogna dimenticare la categoria delle forme
idonee a conferire ai prodotti cui ineriscono valore sostanziale, poiché in questi casi
la registrazione del marchio è senz’altro preclusa, secondo quanto disposto dall’art. 9
CPI; ma al di là di questa particolare specie, l’ambito delle forme proteggibili in base
alla disciplina sui segni distintivi resterebbe comunque molto esteso, così mettendo
fortemente in luce l’irrazionalità dell’attuale assetto normativo.
Se così fosse, la tesi del cumulo sarebbe a nostro avviso inammissibile, poiché un
suo riconoscimento consentirebbe sostanzialmente di cancellare l’istituto dei disegni
e modelli, avendo come unico effetto quello di permettere di aggirare il limite
temporale previsto da questa disciplina.
A ben vedere però ci sono ulteriori differenze fra la regolamentazione del marchio di
forma e quella relativa ai disegni e modelli, differenze apparentemente poco
significative, che invece possono generare importanti opportunità e vantaggi per il
titolare dell’esclusiva.
Un primo aspetto che occorre mettere in evidenza risiede nel fatto che la protezione
ottenibile a seguito della registrazione come disegno o modello si estende solo nei
limiti della sostanziale identità della forma rispetto alle altre presenti sul mercato,
laddove invece la tutela del marchio ha in linea di principio un’ampiezza maggiore,
coprendo anche i casi di segni somiglianti o confondibili192 193. Si è detto “in linea di
192
Si pensi ad esempio al fenomeno dei cc.dd. marchi difensivi o protettivi, ossia quei marchi che
rappresentano variazioni di uno stesso marchio che l’imprenditore può far registrare insieme al
segno principale in modo da ampliare l’ambito di protezione del segno. Tale uso strategico della
registrazione è indirettamente avallato da parte del legislatore, in quanto l’art. 24 4° comma del
Codice della Proprietà Industriale prevede che la decadenza del marchio per non uso non si verifichi
qualora il titolare dello stesso sia al contempo titolare di uno o più marchi simili e faccia
effettivamente uso di almeno uno di questi. Ciò significa che l’ordinamento ammette la possibilità di
registrare un segno senza utilizzarlo, al solo scopo di conseguire una tutela più ampia su di un altro
marchio di cui si è titolari. Ed è appena il caso di segnalare che l’istituto del marchio difensivo è
peculiare dell’ordinamento italiano; peraltro la Corte di Giustizia ha recentemente negato che tale
nozione abbia cittadinanza nell’ordinamento comunitario (caso Bainbridge). Si veda, Corte di
Giustizia, 13 settembre 2007, causa C-234/06, in www.eur-lex.europa.eu. In dottrina cfr., M. RICOLFI,
in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 112-113.
193
Questo aspetto è stato puntualmente messo in luce da M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la
panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 37.
79
principio”, poiché l’ambito di protezione del marchio varia di caso in caso, potendo
essere più o meno vasto a seconda che il segno sia o non sia registrato, sia
qualificabile come un marchio forte o debole194 ed infine sia o meno rinomato.
Da quanto appena osservato si deduce che in alcuni casi le imprese concorrenti
all’azienda che ha ottenuto la registrazione della forma come disegno o modello, per
evitare di compiere l’illecito di contraffazione nell’imitare tale forma, potranno
limitarsi ad apportare alla conformazione dei propri prodotti delle varianti meno
significative rispetto a quelle che sarebbero state necessarie se l’azienda fosse stata
titolare di un marchio. Si faccia però molta attenzione alla precisazione relativa al
possibile variare dell’ambito di tutela del marchio a seconda delle sue concrete
caratteristiche: ciò significa che nella pratica ben può accadere che siano sufficienti
differenze scarsamente rilevanti per evitare di porre in essere la contraffazione di un
marchio (si pensi ad un segno debole e poco conosciuto).
In sostanza una simile valutazione non può essere compiuta a priori, prescindendo
dalle circostanze del caso concreto. Tuttavia, si deve pure evidenziare fin d’ora che le
conclusioni cui giungeremo nei prossimi paragrafi ci porteranno a ritenere che i
marchi di forma siano segni di per sé forti e, almeno generalmente, dotati di
194
La distinzione fra marchi forti e marchi deboli attiene al grado di distintività del segno e dipende
dal nesso, più o meno significativo, che lo stesso presenta rispetto al prodotto o servizio
contraddistinto. I marchi deboli sono caratterizzati da un grado di originalità piuttosto scarso, in
quanto il segno richiama o fa riferimento a caratteristiche del prodotto o servizio, oppure alla sua
destinazione etc.. Si tratta di norma di marchi denominativi, costituiti dai termini che indicano il
genere di bene contraddistinto; a tali parole vengono pertanto accostati dei prefissi o suffissi o altre
combinazioni di lettere, in modo tale da renderle distintive. Si pensi ad esempio a molti marchi di
farmaci, costituiti dal nome del principio attivo con cui sono realizzati o dalla parola che indica il
genere di medicinale al quale appartengono , cui si aggiunge appunto un suffisso o un prefisso
(“fluorvitin” per medicinali a base di fluoro). I marchi forti invece presentano una più spiccata
originalità, e pertanto sono di per sé maggiormente distintivi: ad esempio, il marchio “Caffè Noir”
per contraddistinguere calzature rientra in questa categoria, in quanto non ha alcuna aderenza
concettuale con i prodotti contrassegnati. La distinzione tra marchi forti e deboli è di notevole
importanza, poiché incide sull’intensità della tutela. Infatti, mentre per i primi ai fini della valutazione
della confondibilità e della contraffazione, sono ritenute illegittime tutte le modificazioni, pur
rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l’essenza individualizzante che lo
caratterizza, per i marchi deboli, bastano ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni o
aggiunte. Si deve precisare che questa distinzione è pacifica pur non trovando riscontro in alcuna
disposizione, essendo stata elaborata da parte della giurisprudenza. Cfr., V. M. DE SANCTIS (a cura
di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 46; V. DI CATALDO, I segni distintivi…, cit., p. 80-81.
In giurisprudenza si veda, App. Milano, 26 ottobre 1971, in Giur. ann. dir. ind., 1972, 218.
80
rinomanza; pertanto la differenza appena individuata fra i due istituti in esame
sembra essere particolarmente significativa ai fini della nostra analisi.
Si deve inoltre rilevare che l’art. 39 CPI prevede la possibilità di depositare una
domanda di registrazione multipla, ovvero relativa a più disegni e modelli, purché
questi siano destinati ad essere attuati o incorporati nella stessa classe di beni195.
La ratio della disposizione sta evidentemente nell’intento di semplificare dal punto di
vista procedimentale e fiscale la registrazione, in particolare per prodotti destinati a
costituire una collezione o una linea (si pensi alle collezioni realizzate dagli stilisti
nel campo della moda); si tratta di un’opportunità di non poco conto per le imprese,
poiché i tempi ed i costi necessari per effettuare un procedimento di registrazione
rappresentano un fattore estremamente rilevante nell’ambito della strategia aziendale.
Orbene una simile possibilità non è invece prevista dal diritto dei marchi.
D’altra parte, sempre in merito al procedimento di registrazione si deve evidenziare
che per i disegni e modelli non è previsto alcun esame preventivo, né possono essere
proposte opposizioni nell’ambito della procedura.
Discorso opposto deve farsi per i marchi: in base al diritto nazionale infatti, qualsiasi
interessato può depositare osservazioni ed i soggetti indicati dall’art. 177 CPI
possono avviare una procedura di opposizione al fine di impedire la registrazione196.
Inoltre il diritto comunitario prevede un procedimento di registrazione ancora più
articolato, in quanto durante lo stesso viene svolto d’ufficio anche l’esame
preventivo per verificare la sussistenza dei presupposti necessari ad ottenere il
titolo197.
Si deve anche aggiungere che, se per i disegni o modelli la valutazione circa il
requisito della novità è di carattere universale, per i marchi il giudizio viene
compiuto tenendo conto dell’ambito territoriale (dunque spesso più limitato) in cui
195
L’art. 39 CPI fa riferimento alla classificazione internazionale contenuta nell’Accordo di Locarno, il
quale prevede diverse classi omogenee di beni. Si veda, www.brevettazione.it
196
Si vedano gli artt. Dal 174 al 177 del Codice della Proprietà Industriale; in base a quest’ultima
disposizione, legittimati a proporre opposizione sono: il titolare del marchio già registrato nello Stato
o con efficacia nello Stato da data anteriore, colui che ha depositato domanda di registrazione di un
marchio in data anteriore o avente effetto da data anteriore, il licenziatario dell’uso esclusivo del
marchio, le persone gli enti e le associazioni di cui all’art. 8 del medesimo Codice.
197
Cfr., M. RICOLFI, in AA. VV., Diritto industriale…, cit., p. 70-72.
81
opera il segno o in cui lo stesso è conosciuto (salvo però che non si tratti di marchio
dotato di rinomanza).
Un’ulteriore differenza riscontrabile fra le discipline dei due istituti sta
nell’eventualità che il titolare del marchio decada dal proprio diritto di esclusiva, a
causa del non uso del segno, ininterrotto per un periodo di cinque anni, salvo però
che il mancato utilizzo non sia giustificato da un legittimo motivo.
Tale previsione, contenuta nell’art. 24 CPI (che peraltro prevede anche alcune
limitate eccezioni), non è stata inserita nella normativa concernente i disegni e
modelli. Si tratta di una differenza non trascurabile in quanto, se si ammettesse la
possibilità di cumulare le due tutele, il titolare del marchio che avesse al contempo
registrato a diverso titolo la forma di cui questo si compone potrebbe godere
comunque dell’esclusiva, a norma degli artt. 31 ss. del Codice della Proprietà
Industriale198. Si vuole dire che il deposito a titolo di disegno o modello consente di
riservare la privativa sulla forma fino ad un massimo di venticinque anni, anche in
mancanza d’uso.
