America Dream, il nostro viaggio nel mondo di Bruce!

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THE FIREPLACES
AMERICAN DREAM
8 Gennaio 2017 Venezia, Aeroporto Marco Polo - ore 4.00: cinque loschi figuri carichi di
valigie e strumenti adeguatamente impachettati attendono di essere “scannerizzati” per poter
salire sul volo diretto a Londra e successivamente di imbarcarsi su quello che farà rotta verso
New York. La carovana Fireplaces è pronta a far battere forte i cuori americani per la seconda
volta, visto che già nel 2015 la musica dei Caminetti aveva
intriso l’aria statunitense.
Arrivati al ventoso aeroporto JFK si recuperano chitarre e
bagagli e si sfreccia verso una Brooklyn innevata dove si
alloggerà per i prossimi dieci giorni. Il mattino seguente,
assieme a loro, esploriamo le strade del quartiere in cerca di
un posto in cui sfamarci. La luce soffusa, quasi di matrice
divina, ci guida verso “Ma N Pop” che si rivela il locale
perfetto: neanche trenta metri quadri, suoni jazz e soul, in
sottofondo, tv con film d’epoca in bianco nero, pareti
tappezzate di simboli dell’orgoglio afroamericano, tovaglie a
quadretti e la Regina di Saba (che l’ultimo giorno
scopriremo chiamarsi Joy) che ti serve grits and grilled
cheese con una classe indescrivibile.
Nel terzo giorno di permanenza americana era previsto l’esordio musicale dei caminetti al
Light Of Day 2017 (Festival musicale che raccoglie in giro per il mondo fondi per la ricerca sul
Morbo di Parkinson e che ha base ad Asbury Park nel New Jersey) : doveva essere una
piacevole serata permeata da canzoni tradizionali italiane e americane nel Centro Culturale
“Casa Belvedere” a Staten Island, ma la data all’ultimo è saltata a causa di problemi non
dipendenti dai musicisti. Con enorme dispiacere ai “nostri” non sarebbe restato che attendere
un altro giorno per iniziare a spargere un po’ di musica di stampo Fireplaces…ma vi pare che
questi cinque italiani abbiano avuto la pazienza di aspettare fino al giorno dopo? Con le mani
che gli prudevano, non vedevano l’ora di
imbracciare le chitarre e seminare un po’ di Rock
‘n’ Roll: nel pomeriggio si è quindi fatta rotta verso
la stazione della metropolitana di Union Square.
Qui, l’attitudine verso la musica “di strada” è tutta
un'altra storia rispetto all’Italia: niente divieti
comunali o polizia che multa i musicisti; c'è solo il
semplice rispetto di regole non scritte dettate dal
buon senso. La gente in attesa della metro
apprezza il sound Fireplaces e lo dimostra
colmando di fogli verdi la custodia della chitarra.
Al di là di questo, fare musica in una stazione della subway è qualcosa di magico: sorrisi,
interesse e cortesia sono costantemente nell'aria, la gente dona qualche dollaro e supporta
realtà artistiche ogni giorno diverse. Un riuscitissimo medley “Gianna-Twist and Shout-La
Bamba” fa ballare i presenti e sorridere gli amici in patria. In serata un paio di caminetti, non
ancora stanchi, fanno due passi per Brooklyn dirigendosi al bar “Lunatico”, un locale gestito
da un’italiana che propone musica live ogni sera. Accomodati al bancone, chi si ritrovano
seduto di fianco? Niente meno che James Maddock, cantautore di origine inglese trasferitosi
nella Grande Mela qualche anno fa. Eh sì…a NY può succedere questo e altro!
Mercoledì inizia ufficialmente il Light Of Day Festival
2017: da Brooklyn si piglia la metro verso l’Uptown e ci si
dirige verso il Cutting Room. Per chi non sapesse che tipo
di locale è, gli basti sapere che su quel palco hanno
suonato gente come Norah Jones, Kid Rock, Pete Seeger,
Sting e David Bowie, tanto per buttare là qualche nome.
Alle 18.30 inizia lo spettacolo e fino a mezzanotte
inoltrata si alternano gruppi di una qualità
inimmaginabile. Il “big hearted” Joe D’Urso chiama sul
palco i cinque camini italiani per suonare tutti assieme
“Let it go” per il carissimo Mr. Lou, storico bassista degli
Stone Carvan scomparso nel luglio 2015. L’11 gennaio 2014 i Fireplaces erano in un pub
vicentino a suonicchiare per una manciata di avventori, ora, tre anni dopo in quello stesso
giorno calcano il palco di uno dei club più rinomati di New York a fianco di musicisti di calibro
internazionale. Con l’entusiasmo alle stelle e il sorriso da un orecchio all’altro, andiamo verso
la stazione della subway e lì incrociamo anche stasera James Maddock, pure lui in attesa della
metro. A New York incontri del genere sono all’ordine del giorno, tanto che durante il nostro
soggiorno nella Grande Mela ci siamo imbattuti in un attore di “The Wolf Of Wall” Street e
nell’agente Murphy della serie tv Narcos (Boyd Holbrook).
