1 Memoria e storia negli studi etno-antropologici: una

Memoria e storia negli studi etno-antropologici: una relazione controversa
Zelda Alice Franceschi, Università di Bologna, Partner Acume
French
“Quella notte, come tante altre, così numerose da confondersi, Terii il Recitante camminava, a passi
regolari, lungo sacri cortili inviolabili. Era l’ora propizia per ripetere ininterrottamente, senza
correre il rischio di dimenticare nemmeno una parola, la bella lingua che racchiude, come
assicurano i Maestri, la nascita dei mondi, l’illuminarsi delle stelle, la forma degli esseri viventi, gli
accoppiamenti e le straordinarie fatiche dei Maori.
Ed è compito di coloro che devono passare la notte camminando, degli haèré-po dalla lunga
memoria, di tramandare, di altare in altare e da sacrificante a discepolo, le storie primigenie e le
gesta che non devono morire. Così, giunta la notte, da ogni terrazza divina, da ogni maraè lungo
l’arco della riva, gli haèré-po levano nel buio un mormorio indistinto che si confonde con
l’impetuosa voce della scogliera, e avvolge l’isola in una corona di preghiere. […]
Il suo primo ricordo era l’approdo, nella baia Matavaï, della grande piroga senza bilancere e
vogatori il cui capo si chiamava Tuti: uno di quegli stranieri dalla pelle chiara, detti ‘Piritané,
perché abitano, lontano, in una terra chiamata ‘Piritania1. Tuti frequentava gli antichi Maestri.
Aveva promesso di tornare ma non tornò mai: in un'altra isola maori, lo avevano adorato come un
atua per due lune, poi i primi giorni della terza, per venerarne le ossa.
Terii non voleva certo calcolare quante stagioni erano trascorse da allora né quanti addii erano stati
gridati al sole fecondatore. Solo gli uomini pallidi hanno la mania di contare gli anni svaniti dalla
loro nascita e di valutare, ad ogni luna, quella che chiamano ‘l’età del loro presente’. Meglio farsi
qualche migliaio di passi sulla pelle cangiante del mare… sentirsi il corpo agile e svelto, i tanti
desideri… e non pensare al cielo che ruota e alle lune che muoiono. Era così anche per Terii. Ma
verso la piena adolescenza, attirato dalle feste e dai favori riservati a chi aveva familiarità con gli
dèi, si era affidato ai sacerdoti della valle Papara. […]
Il tirocinio sembrava consistere solo nell’imparare a ripetere con devozione le gesta degli
Iniziatori: movimenti rigorosi, incantesimi ritmati e oscuri, andirivieni obbligati intorno al recinto
di corallo levigato, risate o pianti rituali a seconda che il luccicante Dio Oro dominasse alto
sull’isola o che, durante la siccità, fuggisse verso l’abisso dei morti.Senza fatica, il discepolo
ripeteva quei gesti, imparava le formule, urlava di gioia o di dolore. […]
Prima di pretendere di raggiungere quel grado di haèré-po avrebbe dovuto ripetere senza errori il
sapere che gli era stato trasmesso.
Aiutava la sua memoria di adolescente con i soliti trucchetti che i maestri conoscevano bene e
costruiva trecce di cordicelle i cui fili, tutti di diversa lunghezza con nodi a intervalli regolari,
uscivano da un sacchetto di tela.
Ad occhi chiusi, il Recitante sgranava i nodi tra le dita; ogni nodo rappresentava il nome di un
viaggiatore, di un capo o di un dio, e tutti insieme, le infinite generazioni. Il nome della treccia era
‘Origine del verbo’ perché sembrava far nascere le parole” (Segalen 2000, 17-18-19).
Victor Segalen diede alle stampe Les Immémoriaux nel 19072; medico della marina originario di
una famiglia di Brest, si addottorò in medicina con una tesi dal titolo “Les cliniciens dès lettres”,
una ricerca interdisciplinare ai confini tra medicina e letteratura, ove si occupò del trattamento
1
Nota nel testo: Piritania: Britannia, Inghilterra; Tuti; Cook; (fine del XVIII secolo).
Si utilizzeranno qui due traduzioni italiane; la prima, Gli Immemoriali di S.Sacchi, Roma, Editrice Lestoille, 1980; e la
seconda, Le Isole dei senza memoria, di M.Baldini con una introduzione di U.Fabietti, Roma, Meltemi, 2000.
2
1
letterario delle immagini della malattia e della nevrosi; discepolo e amico di J.K.Huysmans, intimo
di R.de Gourmont, di Saint-Pol-Roux e di J.de Gaultier (personaggio fra gli altri che introdusse
Nietzche in Francia); chiosatore di Rimbaud e interprete della pittura di Gauguin, fu medico in
Polinesia nei mesi successivi alla morte dell’artista; appassionato di musica e intimo di Debussy;
studioso del Budda e del Tao, medico e insegnante nella Cina di fine impero, era conoscitore
appassionato della letteratura cinese, del suo pensiero e della sua archeologia; di nuovo medico
militare a Brest, morì nel 1919 a quarantun anni in circostanze oscure. Fu senza dubbio un
personaggio eclettico la cui opera rimase semi-sconosciuta al grande pubblico fino ad anni piuttosto
recenti. Oggi viene ricordato soprattutto per un testo abbastanza inusuale e antesignano per il suo
tempo, la cui interpretazione è ancora complessa e stratificata ovvero l’Essai sur l’Exotisme, scritto
tra il 1904 e il 19183 ma pubblicato però solo nel 1978.