Questa osservazione è ancor più significativa se si considera che in alcuni casi la
giurisprudenza ha ritenuto nulli i marchi la cui registrazione era stata rinnovata allo
scadere del quinquennio ininterrotto di non uso, reputando che si trattasse di un
deposito eseguito in malafede, con l’unico obiettivo di prorogare la privativa anziché
utilizzare effettivamente il segno199.
Sempre in merito alla decadenza dal diritto di esclusiva, dobbiamo sottolineare che
l’istituto della volgarizzazione è previsto solo nell’ambito del diritto dei segni
distintivi, mentre il legislatore non fa alcun riferimento a simile fenomeno all’interno
della normativa sui disegni e modelli; sembra pertanto che la decadenza per
volgarizzazione operi esclusivamente rispetto ai marchi200.
Anche questo dato presenta un certo peso. Ne deriva che la disciplina sulla
protezione del design garantisce al titolare della privativa di mantenere l’esclusiva
per tutta la sua durata, senza che fatti successivi alla registrazione possano provocare
198
Si vedano, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura
di), La protezione…, cit., p. 37-38.
199
Cfr., Trib. Torino, 14 giugno 2000, in Giur. ann. dir. ind., 2000, 1247.
200
Questo aspetto è stato messo in evidenza da M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli,
marchi di forma…, cit., p. 16-17.
82
la decadenza dal diritto. Il che risulta di primaria importanza se si considera che di
norma un periodo di venticinque anni sarà sufficiente a recuperare gli investimenti
fatti e a raccoglierne i frutti201.
Un ultimo punto su cui occorre soffermarsi attiene alla tutela delle forme non
registrate.
Si è già visto come, a seguito dell’emanazione del Regolamento 2002/6/CE, tale
possibilità sussista tanto per i marchi quanto per i disegni e modelli, sebbene in
quest’ultimo caso il diritto comunitario abbia notevolmente circoscritto la durata
della protezione, limitandola a tre anni decorrenti dal momento in cui il prodotto cui
la forma inerisce viene messo a disposizione del pubblico. Il marchio di fatto invece,
consente una protezione senza limiti temporali, qualsiasi sia la categoria cui il segno
appartiene (marchio di forma, o denominativo, o di colore, etc.).
Non è tanto su questa differenza temporale, di per sé rilevante ma di agevole
constatazione, che si intende porre l’attenzione; si vuole piuttosto osservare che,
sebbene l’ordinamento comunitario garantisca una protezione di durata triennale per
i disegni e modelli non registrati, la neutralizzazione della predivulgazione quale
fatto invalidante la successiva registrazione è limitata all’anno. In sostanza, dopo
dodici mesi dal momento in cui il prodotto è stato immesso sul mercato, il design
viene considerato già divulgato202; ciò significa che, trascorso tale brevissimo
periodo, la forma deve considerarsi carente del requisito della novità, dunque non più
registrabile a titolo di disegno o modello.
Questa affermazione, pur non essendo espressamente contenuta in nessuna
disposizione, trova fondamento nella necessità di coordinare l’istituto del periodo di
grazia (di cui abbiamo parlato nel I° Capitolo), la cui durata è appunto di dodici mesi,
201
Tuttavia a questo punto potrebbe sorgere un dubbio: occorre cioè domandarsi se, data la
sostanziale identità fra la nozione di carattere individuale e quella di capacità distintiva, non sia il
caso di ritenere applicabile anche ai disegni o modelli gli istituti previsti dal legislatore nell’ambito
del diritto dei marchi, in relazione appunto alla capacità distintiva. Ci si riferisce proprio al secondary
meaning ed alla volgarizzazione, ovvero a fenomeni che, come visto, incidono sul carattere distintivo
del segno; nonostante la disciplina sull’industrial design taccia su questo specifico punto, si potrebbe
forse ritenere che tali fenomeni possano influire anche sul carattere individuale. Si tratta tuttavia di
una questione molto complessa, implicante una serie di valutazioni che esulano dallo scopo della
trattazione, cui pertanto non è possibile dare una risposta esauriente in tale sede.
202
Si veda ancora, M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a
cura di), La protezione…, cit., p. 36-37.
83
con quello dei disegni e modelli di fatto; come sostenuto da un’autorevole dottrina203,
gli istituti suddetti possono considerarsi compatibili solo ritenendo che il fatto che il
periodo di grazia non sia rilevante ai fini della predivulgazione derivi proprio dalla
tutela riconosciuta nei confronti del design non registrato.
Orbene se il titolare di un disegno o modello di fatto intendesse procedere alla
registrazione, in virtù di quanto appena detto, sarebbe costretto a farlo entro un anno
dal momento in cui la forma è messa a disposizione del pubblico. Ed è proprio su
questo punto che si vuole porre l’accento: l’obiettivo dichiarato del legislatore
comunitario nel prevedere l’istituto dei disegni e modelli di fatto sta nell’intento di
consentire alle imprese di sottoporre alla prova del mercato i propri prodotti, in modo
da poter valutare se valga la pena procedere alla registrazione per ottenere una tutela
più duratura. Tuttavia, nel caso in cui il successo commerciale del manufatto tardi ad
arrivare e si manifesti solo una volta decorsi i dodici mesi dalla divulgazione, la
registrazione sarà a quel punto preclusa ed il titolare dell’esclusiva dovrà
accontentarsi della ben più limitata protezione del disegno o modello di fatto.
Se si ammettesse la tesi del cumulo una simile situazione sarebbe facilmente
risolvibile, in quanto la forma sarebbe comunque proteggibile quale marchio di fatto
(sebbene tale istituto non sia riconosciuto in tutti gli ordinamenti europei), nonché
registrabile come segno distintivo senza limiti di tempo.
Volendo fare un bilancio di quanto evidenziato in quest’ultima parte dell’indagine,
dal confronto fra le discipline del marchio di forma e dei disegni e modelli sono
emerse una serie di differenze piuttosto significative nel contenuto ed negli effetti
della tutela dei due istituti.
E’ inoltre interessante notare come non sia possibile determinare quale delle due
regolamentazioni sia più favorevole per il titolare dell’esclusiva. Sotto alcuni aspetti
infatti, la normativa sulla protezione del design offre vantaggi considerevoli rispetto
a quella relativa ai segni distintivi; si pensi ad esempio alla maggiore snellezza del
procedimento di registrazione, o alla possibilità di mantenere la privativa
indipendentemente dall’utilizzo effettivo dell’oggetto della stessa. D’altra parte però,
203
Cfr., G. SENA, Note su disegni e modelli…, cit., p. 309 ss..
84
anche la disciplina del marchio di forma offre opportunità ulteriori rispetto a quella
relativa all’altro istituto in esame, prima fra tutte la possibilità di godere di una tutela
potenzialmente perpetua.
Queste osservazioni dunque ci portano ad affermare che, basandoci esclusivamente
sul confronto fra i due istituti, la teoria del cumulo non sarebbe priva di senso, in
quanto le difformità esistenti fra le due normative renderebbero utile una loro
sovrapposizione. Effettivamente, laddove dovessimo ritenere ammissibile la tesi del
cumulo, il titolare dell’esclusiva potrebbe beneficiare dei vantaggi offerti da
entrambe le discipline, combinando gli aspetti favorevoli dell’una e dell’altra.
Ciò detto occorre verificare se una simile ipotesi sia praticabile; dobbiamo insomma
passare ad esaminare gli argomenti a sostegno delle due contrapposte impostazioni
(appunto quella dell’alternatività delle tutele e quella del cumulo), in modo da
stabilire in che modo coordinare i due istituti oggetto di questo studio.
3.2 Disegni e modelli e marchi di forma: cumulo o alternatività delle
tutele?
Si è già visto nel Capitolo precedente come, fino all’entrata in vigore del D.lgs.
95/2001, dottrina e giurisprudenza decisamente maggioritarie avessero fornito una
ricostruzione estremamente coerente e razionale del sistema giuridico relativo alla
tutela della forma dei prodotti industriali: l’interpretazione prevalente, infatti,
assicurava a ciascun istituto un proprio ambito applicativo, specifico ed esclusivo.
Quanto in particolare all’oggetto di questa analisi, si era individuato nel requisito
dello speciale ornamento lo spartiacque fra tutela dei disegni e modelli e quella del
marchio di forma, in modo da escludere radicalmente la possibilità di una
sovrapposizione delle due discipline.
L’adozione della Direttiva 98/71/CE ha poi comportato un brusco cambiamento nella
lettura dei rapporti fra gli istituti in esame: la nuova disciplina europea dell’industrial
design sembra infatti ispirata ad una concezione opposta rispetto a quella
85
tradizionalmente seguita nel nostro Paese. Da quel momento, pertanto, la
maggioranza degli autori che fino ad allora avevano fermamente sostenuto la tesi
dell’alternatività delle tutele, ha modificato la propria interpretazione, ritenendo di
non poter più negare la sovrapposizione delle due protezioni204, ed anche la
giurisprudenza prevalente si è orientata nello stesso senso. Tuttavia una corrente
ormai minoritaria continua a negare la possibilità di una convergenza fra le due
normative, ritenendo la teoria dell’alternatività come l’unica via percorribile nella
definizione dei rapporti fra marchio di forma e disegni e modelli205.
Andiamo dunque ad analizzare i presupposti e le argomentazioni su cui vengono
basate le due diverse impostazioni, partendo proprio dalla tesi che considera a
tutt’oggi alternative le tutele. Questa opinione viene fondata su due ordini di
argomenti: i primi di carattere letterale, derivanti cioè dall’analisi del dato normativo;
i secondi improntati invece su considerazioni sistematiche.
Vengono innanzitutto esaminate le disposizioni che, secondo i sostenitori della
contrapposta tesi, imporrebbero il cumulo delle tutele, vale a dire gli artt. 16 e 96 par.
