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Rodolfo Strumìa
Inclinata res publica
Scelta tematica di passi d’autore
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© Copyright 2011 by
Edizioni di Scuola e Cultura
viale S. Speroni 10 – Padova
I edizione febbraio 2011
Cod. 9788873300557
Stampa: Areagrafica - Meduno (Pn)
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Presentazione
Raccolte di “passi da tradurre” non mancano certo tra le pubblicazioni
per la scuola, e alcune sono organizzate anche in modo eccellente.
Tuttavia, queste pubblicazioni hanno un limite, per così dire, costitutivo,
di essere costruite per l’esercitazione, e quindi di non sostenere alcuna attività culturale, di conoscenza del mondo antico e di supporto al resto degli
studi, relativi alla storia, alla cultura, alla letteratura, ecc.
La raccolta Res gestae, che il presente volume avvia, si propone esattamente lo scopo di superare questo limite, presentando una scelta di passi su
un preciso tema – le vicende di Roma, o almeno alcuni degli eventi fondamentali – utile per meglio conoscere il quadro in cui collocare la sua civiltà
e la sua cultura, attraverso alcuni dei suoi monumenti letterari più insigni.
Ciò non significa che la raccolta esaurisca il quadro delle vicende storiche
di Roma o dia una rappresentazione esaustiva anche solo di alcune di esse;
offre però una testimonianza significativa sulle vicende essenziali, e
soprattutto sull’importanza ad esse attribuita dagli storici romani; la scelta
d’altra parte può essere accresciuta e integrata da altri testi, in eventuali
edizioni successive.
In ogni caso, alcuni dei momenti che segnarono non solo il passaggio
epocale dalla repubblica al principato, ma anche l’interesse storiografico
dei Romani, cioè la sequenza delle guerre civili, e l’opera di uomini di cultura, politici e storici, da Cicerone a Cesare a Sallustio a Livio e a Tacito,
sono riprodotti con una certa abbondanza, che fornisce materiale per vere
e proprie monografie, e come tali i passi scelti possono essere utilizzati.
Di tale impostazione questo volume Inclinata res publica (espresssione utilizzata da Cicerone e Sallustio) costituisce una anticipazione per stralcio,
relativa alla crisi della repubblica e al passaggio al principato, che costituiscono l’oggetto di riflessione storiografica (e non solo) di alcuni dei maggiori scrittori di Roma dall’età di Cesare in poi.
L’impostazione prescelta non significa nemmeno che l’interesse verta
esclusivamente sui dati riportati nei passi proposti, perché l’attenzione agli
aspetti linguistici, propria di ogni raccolta di passi da tradurre, rimane, e si
concreta nell’apparato didattico che abbiamo ritenuto essenziale a tale
impostazione.
In primo luogo, una serie di note propriamente linguistiche, finalizzate
allo scopo di consolidare le competenze acquisite e soprattutto di far intendere adeguatamente il testo; queste note sono perciò commisurate alla
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natura del testo e alle caratteristiche e difficoltà che esso presenta, in rapporto alle competenze presunte negli alunni che saranno chiamati ad
affrontarle; sono perciò anche di ampiezza diversa a seconda della difficoltà del testo stesso; alcune di queste note, naturalmente, sono costituite
da informazioni storiche utili.
In genere, sono rare le proposte di traduzione; quando sono avanzate, è
al fine di suggerire la possibilità di traduzioni diverse, più rispondenti alla
lingua italiana di quelle cui una certa prassi di traduzione letterale (calco)
induce gli studenti, con effetti non sempre formativi; così, anche la mera
segnalazione del significato esatto di un vocabolo (che riprodotto “a calco”
risulterebbe improprio o fuorviante) acquista una sua funzione di rinforzo
linguistico.
In secondo luogo, si è ritenuto che per una adeguata comprensione del
testo potesse essere utile un titolo abbastanza analitico, che non costituisca
una parafrasi del testo stesso, ma ne metta in evidenza gli aspetti essenziali, e guidi quindi alla ricostruzione logica del suo contenuto, evitando così
almeno i fraintendimenti più pregiudizievoli.
Il livello di difficoltà del testo è segnalato prima del titolo; viene poi data
l’indicazione precisa della fonte (si è ritenuto che essa sia opportuna, e non
serva tacerla per evitare che gli studenti si procurino la traduzione; la loro
competenza informatica avrebbe rapidamente ragione di questo silenzio);
inoltre, sono indicati per ogni testo i casi grammaticali e sintattici presenti
in maniera significativa, mediante numeri il cui corrispondente è in seconda di copertina. Una tabella in quarta di copertina ne rileva la frequenza
per autore.
Per un uso adeguato del testo (linguistico, ma anche di documentazione
storica) si sono apprestati due indici: uno per autori e uno cronologico, in
modo che la linea di sviluppo delle vicende di Roma permetta una lettura
contenutistica.
Starà naturalmente al docente esperto, una volta presa cognizione del
materiale a disposizione, stabilire l’ordine e le modalità di utilizzo, che
potranno essere di volta in volta linguistiche (esercitazione) o documentarie (storiche) o – caso ideale – entrambe.
Ai colleghi esperti, ci permettiamo infine di chiedere osservazioni e critiche, e soprattutto proposte che ci permettano di migliorare il testo, se esso,
come è nostra speranza, incontrerà il loro favore nello svolgimento di un
lavoro che, dati i limiti a tutti noti, è sempre più difficile e gravoso, e richiede strumenti funzionali e tarati sulle effettive esigenze dell’insegnamento
e dell’apprendimento.
L’Autore
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La storiografia romana
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1.- È un fatto acquisito che la storiografia romana è particolarmente politicizzata, cioè ispirata dalle posizioni politiche dei suoi autori, e in particolare dall’orientamento “filosenatorio” che la caratterizzò fin dalle origini (i cronisti appartenevano alla classe senatoria) e si accentuò dopo che il Senato, espressione di
quella classe, perdette il suo potere di fronte a quello degli imperatori (il che
generò, aperto o latente, un contrasto che condiziona la presentazione di molti
degli imperatori stessi).
L’idea che l’assetto tradizionale della repubblica romana fosse in crisi e in declino accompagna la nascita di una storiografia vera e propria, cioè di uno specifico
genere letterario, a cominciare da Cicerone, che storico propriamente non è (della
storiografia parla in rapporto e in funzione dell’oratoria, cioè della politica), e tuttavia presenta alcuni degli orientamenti storiografici più peculiari del genere.
Va segnalato, fra l’altro, che gli sviluppi della storiografia in funzione del passaggio storico dalla repubblica al principato trovano un riscontro culturale in Cornelio Nepote, un erudito di secondo piano (non fa ricerca ma compilazione, e non
ha le doti di nessuno dei grandi storici di Roma), che però dimostra come sulla storia di Roma sia possibile, oltre che un punto di vista esclusivamente romano (centrico), una visione più “aperta” sui valori della civiltà.
In questo contesto, e non su quello di un antiromanismo programmatico, ha rilievo il fatto che l’immagine di Annibale, il “nemico storico” di Roma, non sia un’immagine radicalmente negativa, ma presenti elementi per una disinteressata ammirazione, sia per le sue doti di condottiero che per la sua personalità umana e culturale; fra l’altro, è messo in rilievo come la sua sconfitta sia stata dovuta non solo
al valore dei condottieri e dei soldati romani, ma alle contraddizioni della politica interna di Cartagine, che gli tolse i mezzi per l’ultimo attacco a Roma.
2.- Le opere di Cicerone (le orazioni, ma anche i saggi politici e filosofici, e naturalmente le lettere) sono ricche di riferimenti storici, utilizzati sempre come
“esempi” politici (l’esaltazione della res publica, l’avversione per il tribunato),
ma si configurano come un vero e proprio saggio di storia istituzionale nel II libro
del De re publica, sulla falsariga del modello polibiano, che fa di quelle istituzioni un unicum nella storia dei popoli e l’originalità della concezione politica romana.
Una storia istituzionale che è, tacitamente, anche una proposta politica, culminante nell’idea di un princeps regolatore della vita pubblica, e conservatore dei
valori della repubblica senatoria. In questa prospettiva viene esaltato l’attaccamento dei primi romani alla monarchia, e al contempo la loro avversione verso il
potere assoluto (tirannico), e la brevità delle cariche politiche. Il fulcro della forza
romana è visto nell’equilibrio tra consoli e senato, e i pericoli nel contropotere dei
tribuni della plebe.
Sono le stesse posizioni che si trovano nell’attività politica di Cicerone, ed hanno
una formulazione tipica nella Pro Sestio (45, 96), con la teorizzazione di due classi contrapposte (optimates e populares), individuate peraltro non su basi econo-
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miche, ma etiche, e in questa prospettiva suscettibili di ricomporsi nella dialettica politica, fermo restando che a dare garanzia alla stabilità dello stato è la classe degli optimates. Su questa Cicerone giocò la sua fortuna politica, senza avvedersi che ormai le vicende di Roma avevano preso un’altra direzione.
Si potrebbe seguire la produzione di Cicerone come testimonianza storica della
vicenda di crisi della repubblica; tra esse, si possono indicare alcuni momenti: le
Verrine, che affermarono Cicerone sulla scena politica, e hanno come fine la correzione di un ceto politico ormai esposto alla corruzione; il De lege agraria, che
documenta le convinzioni politiche e sociali dei possidenti (gli optimates); e le
celeberrime Catilinarie, in cui gli equilibri politici tradizionali sono fatti prevalere sui motivi di squilibrio e di inquietudine della società reale, in cui si protraevano le contrapposizioni della precedente guerra civile.
L’incomprensione del quadro politico-sociale della declinante repubblica (colto
con attenzione, ma deformato per moralismo nella seconda delle Catilinarie) è
prolungato nelle Lettere, che dimostrano tutte le incertezze e tutta l’emotività
dell’oratore, che si era presentato come salvatore della patria dopo avere sventato la congiura di Catilina, ma non aveva le doti militari né di Cesare né di Pompeo,
e soprattutto la visione determinata del successivo vincitore della guerra civile.