Ho deciso di cominciare il mio intervento con questa lunga citazione perché in un certo qual modo
racchiude alcune della tematiche che vorrei affrontare con voi oggi: la memoria e il suo rapporto
con la storia in antropologia; il valore del ricordo; il rapporto con il tempo e lo spazio; l’oralità e la
scrittura. Sono argomenti estremamente complessi e in questa sede vorrei esporvi le modalità con
cui le discipline etno-antropologiche nel corso della loro storia hanno affrontato questi temi o,
vedremo, spesso hanno consapevolmente deciso che su di essi era opportuno sorvolare.
Victor Segalen, è bene sottolinearlo, non era un antropologo ma il suo percorso biografico e i
contenuti dei suoi testi lo fanno apparire oggi una sorta di “etnologo sui generis”. Les Immémoriaux
non a caso fu definito da uno dei pochi critici che recensirono questo testo alla sua prima
apparizione, un “romanzo etnografico” (Fabietti, 2000, 8). Esso è vero, contiene in nuce concetti su
cui l’antropologia fece fatica ad accostarsi, al contempo l’impianto metodologico, l’organizzazione
dei materiali, la cura per lo stile, per la lingua indigena e non meno l’attenzione puntigliosa al
“punto di vista del nativo”, fanno di questo testo uno strumento estremamente utile ed accattivante
per il pubblico degli antropologi contemporanei. Sono curiose le introduzioni che oggi possediamo
alle due edizioni italiane, l’una di mano antropologica e l’altra di matrice chiaramente letteraria.
L’antropologo Ugo Fabietti cerca di indagare la natura e l’essenza di questa monografia dove Victor
Segalen non ritrae in realtà la Tahiti che vide, conobbe e frequentò; come facevano alcuni (ma
vedremo non molti) antropologi a Segalen contemporanei, egli racconta, o meglio fa raccontare da
un narratore polinesiano (procedimento anche questo in realtà poco comune all’interno della storia
dell’antropologia), la quotidianità così com’era vissuta prima dell’arrivo dei bianchi. Come aveva
3
Questo testo fu pubblicato per la prima volta con il titolo “Notes sur l’Exotisme” nei numeri del 1° marzo e 1° aprile
1955 del Mercure de France. Apparve poi con il titolo Essai sur l’Exotisme. Une Esthétique de Divers. Essai sur le
Mystérieux, Editions Fata Morgana, 1978. La traduzione italiana che si è consultata ha per titolo Saggio sull’esotismo.
Un’estetica del diverso. Saggio sul misterioso, traduzione di F.Marconi e S.Toni, Bologna, Edizione il Cavaliere
Azzurro, 1983.
2
fatto Gauguin, Segalen voleva fissare, fotografare e cercare di riprodurre fedelmente quella
“purezza incontaminata” di una Tahiti che oramai non esisteva più. Pochi anni prima di lui
l’antropologo americano Franz Boas che aveva studiato a lungo e vissuto a intervalli più o meno
regolari tra gli Indiani Kwakiutl, decideva di ricostruire il loro modo di vita così come questo
appariva, attraverso la testimonianza dei suoi informatori, prima dell’arrivo dei bianchi; Boas come
bene sottolinea Enrico Comba ricordando le parole di Ira Jacknis4 nella prefazione alla
monumentale edizione italiana de L’organizzazione sociale e le società segrete degli indiani
Kwakiutl5, “cercava di ricreare nelle sue opere […] un quadro sufficientemente accurato della storia
indigena precedente l’arrivo degli Europei, e della visione del mondo di queste popolazioni
(Jacknis, in Comba 2001, XV). Per questo se il romanzo di Segalen può essere definito oggi un
“romanzo archeologico” (Fabietti, 2000, 8), l’opera di Boas potrebbe essere allora una sorta di
“archeologia etnografica”. In questi due testi pare vi fosse un imbarazzo evidente nel parlare del
presente, della coevità e al contempo una volontà tenace di ricreare e ricomporre gli archetipi della
civiltà. Così mentre Fabietti sottolinea come, attraverso il sostrato letterario (egli consultò una serie
di lavori sulla Polinesia dai quali attinse molte delle conoscenze sulla società precoloniale –
resoconti di viaggio relazioni di navigatori, missionari e avventurieri), il testo di Segalen si
configuri come un “romanzo esotico” (così forse lo avrebbe definito Segalen) in cui gli Altri
prendono la parola, allo stesso modo è attraverso un’analisi puntigliosa alle tecniche di scrittura e di
stile, che Sergio Sacchi rilegge questo testo in chiave antropologica. E’ come se la critica letteraria
oggi si appropriasse dell’antropologia per decodificare questo testo e l’antropologia avesse bisogno
della letteratura per capire l’operazione storico-etnografica compiuta da Segalen. Non era infatti
pratica comune dare la parola agli Altri; sono esigui nella storia della disciplina antropologica (a
parte le biografie e le autobiografie) quegli autori che decidono di dare voce agli altri, di farli
comparire e conoscere al pubblico occidentale. Ed è proprio perché i diversi temi affrontati da
Segalen (l’insinuarsi della cultura occidentale a Tahiti; l’azione esercitata da una tradizione scritta
su quella orale; la ridistribuzione del potere dopo l’arrivo dei bianchi; l’accantonamento della
religione e dei culti locali; i sincretismi; i movimenti millenaristici; per citarne solo alcuni) vengono
filtrati attraverso il destino di singoli esseri umani, che essi acquistano oggi un valore antropologico
profondo; parallelamente è proprio l’analisi stilistica che permette di osservare come le tecniche
usate da Segalen possano accostarsi e al contempo prendere le distanze da quelle proprie
dell’antropologo. Terii ricorda, o ancora meglio, impara nel testo a ricordare; Segalen, perché è
4
Cfr. I.Jacknis, “The Ethnographic Object and the Object of Ethnology in the Early Career of Franz Boas”, in G.W.jr.