1, ed i Considerando 7 e 31, rispettivamente della Direttiva 98/71/CE e del
Regolamento 2002/6/CE. La prima delle disposizioni menzionate, che trova il suo
equivalente nell’art. 96.1 del Regolamento citato, stabilisce che <<sono
impregiudicate le disposizioni comunitarie o nazionali applicabili ai disegni o
204
In particolare si veda, A. VANZETTI – C. GALLI, La nuova legge…, cit., p. 142-143. I due autori,
prima ancora che l’emanata Direttiva 98/71 fosse recepita da parte del legislatore nazionale,
affermavano: <<si deve tuttavia segnalare che la situazione verrà necessariamente a mutare quando
sarà attuata anche nel nostro Paese la Direttiva n. 98/71/CE sulla protezione giuridica dei disegni e
dei modelli. […] Verosimilmente […] si potranno avere forme in pari tempo brevettabili come
modello ornamentale e registrabili come marchio: ciò tuttavia sarà ammissibile soltanto per quelle
forme che, comunque, non conferiscano valore sostanziale al prodotto>>.
205
In tal senso, S. ALVANINI, in Prodotti di design e marchi tridimensionali. Commento a Tribunale di
Primo Grado, 6 ottobre 2001, causa T-508/08, in Dir. ind., 2002, p. 207 ss.; R. BICHI, La tutela della
forma del prodotto e le nuove prospettive introdotte dalla Direttiva comunitaria n. 71/98, in AA. VV.,
Segni e forme distintive…, cit., p. 239 ss.; G. MONDINI, La direttiva comunitaria sulla protezione
giuridica…, cit., p. 998, il quale sostiene che il legislatore comunitario abbia inteso mantenere il
principio del divieto di cumulo, conservando validità le motivazioni che ne suggerivano l’applicazione
nell’assetto precedente. In giurisprudenza si veda, Cass., 16 luglio 2004 n. 13159, in Foro it., 2005, I,
145, in cui si sostiene che l’impedimento alla registrazione come marchio delle forme che danno
valore sostanziale al prodotto <<si traduce nella tutela del pubblico interesse ad impedire il
perpetuarsi di una esclusiva e si risolve nell’affermazione che tutte le forme brevettabili non siano
tutelabili come marchio>>. Si veda pure, Trib. Di Venezia, (ord.) 10 aprile 2006, in Giur. ann. dir. ind.,
2006, 5016.
86
modelli non registrati, ai marchi d’impresa o ad altri segni distintivi, ai brevetti per
invenzione, ai modelli di utilità, ai caratteri tipografici, alla responsabilità civile e
alla concorrenza sleale>>. D’altro canto, il Considerando 7 afferma che <<la
presente Direttiva non esclude l’applicazione ai disegni e ai modelli delle norme di
diritto interno o comunitario che sanciscono una protezione diversa da quella
attribuita dalla registrazione o dalla pubblicazione come disegno o modello, quali le
disposizioni concernenti i diritti sui disegni ed i modelli non registrati, i marchi, i
brevetti per invenzioni e i modelli di utilità, la concorrenza sleale e la responsabilità
civile>>. In termini analoghi poi, è formulato il Considerando 31 del Regolamento
suddetto.
I sostenitori della tesi del cumulo ritengono che tali disposizioni indichino
chiaramente l’intento del legislatore comunitario nel senso di ammettere la
duplicazione delle protezioni206, facendo anche leva sul fatto che il Libro Verde del
1991 sulla protezione giuridica dei disegni e modelli, prevedesse chiaramente tale
possibilità, dandola anzi per presupposta207.
Al contrario, gli autori che difendono la teoria dell’alternatività obiettano che i
riferimenti normativi appena indicati siano quantomeno ambigui, poiché non
contengono alcun esplicito riconoscimento del cumulo; tali disposizioni dunque non
imporrebbero affatto una simile conclusione, potendo al più essere interpretati nel
senso di non escluderla a priori.
Questa conclusione viene poi rafforzata dal confronto fra le suddette disposizioni e
quelle che regolano i rapporti tra disegni e modelli e l’istituto del diritto d’autore,
ovvero l’art. 17 ed il Considerando 8 della Direttiva 98/71. L’art. 17 infatti, stabilisce
che <<i disegni o modelli protetti come disegni o modelli registrati in uno Stato
membro a norma della presente Direttiva sono ammessi a beneficiare altresì della
protezione della Legge sul diritto d’autore vigente in tale Stato fin dal momento in
cui il disegno o modello è stato creato o stabilito in una qualsiasi forma. Ciascuno
206
In tal senso, per tutti, G. SENA, La diversa funzione e i diversi modelli di tutela della forma…, cit., p.
577 ss.; ID., Il diritto dei marchi. Marchio nazionale…, cit., p. 82 ss..
207
Cfr., Libro Verde, § 11.6.2., 165, in cui si afferma che se non si ammettesse il cumulo verrebbe
legittimata <<l’appropriazione sleale dell’avviamento commerciale ricollegabile ad un disegno ben
introdotto, ma il cui periodo di tutela viene a scadere>>. Si vedano anche, G. CASABURI, La tutela
della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 77; D. BRAMBILLA,
Carattere individuale e capacità distintiva…, cit., p. 455.
87
Stato membro determina l’estensione della protezione e le condizioni alle quali essa
è concessa, compreso il grado di originalità che il disegno o modello deve
possedere>>. Negli stessi termini inoltre, è formulato il Considerando 8208.
Effettivamente da questo confronto emerge un’evidente differenza nel contenuto dei
due gruppi di disposizioni: è infatti innegabile che il cumulo sia espressamente
previsto nella regolazione del rapporto tra disegni e modelli e diritto d’autore. Le
norme riferite non presentano sul punto alcun margine di ambiguità. Di tutt’altro
tenore invece sono gli artt. 16 della Direttiva e 96.1 del Regolamento; essi non
possono essere letti nel senso di imporre agli Stati membri la sovrapposizione fra la
tutela del marchio di forma e quella sul design, limitandosi piuttosto a non escludere
tale eventualità209.
Discorso analogo può farsi in merito alla relazione fra modelli di utilità e disegni e
modelli, in quanto la possibilità di fruire di entrambe le protezioni è chiaramente
prevista nell’art. 40 comma 1° del Codice della Proprietà Industriale. La
disposizione, infatti, recita: <<se un disegno o modello possiede i requisiti di
registrabilità ed al tempo stesso accresce l’utilità dell’oggetto al quale si riferisce,
possono essere chiesti contemporaneamente il brevetto per modello di utilità e la
registrazione per disegno o modello, ma l’una e l’altra protezione non possono venire
cumulate in un solo titolo>>.
208
Il Considerando 8 infatti recita: <<considerando che, in mancanza di un’armonizzazione normativa
sul diritto d’autore, è importante stabilire il principio della cumulabilità della protezione offerta dalla
normativa specifica sui disegni e modelli registrati con quella offerta dal diritto d’autore, pur
lasciando gli Stati membri liberi di determinare la portata e le condizioni della protezione del diritto
d’autore>>. Ancora, la medesima previsione è contenuta nell’art. 96 par. 2 del Regolamento
2002/6/CE, il quale stabilisce che << disegni e modelli protetti in quanto tali da un disegno o modello
comunitario sono altresì ammessi a beneficiare della protezione della legge sul diritto d'autore
vigente negli Stati membri fin dal momento in cui il disegno o modello è stato ideato o stabilito in
una qualsiasi forma. Ciascuno Stato membro determina l'estensione della protezione e le condizioni
alle quali essa è concessa, compreso il grado di originalità che il disegno o modello deve
possedere>>.
209
In tal senso, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La
protezione…, cit., p. 88-89; M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p.
10-11, il quale, pur sostenendo la tesi del cumulo obietta che questa non possa essere fondata sugli
artt. 16 della Direttiva e 96.1 del Regolamento, affermando che <<a ben vedere le disposizioni citate
sembrano semplicemente escludere un’incompatibilità a priori fra regolamentazioni diverse; ma ciò
non implica, necessariamente, anche una sicura compatibilità fra l’istituto del marchio d’impresa e
del disegno o modello>>. L’autore poi evidenzia la differenza fra le suddette norme e quelle che la
Direttiva dedica al rapporto fra disegni e modelli e diritto d’autore, sottolineando che solo in
quest’ultimo caso si prevede espressamente la cumulabilità delle protezioni.
88
Si deve infine sottolineare che la teoria del cumulo non trova supporto neppure
nell’accordo TRIPs, i cui articoli 25 e 26 si limitano a stabilire soltanto la misura
minima dei diritti del titolare del disegno o modello, lasciando liberi i Paesi firmatari
nella scelta del tipo di protezione210.
Sotto
tale
profilo
dunque,
condividiamo
le
argomentazioni
a
sostegno
dell’alternatività delle protezioni, ritenendo anzi che basandosi soltanto sul dato
letterale, nulla impedisca che proprio all’interno delle due discipline in esame possa
individuarsi per via interpretativa un divieto di cumulo, ad esempio a causa di
un’incompatibilità concettuale tra i due istituti211. D’altro canto però, questi
argomenti non sono da soli sufficienti a dimostrare la correttezza della tesi che nega
la duplicazione delle tutele, avendo il limitato effetto di evidenziare la mancanza di
un espresso riconoscimento normativo del cumulo.
Andiamo quindi ad analizzare il secondo ordine di argomentazioni, ovvero quelle
fondate su considerazioni sistematiche.
Gli autori che rifiutano la possibilità di una duplicazione delle tutele pongono
l’accento sull’insanabile contraddizione che una simile eventualità comporterebbe:
come conciliare una disciplina che prevede un’esclusiva avente una durata
necessariamente limitata, con un’altra che, al contrario, consente di poter protrarre ad
infinitum la privativa? Questa obiezione, ben più consistente rispetto a quelle
indicate fino a questo punto della trattazione, è effettivamente incontestabile; non si
può negare che un sistema in cui, da un lato si impongono limitazioni temporali
tassative sulla tutela di una certa entità, e dall’altro si permette la creazione di
monopoli potenzialmente perpetui aventi ad oggetto la medesima entità, sia un
sistema quantomeno irrazionale. L’ipotesi che sia possibile aggirare la disciplina sui
disegni e modelli registrando al contempo la stessa forma come marchio sembra in
effetti insostenibile.
