Guardo e riguardo le foto –centinaia- che della Terra Santa mi ricordano ciascuna una piccola parte, un momento, un’espressione. Le guardo e mi viene da pensare che, nonostante sia passato oltre un mese, mi pare di dovermi svegliare domani mattina con il canto del Muezzin nelle orecchie e la tentazione di emulare il “buon” Napoleone per farlo stare zitto. Non è che, devo confessarlo, mi sia capitato di girare parecchio il mondo, ma allo stesso modo devo confessare che, fra tutti i luoghi visitati, davvero nessuno mi ha stupito e lasciato il segno come questa Terra Santa. Ed è a cominciare dal nome che mi sorprendo. Che ci sarà mai di “santo” in un luogo in cui uomini e donne in nome di Dio si ammazzano, in un luogo in cui nessuno nasce senza avere qualche motivo di ostilità, quando non apertamente di rancore, nei confronti di un altro popolo o addirittura della maggior parte dei popoli al mondo? In una terra in cui ognuno o quasi ha un’assenza da apparecchiare per cena e un dolore da esibire per rivendicare davanti al tribunale del mondo il proprio diritto a odiare. E’ strano, e tremendo, ma non esiste forse luogo come questo in cui gli uomini abbiano imparato a odiarsi e a fare della xenofobia (intesa, letteralmente, come la paura di chi è diverso) una ragione di vita. Qualche volta sembra addirittura che questi popoli plasmino la propria identità proprio sulla base di ciò che li rende diversi dagli altri. Un identità del disprezzo insomma. Come potrà mai dirsi felice di tutto ciò il Buon Dio, mi dicevo e torno a dirmi. Come potrà non considerare fuorviante e addirittura blasfemo che si voglia chiamare Santa una terra in cui proprio in nome di Dio, il suo, la gente si uccide o perlomeno si odia e disprezza con tanta abnegazione e persino con gusto. Certo, non può sfuggire come la religione sia spesso solo il pretesto e non la vera causa di guerre e divisioni che invece trovano la loro radice in motivazioni politiche ed economiche. Ma è pur sempre pretesto che funziona, diamine! E la mente corre al caleidoscopio di immagini che mi si sono impresse nella mente. Rivedo gli ebrei ultraortodossi, bambini compresi, che disprezzano l’intero mondo. Rivedo i graffiti sul muro “di contenimento “ove è ritratta una ragazza che, sorridente, brandisce un kalashnikov (neppure le nostre guide –mannaggia a loro- hanno avuto la forza di usare la parola “terroristi”) Rivedo le soldatesse (ma quanto erano belle?) che ridono spensierate vestite da assassine. Chissà se hanno mai ucciso qualcuno? chissà se lo faranno in futuro? Un domani porteranno in grembo i propri figli, daranno loro la vita, li allatteranno, li educheranno, ne faranno gli uomini di domani. Che insegneranno loro? Rivedo ancora, rappresentazione plastica di una divisione che pare irredimibile, quel che rimane del Tempio, luogo distrutto e pur capace di partorire a sua volta, apparentemente all’infinito, odio e distruzione. A breve distanza due mondi si fronteggiano, si scrutano, si conoscono, per nulla intenzionati ad arretrare di un millimetro, ed anzi smaniosi di prendersi quello che ora è altrui. Eppure, nonostante mente e ragione mi rendano evidente tutto ciò, anch’io, nel profondo, questa terra non riesco a non pensarla Santa. Non riesco a non amarla. Non già –o non solo- perché Dio abbia scelto di nascere e di morire proprio qui; per quel che mi riguarda non c’è terra al mondo che non abbia per padre Dio e non traspiri della Sua Essenza. La amo perché non c’è luogo migliore di questo per comprendere come la vita non basti a sé sola. Non c’è altro posto in cui si renda così evidente come davvero l’uomo realizzi pienamente sé stesso e trovi un motivo vero, radicale, ultimativo per cui vivere solo in Dio. Jhon Lennon, in Imagine, cantava che in un mondo perfetto non esiste “nothing to kill or die for and no religion too”, come se, appunto, la religione fosse la principale ragione per cui l’uomo si rende disponibile ad uccidere e a morire. Ebbene, in questa terra si scopre che, se ciò può essere vero, spesso è vero anche l’esatto contrario. Senza Dio non c’è nemmeno un vero motivo per cui vivere. Perlomeno non ce n’è un altro che dia una tale intensità alla vita. E’ questo che mi è capitato di vedere nei luoghi santi e nelle persone che li frequentano ogni giorno. E rivedo i francescani che da secoli “custodiscono” la Terra Santa, con un una tenacia e un coraggio che sembrano sovraumani. Rivedo i palestinesi di Gerico, l’indimenticabile figura del padre che, in mezzo a un nulla fatto di sabbia e di sole, ci parlava con entusiasmo. Rivedo i musulmani di Gerusalemme che pregano sulla spianata delle moschee, a dispetto di tutto. Rivedo gli Ebrei –non solo ultraortodossi- che, aggrappati alla loro identità, pregano al muro del pianto. Rivedo Suor Mariachiara, donna che, essendosi privata di tutto, davvero di