Stocking, Volksgeist as Method and Ethic: Essays on Boasian Ethnography and the German Anthropological Tradition
(History of Anthropology, 8), Madison, University of Wisconsin Press, 1996.
5
F.Boas, The Social Organization and the Secret Society of the Kwakiutl Indians, Washington, U.S. National Museum,
1897 (tr.it. di C.Scarmato L’organizzazione sociale e le società segrete degli Indian Kwakiutl, Roma, Cisu, 2001).
3
l’autore che comunque dà voce ultima alla memoria di quest’uomo, attraverso un utilizzo
particolare dello stile e della forma, ricostruisce il ricordo, la memoria, la storia. Sono alcuni
raffinati e dosati accorgimenti linguistici che creano questa memoria culturale: l’attenzione alla
lingua nativa (Segalen fa largo uso di vocaboli maori: haèré-po, faré, arioï, atua, pahi per citarne
solo alcuni); l’uso dell’imperfetto “che rallenta in qualche modo e fissa l’azione nella sua durata
(Sacchi, 1980, 14) (vedremo invece come le monografie dell’antropologia classica utilizzarono
sovente il cosiddetto “presente etnografico”); il diluirsi della sintassi, la meticolosità nel descrivere
gli oggetti e al contempo la precisione nel riportare i nomi (pratica utilizzata anche dal suo
contemporaneo Franz Boas); l’utilizzo di espressioni rare, di termini tecnici e di neologismi; e per
finire forse l’elemento più interessante e che in un certo qual modo sintetizza l’intero percorso di
Segalen: il creare ad hoc un linguaggio di un tempo-altro. Secondo Sergio Sacchi “il linguaggio di
un altro tempo si configura qui fondamentalmente il tramite per rendere la lontananza nello spazio”
(Sacchi, 1980, 14); una lontananza, è bene ricordarlo, resa più lieve e seducente proprio dalla
musicalità, dall’armonia composta di assonanze e alliterazioni che ritroviamo nel corso di tutto il
testo. Esso diviene a tutti gli effetti un vero e proprio “canto rituale”.
Segalen, lo abbiamo già detto non era antropologo. Difficile in realtà trovare nella storia della
disciplina antropologi tout court. La formazione della maggior parte degli antropologi era
contrassegnata da un pluralismo disciplinare profondo; ma ciò che oggi colpisce nella lettura di un
testo come quello di Segalen rispetto ad alcune monografie classiche della storia della disciplina
(penso ancora a Franz Boas ma anche ad un testo come Dieu D’eau di Marcel Griaule6 (18981956), antropologo francese a Segalen poco posteriore che raccolse la testimonianza di un vecchio
cacciatore Dogon) è forse la mancanza di strumenti per raccontare, descrivere e fotografare la
memoria. Nonostante oggi la critica contemporanea abbia letto le etnografie, anche le più classiche,
come portatrici di un vero e proprio genere7 con propri codici, statuti e figure retoriche ben
specifiche, in realtà quando gli antropologi si sono dovuti scontrare con la memoria e la storia,
problematiche legate alla rappresentazione spaziale e temporale degli Altri, gli strumenti leciti e
“permessi” dall’accademia risultarono profondamente inadeguati. Come si comportò allora
l’antropologia? Quali le modalità di interpretare il ricordo? Come trattò la storia e il tempo? In
definitiva che cosa ne fece della memoria?
Cercheremo invano nella storia della disciplina se volessimo trovare “trattati” specifici sulla
memoria; inutile sarebbe voler reperire una definizione di “memoria culturale”; così mentre
6
M.Griaule, Dieu d’eau. Entretiens avec Ogotemmêli, Paris Editions du Chêne, 1948 (tr.it. di G.Agamben, Dio
D’acqua, Como, Red Edizioni, 1996).
7
G.Marcus, “Rhetoric and Ethnographic Genre in Anthropological Research”, in J.Ruby, (ed.) A Crack in the Mirror.
Reflexive Perspectives in Anthropology, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1982.
4
abbondano le definizioni del concetto di cultura, sono poche quelle legate alla memoria e mancano
completamente quelle riguardanti il ricordo. In un certo senso così come furono esigui gli scritti
sulla metodologia etnografica, (ricordiamo il testo dell’antropologo inglese Rivers8; il testo di Franz
Boas sul metodo comparativo9, la monografia di Paul Radin10 e infine il primo capitolo degli
Argonauti del Pacifico Occidentale di Bronislaw Malinowski11) allo stesso modo pochissimo si
parlò della memoria e delle questioni ad essa legate. Oggi quando si parla di memoria in ambito
antropologico il riferimento classico e incontestabile rimane Maurice Halbwachs non antropologo
di formazione, ma sociologo di impianto social-psicologico.