D’altro canto però, si deve pure ammettere che il legislatore europeo (e di
conseguenza quello nazionale) non si è mostrato particolarmente sensibile a questo
aspetto; la medesima contraddizione, seppur meno evidente, caratterizza anche i
210
Si veda, S. SANDRI, La nuova disciplina della proprietà intellettuale dopo i GATT-Trips, Padova,
1996, p. 77.
211
Cfr., M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 10.
89
rapporti fra il diritto d’autore ed i disegni e modelli. Come si è visto, non si può avere
alcun dubbio in merito all’ammissibilità del cumulo delle protezioni di tali istituti, in
quanto la possibile sovrapposizione è espressamente sancita dal diritto europeo come
da quello italiano (rispettivamente agli artt. 17 della Direttiva 98/71 e 2 n.° 4 della
Legge sul diritto d’autore). Eppure la durata della tutela “autoriale”, pur avendo delle
limitazioni temporali precise, è notevolmente più consistente rispetto a quella
prevista per i disegni e modelli: in quest’ultimo caso, come detto, si tratta di
venticinque anni, mentre nel primo l’esclusiva si estende per settanta anni, che per di
più decorrono dalla morte dell’autore.
Dunque, nonostante la grave contraddizione, l’ordinamento consente senz’altro la
convergenza delle due protezioni appena menzionate; del resto si può notare che una
simile impostazione è già da tempo seguita senza particolari difficoltà in alcuni Stati
europei, primo fra tutti la Francia, il cui sistema è basato sulla c.d. teoria dell’unità
dell’arte 212.
Infine, i sostenitori della tesi dell’alternatività fanno leva sul principio della libertà di
concorrenza, principio fondamentale tanto nell’ordinamento interno quanto in quello
europeo. Si afferma infatti che il cumulo comporterebbe inaccettabili effetti restrittivi
sul piano concorrenziale, consentendo la creazione di un numero eccessivo di
monopoli aventi una durata potenzialmente illimitata; il mercato, insomma, verrebbe
in tal modo piegato in senso pro-monopolistico213. Il principio della libertà di
212
Per un’illustrazione della teoria dell’unità dell’arte si veda, M. A. PEROT-MOREL, Le systeme
français de la double protection des dessins et modeles industriels, in AA. VV., Disegno industriale e
protezione europea…, cit., p. 41 ss.. Quanto ai Paesi che da tempo ammettono il cumulo di tutele, si
veda, L. C. UBERTAZZI (estratto da), Codice della proprietà industriale…, cit., p. 175-176.
213
In tal senso, G. CASABURI, La tutela della forma tra marchi e modelli, in G. PETRAZ (a cura di), La
protezione…, cit., p. 90-91, il quale ritiene che simili rilievi valgano in certa misura anche contro il
legislatore (nazionale o comunitario), che negli ultimi anni avrebbe assecondato una certa tendenza
oligopolistica del mercato, <<accentuato la tutela delle posizioni individuali di monopolio, così
alterando parzialmente l’equilibrio tra tutela dei diritti esclusivi e quella degli interessi generali>>. Si
veda pure, G. GHIDINI, Profili evolutivi del diritto…, cit., p. 243 ss.; ID., Un appunto sul marchio…, cit.,
p. 83 ss.. Contra, D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del
design, in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 253. L’autore non condivide questa concezione
dei diritti di esclusiva in termini di eccezione al principio generale di libera concorrenza, ritenendo
piuttosto che <<in realtà i diritti esclusivi possono normalmente svolgere una funzione
filoconcorrenziale: […] in tale prospettiva la scadenza di una determinata protezione non
necessariamente implica l’intenzione del legislatore di impedire la sopravvivenza di altre privative di
durata più lunga e perciò cumulabili>>.
90
concorrenza, invece, imporrebbe di optare per la teoria dell’alternatività delle tutele,
dovendosi sempre preferire una lettura delle norme in senso pro-concorrenziale.
Anche quest’ultima considerazione è in certa misura condivisibile. La questione
relativa agli effetti dei diritti di esclusiva è da sempre fra le più dibattute tra gli
economisti, e a tutt’oggi si riscontrano opinioni fortemente divergenti, in quanto
alcuni ritengono che abbiano una funzione di stimolo, dunque pro-concorrenziale,
altri invece li considerano dannosi per l’equilibrio del mercato 214. Non si pretende
perciò di fornire in questa sede una risposta conclusiva a tale quesito. Tuttavia, ci
sembra di poter affermare che in linea di principio i diritti esclusivi nel campo della
proprietà industriale possano svolgere anche una funzione filoconcorrenziale,
fungendo da incentivo per coloro che creano o inventano. Infatti, gli autori hanno la
possibilità di veder remunerati i propri sforzi attraverso il riconoscimento della
privativa; tuttavia, affinché ciò avvenga, è necessario che sussista un equilibrio fra
l’interesse individuale dell’autore e quello di carattere generale al libero godimento
delle invenzioni o creazioni che comportano un arricchimento per l’intera collettività.
Ora, ci pare di poter sostenere che tale equilibrio mancherebbe del tutto se si
ammettesse la possibilità di ottenere in ogni caso una tutela potenzialmente perpetua
sulle forme dei prodotti industriali. Certo, ancora una volta dobbiamo ricordare il
disposto dell’art. 9 CPI, che vieta la registrazione come marchio delle forme capaci
di conferire al prodotto valore sostanziale; ma al di là di questa categoria, l’ambito
sembra troppo esteso perché non si tenga conto degli effetti in senso promonopolistico che il cumulo indiscriminato comporterebbe.
Detto questo però, riteniamo che non si possa comunque aderire alla tesi
dell’alternatività delle protezioni. Si è visto infatti come i suoi sostenitori evidenzino
la necessità di optare per una lettura delle norme in senso pro-concorrenziale, ma è
proprio questo, a nostro avviso, il punto critico di tale argomentazione.
Non ci pare infatti che l’attuale assetto normativo consenta un’interpretazione tesa ad
ammettere l’alternatività delle tutele, in quanto una simile lettura non trova alcun
214
A titolo meramente esemplificativo si veda, M. BOLDRIN – D. K. LEVINE, Abolire la proprietà
intellettuale, Roma-Bari, 2012. In quest’opera i due celebri economisti sostengono la necessità di
abolire l’intero sistema del copyright e dei brevetti, ritenendo che i due istituti siano del tutto
dannosi per il mercato. Una posizione così radicale permette di cogliere la complessità della
questione, sulla quale ancora oggi la scienza economica non ha fornito una risposta unanime.
91
riscontro nella disciplina dei due istituti in esame. In dottrina si è affermato che il
divieto di registrare come marchio i prodotti di design sarebbe espressamente
impedito dalla specifica disciplina sui marchi di forma, ovvero dalla previsione di cui
all’art. 9 CPI, che fa riferimento alle forme capaci di conferire valore sostanziale al
prodotto215. Si è già visto però come tale categoria sia piuttosto circoscritta rispetto
all’intero panorama delle forme dei beni industriali per cui, una volta chiarito che in
quest’ultimo caso la registrazione come marchio è senz’altro preclusa, resta uno
spazio decisamente vasto in cui la tesi dell’alternatività non può trovare applicazione.
Una conclusione diversa sarebbe possibile soltanto ritenendo che il criterio del valore
sostanziale valga a delimitare anche l’ambito delle forme proteggibili a titolo di
disegno o modello (oltre che quelle registrabili come marchio), fungendo da
parametro per l’accesso a simile tutela. Ma si sono già ampiamente esposte le ragioni
per cui quest’affermazione, dopo la riforma del 2001, non sia più condivisibile: il
nuovo requisito del carattere individuale non offre nessun appiglio ad una simile
interpretazione. Ove si applicasse in ogni caso la teoria dell’alternatività, volta a
consentire l’accesso alla tutela dei segni distintivi solo alle forme non registrabili
come design, la scarsa severità del criterio del carattere individuale comporterebbe
che la categoria del marchio di forma verrebbe sostanzialmente svuotata ed il
disposto dell’art. 7 del Codice della Proprietà Industriale, che espressamente prevede
la possibilità di registrare come marchio la forma di un prodotto o della sua
confezione, resterebbe di fatto lettera morta216.
Infatti, una volta escluse le forme capaci di dare valore sostanziale ai beni cui
ineriscono, bisognerebbe accantonare anche quelle dotate di carattere individuale,
ovvero quelle distinguibili rispetto alle anteriorità agli occhi dell’utilizzatore
informato. Resterebbero fuori soltanto le forme caratterizzate da differenze
215
In tal senso, S. ALVANINI, Prodotti di design e marchi tridimensionali. Commento…, cit., p. 216217.
216
Cfr., M. CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La
protezione…, cit., p. 12. L’autore afferma che <<il nuovo assetto normativo è tale che il negare la
cumulabilità della tutela, in un sistema in cui in pratica qualunque forma nuova, a prescindere da un
contenuto ornamentale, può essere depositata come modello, significherebbe ridurre l’istituto del
marchio di forma ad un istituto soltanto virtuale>>. Si veda pure, G. SENA, Il diritto dei marchi.
Marchio nazionale…, cit., p. 82, il quale rileva che se il confine fra tutela del marchio e tutela del
design si identificasse nella formula del valore sostanziale, si finirebbe per svuotare di significato la
regola generale che consente esplicitamente la registrazione come marchio di forma.
92
percepibili solo dal consumatore medio che, non conoscendo il mercato, reputerebbe
distintiva anche la configurazione di un prodotto che in realtà è molto simile ad altri
già noti. Ora, che questa categoria sarebbe eccessivamente ristretta, per non dire
sostanzialmente inesistente, è dimostrato da due osservazioni: innanzitutto si deve
tenere conto del fatto che l’art. 32 CPI prevede che sia sufficiente la non identità
rispetto alle anteriorità rilevanti per ritenere sussistente il requisito della novità; si
tratta dunque di una differenza minima. D’altro canto l’art. 33 CPI, nel prescrivere il
criterio del carattere individuale, richiede una valutazione piuttosto sommaria, sia in
quanto fondata sull’impressione generale dell’utilizzatore informato piuttosto che su
un giudizio analitico, sia in quanto la disposizione imponga che si tenga presente il
margine di libertà di cui l’autore ha beneficiato nella progettazione.