3. La finalità politica (di autocelebrazione e di autodifesa) è eminente in Giulio
Cesare, che peraltro passa per uno dei grandi storici di Roma, in virtù della “oggettività” (apparente) dei suoi resoconti (la guerra contro i Galli e la guerra contro
Pompeo), che di fatto sta non nella presentazione dei fatti (in cui una lettura
attenta vede le finalità sottostanti), ma nella qualità dello stile, in cui non appaiono le intenzioni, ma la sequenza dei fatti, e l’eventuale silenzio su alcuni di essi.
Così, il Bellum Gallicum lascia il lettore ammirato per la lucidità delle descrizioni e la drammaticità contenuta di alcuni momenti; ma, coinvolgendo nella logica specifica dei fatti, induce a dimenticare le motivazioni di fondo, che fanno dell’epopea della guerra gallica uno dei momenti più cinici dell’imperialismo romano, in cui le motivazioni della guerra, tutte a difesa del buon diritto dei Romani a
tutelare i propri territori e i propri alleati, non nascondono l’obiettiva aggressione a interi popoli, fatta per acquisire gloria militare al suo autore e allargare il
dominio di Roma.
Più esplicita la finalità autodifensiva e autopromozionale del De bello civili (e più
aperto anche il giudizio di Cesare sugli altri protagonisti), in cui però le motivazioni iniziali (e poi non più riprese) si appuntano su questioni procedurali e personali, ma non fanno luce sulla dimensione propriamente politica dello scontro, e sui
presupposti sociali ed economici interpretati dai protagonisti. Né poi Cesare ebbe
modo di dimostrare con le sue iniziative politiche il suo programma, che deve essere ricostruito in base a indizi indiretti.
4. La storiografia vera e propria ha una svolta “epocale”, per le ripercussioni che
avrà sugli sviluppi successivi del genere, con Sallustio. Con lui, in effetti, si afferma una interpretazione della “crisi della repubblica” che doveva far scuola nella
storiografia romana, sia perché ne individuava le cause “storiche”, sia perché lo
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faceva da un punto di vista che la classe senatoria, consapevole della propria
decadenza ma non disposta a cedere definitivamente e completamente il potere,
ma incline a credere in un suo possibile recupero, era disposta a vedere con favore, anche se Sallustio aveva militato nel partito dei cesariani, cioè dei populares.
Sallustio poneva la causa di fondo della crisi nella fine del “timor hannibalicus”,
cioè nel superamento dello scontro mortale con Cartagine, che aveva dato a Roma
la certezza di essere al sicuro, e al contempo la ricchezza derivata dal suo inarrestabile imperialismo; ciò avrebbe prodotto una rilassatezza di costumi e una corruzione della vita politica che aveva portato al formarsi di fazioni contrapposte e
quindi alle guerre civili, prima tra Mario e Silla, poi tra Cesare e Pompeo.
Sallustio aveva forse dato una prospettazione ampia e articolata a questa tesi
nelle Historiae, che però non ci sono rimaste, a parte qualche passaggio non sempre attribuibile con sicurezza; ma indicò con decisione i momenti in cui la corrosione dell’antico spirito repubblicano si era consolidata: di qui la scelta delle
monografie, cioè di temi individuati a sé per la loro importanza anche emblematica: l’avvento di Mario in occasione della guerra contro Giugurta e la congiura di
Catilina.
Il personaggio di Mario non è presentato con sfavore, perché era visto come il
nume tutelare dei populares e dei cesariani; ma nemmeno Silla, il futuro avversario, è presentato negativamente (entrambi lo saranno da storici ormai inseriti nell’impero come Velleio Patercolo e Floro): ma Sallustio indica con chiarezza il punto
della trasformazione politica, nell’arruolamento di volontari, le cui fortune erano
legate a quelle del capo, e quindi nel prefigurarsi di eserciti personali, quali saranno poi anche quelli di Pompeo e di Cesare.
Il caso di Catilina (che forse fu meno pericoloso di come lo presenta Sallustio e
soprattutto Cicerone, che per averlo debellato si esaltò come padre della patria)
è invece per Sallustio il punto di coagulo non solo di atteggiamenti psicologici, ma
di inquietudini e squilibri sociali, che potevano minare la solidità dello Stato, e per
questo richiedevano interventi risolutivi (come sarà poi quello di Cesare). La presentazione di Sallustio non differisce poi molto dall’analisi “sociologica” che Cicerone fa delle tipologie dei congiurati; ma il giudizio morale è diverso, come indica la rappresentazione della morte di Catilina.
C’è in Sallustio una percezione drammatica della decadenza di Roma, che lo
porta anche a soluzioni espressive e rappresentative originali (anche se in parte
artificiose), e una insistenza sulle qualità personali dei protagonisti e sulla loro psicologia che sarà una costante della storiografia successiva, in particolare di Tacito.
5.- Il passaggio dalla repubblica all’impero, oltre al trauma delle guerre civili,
cambia profondamente le prospettive della storiografia, che, provenendo dall’ambito della classe senatoria, mantiene un atteggiamento pregiudizialmente
avverso agli imperatori (il che rende sospette le sue presentazioni di figure tendenzialmente ricondotte al cliché del tiranno, con sottolineatura di vere o presunte anomalie caratteriali e psicologiche), e un atteggiamento di esaltazione del
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regime repubblicano, al di là delle storture e delle contraddizioni che avevano portato alla sua fine.
Questo secondo atteggiamento, di laudator temporis acti, caratterizza l’opera
storiografica del “pompeiano” (così ebbe bonariamente a definirlo Augusto) Tito
Livio, alla cui ammirazione per il passato vero o inventato, reale o mistificato, di
Roma contribuì, non solo sul piano stilistico, la sua provincialità (patavinitas).
Livio è, o sembra, convinto, che quello romano sia stato il popolo più grande e virtuoso, e quello romano l’impero più solido e forte (al punto da sviluppare un
improbabile raffronto con l’impero creato da Alessandro Magno).
Anche i segni di un declino, che egli coglie nel tramonto della repubblica, è visto
come un “effetto secondario” della stessa ampiezza delle sue realizzazioni (il
dominio di Roma vacilla sotto il peso della sua stessa grandezza); giudizio per un
verso storico (ma il declino vero sarebbe venuto dopo più di due secoli), per un
altro morale (o moralistico): lo stesso giudizio di Cicerone, per cui il dominio di
Roma si fondava sulle “virtù” dei Romani, e con il loro declino era destinato a
declinare.
Di Cicerone Livio (erudito di provincia) mantiene anche l’idea dell’attività storiografica come opus oratorium maxime, non nel senso che la verità storica sia tradita (certo, per gli storici odierni non è più il “Livio che non erra” esaltato da
Dante, ma molti dati da lui tramandati, e talora creduti falsi o inesatti, sono stati
confermati), ma in quello che il materiale storico è oggetto innanzitutto di una
trattazione “retorica”, cioè di una amplificazione narrativa e rappresentativa ispirata all’idea di una “grandezza” intrinsecamente romana.
Di qui il colorito poetico soprattutto delle pagine che concernono la leggenda
romana, del periodo monarchico e soprattutto della prima repubblica, fino alla
prova suprema dello scontro con Cartagine, che aprì la strada alla costruzione del
più grande dominio dell’antichità. Le figure dei grandi romani della prima repubblica sono rimaste nella memoria delle generazioni, e nella memoria delle generazioni sono rimaste le gesta dei condottieri e del popolo che seppe resistere e alla
fine rovesciare l’attacco del “grande nemico”, Annibale.
La stessa ampiezza dell’opera contribuì alla sua perdita (gli indici delle periochae forse contribuirono a farne abbandonare la lettura diretta), ma non è forse
un caso che tra le parti rimaste campeggino quelle delle prime deche, delle origini, e quelle dell’immane scontro con l’altra potenza mediterranea. In queste l’abbondanza narrativa (la lactea ubertas di Quintiliano) trova ampia materia per la
ricostruzione e l’esaltazione della virtus romana, anche se la linea storiografica (in
ciò sorretta e diretta dall’impostazione annalistica) non è sempre sicura nell’interpretazione delle cause e nella nitidezza degli sviluppi (in particolare nella
descrizione delle battaglie, così diversa dalla sintetica nettezza del racconto di
Cesare).
Le storie di Livio erano dunque una scelta letteraria e ideologica, destinata a
imporsi, ma non l’unica. Attraverso le sintesi, non sappiamo quanto fedeli, di Giustino, ci rimane testimonianza di una diversa prospettiva, quella di Pompeo Trogo,
che inseriva la storia di Roma in appendice alle storie del mondo, in particolare
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del mondo orientale, richiamandone le imprese solo in occasione del suo incontro
con quelle civiltà. Primo esempio di una prospettiva non “eurocentrica”, che,
essendo in minorità ideologica, ha avuto la peggio ed è andata interamente perduta.
6.- Negli storici successivi i presupposti della visione di Livio rimangono operanti sullo sfondo, anche se il passare del tempo e l’assestamento, sia pure non sempre indolore, dell’impero, mutano progressivamente gli interessi, e portano sempre più l’attenzione proprio sui protagonisti della nuova realtà istituzionale e politica, cioè le figure degli imperatori.
Un atteggiamento non sfavorevole all’impero caratterizza il lavoro di sintesi di
Velleio Patercolo, che trasporta sul piano del giudizio storiografico la conoscenza
diretta (e l’ammirazione affettuosa) che ebbe per Tiberio, che seguì nelle sue
imprese militari prima dell’ascesa al trono, ammirazione che giunge fino alla lode
dello stesso Seiano, dalla restante storiografia presentato (l’altro è Tigellino di
Tacito) come il prototipo dell’intrigante ambizioso, che opera al riparo della tutela imperiale, e a suo danno.