Questa poca attenzione alla memoria credo sia legata a molteplici fattori. In primo luogo occuparsi
della memoria culturale (perché è di questa che l’antropologia dovrebbe occuparsi) probabilmente
poneva una serie di problemi epistemologici che l’antropologia ai suoi esordi non era pronta ad
affrontare. Non è un caso che Halbwachs si concentrò sulla memoria collettiva e sociale12 sfiorando
tutto quanto riguardava invece la memoria individuale, personale, soggettiva, “emozionale” (non
dobbiamo dimenticare infatti l’etimologia della parola ricordo: recordāri; re-cor, rimettere nel
cuore. Interessanti a questo proposito anche le considerazioni di Aleida Assman che, evidenziando
le puntualizzazioni di Friedrich G. Jünger, distingue i termini Gedächtnis (memoria) ed Erinnerung
(ricordo) ove il primo indicherebbe il “dato mnestico” ovvero la conoscenza, mentre il secondo
l’esperienza soggettiva13). Il destino della memoria in ambito antropologico segue in maniera quasi
inesorabile quello delle “storie di vita”, delle biografie e autobiografie. Di esse era consigliabile
occuparsi il meno possibile (se proprio di “storie di vita” bisognava parlare allora erano per
rappresentare la Cultura, per descrivere un matrimonio, una festa, un rituale; in definitiva per
adempiere ad uno scopo “sociale” e “collettivo”) perché mettevano il luce tutto quanto la disciplina
cercava di celare e nascondere: il complesso rapporto tra l’antropologo e il suo informatore; i
problemi legati all’oralità, alla trascrizione e traduzione dei testi; la relazione spazio-tempo così
come era vissuta e raccontata da popolazioni altre, non occidentali, ed infine parlare della memoria
avrebbe messo in luce i complessi e sottili meccanismi che legavano l’antropologia alla politica e al
8
Rivers W.H.R., “The Genealogical Method of Anthropological Enquiry”, in Sociological Review, Vol. 3, 1910, pp.
227-234.
9
Boas F.,”The Method of Ethnology”, in Race, Language and Culture, New York, McMillan, 1940.
10
P.Radin, The Method and Theory of Ethnology. An Essay in Criticism, New York, Basic Books, 1933.
11
Malinowski B., Argonauts of the Western Pacific. An Account of Native Enterprise and Adventures in the
Archipelagoes of Melanesian New Guinea, London, Routledge & Kegan Paul, 1922 (tr. it. M.Arioti, Argonauti del
Pacifico Occidentale, riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, Roma, Newton Compton, 1973).
12
Halbwachs M., La mémoire collective, Paris, Presses Universitaires de France, 1968 (tr. it. P. Jedlowski, La
memoria collettiva, Milano, Unicopli, 1987) [1950]; Les cadres sociaux de la mémoire, Paris PUF, 1925 (tr.it. di
G.Brevetto, L.Carnevale, G.Pecchinenda, I quadri sociali della memoria, Napoli & Los Angeles, Ipermedium,
1997).
13
A.Assmann, Erinnerungsräume. Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnissen, München, C.H. Becj’sche
Verlagsbuchhanlung, 2002 (tr.it. di S.Paparelli, Ricordare. Forme e mutamenti nella memoria culturale, Bologna, Il
Mulino, 2002).
5
potere. Può essere interessante a tale proposito riportare alcune considerazioni di Franz Boas
rispetto alla biografia e alla memoria:
La letteratura antropologica moderna mostra come l’osservazione ravvicinata delle vite individuali sia considerata
essenziale per un ulteriore progresso, e nuovi metodi siano stati concepiti per ottenere le informazioni necessarie. Il
valore di alcuni di questi metodi mi sembra dubbio. E’ ovvio che, tralasciato l’esperimento di laboratorio, l’unica via
per ottenere le informazioni necessarie resti una ravvicinata e continua esperienza di vita con i popoli e una perfetta
padronanza della loro lingua […]. Uno dei metodi per superare tali difficoltà è chiedere ai nativi di scrivere o raccontare
le proprie autobiografie. I migliori tra loro riportano informazioni preziose riguardo alla lotta giornaliera per la
sopravvivenza e alle gioie e dolori del popolo, ma la loro affidabilità, al di là dei punti più elementari, resta dubbia. Non
si tratta di fatti ma di memorie, memorie distorte dai desideri ed i pensieri del momento […]. Recentemente Lowie ha
pubblicato alcune versioni di una storia Crow, raccontata in diversi momenti dallo stesso individuo, che presentano
sensibili variazioni nella trama e nei motivi. Io ho pubblicato alcune simili registrazioni della stessa storia, raccontata
dallo stesso informatore dopo un intervallo di circa quarant’anni, che mostra la stabilità degli elementi formali e la
variabilità dei motivi. Questo è ciò che succede molto spesso nelle registrazioni d’esperienze personali. La stessa
persona mi ha raccontato degli eventi della propria vita a volte come avvenimenti semplici ed oggettivi, altre volte come
esperienze soprannaturali […]. Le autobiografie […] hanno valore piuttosto come materiale per lo studio della
distorsione della verità giocata dal ruolo della memoria nel tempo. Per il resto, non sono altro che una descrizione di
costumi raccolta nella maniera tradizionale ( Boas, 1942, 334-335).
La memoria, l’autobiografia e le “storie di vita” non solamente rappresentavano quella storia
evenemenziale che l’antropologia boasiana aveva sempre trattato con sospetto, ma distorcevano i
fatti e la realtà, producendo una sorta di divario temporale e spaziale tra Storia e testimonianza, tra
ricordo e Verità. Non è un caso che Boas, grandissimo raccoglitore di testi, non ritoccò mai i dati
raccolti anche quando si accorgeva della presenza di errori o di omissioni14. Un secondo motivo che
portò ad una disattenzione costante nei confronti della memoria è il rapporto controverso e ambiguo
che l’antropologia ebbe con la storia e quindi con il tempo. Quest’ordine di problemi era da una
parte legato a complessi rapporti disciplinari e dall’altro ad un profondo disagio nell’occuparsi della
rappresentazione di temporalità altre. Paolo Viazzo in un recente libro dal titolo Introduzione
all’antropologia storica15 fa una rassegna dettagliata dei complicati rapporti tra antropologia e
storia mentre Johannes Fabian in un testo del 1983, Time and Other16 discute delle diverse e
confuse modalità di maneggiare il tempo da parte degli antropologi. Il filo rosso che lega questi due
testi profondamente diversi per impostazione epistemologica e per gli obiettivi che si propongono è
proprio la ricerca di una concettualizzazione della memoria culturale all’interno della storia delle
discipline etno-antropologiche. Ma andiamo per gradi: come si rapportò l’Antropologia con la
Storia? Non è possibile tracciare oggi l’intero percorso storico che contrassegnò questo difficile
rapporto, credo però possa essere interessante riportare alcuni esempi emblematici; il primo
riguarda il già citato Franz Boas che, nonostante le sue parole dure e la sua posizione
14
Rohner R., (ed.) The Ethnography of F.Boas, Chicago, University of Chicago Press, 1969, pag. XIII.