La scarsa severità del parametro di accesso alla tutela dei disegni o modelli insomma,
rende l’esclusiva facilmente conseguibile, per cui ne rimarrebbe fuori una categoria
di forme troppo esigua per giustificare la previsione del marchio di forma, quale
specie esplicitamente prevista da parte del legislatore.
Per non parlare poi del fatto che, se si adottasse una simile lettura, sarebbe
decisamente problematico stabilire parametri certi in base ai quali valutare quali
forme siano distintive agli occhi del consumatore informato e quali, invece, lo siano
semplicemente per il consumatore medio. Il rischio che in tal modo si dia adito a
giudizi arbitrari sarebbe troppo forte.
Riteniamo pertanto che la teoria dell’alternatività debba essere scartata.
Un illustre autore ha sostenuto che, a seguito della riforma del 2001, la disciplina sul
marchio di forma e quella sui disegni e modelli regolerebbero essenzialmente la
stessa materia217, in quanto <<sarebbe assai formalistico non riconoscere che il
carattere individuale […non sia] nulla di diverso dalla capacità distintiva tout
court>>. L’autore infatti, ritiene che il parametro dell’utilizzatore informato esprima
la naturale evoluzione nell’odierna epoca dell’informazione diffusa, in cui sarebbe
venuta meno la ragione del tradizionale riferimento al consumatore medio,
sottolineando come questo venga da tempo applicato in modo articolato da parte
della giurisprudenza, ovvero tenendo conto del settore merceologico di riferimento.
217
Così, G. GHIDINI, Profili evolutivi del diritto…, cit., p. 246-250; ID., Un appunto sul marchio…, cit., p.
91-100.
93
In base a tali riflessioni l’autore giunge ad affermare che due siano le possibili
alternative rispetto al problema del coordinamento delle normative in esame: o
ammettere la tesi del cumulo, o ritenere che la disciplina sul marchio di forma sia
stata oggetto di abrogazione tacita da parte della successiva novella sui disegni o
modelli218.
La teoria del cumulo viene però esclusa da questa dottrina ritenendo che essa, da un
lato comporterebbe gravissimi effetti anti-concorrenziali, dall’altro provocherebbe un
<<aperto conflitto sistematico>>, in quanto consentirebbe di aggirare i precisi limiti
temporali imposti dalla disciplina sull’industrial design. L’autore pertanto ritiene che
l’unica soluzione accettabile sia che intervenga una pronuncia della Corte di
Giustizia che sancisca espressamente la prevalenza della normativa sui disegni e
modelli rispetto a quella sul marchio di forma. E’ infatti dubbio che il diritto
comunitario ammetta l’istituto dell’abrogazione tacita; ne deriva che l’unica maniera
di risolvere il conflitto sarebbe una simile pronuncia, o un intervento dello stesso
legislatore europeo (che peraltro lo stesso autore giudica improbabile).
Sebbene si condividano alcuni rilievi dell’impostazione appena illustrata, essa non
può che essere criticata: sono ormai trascorsi più di dieci anni dall’entrata in vigore
della “nuova” disciplina sul design, e la Corte di Giustizia non ha mai rilevato un
conflitto con il diritto dei marchi. Non possiamo prevedere se una simile eventualità
si verificherà in futuro, ma fino a quando l’assetto normativo rimarrà inalterato
l’interprete è obbligato a ricercare una soluzione. Soluzione che, come già detto, non
può essere individuata nella teoria dell’alternatività delle tutele; oltre alle critiche già
evidenziate si deve aggiungere che l’adozione di tale impostazione equivarrebbe a
rimanere ancorati alla lettura tradizionalmente seguita nel nostro Paese, lettura non
più attuale dopo la riforma del 2001 e dunque improponibile. Si deve invece
accettare che l’intervento comunitario sulla disciplina dei disegni e modelli abbia
stravolto il sistema di protezione della forma, adottando un’impostazione
decisamente innovativa. Pertanto non rimane che passare all’analisi della tesi del
218
Ibidem. Si deve però specificare che tale autore ritiene che il problema sussista solo per i c.d.
marchi tridimensionali intrinseci, in quanto solo rispetto ad essi si pone il rischio di apprezzabili
effetti restrittivi sulla concorrenza. Pertanto, in base a questa lettura, la disciplina dei segni distintivi
continuerebbe ad operare rispetto ai marchi di forma bidimensionali, o tridimensionali estrinseci.
94
cumulo, per valutare se attraverso questa sia possibile delineare una soluzione
soddisfacente.
Abbiamo già evidenziato come, nelle discipline dei due istituti in esame, non sia
rinvenibile un esplicito riconoscimento normativo del cumulo; questo però non
implica che tale ipotesi debba essere necessariamente accantonata, tanto più
considerando che gli artt. 17 della Direttiva 98/71 e 96.1 del Regolamento 2002/6
specificano che una simile eventualità non sia esclusa.
La dottrina maggioritaria è sostanzialmente divisa in tre filoni, ovvero fra coloro che
ritengono applicabile il cumulo in ogni caso (salvo ovviamente per le forme dotate di
valore sostanziale), coloro che invece tentano di limitare tale possibilità distinguendo
le forme in diverse categorie, ed infine coloro che ammettono il cumulo solo se si
verifica il fenomeno del secondary meaning219. Queste diverse impostazioni sono
tutte fondate da un lato, sul riferimento agli artt. 96.1 e 17 del Regolamento e della
Direttiva sui disegni e modelli (nonché al Considerando 7 della stessa), nonché alla
già menzionata Legge del Benelux del 1971, da cui la disciplina comunitaria ha tratto
spunto; dall’altro sul cambiamento imposto dalla sostituzione del requisito dello
speciale ornamento con quello del carattere individuale. Avendo già ampiamente
esaminato tali argomentazioni, possiamo passare all’analisi delle diverse opinioni.
La prima tesi ritiene ammissibile il cumulo in ogni caso in cui una forma, che non sia
idonea ad attribuire valore sostanziale al prodotto, risulti distintiva non solo in base
alla percezione dell’utilizzatore informato, ma anche agli occhi del consumatore
medio220. Tale lettura parte dell’idea che, secondo l’assetto normativo attualmente
vigente, l’unica differenza esistente fra i segni distintivi e l’industrial design risieda
nella soglia minima di accesso alla protezione; soglia che sarebbe più bassa nel caso
219
Gli autori che sostengono le tre distinte impostazioni verranno menzionati nell’ambito
dell’illustrazione di ciascuna di esse. A quella sede pertanto si rimanda.
220
In tal senso, A. FITTANTE, Il nuovo diritto industriale…, cit., p. 45 ss.; A. VANZETTI – V. DI CATALDO,
Manuale…, cit., p. 69, in cui si afferma: <<si può dunque concludere che quando si tratti di forme il
cui carattere individuale consiste in un vero e proprio carattere distintivo (differenza percepibile dal
consumatore medio), esse potranno essere tutelate anche con l’azione di imitazione servile o come
marchi, a prescindere dalla loro registrazione come modelli: con conseguente possibile cumulo delle
due tutele>>.
95
dei disegni e modelli, essendo il consumatore esperto in grado di cogliere dettagli
distintivi che invece sfuggirebbero a quello medio.
Nel I° Capitolo abbiamo spiegato i motivi che ci inducono a preferire
un’interpretazione diversa del parametro dell’utilizzatore informato, in base alla
quale tale soggetto andrebbe indentificato con colui che, essendo un buon
conoscitore del mercato, possa venire colpito solo da una forma particolarmente
originale. Alla base dell’opinione appena riferita vi è invece una visione opposta,
tesa a ritenere che il consumatore informato percepisca dettagli irrilevanti agli occhi
di quello inesperto, in grado di cogliere soltanto le differenze più eclatanti.
Questa osservazione rappresenta la prima ragione per la quale si ritiene di dover
scartare l’opinione in esame.
Un secondo motivo, di carattere più generale, deriva dalle considerazioni già svolte
in merito alla contraddizione insita in un sistema così impostato: se si ammettesse il
cumulo indiscriminato, lasciando fuori solo le forme con caratteristiche distintive
tanto insignificanti da essere percepibili solo da parte dell’utilizzatore informato, il
conflitto sistematico sarebbe inaccettabile. Non si può a nostro avviso riconoscere
che l’ordinamento preveda due istituti, la cui regolamentazione peraltro si distingue
sotto diversi ed importanti profili (come illustrato nel paragrafo precedente),
disciplinanti di fatto lo stesso oggetto; il sistema risulterebbe così del tutto
irrazionale.
L’inammissibilità di una simile contraddizione ha indotto parte della dottrina a
ricercare una diversa soluzione, sempre nell’ambito della tesi del cumulo,
distinguendo le forme in diverse categorie. Anche all’interno di questa seconda
opinione si possono individuare diverse letture. La prima, elaborata da Davide Sarti,
distingue le forme in tre classi, a seconda dalla loro maggiore o minore capacità di
influire sulle decisioni d’acquisto dei consumatori221: vi sarebbero dunque beni la cui
configurazione risulterebbe determinante nella scelta del pubblico, al punto che con
una diversa conformazione il prodotto non sarebbe stato acquistato. Si tratta delle
forme dotate di valore sostanziale per cui, rispetto ad esse, il cumulo andrebbe
221
Si veda, D. SARTI, Marchi di forma ed imitazione servile di fronte alla disciplina europea del design,
in AA. VV., Segni e forme distintive…, cit., p. 258.