La ricostruzione storica di Velleio Patercolo (non ampia né erudita come quella
di Livio, che peraltro era troppo recente e impegnativa per essere imitata) trova
il suo culmine naturale nella narrazione delle guerre civili, da Mario e Silla a Cesare e Pompeo, a Antonio e Ottaviano, ed è sostanzialmente sicura nell’individuare
le cause e le modalità dello scontro (anche se lo personalizza, e non individua con
chiarezza i grandi fattori storici, socio-economici), e ravvivata da una comprensibile partecipazione a quello che per tutta la realtà romana fu uno sconvolgimento epocale (il che spiega l’esaltazione di Augusto, che vi pose fine).
Come non si distingue per l’ampiezza del quadro storico, così l’opera di Velleio
non si distingue per pregi stilistici, e nemmeno sempre per perspicuità di dettato;
anzi, può servire di documento per un impasto linguistico, e anche sintattico e
grammaticale, che si va rapidamente allontanando dal modello di Cicerone e di
Livio, e anche di Cesare.
L’impostazione di Velleio, sostanzialmente non avversa all’impero, avversa alle
lotte civili ma comunque ammirata di fronte ai grandi protagonisti, si ritrova anche
nella sintesi successiva di oltre un secolo, dovuta alla penna di Anneo Floro, in cui
le cause che hanno portato alle guerre civili e al passaggio di regime sono abbastanza chiaramente individuate nel progressivo emergere di istanze che la gretta
oligarchia senatoria non seppe comprendere e soddisfare, ma paradossalmente
manifesta sempre un giudizio ostile nei confronti delle personalità che cercarono
di interpretarli e di trovarvi soluzione (i tribuni).
Per il resto, i due libri di Floro (dedicati rispettivamente agli eventi di politica
estera – le conquiste – e a quelli di politica interna – gli scontri politici –, senza un
collegamento tra loro) anticipano la compilazione di Eutropio, senza averne la limpidezza e la semplicità, ma insistendo su un certo turgore esclamatorio, che nella
lode iperbolica o nella condanna sdegnata sintetizza un giudizio storico che evidentemente presuppone condiviso dal lettore.
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7.- Tra Velleio Patercolo e Anneo Floro si colloca una ben diversa personalità di
storico – per intelligenza e vigore di rappresentazione unanimemente ritenuto il
maggiore di Roma, e accostato a Tucidide, come Livio è spesso accostato a Erodoto: Tacito. Egli è ormai inserito nella compagine dell’impero, ma non ne apprezza
certi esiti, e ciò dà luogo ad un pessimismo onnipresente, che accresce fascino alla
sua visione storiografica.
Tacito vede che l’impero è ormai una realtà irreversibile, e pur segnalando che
esso costituisce il tramonto della libertà repubblicana (di ciò vede il riflesso anche
nell’appiattimento della cultura, come risulta dal Dialogus de oratoribus, ormai
sicuramente a lui attribuito), si preoccupa caso mai di indicare dei correttivi che
limitino gli eccessi e le deformazioni del potere derivanti dal principio dell’ereditarietà, di cui fece esperienza diretta, la sua famiglia e lui, durante il dominio di
Domiziano; la sua opinione, apparentemente, è quella di procedere alla successione degli imperatori mediante adozione (il discorso di Nerva a Pisone nelle Historiae).
Il principale difetto del regime imperiale (aggravato ed esacerbato dall’emergere di personalità bacate, se non schiettamente anormali come quella di Domiziano, e, prima, quella di Nerone) è la concentrazione del potere nelle mani di un
solo uomo, e nei meccanismi difensivi e offensivi che ne derivano. Per mantenersi, questo potere ha bisogno di circondarsi di uomini fidati, che di fatto ne approfittano, e nello stesso tempo di non fidarsi di nessuno (il che porta a continui rovesciamenti di fortune), e soprattutto di procedere secondo modalità segrete, contorte e indirette, che lo rendono al contempo misterioso e terribile (gli arcana
imperii).
In questi meccanismi Tacito vede una necessità nella gestione del potere, ma
insieme anche un processo di reazioni psicologiche, che egli segue in maniera analitica e quasi ossessiva (la sua penetrazione psicologica, uno dei suoi motivi di
eccellenza, è talvolta, o spesso, invenzione psicologica); è questa la caratteristica saliente della sua personalità di storico. Questo spiega anche la potenza rappresentativa (e stilistica) della sua pagina, che non a caso ha trovato realizzazioni emblematiche (e rimaste nella memoria) nei due imperatori Tiberio e Nerone;
il primo emblema dell’infingimento cui il potere costringe un uomo debole e deluso, il secondo emblema delle enormità cui il potere porta una personalità bacata
e anormale.
È possibile che questi due personaggi siano stati almeno in parte vittime della
visione di Tacito: di certo di Tiberio è possibile una presentazione del tutto diversa come quella di Velleio Patercolo, e di Nerone sappiamo che i primi anni di regno
(prima che il sospetto ne alterasse definitivamente la personalità) furono positivi;
ed è un fatto che gli imperatori furono presentati spesso come personalità anormali e perverse, da una storiografia che faceva propria l’avversione del Senato
(peraltro prono all’adulazione) per chi deteneva un potere per esso ormai perduto.
Ciò mette in discussione l’attendibilità dello storico, non la potenza della sua
presentazione, messa in rilevo da uno stile teso e abrupto, che rende nelle sue
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stesse contrazioni e difficoltà di lettura una mente che sta scoprendo una realtà
terribile, e con la sua stessa narrazione cerca di approdare a una ricostruzione
plausibile di eventi di cui per stessa ammissione dello storico non crede alla razionalità e al significato di fondo. È un sentimento talora condiviso dalle personalità
più sensibili, specie nei periodi di crisi e di incertezza, che perciò rinnova il fascino della scrittura tacitiana.
L’attenzione di Tacito al potere di Roma si volge anche ai problemi esterni, in
particolare alla pressione dei “barbari” ai confini dell’impero; e la Germania è un
avvertimento dei pericoli di questa presenza. Segnalando i costumi incorrotti dei
Germani Tacito non intende forse denunciare l’imperialismo romano (alle parole
del capo caledone Calgaco nellì’Agricola si oppongono nelle Historiae quelle del
proconsole romano Petilio Ceriale, che difende la funzione pacificatrice di Roma);
certo fa presente che i Romani non hanno più le virtutes che hanno portato alla
conquista dell’impero, e forse il futuro non è più dei Romani.
8.- Da Livio a Tacito la storiografia ha compiuto comunque un rivolgimento di
prospettiva: protagonista della storia non è più il popolo di Roma, ma sono gli
imperatori. È un rivolgimento in qualche modo anticipato da quel documento storico che è l’autobiografia di Augusto, rimasta nella pietra del Monumentum Ancyranum, in cui la storia di Roma degli anni di Augusto è ricondotta alle sue cariche
e alle sue iniziative; ormai ogni altra forma di attività civile, se e quando esiste,
è ricondotta alla politica dell’imperatore (come la reviviscenza di arti e lettere
che fa dell’età di Augusto una delle più splendide della storia dell’umanità).
Questa svolta personalistica, dovuta certo alla pressione esercitata sulla cultura
dal potere imperiale, ma innanzitutto al fatto che tutta la vita dell’impero faceva capo alla corte imperiale, spiega la natura delle opere storiografiche successive ai capolavori di Tacito – dai profili biografici di Svetonio alla singolare compilazione della Historia Augusta.
In Svetonio si trova già ridotta a sistema una visione storiografica tutta imperniata sulla figura degli imperatori, a sua volta inquadrata in ben precise categorie. Non si tratta necessariamente di esaltazioni (limiti e difetti di alcuni imperatori, ovviamente quelli già morti, sono esplicitamente presentati come tali); tuttavia l’unico soggetto di questa storia sono delle singole personalità (positive o
negative), e nessuna altra forza si dimostra operante negli eventi di Roma.
La psicologia, già così acuminata in Tacito, diventa naturalmente dominante in
queste biografie, minuziosamente attente a usi e costumi degli imperatori, che
per il fatto stesso di essere propri di imperatori diventano degni di attenzione, e
contribuiscono certamente e dare un’immagine caratteristica di molti di loro (che
infatti per certe inclinazioni e certi tics sono rimasti nella memoria di tutti); e una
certa insistenza anche sull’aspetto fisico contribuisce a chiarire alcune movenze
psicologiche (quasi un certo lombrosismo ante litteram); e tuttavia non hanno nessun rilievo per capire l’opera propriamente storica di questi personaggi. È in certo
senso una nemesi: nel senso che la personalizzazione del potere finisce per far
obliterare le sue opere.
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Si dà atto a Svetonio di una certa obiettività storica, dovuta alla sua posizione di
segretario imperiale, che gli permise l’accesso ai documenti più diversi, e tuttavia, più che alla ricerca documentaria queste biografie (talvolta anche suggestive,
perché il fascino di personalità come Cesare e Augusto, ma anche come Vespasiano, sollecitano lo scrittore) sono ispirate a quello che oggi si direbbe gossip: la tendenza, tipicamente antropologica, a volersi sentire parte del potere per il fatto di
conoscere particolari curiosi o pruriginosi di chi lo detiene.
Questa tendenza, mescolata alla volontà celebrativa di scrittori di secondo o
terzo rango, trova il suo sbocco qualche decennio dopo in quel singolare prodotto
che è la Historia Augusta, di cui forse i diversi firmatari non sono che altrettanti
pseudonimi di un solo compilatore. Qui il gossip non ha più nemmeno un fondamento documentario, ma è spesso solo invenzione sui potenti; e la tendenza a
vedere uomini anche grandi con l’occhio del loro barbiere, già presente in Svetonio, raggiunge il suo culmine. Il culto del potere ha ormai ucciso la storiografia.
9.- Il successivo passo della storiografia in lingua latina (non è più infatti storiografia romana) avviene con l’avvento e l’affermazione del cristianesimo. Propriamente, in effetti, non è più nemmeno storiografia, cioè ricostruzione storica, ma
libellistica, che utilizza i fatti della storia romana, non più indagati ma comunque
conosciuti in quanto fanno parte della cultura vulgata, a scopo schiettamente apologetico; come tali, in ogni caso, le opere che realizzano questa operazione hanno
un valore documentario.