P.Viazzo, Introduzione all’antropologia storica, Roma-Bari, Laterza, 2000.
16
J.Fabian, Time and Other, New York, Columbia University Press 1983 (tr.it. di L.Rodeghiero, Il tempo degli altri,
Napoli, L’Ancora, 2000.
15
6
apparentemente rigida e poco resiliente rispetto alle vite, ai ricordi e alle memorie, in realtà fu tra i
primi e pochi che “predicarono” la necessità di un connubio tra antropologia e storia.
Il materiale dell’antropologia è tale che essa deve essere di necessità una scienza storica, una scienza il cui interesse si
concentra sul tentativo di comprendere i fenomeni individuali piuttosto che sulla definizione di leggi generali, le quali,
in ragione della complessità del materiale, risulteranno necessariamente vaghe e , potremmo quasi dire, così ovvie da
essere di poco aiuto per una reale comprensione (Boas, 1940, 258 ).
Possiamo comprendere da quanto detto fino ad ora quanto controverso e stratificato potesse essere il
rapporto che l’antropologia statunitense di Franz Boas ebbe con la storia, la memoria, il ricordo e i
testi. Non meno complicati furono gli atteggiamenti di antropologi come Bronislaw Malinowski,
Paul Radin o Lévi-Strauss. Malinowski si pronunciò a più riprese sul ruolo che la Storia doveva
avere all’interno dell’indagine antropologica. Nel testo del 1922 Gli Argonauti del Pacifico
Occidentale egli confronta la ricerca storica e quella etnografica. L’etnografo, scrive Malinowski è:
cronista e storico nello stesso tempo, mentre le sue fonti sono indubbiamente di facile accesso, ma anche supremamente
elusive e complesse, perché non sono fissate in immutabili documenti materiali, ma incarnate nel comportamento e
nella memoria degli uomini viventi (Malinowski, 1973, 31).
Qui Malinowski accenna al problema legato alla memoria e alle fonti storiche e d’archivio,
mentre sempre in quegli anni l’antropologo polacco denunciava la necessità di sottoporre le fonti
etnografiche, spesso in contraddizione l’una con l’altra, ad una critica e ad un’analisi molto più
profonda di quanto non fosse costume tra gli antropologi a lui coevi17. Gli esempi di un accordo
mai concluso nei rapporti tra le due discipline potrebbero continuare a lungo, basti pensare
all’antropologia strutturale di Lévi-Strauss, al suo duro giudizio nei confronti dell’antropologia
boasiana:
La conoscenza dei fatti sociali può risultare solo da una induzione, in base alla conoscenza individuale e concreta di
gruppi sociali localizzati nello spazio e nel tempo. Quest’ultima a sua volta, può solo risultare dalla storia di ogni
gruppo. E l’oggetto degli studi etnografici è tale che questa storia rimane fuori portata nell’immensa maggioranza
dei casi. Così Boas, con il bagaglio di esigenze del fisico, deve fare la storia delle società sulle quali possediamo
soltanto documenti che scoraggerebbero lo storico. Quando ci riesce le sue ricostruzioni raggiungono veramente la
storia, ma una storia dell’istante fuggitivo che solo può essere colto, una microstoria, che non riesce a ricollegarsi al
passato più di quanto la macrostoria dell’evoluzionista e del diffusionista non riuscisse a raggiungerlo18.
Ciò che interessa comprendere dopo avere osservato come antropologia e storia difendevano i
loro campi di azione e proteggevano l’oggettività dei propri saperi è vedere come questo
atteggiamento si tradusse nell’esperienza, sul campo, nel rapporto e nella descrizione degli Altri;
17
Cfr. B.Malinowski, The Family among the Australian Aborigines. A Sociological Study, London, University of
London Press, 1913.
18
C.Lévi-Strauss, Anthropologie Structurale, Paris, Librairie Plon, Paris, 1964 (tr.it. di P.Caruso, Antropologia
Strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1990, pag 21). Questo articolo apparve per la prima volta col titolo di “Histoire et
ethnologie”, in Revue de Métaphisique et Morale, LVI, 1949, n.3-4, pp. 363-91.
7
in definitiva quello che cercheremo di evidenziare è come questa attitudine di “rifiuto dello
storicismo” (Fabian, 2000, 69) contribuì alle finzioni temporali e spaziali di molta storia della
disciplina, producendo un “imbarazzo” epistemologico profondo nei confronti della memoria.
Fabian nella sua analisi postula un “uso schizogenico del Tempo” che vedrebbe una sorprendente
divergenza tra gli usi del tempo nella scrittura antropologica da una parte e nella ricerca
etnografica dall’altra (Fabian, 2000, 53). L’antropologo americano individua una serie di
temporalità di cui si è servita l’antropologia ovvero il Tempo Fisico, il Tempo Tipologico e
quello Intersoggettivo; queste temporalità hanno segnato in maniera diacronica la storia della
disciplina. Il Tempo Fisico aveva la funzione di “parametro o vettore nella descrizione del
processo socio-culturale” (Fabian, 2000, 53); esso serviva per la ricostruzione di ampi intervalli
di tempo nella ricostruzione evoluzionista per esempio; si volevano collocare il più
correttamente possibile gli sviluppi umani e per fare ciò si incasellò una vastissima quantità di
materiale in un tempo oggettivo, naturale, fondamentalmente non culturale. Questa disposizione
temporale poteva dare all’antropologia quell’aura di oggettività e di rigore autoriale di cui
necessitava per impostare il suo paradigma scientifico; Il Tempo Tipologico d’altro canto
“connota un uso del tempo che è misurato, non in quanto tempo trascorso o facendo riferimento
a punti su una scala lineare, bensì in termini di eventi significativi a livello socioculturale […] Il
tempo tipologico è alla base di qualificazioni quali preletterario contro letterario, tradizionale
contro moderno, contadino contro industriale, […] rurale contro urbano (Fabian, 2000, 54).