96
escluso in ogni caso. Una seconda categoria sarebbe invece costituita dalle forme
che, pur non incidendo in maniera definitiva sulla decisione di comprare il prodotto,
avrebbero la capacità di attrarre il consumatore, stabilendo un primo contatto
privilegiato grazie alla loro gradevolezza estetica. Il riferimento è evidentemente alle
forme aventi carattere individuale, rispetto alle quali quindi sarebbe sempre possibile
la sovrapposizione delle tutele. Infine vi sarebbe una terza categoria, intermedia,
comprendente le forme che, pur non essendo determinanti nelle decisioni d’acquisto,
avrebbero comunque un peso importante nella scelta del prodotto. L’autore ritiene
che in questi casi sarebbe sempre applicabile la disciplina dei disegni e modelli,
mentre la possibilità di ottenere la registrazione come marchio andrebbe valutata
caso per caso, a seconda degli effetti che una simile eventualità provocherebbe
sull’assetto concorrenziale del mercato.
Prima di passare alla critica dell’opinione appena illustrata andiamo ad esaminare
l’altra, fondata sulla distinzione delle forme in diverse categorie, in quanto i rilievi
che andremo a muovere valgono in parte per entrambe le letture.
Questa ulteriore classificazione, elaborata da Massimo Montanari222, non è molto
distante da quella di D. Sarti; anche qui infatti le forme sono differenziate in tre
gruppi, a seconda che il prodotto abbia una configurazione piuttosto semplice
(sebbene gradevole), o invece sia originale al punto da colpire l’utilizzatore
informato, o ancora presenti una forma tale da divenire nella valutazione del
pubblico <<il prodotto stesso>>. La prima categoria sarebbe dunque costituita da
forme non particolarmente caratteristiche, registrabili perciò soltanto come marchio.
La seconda sarebbe invece composta da prodotti con una configurazione innovativa e
più caratteristica; per queste forme sarebbe quindi sempre ammissibile il cumulo.
Infine, il terzo gruppo sarebbe costituito dalle forme idonee a conferire al bene cui
ineriscono valore sostanziale; inutile dire che, in questo
caso, l’unica tutela
ammissibile sarebbe quella prevista dalla disciplina sui disegni e modelli.
Le due opinioni riferite non sembrano condivisibili. Sebbene entrambe siano frutto di
un importante sforzo interpretativo e presentino il pregio di una notevole coerenza, i
risultati cui pervengono non sono a nostro avviso convincenti.
222
Si veda, M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 7 ss..
97
In primo luogo ambo le impostazioni continuano a fare riferimento, in maniera più o
meno esplicita, all’estetica della forma, ed in questo lavoro si è già abbondantemente
sottolineata la necessità di prescindere da concetti tanto soggettivi ed inafferrabili,
quali la bellezza; a quelle osservazioni pertanto si rinvia.
Inoltre la differenziazione in tre categorie così simili fra loro sembra problematica:
come distinguere, ad esempio, le forme che determinano le scelte del pubblico da
quelle che, pur influendo su tali scelte, non sono decisive? Quali parametri di
riferimento dovrebbe utilizzare la giurisprudenza?
Sembra insomma che l’adozione di un simile criterio, ben lungi dall’essere
risolutivo, causerebbe nuove incertezze, con l’ulteriore rischio che i giudici, al fine di
impedire arbitri, applicherebbero il più delle volte il cumulo, così da evitare
imbarazzanti valutazioni su presunte differenze fra i vari prodotti.
A nostro avviso tutte le interpretazioni esaminate in questo paragrafo (ci si riferisce
sia alla tesi a favore dell’alternatività, sia alle diverse teorie sul cumulo) adottano un
approccio metodologico errato, in quanto non pongono l’accento su quello che,
secondo chi scrive, rappresenta il punto centrale della questione. Si vuole dire che
per delineare la soluzione più corretta al problema del coordinamento fra la
disciplina del marchio di forma e quella sui disegni e modelli occorre partire dalla
diversa funzione che caratterizza i due istituti.
Il marchio, infatti, è un segno distintivo ed in quanto tale deve sempre svolgere tale
funzione, indipendentemente dal tipo di segno di cui si tratti; al contrario i disegni e
modelli non hanno alcuna funzione di indicatore d’origine. Questo comporta che la
ricerca di una soluzione convincente debba partire dall’assunto che la forma di un
prodotto o della sua confezione possa costituire un valido marchio solo qualora
svolga essenzialmente o prevalentemente una funzione distintiva223. L’autonomia del
marchio di forma, intesa innanzitutto come autonomia concettuale prima che
normativa, deve in ogni caso essere salvaguardata.
223
Così, D. BRAMBILLA, Carattere individuale e capacità distintiva…, cit., p. 453 ss.; M. CARTELLA, Il
pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 12;
G. GARGIULO, Industrial design e marchi di forma nella prospettiva…, cit., p. 435; G. SENA, Il diritto
dei marchi. Marchio nazionale..., cit., p. 83.
98
Se ne deduce che le due discipline in esame, sebbene possano convergere, tutelino in
linea di principio funzioni diverse della forma del prodotto. Questo particolare modo
di impostare il problema porta a ritenere che la soluzione passi attraverso l’istituto
del secondary meaning; andiamo dunque ad esaminare il procedimento logico che
conduce a tale risultato.
3.3. Marchi di forma e secondary meaning
La disciplina sui disegni e modelli e quella sul marchio di forma tutelano dunque
funzioni diverse: la prima infatti, <<riguarda la forma in sé>>224, ovvero attiene alla
capacità attrattiva insita nella configurazione di un prodotto. Il diritto dei marchi
invece, fa riferimento <<all’altro da sé di una forma>>225, ovvero agli ulteriori
possibili messaggi e suggestioni che vengono comunicati dal segno.
Questa affermazione però, merita una precisazione.
Nel Capitolo precedente si è evidenziato come, con la riforma della Legge-marchi
del 1992, l’ordinamento abbia esteso la tutela dei segni distintivi anche ad aspetti
ulteriori rispetto alla capacità distintiva; a seguito di tale intervento normativo infatti,
il diritto dei marchi protegge anche la funzione attrattiva insita nel segno.
Questa osservazione ha indotto una dottrina a ritenere che il marchio avrebbe ormai
perso gran parte della sua capacità di indicare l’origine imprenditoriale del prodotto
cui inerisce, avendo invece assunto prevalentemente la funzione di strumento di
tutela del valore attrattivo della forma226.
Tale conclusione non è a nostro avviso condivisibile: sebbene la disciplina del
marchio protegga anche il c.d. selling power insito nel segno, non crediamo che
questa componente sia preponderante rispetto alla capacità distintiva, o comunque
224
Cfr., D. BRAMBILLA, ivi, p. 457.
Ibidem. Si veda pure la già citata ordinanza del Tribunale di Napoli, del 26 luglio 2001, in Riv. dir.
ind., 2002, II, p. 153 ss., nella quale si afferma: <<il contesto concreto di uso, di pubblicizzazione, di
conoscenza, fa sì che la forma di una cosa, pur continuando inevitabilmente ad esser tale, diventi
(eventualmente attraverso un processo di secondary meaning) anche “altro da sé”, vale a dire
compendio di conoscenze, di suggestioni, di comunicazioni: in una parola, un marchio>>.
226
Così, M. MONTANARI, L’industrial design tra modelli, marchi di forma…, cit., p. 12. L’autore infatti
nega che la differenza fra l’istituto del marchio di forma e quello dei disegni e modelli sia rinvenibile
nella diversa funzione tutelata dai due.
225
99
che lo sia a tal punto da offuscare pressoché completamente simile carattere. Si
intende dire che la funzione distintiva deve essere ritenuta a tutt’oggi essenziale per
qualsiasi tipo di marchio, dovendone rappresentare quantomeno una delle principali
caratteristiche; ciò, peraltro, è confermato dal disposto dell’art. 7 CPI che
espressamente prevede come condizione alla registrazione l’idoneità del segno <<a
distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese>>.
Inoltre, l’importanza della funzione distintiva quale prerogativa del marchio
dev’essere a nostro avviso particolarmente esaltata quando si ha a che fare con un
istituto come il marchio di forma, che pone notevoli difficoltà nell’individuazione dei
suoi esatti confini, presentando marcate analogie con altri strumenti di tutela messi a
disposizione dall’ordinamento. Negare la centralità della funzione distintiva
equivarrebbe ad ammettere che la disciplina sui disegni e modelli e quella sul
marchio di forma proteggono lo stesso oggetto; conclusione che, come già
sottolineato, metterebbe in luce l’irrazionalità di un sistema che mantiene distinti i
due istituti, prevedendo discipline divergenti sotto vari profili, peraltro affatto
marginali.
In sostanza l’unica maniera di evitare tale grave contraddizione sta nell’ammettere
che la funzione distintiva sia ancora una prerogativa fondamentale del marchio e che
proprio in questo aspetto vada individuata la principale differenza tra disegni e
modelli e marchi di forma.
Questa impostazione è avvalorata dalla considerazione che, di fronte al marchio di
forma, la percezione del pubblico può non essere la stessa rispetto ai casi in cui si
trovi davanti ad un segno denominativo o figurativo; in quest’ultimo caso infatti il
consumatore (quantomeno quello “medio”) comprende immediatamente che il segno
sta lì ad indicare l’origine imprenditoriale del bene, mentre questo può non essere
altrettanto evidente quando ci si trovi difronte ad un marchio di forma. Il fatto che il
segno coincida con l’aspetto esterno del prodotto stesso rende necessario porre
particolarmente l’accento sul carattere distintivo, che la forma presenterà solo se sia
capace di rappresentare agli occhi del pubblico qualcosa di ulteriore rispetto alla
semplice configurazione del bene. La forma, insomma, potrà essere un valido
marchio solo qualora sia idealmente separabile dal prodotto che caratterizza,
100
evocando implicitamente nei consumatori un insieme di conoscenze, suggestioni e
comunicazioni.
Per risolvere il problema del coordinamento fra disciplina dei disegni e modelli e
quella sul marchio di forma occorre quindi tenere ben presente la differenza fra la
mera forma di un qualsiasi prodotto industriale e la forma distintiva; differenza
imperniata sulla percezione del pubblico. Si è infatti visto come, da un lato tale
elemento caratterizzi tutta la disciplina dei marchi, dall’altro come anche la
giurisprudenza comunitaria abbia più volte posto l’accento sull’importanza della
percezione del consumatore, quale naturale recettore del messaggio insito nel
segno227.