Gli autori più rilevanti sono scrittori come Tertulliano e Lattanzio, entrambi interessati a darci la visione cristiana di quel seguito di eventi drammatici che furono
le persecuzioni. Tertulliano, nella sua polemica a difesa della libertà della sua
fede, dà una descrizione impressiva della cecità e violenza del potere romano
(salvo rivendicare per la nuova religione l’intolleranza che il paganesimo non praticò mai per motivi di fede, ma solo per necessità o opportunità politica); Lattanzio vede nelle vicende degli imperatori romani il segno della punizione divina (De
mortibus persecutorum), secondo un’ottica per noi chiaramente superstiziosa che
però doveva informare la visione cristiana del potere romano, almeno fino a quando esso non fu appropriato dai cristiani.
È una visione “provvidenzialistica” che ha il suo punto più alto, in prospettiva
teologica, nel De Civitate Dei di S. Agostino. Nella vasta compilazione, il riferimento a fatti storici è frequente e abbondante, ma non è il frutto di una nuova
ricerca storica, bensì di una reinterpretazione di fatti acquisiti secondo una prospettiva trascendente, morale e religiosa. La storia mondana è solo un’occasione
esterna perché le anime scelgano il loro destino; gli eventi storici in sé non hanno
dunque importanza, ma la acquistano in quanto occasione di questa scelta. Il potere romano in quanto tale non ha valore, anzi è di per sé una forma di violenza (lo
Stato senza giustizia non differisce da una banda di predoni), ma acquista una giustificazione in quanto garantisce la pace in cui il destino cristiano può fiorire.
La visione provvidenzialistica ispirata da s. Agostino trova la propria concreta
attuazione in Paolo Orosio, per cui la lunga storia di Roma è servita solo a realiz-
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zare, dopo le guere civili, la pace imperiale, come condizione più favorevole per
l’espansione del cristianesimo: per questo il Salvatore è nato sotto il dominio di
Augusto, e gli apostoli si sono spostati nell’Occidente dell’impero romano. Di qui
a considerare “volontà di Dio” ogni evento mondano che contribuisse a rafforzare
la presenza del cristianesimo, e “peccato” ogni evento che la ostacolasse, non
c’era che un passo, e fu compiuto tra Costantino e Teodosio.
10. Dopo il rivolgimento prodotto dal cristianesimo, a difendere la visione di
Roma protagonista della storia non rimasero più nemmeno i Romani, ormai deprivati di una cultura originale e disorientati dalla crisi sempre più grave dell’impero. A rinnovare una sensibilità storiografica genuina fu un non romano, ma innamorato della grandezza di Roma, di madrelingua greca ma deciso a descrivere le
vicende di Roma nella sua lingua: Ammiano Marcellino.
Egli dimostra tempra di storico nella ricostruzione dei fatti, e dimostra animo di
“romano” nella difesa di una tradizione ormai al tramonto: per questo dà una raffigurazione ammirata dell’ultimo dei pagani, Giuliano (denunciato dai cristiani
come l’Apostata); per questo dà una descrizione severa e appassionata della decadenza dei costumi romani (a dire il vero ormai più che plurisecolare); per questo,
infine, volge un richiamo preoccupato al “pericolo barbaro”, ormai rappresentato
non più solo dai Germani, ma da popolazioni più barbare e più pericolose, come
gli Unni.
Non bastava però la passione di uno storico, che fra l’altro lottava per il dominio della sua lingua, per rinverdire i destini di Roma, ormai votata al tracollo per
un insieme di cause storiche (in qualche modo individuate già da Livio nella sua
stessa grandezza, cioè nella complessità incontrollabile dei suoi domini), ancor
oggi discusse dagli storici. Di Roma ben presto non sarebbe rimasto che il ricordo
di un passato grandioso ma irrecuperabile.
Un passato in sostanza nemmeno più sentito come proprio dagli storici, ma quasi
come una serie di eventi da conservare nella memoria come un fatto scolastico,
che suscita magari curiosità ma non più passione. Nascono così delle opere che non
sono di indagine storiografica, ma di compilazione, talvolta anche approssimativa
e confusa, come ad es. quelle di Aurelio Vittore. E così, in effetti, la storiografia
romana si chiude con Eutropio, autore di un manualetto ad uso dell’imperatore,
che ha tutte le qualità e tutti i difetti di una compilazione scolastica: chiarezza e
linearità di dettato, precisione di informazioni e sommarietà di quadri storici, e
richiami senza passione a un passato che ormai non è più.
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Rodolfo Strumìa
Inclinata res publica
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CORNELIO NEPOTE (età di Cesare)
Della sua opera principale, il De viris illustribus, una raccolta di biografie, ci rimangono il libro sui comandanti militari stranieri (De excellentibus ducibus exterarum gentium) e le biografie di Catone e di Attico, tratte dal libro sugli storici latini.
“Cornelio Nepote resta, nel complesso, uno scrittore mediocre: nonostante che la novità del suo progetto di raccolta biografica sia oggi sempre più largamente riconosciuta, la qualità dell’esecuzione non può dirsi
pari al progetto (il quale forse, più che a Nepote, potrebbe essere dovuto ad Attico o a qualche altro membro della sua cerchia): il suo merito
maggiore è certo quello di avere influenzato le Vite parallele di Plutarco. Per ampiezza di orizzonti intellettuali, Nepote non poteva competere con Varrone o con Cicerone; inoltre, può darsi che si rivolgesse a un
pubblico culturalmente meno preparato: hanno portato a supporlo la
relativa semplicità – a volte quasi trasandata – dello stile (che tuttavia
si concede saltuarie ricercatezze, ma più fastidiose che efficaci), e
soprattutto il carattere sbrigativamente sommario di parecchie biografie, che sembra presupporre lettori provvisti di un ridotto bagaglio di
conoscenze. D’altronde egli stesso aveva coscienza programmatica che
non agli storici era destinata la sua opera, ma a persone di livello culturale comune (cfr. per esempio De viris illustribus 16, 1, 1): destinatari insomma più bisognosi di un’esposizione assai semplificata e più
attratti da curiosità aneddotiche che non interessati all’accuratezza
dell’informazione o a giudizi critici e meditati” (G. B. Conte).
Nonostante queste riserve, la purezza della lingua e la linearità dell’impianto rendono Cornelio Nepote uno scrittore accessibile anche a chi
non sia ancora particolarmente ferrato nella conoscenza del latino,
mentre la grande varietà delle tipologie sintattiche da lui usata fornisce
una ricca messe di esempi utili per approfondire lo studio della sintassi
del periodo.
Praefatio (Proemio)
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3, 6, 16, 18
Nell’accingersi a narrare la vita dei più grandi condottieri stranieri, Cornelio Nepote,
con atteggiamento “relativistico”, sottolinea la differenza tra gli usi e costumi greci e
quelli romani, mettendo in guardia quei lettori che siano digiuni di cultura greca dallo
scandalizzarsi nell’apprendere, per es., che tra le “virtù” di Epaminonda era annoverata la sua abilità nella danza e nella musica, o che l’ateniese Cimone aveva sposato la
sorella, cosa non estranea alla prassi della sua gente.
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Non dubito fore plerosque, Attice, qui hoc genus scripturae leve et non satis
dignum summorum virorum personis iudicent, cum relatum legent, quis musicam docuerit Epaminondam, aut in eius virtutibus commemorari, saltasse
eum commode scienterque tibiis cantasse. Sed ii erunt fere, qui expertes litterarum Graecarum nihil rectum, nisi quod ipsorum moribus conveniat, putabunt. Hi si didicerint non eadem omnibus esse honesta atque turpia, sed
omnia maiorum institutis iudicari, non admirabuntur nos in Graiorum virtutibus
exponendis mores eorum secutos. Neque enim Cimoni fuit turpe, Atheniensium summo viro, sororem germanam habere in matrimonio, quippe cum
cives eius eodem uterentur instituto. At id quidem nostris moribus nefas habetur. Laudi in Creta ducitur adulescentulis quam plurimos habuisse amatores.
Nulla Lacedaemoni vidua tam est nobilis, quae non ad cenam eat mercede
conducta.
Non dubito: qui regge una prop. oggettiva, anziché il più frequente quin con il cong.- Attice: Tito Pomponio
Attico (110-32 a.C.), illustre letterato e politico romano.- leve... dignum: compl. predicativi dell’ogg. genus.- saltasse... cantasse: forme sincopate di saltavisse e cantavisse.- expertes: “ignari”.- conveniat: “è conforme”.institutis: “secondo le tradizioni”.- in... virtutibus exponendis: costruzione del gerundivo.- secutos: sottint.
esse.- germanam: figlia dello stesso padre, ma di madre diversa.- quippe cum: causale.- habetur: verbo estimativo.- quae non... conducta: “che non si rechi a un banchetto <in qualità di etèra> presa a nolo dietro compenso”; prop. relativa con valore consecutivo.
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6, 17, 18, 19
In Grecia non è disonorevole calcare le scene ed esibirsi in uno spettacolo dinanzi al
popolo; a Roma nessun marito si fa scrupolo di condurre la moglie a un banchetto né
una matrona di farsi vedere nell’atrio della casa o di frequentare la società.