Infine il Tempo Intersoggettivo, l’unico capace di riconoscere l’orientamento cronico
dell’antropologia ponendo l’accento sulla natura comunicativa dell’azione e dell’interazione
umana (si pensi in questo caso all’antropologia interpretativa di Clifford Geertz).
L’analisi di Fabian è complessa e si muove su piani diversi, il suo procedere è oggi
estremamente utile e proficuo perché passa attraverso la filosofia della storia e la linguistica, la
critica letteraria e la politica e, non da ultimo, “l’arte della memoria nella tradizione occidentale”
così com’era stata individuata da Frances Yates a metà degli anni sessanta19; la tesi del testo è
sostanzialmente quella che vede una “tendenza sistematica e persistente a posizionare il referente
(o i referenti) dell’antropologia in un Tempo Altro rispetto al presente di chi produce il discorso
antropologico” (Fabian, 2000, 62); Come all’inizio avevamo accennato infatti, uno degli
stratagemmi più comuni per ovviare il problema del tempo, della memoria e soprattutto
dell’autorevolezza del testo etnografico, era appunto l’utilizzo del cosiddetto “presente
etnografico”. Questa contemporaneità o apparente coevità (coevalness) come sottolinea Fabietti
portò a considerare il nativo “una specie di metonimia della cultura di appartenenza” […] tutte le
19
F.Yates, The Art of Memory, Chicago, University of Chicago Press, 1966 (tr.it. di A.Biondi, L’Arte della memoria,
Torino, Einaudi, 1991).
8
sue ‘informazioni’ venivano prese così dall’antropologo e inserite in una rappresentazione della
cultura o società in questione come entità immutabili nel tempo. Alla contemporaneità
subentrava infatti, in questo caso, l’allocronia, dove gli ‘Altri’ sono in un ‘altro tempo’”
(Fabietti, 1999, 124)20. In fondo, a ben ripensarci, la stessa tecnica, utilizzata in modo raffinato e
sublime, l’avevamo già incontrata nel testo di Segalen. Quest’ultimo aveva però già compreso, a
dispetto di molti antropologi, l’importanza della testimonianza autobiografica e il valore storico
della memoria culturale e, non da ultimo, quello della memoria autobiografica.
E’ proprio al valore storico della memoria autobiografica che vorrei dedicare questi ultimi
momenti a mia disposizione. E’ infatti nel momento in cui l’antropologo diviene consapevole
che uno fra i suoi tanti compiti è quello di riconoscere il nesso tra le forme di temporalizzazionee quindi di costruzione sociale del tempo – e la costituzione di identità societarie e soggettive,
che le discipline etno-antropologiche iniziano a comprendere quanto si potesse lavorare e
riflettere sul concetto di memoria. Ritengo non essere un caso che i primi lavori sistematici sulla
memoria abbiano matrice francese; è in Francia che nacque il “manifesto della nuova storia”
(non dimentichiamo che Halbwachs intrattenne rapporti stretti con il gruppo che faceva capo a
Lucien Febvre e Marc Bloch e partecipò attivamente alle discussioni che videro nascere “Les
Annales d’Histoire Economique et Sociale) (Jelowski, 1987, 12); a Parigi, nel 1882 vi era stata la
lezione di Renan21 che sicuramente aveva segnato l’animo di molti intellettuali - non sono pochi
nel testo di Halbwachs accenni alla valenza “immaginaria” del gruppo, tracce della difficoltà
concreta di circoscrivere la “comunità”, la “nazione” soprattutto rispetto alla sua carica affettiva
ed emozionale; ma credo non si debba dimenticare l’idea chiave del pensiero di Halbwachs: se
era certamente molto forte l’idea di “memoria collettiva e sociale”, se il divario tra memoria e
ricordo, tra memoria storica e autobiografica non si era ancora colmato, è sul postulato della
“ricostruzione” che credo valga la pena oggi soffermarsi. Secondo Halbwachs infatti per
l’individuo ricordare non significa “attingere da un serbatoio in cui le immagini sono conservate
allo stato latente” (Natali, 2002, 4) -ricordiamo che suo professore fu Henri Bergson-; ricordare
viene interpretatato come una ricostruzione, un rimodellamento:
Al di fuori del sogno, il passato, in realtà, non riappare tale e quale e […] tutto sembra indicare che esso non si
conserva, ma che lo si ricostruisce a partire dal presente (Halbwachs, 1997, 121)
20
La citazione è stata lievemente modificata.
La lezione di Renan è pubblicata in Oeuvres Complètes, Paris, 1947-61, vol. I, pp. 887-907. Viene qui utilizzata la
traduzione di A.Perri con le annotazioni di M.Tom, pubblicata con il titolo di “Cos’è una nazione”, in H.K. Bhabha
(a cura di), Nation and Narration, London, New York, Routledge, 1990 (tr.it. di A.Perri, edizione italiana a cura di
M.Pandolfi, Nazione e Narrazione, Meltemi, Roma, 1997).