Quanto appena detto ci porta ad affermare che, per stabilire se una forma sia o meno
registrabile come marchio, occorre valutare se questa venga percepita come segno
distintivo da parte del pubblico di riferimento, ovvero se i consumatori individuino in
quella forma l’indicazione dell’impresa produttrice da cui il prodotto proviene. Solo
in tal caso infatti, la forma esplica la funzione tipica di un segno distintivo e,
pertanto, solo in tal caso merita la tutela come marchio.
Questa interpretazione è del resto confermata dall’impostazione seguita negli ultimi
anni dalla giurisprudenza comunitaria, imperniata su una riconsiderazione della
nozione di capacità distintiva; difatti, se tradizionalmente nel nostro Paese si riteneva
che la verifica in merito alla sussistenza del carattere distintivo si esaurisse
nell’esame della descrittività e della genericità del segno, la Corte di Giustizia ha in
più occasioni rilevato come il requisito in questione abbia una sua valenza autonoma,
particolarmente evidente per i marchi coincidenti con l’aspetto esterno del prodotto
(ovvero i marchi di forma e di colore). Così, in una serie di pronunce, la
giurisprudenza europea ha sottolineato che la sussistenza della capacità distintiva
debba essere valutata anche in positivo, ovvero in relazione all’idoneità della forma
ad essere percepita dai consumatori come segno distintivo228. Emblematico in tal
227
Un autore che particolarmente si è concentrato sulla centralità della percezione dei consumatori
in tutta la disciplina dei marchi è S. SANDRI, di cui si veda, Percepire il marchio: dall’identità del segno
alla confondibilità, Forlì, 2007.
228
Per i marchi di forma si vedano in particolare, Tribunale di Primo Grado, 6 marzo 2003, causa T57/00, in Foro it., XII, p. 573ss.; Corte di Giustizia, 22 giugno 2006, causa C-24/05; Corte di Giustizia,
12 gennaio 2006, causa C-173/04; Corte di Giustizia, 7 ottobre 2004, causa C-136/02; per i marchi di
101
senso è il celebre caso Philips vs. Remington, in cui la Corte di Giustizia ha
evidenziato come i criteri di valutazione del carattere distintivo nel marchio di forma
non divergano da quelli relativi all’esame di simile requisito negli altri marchi. La
sentenza pertanto mette in luce la necessità che, anche nel caso dei marchi di forma,
il segno sia idoneo ad indicare l’origine imprenditoriale del bene, in modo che <<una
parte sostanziale degli ambienti interessati [associ] tale forma del prodotto a
quell’operatore ad esclusione di qualsiasi altra impresa o, in assenza di contraria
indicazione,
[creda]
che
i
prodotti
aventi
tale
forma
provengano
da
quest’ultimo>>229.
Si deve anche notare come l’interpretazione fornita, basata sull’idea che una forma
possa costituire un valido marchio solo qualora venga percepita come distintiva da
parte del consumatore medio, sia perfettamente in linea con la definizione di valore
sostanziale individuata nelle pagine precedenti. Si è detto infatti che la
configurazione di un prodotto può ritenersi idonea ad attribuirgli valore sostanziale
qualora rappresenti la ragione essenziale dell’acquisto, vale a dire quando <<la
sostanza oggettuale della forma prevale ontologicamente e funzionalmente sul
carattere distintivo>>
230
della stessa; in un simile caso, la forma rappresenta per il
pubblico semplicemente un oggetto, un bene, dunque non un marchio.
L’idea che l’impedimento alla registrazione di cui all’art. 9 CPI operi quando la
conformazione del bene rappresenti la ragione fondamentale della scelta di un certo
prodotto è in perfetta coerenza con l’affermazione secondo cui il marchio di forma
sia valido solo se percepito come segno distintivo dal pubblico di riferimento. Ciò in
quanto, se il consumatore attribuisce importanza determinante alla provenienza del
colore si veda, Corte di Giustizia, 24 giugno 2004, causa C-49/02, tutte leggibili in www.eurlex.europa.eu. In dottrina questo particolare orientamento della giurisprudenza comunitaria è stato
evidenziato da, D. BRAMBILLA, Carattere individuale e capacità distintiva…, cit., p. 456; V. M. DE
SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 38-39.
229
Cfr., Corte di Giustizia, 18 giugno 2002, causa C-299/99, in Giur. ann. dir. ind., 4464. La materia del
contendere riguardava la società Koninklijke Philips Electronics NV che, nel 1985, aveva depositato
un marchio consistente nella rappresentazione grafica della parte superiore di un rasoio, formato da
tre testine circolari a lame rotanti, disposte a forma di triangolo equilatero. La società Remington
Consumer Products Ltd aveva cominciato, nel 1995, la produzione e commercializzazione nel Regno
Unito di rasoi aventi una conformazione molto simile a quelli della Philips. In dottrina si veda, L.
PATRUNO, Pietre preziose, rasoi elettrici e dolciumi: i dubbi risolti del consumatore trasformano il
marchio in certezza, in Dir. pubblico comparato e europeo, 2002, p. 1753 ss..
230
Così, C. GALLI, Nuovo regime dei marchi di forma (anche avanti alla Commissione dei ricorsi) e dei
Designs, disponibile su www.iplawgalli.it.
102
bene da una certa impresa, la forma non dev’essere ritenuta capace di attribuire allo
stesso valore sostanziale; al contrario, qualora la ragione principale dell’acquisto
risieda nella configurazione del prodotto che, grazie alla sua forza attrattiva, induce il
pubblico a sceglierlo fra i vari concorrenti, la forma non svolge la funzione tipica del
marchio e, pertanto, non può essere protetta in base alla disciplina sui segni distintivi.
Si ritiene insomma che il verificarsi di una di queste circostanze escluda
necessariamente l’altra.
Si prenda ad esempio il caso delle borse realizzate da famose case di moda (Luis
Vuitton, Burberry, etc.): è molto frequente, in Italia come all’estero, incontrare
venditori ambulanti che offrono fedeli imitazioni di tali borse. I consumatori di
norma
sono consapevoli di non trovarsi di fronte all’originale, eppure spesso
acquistano la borsa, sapendo inoltre che potrebbero comprare allo stesso prezzo, da
un regolare negoziante, borse di qualità superiore che non riportano il marchio
celebre. E’ evidente come, in un simile caso, la ragione determinante dell’acquisto
risieda nel marchio stesso, che aggiunge al prodotto un valore ulteriore.
Al contrario, il consumatore che dovesse scegliere una borsa soltanto in virtù delle
sue particolari caratteristiche esteriori, senza interessarsi all’origine imprenditoriale
della stessa, sarebbe indotto all’acquisto del valore sostanziale che la forma
attribuisce al bene231.
Parte della dottrina ha posto l’accento sull’espressione <<esclusivamente>>,
contenuta nell’art. 9 CPI (nonché negli artt. 3.1 e) e 7.1 e), rispettivamente della
Direttiva e del
Regolamento sul marchio), ritenendo che essa indicherebbe la
necessità di ammettere la registrazione del segno qualora la forma dotata di valore
sostanziale
significativo
presenti
232
al
contempo
qualche
ulteriore
elemento
distintivo
.
231
Si veda, C. ALBERTINI, Il caso Burberrys: marchi di forma (anche se bidimensionali) e rapporto tra
azione di contraffazione e azione di concorrenza sleale confusoria, nota a Cass. 29 maggio 1999 n.
5243, in Giust. Civ., 1999, I, 3326 ss.. L’autore rileva che l’induzione all’acquisto deriva <<non dalla
pregevolezza estetica del disegno, quanto piuttosto dal fatto che esso richiama la famosa maison,
quindi anche l’atmosfera elitaria che esso evoca>>. Si veda pure, V. M. DE SANCTIS (a cura di), La
protezione delle forme nel codice…, cit., p. 63.
232
Così, V. M. DE SANCTIS (a cura di), ivi, p. 52-53; G. SENA, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale…,
cit., p. 81-82.
103
E’ evidente come la ricostruzione che abbiamo fornito fin qui sia incompatibile con
la lettura appena esposta: a nostro avviso, infatti, si deve tenere conto di quale sia
l’aspetto prevalente nella percezione del consumatore, considerando se questo
prediliga il prodotto in virtù della sua conformazione o piuttosto per la sua origine da
una certa azienda.
Inoltre l’interpretazione criticata porterebbe a ritenere pressoché tutte le forme dotate
di valore sostanziale registrabili come marchio, in quanto ben difficilmente queste
non presenteranno aspetti distintivi, essendo tanto attraenti da rappresentare la
ragione dell’acquisto. Ciò comporterebbe che il limite previsto dall’art. 9 CPI
sarebbe di fatto vanificato, con la grave conseguenza che si verrebbe a creare
un’eccessiva concentrazione di monopoli potenzialmente perpetui, aventi ad oggetto
la forma di prodotti industriali233.
Nel corso della trattazione si è ampiamente sottolineato come il legislatore
comunitario, nel prevedere la figura del marchio di forma abbia imposto una serie di
limitazioni, al fine di evitare effetti gravemente restrittivi sulla concorrenza. Il
pericolo di pregiudicare il mercato in senso pro-monopolistico impone di
circoscrivere opportunamente il fenomeno del marchio di forma. La soluzione
individuata in questo lavoro risponde innanzitutto a tale obiettivo, poiché restringe al
minimo le ipotesi di concessione dell’esclusiva sulla forma, quale segno distintivo.
Non potendosi più ammettere la tesi dell’alternatività delle protezioni (per i motivi
esposti nel paragrafo precedente), la conclusione cui si è giunti consente il cumulo
soltanto nell’ipotesi in cui la forma, oltre ad avere carattere individuale (ovvero la
capacità di stabilire un contatto privilegiato con l’utilizzatore esperto), indichi al
contempo agli occhi del consumatore medio l’origine imprenditoriale del bene.