Magnis in laudibus tota fere fuit Graecia victorem Olympiae citari, in scaenam vero prodire ac populo esse spectaculo nemini in eisdem gentibus fuit
turpitudini; quae omnia apud nos partim infamia, partim humilia atque ab
honestate remota ponuntur. Contra ea pleraque nostris moribus sunt decora,
quae apud illos turpia putantur. Quem enim Romanorum pudet uxorem ducere in convivium? Aut cuius non mater familias primum locum tenet aedium
atque in celebritate versatur? Quod multo fit aliter in Graecia. Nam neque in
convivium adhibetur nisi propinquorum, neque sedet nisi in interiore parte
aedium, quae gynaeconitis appellatur, quo nemo accedit nisi propinqua
cognatione coniunctus. Sed hic plura persequi cum magnitudo voluminis
prohibet, tum festinatio, ut ea explicem, quae exorsus sum. Quare ad propositum veniemus et in hoc exponemus libro de vita excellentium imperatorum.
nemini... turpitudini: costruz. del doppio dativo, di svantaggio (nemini) e di effetto (turpitudini).- ponuntur:
verbo estimativo.- primum locum... aedium: “l’atrio della casa”.- in celebritate: “in mezzo alla folla”.- adhibetur:
scil. uxor o mater familias.- ut... explicem: prop. sostantiva, epesegetica di festinatio.- exorsus sum: indic. perf.
di exordior.
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Catone, Romano “antico”
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10, 11, 15, 18
Marco Catone, nativo di Tuscolo, trascorsi i primi anni di vita nella campagna sabina,
si trasferisce a Roma e intraprende la carriera militare e politica, distinguendosi nelle
battaglie di senigallia (o del Metauro, 207 a.C.) e ricoprendo le cariche di questore
(204), edile della plebe (199) e pretore (194).
[1] M. Cato, ortus municipio Tusculo, adulescentulus, priusquam honoribus
operam daret, versatus est in Sabinis, quod ibi heredium a patre relictum
habebat. Inde hortatu L. Valerii Flacci, quem in consulatu censuraque habuit
collegam, ut M. Perpenna censorius narrare solitus est, Romam demigravit in
foroque esse coepit. Primum stipendium meruit annorum decem septemque.
Q. Fabio M. Claudio consulibus tribunus militum in Sicilia fuit. Inde ut rediit,
castra secutus est C. Claudii Neronis, magnique opera eius existimata est in
proelio apud Senam, quo cecidit Hasdrubal, frater Hannibalis. Quaestor obtigit P. Africano consuli; cum quo non pro sortis necessitudine vixit: namque ab
eo perpetua dissensit vita. Aedilis plebi factus est cum C. Helvio. Praetor provinciam obtinuit Sardiniam, ex qua, quaestor superiore tempore ex Africa
decedens, Q. Ennium poetam deduxerat; quos non minoris aestimamus
quam quemlibet amplissimum Sardiniensem triumphum.
magni: genit. di stima.- apud Senam: si tratta della battaglia combattutasi presso il fiume Metauro fra le legioni romane al comando dei consoli Claudio Nerone e Livio Salinatore e le milizie cartaginesi agli ordini di Asdrubale, giunto in Italia per dare man forte al fratello Annibale ma perito nello scontro.- minoris: genit. di stima.
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2, 10, 11, 18
Eletto console nel 195, Catone ottiene in sorte la provincia della Spagna citeriore;
successivamente (184) esercita con molto rigore la censura, attirandosi inimicizie per
il bene dello Stato.
[2] Consulatum gessit cum L. Valerio Flacco, sorte provinciam nactus
Hispaniam citeriorem, exque ea triumphum deportavit. Ibi cum diutius moraretur, P. Scipio Africanus, consul iterum, cuius in priori consulatu quaestor fuerat, voluit eum de provincia depellere et ipse ei succedere, neque hoc per
senatum efficere potuit, cum quidem Scipio principatum in civitate obtineret,
quod tum non potentia, sed iure res publica administrabatur. Qua ex re iratus
senatui, consulatu peracto, privatus in urbe mansit. At Cato, censor cum
eodem Flacco factus, severe praefuit ei potestati. Nam et in complures
nobiles animadvertit et multas res novas in edictum addidit, qua re luxuria
reprimeretur, quae iam tum incipiebat pullulare. Circiter annos octoginta,
usque ad extremam aetatem ab adulescentia, rei publicae causa suscipere
inimicitias non destitit. A multis temptatus non modo nullum detrimentum existimationis fecit, sed, quoad vixit, virtutum laude crevit.
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nactus: partic. perf. di nanciscor.- consul iterum: nel 194 a.C.- cum... obtineret: concessivo.- privatus:
compl. predicativo del soggetto.- animadvertit: animadvertere in aliquem significa “prendere provvedimenti contro qualcuno”, “infliggere a qualcuno una nota di biasimo”.
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9, 12, 18, 20
Uomo solerte e versatile, Catone si dedicò anche all’oratoria e alla storiografia, nella
quale spiccano i sette libri delle Origines.
[3] In omnibus rebus singulari fuit industria. Nam et agricola sollers et peritus iuris consultus et magnus imperator et probabilis orator et cupidissimus
litterarum fuit. Quarum studium etsi senior arripuerat, tamen tantum progressum fecit, ut non facile a reperiri possit neque de Graecis neque de Italicis
rebus, quod ei fuerit incognitum. Ab adulescentia confecit orationes. Senex
historias scribere instituit. Earum sunt libri VII. Primus continet res gestas
regum populi Romani, secundus et tertius, unde quaeque civitas orta sit Italica; ob quam rem omnes Origines videtur appellasse. In quarto autem bellum
Poenicum est primum, in quinto secundum. Atque haec omnia capitulatim
sunt dicta. Reliquaque bella pari modo persecutus est usque ad praeturam
Servii Galbae, qui diripuit Lusitanos; atque horum bellorum duces non nominavit, sed sine nominibus res notavit. In eisdem exposuit, quae in Italia Hispaniisque aut fierent aut viderentur admiranda. In quibus multa industria et
diligentia comparet, nulla doctrina. Huius de vita et moribus plura in eo libro
persecuti sumus, quem separatim de eo fecimus rogatu T. Pomponii Attici.
Quare studiosos Catonis ad illud volumen delegamus.
probabilis: “degno di approvazione”, “lodevole”, “piacevole”.- senior: comparativo assoluto.- Origines: compl.
predicativo dell’oggetto.- appellasse: forma sincopata di appellavisse.- usque ad praeturam Ser. Galbae: cioè,
fino al 151 a.C.; l’anno seguente Galba debellò i Lusitani.- in eo libro: si allude all’ampia biografia di Marco Porcio Catone composta da Cornelio Nepote a richiesta di Tito Pomponio Attico; di essa il presente profilo appare uno
stringato compendio.
Annibale, il “gran nemico”
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2, 9, 12
La travolgente campagna militare di Annibale in Italia: gli eserciti romani sono sconfitti a Casteggio, alla Trebbia, al Trasimeno e a Canne (218-216 a.C.).
[4] Conflixerat apud Rhodanum cum P. Cornelio Scipione consule eumque
pepulerat. Cum hoc eodem Clastidi apud Padum decernit sauciumque inde
ac fugatum dimittit. Tertio idem Scipio cum collega Tiberio Longo apud Trebiam adversus eum venit. Cum his manum conseruit, utrosque profligavit. Inde
per Ligures Appenninum transiit, petens Etruriam. Hoc itinere adeo gravi
morbo afficitur oculorum, ut postea numquam dextro aeque bene usus sit.
Qua valetudine cum etiam tum premeretur lecticaque ferretur C. Flaminium
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consulem apud Trasumenum cum exercitu insidiis circumventum occidit
neque multo post C. Centenium praetorem cum delecta manu saltus occupantem. Hinc in Apuliam pervenit. Ibi obviam ei venerunt duo consules, C.
Terentius et L. Aemilius. Utriusque exercitus uno proelio fugavit, Paulum consulem occidit et aliquot praeterea consulares, in his Cn. Servilium Geminum,
qui superiore anno fuerat consul.
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2, 8, 18
Annibale, richiamato in Africa (203 a.C.), dopo un infruttuoso abboccamento con P.
Scipione, viene da lui sconfitto a Zama (202 a.C.) e ripara ad Adrumeto.
[6] Hinc invictus patriam defensum revocatus bellum gessit adversus P. Scipionem, filium eius, quem ipse primo apud Rhodanum, iterum apud Padum,
tertio apud Trebiam fugarat. Cum hoc exhaustis iam patriae facultatibus
cupivit impraesentiarum bellum componere, quo valentior postea congrederetur. In colloquium convenit; condiciones non convenerunt. Post id factum
paucis diebus apud Zamam cum eodem conflixit: pulsus – incredibile dictu –
biduo et duabus noctibus Hadrumetum pervenit, quod abest ab Zama circiter
milia passuum trecenta. In hac fuga Numidae, qui simul cum eo ex acie
excesserant, insidiati sunt ei; quos non solum effugit, sed etiam ipsos oppressit. Hadrumeti reliquos e fuga collegit; novis dilectibus paucis diebus multos
contraxit.
incredibile dictu: l’inciso si riferisce non già al fatto che Annibale sia stato sconfitto, ma che in solo due giorni
e due notti sia giunto da Zama ad Adrumeto, distante circa trecento miglia.
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2, 11, 18, 20
Cornelio Nepote conclude la sua biografia di Annibale citando le varie date proposte
per la sua morte e accennando sia alla sua attività letteraria sia agli scritti di chi volle
immortalare la sua gloria militare.
[13] Sic vir fortissimus, multis variisque perfunctus laboribus, anno acquievit
septuagesimo. Quibus consulibus interierit, non convenit. Namque Atticus M.
Claudio Marcello Q. Fabio Labeone consulibus mortuum in annali suo scriptum reliquit, at Polybius L. Aemilio Paulo Cn. Baebio Tamphilo, Sulpicius
autem Blitho P. Cornelio Cethego M. Baebio Tamphilo. Atque hic tantus vir
tantisque bellis districtus nonnihil temporis tribuit litteris. Namque aliquot eius
libri sunt, Graeco sermone confecti, in his ad Rhodios de Cn. Manlii Volsonis
in Asia rebus gestis. Huius belli gesta multi memoriae prodiderunt, sed ex his
duo, qui cum eo in castris fuerunt simulque vixerunt, quamdiu fortuna passa
est, Silenus et Sosylus Lacedaemonius. Atque hoc Sosylo Hannibal litterarum Graecarum usus est doctore. Sed nos tempus est huius libri facere
finem et Romanorum explicare imperatores, quo facilius collatis utrorumque
factis, qui viri praeferendi sint, possit iudicari.