nulla sembrava aver bisogno. Li rivedo e penso che, se non avessero Dio, queste persone non avrebbero nulla per cui vivere. Allora sento di ammirarle e di rispettarle profondamente. Penso che Gesù, il mio Gesù, non avrebbe potuto scegliere altro luogo in cui nascere. Nessun luogo se non uno così intriso, persino ebbro, di Dio, avrebbe potuto vederlo nascere, anche se certo non si può dire l’abbia accolto, ma anche questo, infondo, Lui lo sapeva sin dall’inizio. Rivedo allora il minuscolo villaggio di Nazareth ed immagino in quale ambiente provinciale e “paesano” il nostro Gesù sia dovuto crescere, fra le invidiose malignità che una famiglia atipica come la sua (un figlio unico, nato in circostanze misteriose) doveva suscitare in un microcosmo in cui tutti conoscevano tutti. Rivedo il teatro della sua nascita, a Betlemme, la stella argentata cui rendono omaggio forse più musulmani che cristiani. Rivedo il lago di Tiberiade, la sinagoga di Cafarnao, il Monte Tabor. Li rivedo ed immagino Gesù percorrere la sua Terra Santa. Sulla montagna, in mezzo ai suoi discepoli; a tavola, dove lo si ritrova spesso nel Vangelo e dove pareva sentirsi davvero a suo agio (amava il vino, il nostro Gesù fino a riprodurne otri enormi!); sul lago di Tiberiade, attorniato dalla siepe di sguardi affascinati sbigottiti dei pescatori testardi che si era scelto per apostoli. Nel deserto, sconfinato; luogo migliore in cui ritrovare sé stessi e meditare; quante volte si sarà chinato su quelle pietre, quante volte avrà posato lo sguardo sulle linee ondulate, eterne, dell’orizzonte. Un luogo magnetico, che rapisce, in cui non è davvero difficile immaginare che generazioni di asceti abbiano voluto rifugiarsi. E poi Gerusalemme, bella e terribile, antica e moderna, là dove si è compiuto l’evento per cui noi oggi crediamo. Il Getsemani; ci si sente scavare dentro al cospetto di quegli alberi maestosi, mentre la mente corre alla notte in cui gli stessi alberi lo vedevano vibrare di umanità fino a chiedere, lui che era Dio, di essere risparmiato dal proprio destino. Così come impossibile era non immaginarlo, abbandonato, fra le pietre anguste della prigione di Caifa a trascorrere la sua notte più lunga. Indimenticabile la via Dolorosa, che da duemila anni porta ancora questo nome, lungo la quale procedeva con la sua croce nel disinteresse generale (e che c’è di più tremendo, nel dolore, della consapevolezza che, nonostante la tua sofferenza, il mondo continui a girare, imperturbabile?). La memoria si volge infine all’ultima tappa, al Golgota e al Santo Sepolcro. Emozione impressionante, spaventosa –turbata forse solo dall’atteggiamento, decisamente poco cristiano e poco fraterno, dei fratelli Ortodossi- di trovarsi di fronte al luogo che ha cambiato la Storia, che le ha dato un senso. Il mio caro Gesù, devo confessarlo, non me lo sono mai sentito tanto addosso, non l’ho mai visto tanto umano e vicino a me. Di questo devo ringraziare tutti voi, le nostre guide, Don Luca, e i cristiani della Terra Santa. A questi ultimi va il mio pensiero perché, meglio di chiunque altro, danno idea di cosa significhi essere sale della terra. Forse è proprio vero che il nostro è un Dio perdente, in cui l’uomo si riconosce solo quando è solo, isolato, attorniato da un mondo che gli è ostile. I cristiani mal sopportano l’essere maggioranza, perdono presto il proprio entusiasmo, il proprio sapore. E’ quando sono in minoranza, alle corde, perseguitati, che invece si sentono più vicini al loro Gesù e, immedesimandosi nella sua Croce, ritrovano sé stessi, diventano invincibili. Concludo questo mio sproloquio (essendo evidentemente caduto vittima della mia logorrea) con un ricordo ai popoli che ho incontrato quaggiù. Verso di loro nutrirò sempre un grande rispetto. Per gli Ebrei e la loro caparbietà (di cui evidentemente Gesù è un ottimo esempio). Hanno attraversato la storia, duemila anni delle più atroci persecuzioni, fino a giungere finalmente in una terra che hanno saputo difendere, vittoriosi, contro la soverchiante maggioranza delle nazioni che li avrebbero voluti cancellare dalla faccia della terra. Nel pensare al loro popolo che sconfigge quattro eserciti o che trasforma un luogo desertico in un giardino lussureggiante, non si può che rimanere ammirati. Per i Musulmani e la loro fierezza. Non si vergognano di professare la propria fede, di parlarne in pubblico, di pregare (E Dio sa quanto dovremmo imparare da loro!). Non si rassegnano neppure ai soprusi o alla violenza che li vorrebbero espellere dalla loro terra. Vivono all’ombra di un muro che li vuole segregare eppure non si lasciano neanche sfiorare dall’idea della resa ed anzi trovano persino la forza di sorridere. Verso tutti questi popoli proverò sempre rispetto, ma mai invidia. Mai come oggi, infatti, riesco a comprendere la fortuna di essere Cristiano.