Scheda dell’opera
Guido di Piero, poi fra’ Giovanni, detto il BEATO ANGELICO
Vicchio di Mugello 1395/1400 – Roma 1455
Compianto sul Cristo morto
Tempera su tavola
Firenze, Museo di San Marco, inv. 8487
La tavola fu dipinta per l’Oratorio della Compagnia di Santa Maria della Croce al
Tempio, adiacente alla chiesa di San Giuseppe, non lontano dall’Arno. La
Compagnia, detta anche dei Neri, aveva il compito di assistere i condannati a morte
prima dell’esecuzione che avveniva fuori dalle mura della città. L’ambientazione
scelta dal pittore, con la scena del Compianto subito sotto la croce in primo piano, in
uno spazio deserto e arido, lontano dalle mura della città che si perdono in
lontananza, sembra voler richiamare alla mente dei condannati, che guardavano il
quadro prima di avviarsi alla morte in un luogo non dissimile da quello dipinto, il
supplizio subito da Gesù per trarne la speranza di pace eterna.
L’Angelico ha raffigurato la scena cogliendo l’attimo della deposizione del corpo di
Gesù a terra, circondato da un gruppo di persone inginocchiate piangenti. Fra i più
vicini a Lui si riconoscono Maria, Giovanni, Maria Maddalena e altre due pie donne.
Il corpo di Gesù è stato appena rimosso dalla croce, a cui è rimasta ancora appoggiata
una scala utilizzata per arrivare a Lui, ed è stato deposto a terra su un lenzuolo
bianco, con le spalle e la testa appoggiate sul grembo di Maria e le gambe sulle
ginocchia di un’altra pia donna. A ben osservare, tuttavia, l’azione non sembra ancora
completamente conclusa. Lo si avverte dal gesto di Giovanni che, sorreggendo con
due mani il braccio sinistro di Gesù, sembra concorrere dolcemente alla fase finale
della deposizione a terra del corpo di Cristo, insieme ad una pia donna intenta a
sorreggere il braccio destro, e a Maria Maddalena, che, tiene ancora sollevati i piedi
di Gesù, apprestandosi a baciarli. Sul lato sinistro, due uomini inginocchiati, uno dei
quali tiene in mano un barattolo con l’unguento, identificabili con Nicodemo e
Giuseppe d’Arimatea.
In secondo piano si trovano raffigurate altre figure muliebri, non tutte facilmente
identificabili. Due sante – una più anziana con manto azzurro su veste violacea, a
sinistra, e una giovane, sulla destra, con manto rosso e blu su veste scura – sono
sempre riconducibili al gruppo delle Pie Donne; un’altra, inginocchiata all’estrema
destra è facilmente identificabile dai suoi attributi – la corona regale, la palma del
martirio in mano e la ruota dentata – con Santa Caterina d’Alessandria regina e
martire, mentre restano ignote le due donne inginocchiate al centro, con la raggiera
che le identifica come Beate. La raggiera circonda la testa anche di un’altra figura
muliebre in abito monacale inginocchiata accanto a Santa Caterina. Si tratta della
beata Villana delle Botti, vissuta a Firenze nel Trecento, identificata, oltre che dal
nome dipinto in rosso sui raggi dorati anche dall’invocazione a Gesù - CHRISTO GESÙ
L’AMOR MIO CRUCIFISSO – che Le era propria. L’unica figura in piedi, che sulla
sinistra contempla la scena pregando, è san Domenico, identificabile dalla stella sulla
testa e dal giglio in mano, che potrebbe celare le sembianze del committente della
tavola. Il nome di quest’ultimo, fra’ Sebastiano di Iacopo Benintendi nipote della
beata Villana delle Botti, in onore della quale fu ordinato il quadro, ci è noto da fonti
documentarie che indicano anche nel 1436 l’inizio della realizzazione del dipinto per
l’altare dell’Oratorio della Compagnia di santa Maria della Croce al Tempio,
consacrato verosimilmente entro il 1440, presso il quale fra’ Sebastiano faceva
celebrare anche la festa di Santa Caterina, a cui era particolarmente devoto. Il dipinto
dovette, comunque, essere terminato più tardi, probabilmente nel 1441 o 1442, data
criptata nella decorazione del manto della Vergine Maria.
Una simile cronologia diluita nel tempo offre anche una giustificazione alle
rispondenze stilistiche individuabili sia in opere come la Deposizione di Santa
Trinita, situabili nella prima metà del quarto decennio, sia in altre, come il Polittico
Guidalotti di Perugia e gli affreschi di San Marco, databili verso la fine del decennio
e oltre. Si avvertono chiari sentori di appartenenza a quella mirabile fase dell’attività
dell’Angelico in cui la sua pittura, ben legata alla tradizione trecentesca e soprattutto
agli esiti più squisitamente pittorici del giottismo, ma ormai sicura interprete di
canoni spaziali, proporzionali ed espressivi di stampo rinascimentale, è capace di
rinnovarla utilizzando la luce come elemento caratterizzante che intride i colori,
modella i volumi, delinea gli ambienti, costruisce gli spazi, fa emergere sentimenti ed
emozioni. Qui la luce non contribuisce a sottolineare la drammaticità dell’evento
appena concluso, bensì a tratteggiare ogni figura nella sua dimensione tanto concreta
quanto spirituale e ad indagarne lo stato d’animo davanti al compimento della
Passione di Cristo. Il dramma umano della crocifissione e della morte ha trovato la
sublimazione nel raggiungimento del percorso della salvezza, espressa dal volto
diafano di Cristo ormai privo di sofferenza.
Magnolia Scudieri
Direttrice del Museo di San Marco, Firenze