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M. Claudio Marcello Q. Fabio Labeone consulibus: il 183 a.C.- L. Aemilio Paulo Cn. Baebio Tamphilo: il
182 a.C.- P. Cornelio Cethego M. Baebio Tamphilo: il 181 a.C.- temporis: genit. partitivo.- de... rebus gestis:
si allude al riordino dell’Anatolia occidentale attuato dal console Gneo Manlio Volsone dopo la vittoria conseguita
nel 190 a.C. dai Romani su Antioco III di Siria; si suppone che lo scritto dedicato da Annibale a tali vicende fosse
una sorta di pamphlet antiromano.- huius: scil. Hannibalis.- doctore: compl. predicativo di Sosilo.
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CICERONE (106-43 a.C.)
L’uomo che riportò il primato nell’eloquenza latina ha creato un tipo
di prosa oratoria che si è imposto come modello per secoli e che ancor
oggi suscita ammirazione.
L’attenta scelta delle parole (che si manifesta, per es., nel ripudio dei
termini greci, da lui resi con vocaboli o espressioni latine frutto di un’accanita e costante sperimentazione lessicale) era finalizzata al conseguimento della chiarezza espressiva. Ma “il contributo più notevole di Cicerone all’evoluzione della prosa europea fu nella creazione di un tipo di
periodo complesso e armonioso, fondato su un perfetto equilibrio e
rispondenza delle parti, il cui modello, fin dalle orazioni, egli trovò in
Isocrate e in Demostene. Dato il sempre presente modello oratorio, le
esigenze dell’orecchio e del ritmo hanno spesso la prevalenza: ma il
periodo ciceroniano è in genere anche una rigorosa architettura logica.
La creazione di un simile periodo comportava l’eliminazione delle incoerenze nella costruzione, degli anacoluti, delle ‘costruzioni a senso’ e
delle molte altre forme di incongruenza che la prosa arcaica latina
aveva ereditato dal linguaggio colloquiale. Veniva poi l’organizzazione
delle frasi in ampie unità che manifestano un’accurata ed esplicita
subordinazione delle varie parti rispetto al concetto principale: in altre
parole, la sostituzzione della paratassi (coordinazione) con l’ipotassi
(subordinazione). A una perfetta capacità di dominio sulla sintassi si
deve la possibilità di organizzare i periodi lunghi e complessi, eppure
sempre lucidi e coerenti, di cui abbondano le pagine ciceroniane.
Se questi sono i tratti che meglio definiscono il profilo esterno della
costruzione ciceroniana del discorso, l’aspetto che più colpisce il lettore è sicuramente la varietà dei toni e dei registri stilistici che entrano in
gioco con grande mobilità di effetti. Ciascuna delle tre gradazioni di
stile (semplice, temperato, sublime) sa convenientemente essere impiegata a seconda delle esigenze discorsive corrispondenti: probare, delectare, movere (e si tratta, ovviamente, di sapere dove e quando, secondo il canonico principio greco del prèpon). Ad ogni livello di stile, ad
ogni diverso registro espressivo, corrisponde una collocazione delle
parole adeguata, un’opportuna sonorità fatta di armonia e di euritmia
(l’ornatus suavis et adfluens trova il suo punto di forza nella forma ipsa
e nel sonus delle parole); soprattutto, va detto che la disposizione verbale è sempre accuratamente tale da realizzare il numerus. Nella pratica, il numerus agisce come un sistema di regole metriche adattate alla
prosa..., in modo che i pensieri gravi trovino un andamento solenne e
sostenuto, e invece il discorso piano un’intonazione familiare. La sede
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specializzata per questi effetti metrico-ritmici è la clausola, quella
parte finale del periodo in cui l’orecchio dell’ascoltatore deve sentirsi
impressionato dagli effetti suggeriti dalla successione dei piedi” (G.B.
Conte).
“Nella sua giovinezza non riuscì a sottrarsi alla moda dominante (scil.
quella dello stile asiano, n. d. r.), ma col progredire degli anni si impose una saggia moderazione. In quelle prime orazioni si sente ancora
spesso il principiante imbrigliato nella tradizione della scuola; poi si
evolve in linea ascendente fino a divenire quell’artista sovrano che realizza con perfetta maestria una delle più alte esigenze di ogni arte,
quella cioè di distribuire opportunamente luci e ombre e di usare solo
con discrezione i colori violenti, particolarmente efficaci a toccare le
corde del sentimento” (E. Norden).
“Non v’è nessun bisogno di presupporre l’indirizzo retorico rodiese,
per riconoscere la relativa indipendenza di Cicerone dall’asianesimo e
dal neo-atticismo: l’oratoria ciceroniana, s’intende l’oratoria scritta e
tramandata, è il risultato originale, nei limiti dell’inevitabile condizionamento delle scuole, di un’esperienza tragica e insieme grottesca. Per
una sorta di legge dei vasi comunicanti, il fallimento di quest’uomo
ingenuamente ambizioso, quindi più umile di tanti superbi assertori di
umiltà, ne sublimava l’eros frustrato in una prosa robusta come un borghese di provincia, articolata come la dottrina d’un raffinato intellettuale urbano, passionale come l’invettiva d’un amante tradito, insinuante e modulata come la voce dei vinti in trepida attesa del perentorio dettato dei vincitori” (L. Canali).
Un discorso a parte va fatto per l’epistolario ciceroniano (costituito da
16 libri di ad familiares, 16 ad Atticum, 3 ad Quintum fratrem e 2 ad M.
Brutum), che, quando venne scoperto dal Petrarca, lo lasciò profondamente deluso, poiché gli parve che esso demolisse quell’immagine ideale di uomo dignitoso e intemerato che egli si era formato dalla lettura
delle orazioni e delle opere filosofiche.
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Una classe dirigente corrotta (In Verrem)
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8, 11, 18, 19
Una sequela di ruberie e malefatte: questa è stata la condotta di Verre, prima come
questore del console Gneo Papirio Carbone nella Gallia cisalpina (84 a.C.), poi come
legatus, cioè coadiutore al governo dell’Asia e della Panfilia (80), quindi come teste
d’accusa contro Dolabella (78) dopo esserne stato coadiutore e proquestore.
(Actio prima, §§ 10-11)
Etenim quod est ingenium tantum, quae tanta facultas dicendi aut copia,
quae istius vitam, tot vitiis flagitiisque convictam, iampridem omnium voluntate iudicioque damnatam, aliqua ex parte possit defendere? Cuius ut adulescentiae maculas ignominiasque praeteream, quaestura [primus gradus
honoris] quid aliud habet in se, nisi Cn. Carbonem spoliatum a quaestore suo
pecunia publica nudatum et proditum consulem? desertum exercitum? relictam proviciam? sortis necessitudinem religionemque violatam? Cuius legatio
exitium fuit Asiae totius et Pamphyliae: quibus in provinciis multas domos,
plurimas urbis, omnia fana depopulatus est, tum cum [in Cn. Dolabellam]
suum scelus illud pristinum renovavit et instauravit quaestorium; cum eum,
cui et legatus et pro quaestore fuisset, et in invidiam suis maleficiis adduxit,
et in ipsis periculis non solum deseruit, sed etiam oppugnavit ac prodidit.
convictam: “incontrovertibilmente macchiata”.- nudatum: “privato di risorse”.- sortis necessitudinem: “la relazione dell’ufficio toccato in sorte”.- legatio: “incarico di coadiutore al governo”.- suum scelus... et instauravit:
“rinnovò e ripeté quella sua scelleratezza commessa come questore”.- in invidiam adduxit: “rese inviso”.
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2, 3, 9, 13, 18
Sia come pretore urbano (74 a.C.) sia come governatore della Sicilia (73), Verre non
ha fatto altro che saccheggiare templi ed edifici pubblici, depredare privati cittadini,
commettere arbitrii e illegalità di ogni genere.
(Actio prima, §§ 12-13)
Cuius praetura urbana aedium sacrarum fuit publicorumque operum
depopulatio; simul in iure dicundo, bonorum possessionumque, contra omnium instituta, addictio et condonatio. Iam vero omnium vitiorum suorum plurima et maxima constituit monumenta et indicia in provincia Sicilia; quam iste
per triennium ita vexavit ac perdidit ut ea restitui in antiquum statum nullo
modo possit; vix autem per multos annos, innocentisque praetores, aliqua ex
parte recreari aliquando posse videatur. Hoc praetore, Siculi neque suas
leges, neque nostra senatus consulta, neque communia iura tenuerunt. Tantum quisque habet in Sicilia, quantum hominis avarissimi et libidinosissimi aut
imprudentiam subterfugit, aut satietati superfuit. Nulla res per triennium, nisi
ad nutum istius, iudicata est: nulla res cuiusquam tam patria atque avita fuit,
quae non ab eo, imperio istius, abiudicaretur.
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in iure dicundo: “nell’amministrazione della giustizia”.- contra... instituta: “in contrasto con il modo di procedere di tutti <i suoi predecessori>”.- addictio et condonatio: “un’aggiudicazione e una donazione”; il primo termine indica l’assegnazione di beni o proprietà da parte del pretore, il secondo allude a un’arbitraria concessione
da parte del magistrato in seguito a corruzione.- plurima et maxima: compl. predicativi degli ogg. monumenta e
indicia (“testimonianze e tracce”).- ut: introduce due prop. consecutive, i cui predicati sono possit e videatur.- Hoc
praetore: abl. assoluto.- quantum: introduce due prop. comparative, i cui predicati sono subterfugit e superfuit.res... res: nel primo caso significa “causa”, nel secondo “proprietà”.- quae non... abiudicaretur: prop. relativa con
valore consecutivo.- ab eo:compl. di allontanamento o separazione; si riferisce a cuiusquam.