E’ insomma questo il terreno sul quale può verificarsi la sovrapposizione della tutela
del marchio a quella sui disegni e modelli; si tratta di un ambito piuttosto ristretto,
soprattutto tenendo conto di quanto stiamo per dire in merito al fenomeno del
secondary meaning.
233
Tale pericolo è stato puntualmente evidenziato da G. GHIDINI, Profili evolutivi del diritto…, cit., p.
245; ID., Un appunto sul marchio…, cit., p. 89.
104
Resta infatti da stabilire quando si possa ritenere che una forma sia distintiva agli
occhi del pubblico di riferimento. Ora, a noi sembra che l’unica risposta possibile a
simile interrogativo sia che la conformazione di un prodotto indichi l’origine
imprenditoriale del bene soltanto qualora si verifichi la “secondarizzazione” del
segno.
E’ infatti attraverso l’uso che la forma di un prodotto è in grado di imporsi
all’attenzione del pubblico non solo in sé considerata, ma anche come simbolo di un
messaggio,
ovvero
come
<<compendio
di
conoscenze,
suggestioni,
comunicazioni>>234; ciò deriva dal concreto uso sul mercato ed in particolar modo
dalla pubblicizzazione del bene fatta dall’azienda produttrice.
Tale impostazione è condivisa da una parte della dottrina, ed è stata anche sostenuta
dalla Corte di Giustizia in alcune sue pronunce235. Ad essa possono farsi due
fondamentali obiezioni: la prima deriva dal fatto che, secondo alcuni autori, l’istituto
del secondary meaning non sarebbe applicabile ai marchi di forma236.
Questa opinione trovava fondamento nel tenore letterale degli artt. 19 e 47bis della
vecchia Legge-marchi, i quali configuravano il fenomeno della “secondarizzazione”
quale deroga agli artt. 17.1 lett. a) e 18.1 lett. b), senza cioè menzionare la lettera c)
di quest’ultima disposizione, la quale conteneva appunto la disciplina specifica sui
marchi di forma.
Già prima dell’entrata in vigore del Codice della Proprietà Industriale la migliore
dottrina aveva dimostrato come una tale interpretazione fosse errata, in quanto il
fenomeno del secondary meaning attiene esclusivamente alla capacità distintiva, e
non ha nulla a che fare con il diverso problema dell’idoneità di una forma a costituire
un valido marchio237. Inoltre, l’art. 13 CPI ha eliminato ogni possibile dubbio, in
234
Così, la più volte citata ordinanza del Tribunale di Napoli, 26 luglio 2001, in Riv. dir. ind., 2002, II,
p. 153 ss..
235
Si veda in particolare, Corte di Giustizia, 7 luglio 2005, causa C-353/03, in www.eur-lex.europa.eu.
In dottrina si veda, D. BRAMBILLA, Carattere individuale e capacità distintiva…, cit., p. 457; M.
CARTELLA, Il pot-pourri industriale e la panoplia strumentale, in G. PETRAZ (a cura di), La
protezione…, cit., p. 12-13; G. GARGIULO, Industrial design e marchi di forma nella prospettiva…, cit.,
p. 435-436; L. LIUZZO, Strumenti di protezione delle forme nel campo della proprietà intellettuale, in
G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 43 ss..
236
In particolare si veda, G. OLIVIERI, in AA. VV., Commento tematico alla legge…, cit., p. 207 ss..
237
Per un’esauriente esposizione dei motivi che, già prima dell’entrata in vigore del Codice della
Proprietà Industriale, inducevano ad ammettere l’applicabilità del secondary meaning ai marchi di
105
quanto la disciplina del secondary meaning deroga espressamente al 1° comma di
tale disposizione, il quale fa riferimento a tutti i tipi di marchio privi di carattere
distintivo, riferendosi poi in particolare a quelli denominativi.
Del resto una conclusione diversa non avrebbe trovato alcuna giustificazione, ed anzi
si sarebbe rivelata del tutto iniqua, non comprendendosi per quale ragione una forma
originariamente priva di capacità distintiva, non possa acquisire tale carattere in virtù
dell’uso che ne venga fatto sul mercato.
Una seconda possibile obiezione alla soluzione proposta in questo lavoro potrebbe
consistere nell’osservazione che, come più volte specificato dalla giurisprudenza
comunitaria ed italiana238, la “secondarizzazione” non può operare in modo da
rendere idonee alla registrazione forme che rientrano nelle categorie previste dall’art.
9 CPI.
Si deve però precisare che la soluzione qui sostenuta non comporta affatto che le
forme dotate di valore sostanziale possano venire “riabilitate” grazie al fenomeno del
secondary meaning; per queste infatti, la registrazione come segno distintivo deve
essere esclusa in ogni caso. Il secondary meaning potrà operare solo rispetto a forme
che, nel momento dell’immissione sul mercato siano attrattive, ma non al punto da
rappresentare la ragione essenziale della scelta d’acquisto.
L’impostazione proposta comporta che la valutazione circa la possibilità per la forma
di costituire un valido marchio debba essere compiuta ex post, nel momento in cui il
prodotto sia già stato pubblicizzato ed immesso sul mercato. Ciò implica che fino al
momento del successo commerciale, vale a dire fino a quando nella mente del
pubblico la forma non sia divenuta indicatore dell’origine imprenditoriale del bene
(ovvero “altro da sé”), l’azienda non potrà ottenere la registrazione del segno. Potrà
invece usufruire in ogni caso della protezione a titolo di disegno o modello nonché,
forma si veda, P. FRASSI, L’acquisto della capacità distintiva delle forme industriali, in AA. VV., Segni e
forme distintive…, cit., p. 275 ss..
238
In particolare si veda, Corte di Giustizia, 18 giugno 2002, causa C-299/99, in Giur. ann. dir. ind.,
4464; App. Milano, 7 maggio 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2002, 4431. Il fatto che il secondary
meaning non possa rendere registrabili forme dotate di valore sostanziale è stato evidenziato da
diversi autori. Si vedano, P. FRASSI, ivi, p. 257 ss.; L. LIUZZO, Strumenti di protezione delle forme nel
campo della proprietà intellettuale, in G. PETRAZ (a cura di), La protezione…, cit., p. 43 ss.; G.
GARGIULO, Industrial design e marchi di forma nella prospettiva…, cit., p. 435-436; G. SENA, Il diritto
dei marchi. Marchio nazionale…, cit., p. 84-86. Contra, M. LAMANDINI – M. PAPPALARDO, Il difficile
equilibrio tra valore sostanziale e carattere distintivo della forma…, cit., p. 332 ss..
106
qualora il successo giunga prima che l’impresa abbia ottenuto la registrazione, della
tutela del marchio di fatto.
L’unico caso in cui, a nostro avviso, la validità del marchio di forma possa
prescindere dal verificarsi del secondary meaning, è quello dei segni che già godono
di una certa rinomanza.
Qualora un’azienda conosciuta registri come marchio una forma che questa già
utilizza, ad esempio come marchio denominativo o figurativo, potrà procedere
immediatamente alla registrazione in quanto il segno ha da tempo assunto agli occhi
dei consumatori carattere distintivo. Si pensi ai contratti di merchandising, che
frequentemente hanno ad oggetto le forme che riproducono il marchio denominativo
dell’impresa licenziante239.
In tutti gli altri casi è invece necessario l’operare del secondary meaning: non si vede
infatti come la forma del prodotto o della sua confezione possano avere da subito un
significato distintivo, quando siano utilizzate per la prima volta dall’impresa
produttrice. Anche qualora si tratti di prodotti aventi una configurazione
particolarmente inusuale, che perciò li rende facilmente memorizzabili da parte del
pubblico, sarà comunque necessario un certo periodo di tempo perché i consumatori
colleghino a quella forma l’azienda produttrice; potrà allora essere sufficiente un
periodo di tempo molto breve, ma in ogni caso indispensabile ai fini dell’acquisto
della capacità distintiva.
A conferma di ciò si può notare che qualsiasi impresa che abbia l’esclusiva su una
certa forma appone in ogni caso anche il proprio marchio denominativo o figurativo
sul bene contrassegnato; basti pensare alla bottiglia della Coca-Cola, sulla quale
l’azienda non ha mai mancato di indicare il proprio brand240.
Da quanto detto fin qui si può ricavare che il marchio di forma nasce normalmente
come marchio di fatto e che, quantomeno di norma, esso è un marchio forte (in
quanto avente notevole capacità distintiva, una volta conseguita l’affermazione sul
mercato) e dotato di rinomanza241.
239
Cfr., V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 80-81.
L’esempio è tratto da, G. GHIDINI, Un appunto sul marchio…, cit., p. 98.
241
Così, V. M. DE SANCTIS (a cura di), La protezione delle forme nel codice…, cit., p. 50-51.
240
107
L’opportunità della soluzione individuata deriva tanto da considerazioni giuridiche
quanto economiche: sotto il primo profilo essa rappresenta l’unica maniera di
coordinare la disciplina sui disegni e modelli con quella del marchio di forma,
ammettendo il cumulo solo in precise e limitate ipotesi.
Sotto il secondo aspetto, la conclusione cui siamo giunti permette di soddisfare
pienamente il principio della libertà di concorrenza, in quanto una tutela
tendenzialmente perpetua viene riconosciuta solo a quei produttori che, grazie agli
ingenti sforzi soprattutto in termini di investimenti pubblicitari, siano riusciti a
rendere la forma realmente distintiva.
Solo tali aziende meritano a nostro avviso una protezione tanto forte e duratura, che
potranno eventualmente combinare con quella propria dell’industrial design; le altre
potranno invece godere soltanto di tale tutela che in linea di principio consente
comunque il recupero dei costi d’impresa ed un’adeguata remunerazione degli
investimenti, nonché alcuni vantaggi ulteriori rispetto alla disciplina dei segni
distintivi (si veda quanto evidenziato nel primo paragrafo di questo Capitolo).
108
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