21
9
E’ proprio su questo concetto che l’antropologia decise di impegnarsi. Si dovevano capire le
diverse temporalità perchè esse plasmavano, conformavano e modellavano le storie altre, le altre
memorie. L’antropologo doveva ricostruire con umiltà, ricomporre i tasselli, ascoltare, imparare
a guardare il passato, a leggere tra le vite, tra le altre storie. Quando Evans-Pritchard nel 195022
decise di rompere ogni indugio pronunciandosi senza mezzi termini sui metodi e sull’identità
dell’antropologia sociale, era il momento in cui la disciplina decideva di prendere posizione e di
impegnarsi in un lavoro etico e politico (Callari Galli, 1979; Hymes1969). Erano gli anni in cui,
attraverso gli studi pionieristici di Jan Vansina23, di Georges Balandier24 e Laura Bohannan25 si
scorgeva l’inizio di un dialogo proficuo tra antropologia e storia; solo attraverso una
consapevolezza profonda che investì l’etica e le politiche del lavoro di campo, l’oralità smise di
destare timore; si iniziò a concentrarsi sulla fonte “orale come fonte orale, come fonte narrativa,
come fonte storica”26. Fu allora che anche le discipline storiche iniziarono a concentrarsi con
assiduità sulle fonti orali (in Italia basti pensare agli studi di Luisa Passerini), che l’attenzione si
pose sulle “storie di vita”, sulle biografie, sulle autobiografie. Studi come quelli Jack Goody27 o
di Elisabeth Tonkin28 mostrano oggi il diverso ruolo della memoria nelle società a cultura orale;
le diverse implicazioni dovute all’adozione di differenti mezzi di comunicazione in società
scritte e orali; il ruolo degli specialisti della memoria; la correlazione profonda tra processi
cognitivi e mezzi di comunicazione. Problemi vastissimi di cui oggi si occupa l’antropologia nel
suo studio sulla memoria culturale; ma soprattutto ciò che in definitiva è bene sottolineare è la
consapevolezza contemporanea rispetto ai problemi concernenti la memoria, questo ha
significato lavorare con le vite, le testimonianze, consultare gli archivi coloniali, le fonti storiche
e letterarie cercando di trovare connessioni, collegamenti tra diverse discipline; ha voluto dire
scorgere gli interstizi tra le diverse temporalità e soprattutto ha significato andare a fondo nella
comprensione del rapporto tra il tempo e la sua comprensione soggettiva.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO AL TESTO
Assmann A., Erinnerungsräume. Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnissen,
München, C.H. Becj’sche Verlagsbuchhanlung, 2002 (tr.it. di S.Paparelli, Ricordare. Forme e
22
E.Evans-Pritchard, Social Anthropology: Past and Present, in Man, 1950, n. 8.
J.Vansina, De la tradition orale. Essai de méthode historique, Terverun, Musée Royale de l’Afrique Noire, 1961
(intr.di A.Triulzi, La tradizione orale. Saggio di metodologia Storica, Roma, Edizioni Comunità, 1976).
24
G.Balandier, Sociologie actuelle de l’Afrique Noire, Paris, Presses Universitaires de France, 1955.
25
L.Bohannan, “A Genealogical charter”, Africa, 23 (4), pp. 301-315.
26
Cfr. A.Portelli, “The Peculiarity of Oral History”, History Worshop, 1981, 12, pp.96-107.
27
J.Goody, The Domestication of Savage Mind, Cambridge, Cambridge University Press, 1977 (tr. it. di V.Messana,
L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano, Angeli, 1987); The Power of Written Tradition, Washington,
Smithsonian Institution Press, 2000 (tr.it. di D.Panzieri, Il Potere della tradizione scritta, Torino, Boringhieri, 2002).
28
E.Tonkin, Narrating Our Pasts,. The Social Construction of oral history, Cambridge, Cambridge University Press,
1992 (tr.it. di A.Taddei, Raccontare i nostri passati. La costruzione sociale della storia orale, Roma, Armando, 2000).
23
10
mutamenti nella memoria culturale, Bologna, Il Mulino, 2002).
Assmann J., Das Kulturelle Gedächtnis. Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen
Hochkulturen, München, Beck’sche Verlagsbuchhandlung, 1992 (tr. it. F.De Angelis, La
memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino,
Einaudi, 1997).
Augé M., Pour une anthropologie des mondes contemporains, Paris, Aubier, 1994 (tr.it. di
S.Montiglio, Storie del presente. Per una antropologia dei mondi contemporanei, Milano, Il
Saggiatore, 1997).
Balandier G., Sociologie actuelle de l’Afrique Noire, Paris, Presses Universitaires de France,
1955.
Bhabha H.K.,(a cura di), Nation and Narration, London, New York, Routledge, 1990 (tr.it. di
A.Perri, edizione italiana a cura di M.Pandolfi, Nazione e Narrazione, Meltemi, Roma, 1997).
Boas F.,”The Method of Ethnology”, in Race, Language and Culture, New York, McMillan, 1940.
Boas F., The Social Organization and the Secret Society of the Kwakiutl Indians, Washington, U.S.
National Museum, 1897 (tr.it. di C.Scarmato L’organizzazione sociale e le società segrete degli
Indian Kwakiutl, Roma, Cisu, 2001).
Bohannan L., “A Genealogical charter”, Africa, 23 (4), pp. 301-315.
Callari Galli M., “La re-invenzione dell’antropologia” in, Hymes D., (ed.) Reinventing
Anthropology, New York, Random House, 1969 (tr.it. A. Guaraldo, Antropologia radicale, Milano,
Bompiani, 1979).
Connerton P., How Societies remember, Cambridge, Cambridge University Press, 1989 (tr.it. di
G.Berno, Come le società ricordano, Roma, Armando, 1999).