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1, 2, 3, 6, 7, 18
Nell’esercizio della pretura in Sicilia (73 a.C.), Verre ha angariato i coltivatori locali,
trattato come nemici alleati fedelissimi, torturato e ucciso cittadini romani, lasciato
impuniti colpevoli e condannato innocenti, spogliato edifici pubblici e santuari, commesso violenze carnali e infamie di ogni sorta.
(Actio prima, §§ 13-14)
Innumerabiles pecuniae ex aratorum bonis novo nefarioque instituto coactae; socii fidelissimi in hostium numero existimati; cives Romani servilem in
modum cruciati et necati; homines nocentissimi propter pecunias iudicio liberati; honestissimi atque integerrimi, absentes rei facti, indicta causa damnati
et eiecti; portus munitissimi, maximae tutissimaeque urbes piratis praedonibusque patefactae; nautae militesque Siculorum, socii nostri atque amici,
fame necati; classes optimae atque opportunissimae, cum magna ignominia
populi Romani, amissae et perditae. Idem iste praetor monumenta antiquissima, partim regum locupletissimorum, quae illi ornamento urbibus esse
voluerunt, partim etiam nostrorum imperatorum, quae victores civitatibus
Siculis aut dederunt aut reddiderunt, spoliavit, nudavitque omnia. Neque hoc
solum in statuis ornamentisque publicis fecit; sed etiam delubra omnia, sanctissimis religionibus consecrata, depeculatus est. Deum denique nullum Siculis, qui ei paulo magis adfabre atque antiquo artificio factus videretur, reliquit.
In stupris vero et flagitiis, nefarias eius libidines commemorare pudore deterreor; simul illorum calamitatem commemorando augere nolo, quibus liberos
coniugesque suas integras ab istius petulantia conservare non licitum est.
coactae <sunt>: “sono state estorte”.- existimati,... cruciati et necati, liberati,... damnati et eiecti,... patefactae,... necati,... amissae et perditae: sottint. sunt.- iudicio liberati: “furono esenti da procedimento giudiziario”.- absentes rei facti: “messi in stato d’accusa mentre erano assenti”; partic. congiunto.- indicta causa: “senza
sentir la difesa”; abl. assoluto.- opportunissimae: “di grande utilità”.- ornamento: dat. di effetto.- deum... nullum: “nessuna effigie di divinità”.- adfabre (avv.) atque antiquo artificio: “con maestria e lavorazione antica”.videretur: in costruzione personale, con il nominativo (qui) e l’infinito (factus <esse>).- commemorando: abl. del
gerundio, con valore strumentale.- quibus: si riferisce a illorum.- integras: compl. predicativo dell’ogg. coniuges
(ma logicamente si riferisce anche a liberos).
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5, 6, 10, 16, 18
Cicerone si è assunto il compito, gravoso e rischioso, di citare in giudizio Verre, sia
per non tradire la fiducia in lui riposta dai Siciliani angariati dal disonesto governatore,
sia per dimostrare il proprio interessamento verso lo Stato, al quale nuocciono l’abuso
di potere e la fama disonorevole di tanti che pure hanno un ruolo istituzionale.
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Inclinata res publica-finale:Carpino-Dato 21/04/2012 14.52 Pagina 13
(Actio prima, §§ 34-35)
Ego cum hanc causam Siculorum rogatu recepissem, idque mihi amplum
et praeclarum existimassem, eos velle meae fidei diligentiaeque periculum
facere, qui innocentiae abstinentiaeque fecissent, tum suscepto negotio
maius quiddam mihi proposui, in quo meam in rem publicam voluntatem
populus Romanus perspicere posset. Nam illud mihi nequaquam dignum
industria conatuque meo videbatur, istum a me in iudicium, iam omnium iudicio condemnatum, vocari, nisi ista tua intolerabilis potentia, et ea cupiditas
qua per hosce annos in quibusdam iudiciis usus es, etiam in istius hominis
desperati causa interponeretur. Nunc vero, quoniam haec te omnis dominatio regnumque iudiciorum tanto opere delectat, et sunt homines quos libidinis
infamiaeque suae neque pudeat neque taedeat, — qui, quasi de industria, in
odium offensionemque populi Romani inruere videantur, — hoc me profiteor
suscepisse magnum fortasse onus et mihi periculosum, verum tamen dignum
in quo omnis nervos aetatis industriaeque meae contenderem.
eos velle... facere: epesegetico di id.- fecissent: sottint. periculum (“prova”, “esperienza”).- suscepto negotio: abl. assoluto con valore temporale.- voluntatem: “interessamento”, “buona disposizione d’animo”.- illud: prolettico di istum a me in iudicium vocari.- potentia: “smania di prevalere”.- cupiditas: “interesse di parte”, “partigianeria”.- regnumque iudiciorum: “e tirannia sulle azioni giudiziarie”.- libidinis infamiaeque suae: “del loro
sfrenato abuso di potere e della loro fama disonorevole”.- in odium offensionemque... irruere: “tirarsi addosso
l’odio e la disistima”, lett. “correre ciecamente incontro all’...”.
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3, 6, 10, 18
Poiché l’intera classe senatoriale è screditata dalla disonestà e dall’arroganza di
pochi, di questi individui Cicerone si dichiara accusatore accanito e nemico implacabile, pronto a svolgere il suo compito con il massimo impegno nell’interesse dello Stato
e del popolo Romano, e ben deciso a rintuzzare ogni eventuale tentativo di “addomesticare” il processo a vantaggio dell’imputato.
(Actio prima, § 36)
Quoniam totus ordo paucorum improbitate et audacia premitur et urgetur
infamia iudiciorum, profiteor huic generi hominum me inimicum accusatorem,
odiosum, adsiduum, acerbum adversarium. Hoc mihi sumo, hoc mihi deposco, quod agam in magistratu, quod agam ex eo loco ex quo me populus
Romanus ex Kal. ianuariis secum agere de re publica ac de hominibus improbis voluit: hoc munus aedilitatis meae populo Romano amplissimum pulcherrimumque polliceor. Moneo, praedico, ante denuntio: qui aut deponere, aut
accipere, aut recipere, aut polliceri, aut sequestres aut interpretes corrumpendi iudici solent esse, quique ad hanc rem aut potentiam aut impudentiam
suam professi sunt, abstineant in hoc iudicio manus animosque ab hoc scelere nefario.
ordo: scil. senatorius.- improbitate et audacia: compl. di causa.- infamia: compl. di causa efficiente.- quod:
relativo.- me... secum agere de re publica: “che insieme con esso mi occupassi dello Stato”.- aut deponere...
solent esse: “sono soliti depositare denaro o accettarne o darne garanzia o prometterlo o essere intermediari e
negoziatori per falsare un processo”.- abstineant: “tengano lontane”; prop. iussiva.
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Inclinata res publica-finale:Carpino-Dato 21/04/2012 14.52 Pagina 14
Problemi e orientamenti politici
Cicerone si oppone alla legge agraria proposta dal tribuno P. Servilio Rullo (63 a.C.)
(De lege agraria, II, 29).
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6, 11, 16, 17, 19, 20
Non si lasci andare in rovina, con una spartizione cervellotica e demagogica, il territorio della Campania, fonte di immense risorse per il popolo di Roma in pace e in guerra.
[79] Quaesivi ex eo Kalendis Ianuariis quibus hominibus et quem ad
modum illum agrum esset distributurus. Respondit a Romilia tribu se initium
esse facturum. Primum quae est ista superbia et contumelia ut populi pars
amputetur, ordo tribuum neglegatur, ante rusticis detur ager, qui habent,
quam urbanis, quibus ista agri spes et iucunditas ostenditur? Aut, si hoc ab
se dictum negat et satis facere omnibus vobis cogitat, proferat; in iugera dena
discribat, a Suburana usque ad Arniensem nomina vestra proponat. Si non
modo dena iugera dari vobis sed ne constipari quidem tantum numerum
hominum posse in agrum Campanum intellegetis, tamenne vexari rem publicam, contemni maiestatem populi Romani, deludi vosmet ipsos diutius a tribuno plebis patiemini? [80] Quod si posset ager iste ad vos pervenire, nonne
eum tamen in patrimonio vestro remanere malletis? Numne fundum pulcherrimum populi Romani, caput vestrae pecuniae, pacis ornamentum, subsidium
belli, fundamentum vectigalium, horreum legionum, solacium annonae disperire patiemini?
ex eo: scil. a Servilio Rullo.- quae est... contumacia: “che cosa significa codesto ostinato orgoglio”; superbia
et contumacia costituiscono un’endiadi.- ut: introduce tre prop. sostantive, epesegetiche di ista superbia et contumacia, i cui predicati sono amputetur, neglegatur e detur.- spes et iucunditas: “piacevole prospettiva”, “gioiosa
attesa”; endiadi.- dictum: sottint. esse.- in iugera dena discribat: “ne assegni dieci iugeri a ciascuno”.- a Suburana: sottint. tribu.- Quodsi posset etc.:protasi irreale.- nonne... malletis?: “non preferireste?”; prop. interrog.
diretta retorica, formulata in modo che la risposta sia affermativa.- Numne... patiemini?: prop. interrog. diretta
retorica, formulata in modo che la risposta sia negativa.- caput: “la sorgente”.- solacium annonae: “sollievo nei
periodi di carestia”, “risorsa...”.
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2, 5, 6, 9, 18, 19, 20
Mentre non si può fare affidamento sulle rendite d’oltre mare, esposte a rischi d’ogni
genere, non sono mai venute meno, neppure nei frangenti più critici, quelle del territorio campano, che i progenitori si guardarono bene dallo sminuzzare.
An obliti estis Italico bello amissis ceteris vectigalibus quantos agri Campani fructibus exercitus alueritis? an ignoratis cetera illa magnifica populi Romani vectigalia perlevi saepe momento fortunae inclinatione temporis pendere?
Quid nos Asiae portus, quid Syriae ora, quid omnia transmarina vectigalia
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iuvabunt tenuissima suspicione praedonum aut hostium iniecta? [81] At vero
hoc agri Campani vectigal, Quirites, eius modi est ut cum domi sit et omnibus
praesidiis oppidorum tegatur, tum neque bellis infestum nec fructibus varium
nec caelo ac loco calamitosum esse soleat. Maiores nostri non solum id quod
<de> Campanis ceperant non imminuerunt verum etiam quod ei tenebant
quibus adimi iure non poterat coemerunt. Qua de causa nec duo Gracchi qui
de plebis Romanae commodis plurimum cogitaverunt, nec L. Sulla qui omnia
sine ulla religione quibus voluit est dilargitus, agrum Campanum attingere
ausus est; Rullus exstitit qui ex ea possessione rem publicam demoveret ex
qua nec Gracchorum benignitas eam nec Sullae dominatio deiecisset.
quantos... exercitus alueritis: prop. interrog. indiretta, dipendente da an obliti estis (interrog. diretta).- perlevi... pendere?: “sono spesso soggette al mutare delle circostanze per un lievissimo cambiamento della sorte?”,
“spesso dipendono dal...”.- scriptura: “le imposte”.- tenuissima suspicione... iniecta: abl. assoluto con valore
ipotetico o temporale eventuale.- ut: introduce due prop. consecutive, i cui predicati sono sit e tegatur.- bellis infestum: “esposto al pericolo di guerre”.- caelo ac loco calamitosum: “soggetto a danni per le intemperie e per il
sito”.- ex ea possessione: compl. di allontanamento o separazione, come poi ex qua.
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3, 6, 8, 9, 15, 16, 18
A Roma da sempre vi sono due categorie di cittadini, impegnati nella vita politica e
desiderosi di distinguersi: i populares, cioè chi vuole che le proprie azioni e parole
siano gradite alla massa; e gli optimates, cioè chi per le proprie proposte cerca l’apprezzamento dei “migliori”. Gli optimates, innumerevoli e di varia condizione socioeconomica, hanno in comune la caratteristica di essere alieni dal mal fare, dalla disonestà, dall’arrogante dissennatezza (Pro Sestio, 45).
Duo genera semper in hac civitate fuerunt eorum qui versari in re publica
atque in ea se excellentius gerere studuerunt; quibus ex generibus alteri se
popularis, alteri optimates et haberi et esse voluerunt. Qui ea quae faciebant
quaeque dicebant multitudini iucunda volebant esse, populares, qui autem ita
se gerebant ut sua consilia optimo cuique probarent, optimates habebantur.
Quis ergo iste optimus quisque? Numero, si quaeris, innumerabiles, neque
enim aliter stare possemus; sunt principes consili publici, sunt qui eorum sectam sequuntur, sunt maximorum ordinum homines, quibus patet curia, sunt
municipales rusticique Romani, sunt negoti gerentes, sunt etiam libertini optimates. Numerus, ut dixi, huius generis late et varie diffusus est; sed genus
universum, ut tollatur error, brevi circumscribi et definiri potest. Omnes optimates sunt qui neque nocentes sunt nec natura improbi nec furiosi nec malis
domesticis impediti. Esto igitur ut ii sint, quam tu “nationem” appellasti, qui et
integri sunt et sani et bene de rebus domesticis constituti. Horum qui voluntati, commodis, opinionibus in gubernanda re publica serviunt, defensores
optimatium ipsique optimates gravissimi et clarissimi cives numerantur et
principes civitatis.
popularis (= populares)... optimates: si riferiscono a se (sogg. delle prop. oggettive rette da voluerunt) e fungono da compl. predicativi rispetto ad haberi (qui verbo estimativo), da nomi del predicato rispetto ad esse.- Qui:
“Quelli che”; introduce una prop. relativa il cui predicato è volebant.- quaeque: = et quae.- populares... optima-
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INDICI
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Indice per autori
Cornelio Nepote
003
Catone, Romano “del tempo antico”
Annibale, il “gran nemico”
005
006
Marco Tullio Cicerone
009
Una classe dirigente corrotta (In Verrem I)
0
Problemi e orientamenti politici
La congiura di Catilina (In Catilinam)
Ritorno dall’esilio (Post reditum)
La guerra per bande a Roma (Pro Milone)
Testimone degli eventi (Epistulae ad fam.)
Consigli a Cesare (Pro Marcello)
Una (re)visione della storia di Roma (De re publica II)
L’ultima lotta per la libertà (Filippiche)
0
0
0
011
014
016
027
028
031
030
033
036
Caio Giulio Cesare
039
La campagna contro gli Elvezi (B.G. I)
Usi e costumi di popoli conquistati (B. G. V e VI)
Britanni - Galli - Germani
La sottomissione della Gallia (B. G. VII)
La guerra civile (B. C. I)
La battaglia decisiva (B. C. III)
039
0
047
054
062
069
Gaio Sallustio Crispo
075
Un tornante della storia di Roma (De Catilinae coniuratione)
La congiura di Catilina (De Catilinae coniuratione)
L’avvento delle factiones (Bellum Iugurthinum)
La guerra contro Giugurta (Bellum Iugurthinum)
075
078
091
093
Cesare Ottaviano Augusto
102
Le imprese e le opere
102
Tito Livio
105
Proemio (Praefatio): La grandezza di Roma
L’avvento della repubblica
Assestamento e problemi della republica
L’affermazione definitiva della repubblica: la guerra punica
233
107
108
111
130
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Pompeo Trogo
141
I Parti - Le guerre dei Parti con Roma
141
Velleio Patercolo
145
Da Pompeo a Cesare
Da Antonio a Augusto
Da Augusto a Tiberio
145
151
155
Valerio Massimo
160
Casi e figure di Romani antichi
160
Cornelio Tacito
167
Contro l’imperialismo romano (Agricola)
Usi e costumi dei Germani (Germania)
Difesa dell’imperialismo romano (Historiae)
Tiberio (Annales)
Nerone (Annales)
La congiura dei Pisoni (Annales)
167
170
173
175
182
189
Caio Svetonio Tranquillo
197
I primi imperatori
Cesare - Augusto - Tiberio - Caligola - Claudio - Nerone
Vespasiano - Tito - Domiziano
198
206
Anneo Floro
210
Le età della storia di Roma
Prodromi delle guerre civili (i Gracchi e la guerra sociale)
La guerra civile tra Mario e Silla
Grandezza e decadenza di Roma
210
212
215
219
Eutropio
221
La guerra contro Giugurta L. V)
La guerra contro i socii (L. V)
Altre guerre dopo Mario e Silla (L. VI)
L’età di Pompeo e Cesare L. VII)
La guerra civile tra Pompeo e Cesare (L. VII)
Gli inizi del regime imperiale (L. VII)
234
221
222
222
223
225
228
Inclinata res publica-finale:Carpino-Dato 21/04/2012 14.52 Pagina 235
Indice cronologico
Tito Livio
L’avvento della repubblica
Assestamento e problemi della republica
L’affermazione definitiva: la guerra punica
108
111
130
Cornelio Nepote
Catone, Romano “del tempo antico”
Annibale, il “gran nemico”
005
006
Marco Tullio Cicerone
Una (re)visione della storia di Roma (De re publica II)
0
033
Anneo Floro
Le età della storia di Roma
210
Anneo Floro
Prodromi delle guerre civili (i Gracchi e la guerra sociale)
211
Eutropio
La guerra contro Giugurta L. V)
La guerra contro i socii (L. V)
220
221
Gaio Sallustio Crispo
L’avvento delle factiones
La guerra contro Giugurta (Bellum Iugurthinum)
091
093
Anneo Floro
La guerra civile tra Mario e Silla
215
Eutropio
Altre guerre dopo Mario e Silla (L. VI)
225
Gaio Sallustio Crispo
Un tornante della storia di Roma (De Catilinae coniuratione)
075
Anneo Floro
Grandezza e decadenza di Roma
219
235
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Marco Tullio Cicerone
00
Una classe dirigente corrotta (In Verrem I)
Problemi e orientamenti politici
La congiura di Catilina (In Catilinam)
0
0
011
014
016
Gaio Sallustio Crispo
La congiura di Catilina (De Catilinae coniuratione)
078
Eutropio
L’età di Pompeo e Cesare (L. VII)
223
Pompeo Trogo
I Parti - Le guerre dei Parti con Roma
141
Caio Giulio Cesare
La campagna contro gli Elvezi (B.G. I)
Usi e costumi di popoli conquistati (B. G. VI)
La sottomissione della Gallia (B. G. VII)
Marco Tullio Cicerone
039
047
054
00
Ritorno dall’esilio (Post reditum)
La guerra per bande a Roma
027
028
Eutropio
La guerra civile tra Pompeo e Cesare (L. VII)
225
Velleio Patercolo
Da Pompeo a Cesare
145
Caio Giulio Cesare
La guerra civile (B. C. I)
La battaglia decisiva (B. C. III)
062
069
Marco Tullio Cicerone
Testimone degli eventi (Epistulae ad fam.)
Consigli a Cesare (Pro Marcello)
L’ultima lotta per la libertà (Filippiche)
0
031
030
036
Velleio Patercolo
Da Antonio a Augusto
151
236
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Cesare Ottaviano Augusto
Le imprese e le opere
102
Velleio Patercolo
Da Augusto a Tiberio
155
Valerio Massimo
Casi e figure di romani antichi
160
Cornelio Tacito
Contro l’imperialismo romano (Agricola)
Usi e costumi dei Germani (Germania)
Difesa dell’imperialismo romano (Historiae)
Tiberio (Annales)
Nerone (Annales)
La congiura dei Pisoni (Annales)
167
170
173
175
182
189
Caio Svetonio Tranquillo
I primi imperatori
Cesare - Augusto - Tiberio - Caligola - Claudio - Nerone
Vespasiano - Tito - Domiziano
237
198
206
Inclinata res publica-finale:Carpino-Dato 21/04/2012 14.52 Pagina 238
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Inclinata res publica-finale:Carpino-Dato 21/04/2012 14.52 Pagina 239
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