Evans-Pritchard E., “Social Anthropology: Past and Present” , in Man, 1950, n. 8.
Fabian J., Time and Other, New York, Columbia University Press 1983 (tr.it. di L.Rodeghiero, Il
tempo degli altri, Napoli, L’Ancora, 2000.
Fabietti U., Borutti S., (a cura di), Fra antropologia e storia, Milano, Mursia, 1998.
Fabietti U., Matera V., Memoria e identità, Roma, Meltemi, 1999.
Fabietti U., Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 1999.
11
Goody J., The Domestication of Savage Mind, Cambridge, Cambridge University Press, 1977 (tr. it.
di V.Messana, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano, Angeli, 1987).
Goody J., The Power of Written Tradition, Washington, Smithsonian Institution Press, 2000
(tr.it. di D.Panzieri, Il Potere della tradizione scritta, Torino, Boringhieri, 2002).
Griaule M., Dieu d’eau. Entretiens avec Ogotemmêli, Paris Edition du Chêne, 1948 (tr.it. di
G.Agamben, Dio D’acqua, Como, Red Edizioni, 1996).
Halbwachs M., La mémoire collective, Paris, Presses Universitaires de France, 1968 (tr. it. P.
Jedlowski, La memoria collettiva, Milano, Unicopli, 1987) [1950];
Halbwachs M., Les cadres sociaux de la mémoire, Paris PUF, 1925 (tr.it. di G.Brevetto,
L.Carnevale, G.Pecchinenda, I quadri sociali della memoria, Napoli & Los Angeles,
Ipermedium, 1997).
Hymes D., ”L’uso dell’antropologia: critico, politico, personale”, in Hymes D., (ed.) Reinventing
Anthropology, New York, Random House, 1969 (tr.it. A. Guaraldo, Antropologia radicale, Milano,
Bompiani, 1979).
Lévi-Strauss C., Anthropologie Structurale, Paris, Librairie Plon, Paris, 1964 (tr.it. di P.Caruso,
Antropologia Strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1990).
Malinowski B., The Family among the Australian Aborigines. A Sociological Study, London,
University of London Press, 1913.
Malinowski B., Argonauts of the Western Pacific. An Account of Native Enterprise and Adventures
in the Archipelagoes of Melanesian New Guinea, London, Routledge & Kegan Paul, 1922 (tr. it. di
M.Arioti, Argonauti del Pacifico Occidentale, riti magici e vita quotidiana nella società primitiva,
Roma, Newton Compton, 1973).
Marcus G., “Rhetoric and Ethnographic Genre in Anthropological Research”, in J.Ruby, (ed.) A
Crack in the Mirror. Reflexive Perspectives in Anthropology, Philadelphia, University of
Pennsylvania Press, 1982.
Natali C., “I supporti della memoria. La trasmissione culturale tra oralità e scrittura”, Incontri, E/A,
6, Bologna, Centro Studi Etno-Antropologici, 2002.
Nora P., Les lieux de mémoire, Paris, Gallimard, 1984-1992.
Passerini L., Storia Orale. Vita quotidiana e cultura materiale delle classi subalterne, Torino,
Rosemberg & Sellier, 1978.
Passerini L., Storia e Soggettività. Le Fonti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia, 1988.
Portelli A., “The Peculiarity of Oral History”, History Worshop, 1981, 12, pp.96-107.
Radin P., The Method and Theory of Ethnology. An Essay in Criticism, New York, Basic Books,
1933.
12
Rivers W.H.R., “The Genealogical Method of Anthropological Enquiry”, in Sociological Review,
Vol. 3, 1910, pp. 227-234.
Rohner R., (ed.) The Ethnography of F.Boas, Chicago, University of Chicago Press, 1969.
Segalen V., “Les Immémoriaux”, in Voyage au pays du reel: oeuvre litteraires, Bruxelles,
Complexe, 1995, (tr.it. Gli Immemoriali di S.Sacchi, Roma, Editrice Lestoille, 1980; Le Isole dei
senza memoria, di M.Baldini con una introduzione di U.Fabietti, Roma, Meltemi, 2000).
Segalen V., Essai sur l’Exotisme. Une Esthétique du Divers. Essai sur le Mystérieux, Editions Fata
Morgana, 1978 (tr.it. di F.Marconi e S.Toni Saggio sull’esotismo. Un’estetica del diverso. Saggio
sul misterioso, Bologna, Edizione il Cavaliere azzurro, 1983).
Tonkin E., Narrating Our Pasts,. The Social Construction of oral history, Cambridge, Cambridge
University Press, 1992 (tr.it. di A.Taddei, Raccontare i nostri passati.. La costruzione sociale della
storia orale, Roma, Armando, 2000).
Vansina J., De la tradition orale. Essai de méthode historique, Terverun, Musée Royale de
l’Afrique Noire, 1961 (intr.di A.Triulzi, La tradizione orale. Saggio di metodologia Storica, Roma,
Edizioni Comunità, 1976).
Viazzo P., Introduzione all’antropologia storica, Roma-Bari, Laterza, 2000.
Yates F., The Art of Memory, Chicago, University of Chicago Press, 1966 (tr.it. di A.Biondi, L’Arte
della memoria, Torino, Einaudi, 1991).
Jacknis I., “The Ethnographic Object and the Object of Ethnology in the Early Career of Franz
Boas”, in G.W.jr. Stocking, Volksgeist as Method and Ethic: Essays on Boasian Ethnography
and the German Anthropological Tradition (History of Anthropology, 8), Madison, University
of Wisconsin Press, 1996.
Jedlowski P., Memoria, esperienza e modernità, Milano, Franco Angeli, 1989.
13