La musica crea legami speciali e a volte capita di vincere
il terno al lotto incrociando la strada di persone come
Lisa che, direttamente da Dallas, arriva ogni anno ad
Asbury Park per il Light Of Day. In nome di un’amicizia
nata durante la nostra precedente partecipazione al
festival, con immensa gioia scopriamo che Lisa il
venerdì sarebbe venuta fin sotto il nostro appartamento
a Brooklyn con un SUV permettendoci di arrivare con
armi e bagagli nel New Jersey. Caricati gli strumenti in
auto con una precisione da campionessa di tetris, Lisa ci
porta nella terra di Springsteen: un ringraziamento speciale a questa ragazza dal cuore d’oro
massiccio che ci ha accolto nella sua famiglia e ci ha scarrozzato per le strade americane. Così
la carovana, dopo due giorni dedicati al turismo e a fare musica nel sottosuolo di Manhattan,
baciata dal sole sfreccia verso il New Jersey: lo skyline di Manhattan saturo di grattacieli
sfuma alle nostre spalle e un paesaggio lunare s’impone sotto le consumate suole italiane.
Tappa a Long Branch per salutare un
paio di vecchi amici e poi la banda vira
dritta verso il boardwalk di Asbury
Park, che a distanza di due anni non è
cambiato di una virgola. Tempo di
scaricare gli zaini, accordare banjo e
chitarre ed è già ora di presentarsi sul
palchetto del Silverball Museum: un
localino che sembra venir fuori
direttamente dagli anni ’60 con Chuck
Berry che riempie l’etere assieme ai
suoni da cartone animato provenienti da decine di vecchi flipper e videogiochi da collezione
che, nonostante l’età, lavorano a pieno ritmo. Joe D’Urso & The Stone Caravan aprono la
serata con un potente set elettrico e poi lasciano spazio ai Caminetti rigorosamente acustici
che, assieme a qualche altro amico del Bel Paese, scaldano la serata con i classici come
“Jambalaya” e “Ring Of Fire”. La cortina immaginaria che divide pubblico e musicisti viene
abbattuta: la buona musica è come il tank più
potente che possiate immaginare che sfonda
qualsiasi barriera e mette in contatto due
eserciti festaioli e pacifici. Il risultato è una
festa in piena regola con trenini, brindisi e
risate sguaiate. Possiamo dire che nella
mappa del “Risiko del Folk ‘n’ Roll” i
Fireplaces hanno conquistato un’altra zona
strategica del panorama musicale mondiale.
Ma la serata non è ancora finita.
Ci spostiamo verso l’Asbury Park Hotel per prendere parte all’after party e giustamente non ci
si può esimere dal seminare anche qui un po’ di sano e sudato Rock ‘n’Roll. I presenti,
alquanto sonnolenti, al richiamo del fischietto nell’intro di “Midnight Special” si svegliano di
colpo e iniziano a seguire l’improvvisata marchin’ band nell’atrio dell’albergo. Scatenatissimi
Johnny Pisano e Matt Hogan, rispettivamente bassista e chitarrista della Willie Nile Band, che
apprezzano di cuore lo spettacolo imbastito
dalla ghenga italiana. Una scenetta speciale per
concludere la serata ci vuole sempre: i
Fireplaces circondano un sorridente Vini Lopez
(primo batterista di Springsteen), e gli cantano
di gusto “Goodnight Vini” (riadattamento di
“Goodnight Irene” di Lead Belly): “Mad Dog”
apprezza molto e ringrazia con un caloroso
abbraccio fraterno.
E’ arrivato sabato, il grande giorno, la serata finale del Light Of Day al Paramount Theatre. Il
boardwalk si copre di un leggero nevischio scivoloso, tira un vento freddo, ma il fuoco dei
Fireplaces non si spegne neanche in queste condizioni: alle 18 camicia bianca, bretelle e uno
sipario rosso alle spalle, tutto è pronto per dare inizio alla serata musicalmente perfetta. Il
pubblico inizia a fluire nelle poltroncine mentre i caminetti si danno da fare per segnare il goal
decisivo sopra un
palco difficile da
conquistare. Dopo
qualche brano
sotto i riflettori, si
scende per un
finale tra il
pubblico giusto
per scaldare la
sconfinata platea
del teatro che,
concitata, fa tanto
di cori e balletto su
“Stayin’Alive”.
Anche questa è
fatta! Nel
backstage cinque
italiani sorridenti
e increduli si
possono
finalmente
rilassare e godere
un meritato piatto
di tacos. La serata
continua e si tirano le 2 con Willie Nile, Jake Clemons, Joe Gruschecky che si alternano sul
palcoscenico fino ad un finale corale con tutti gli artisti sul palco a circondare il carissimo Bob
Benjamin per un augurio di cuore.
Domenica mattina ci si prepara per tornare verso Brooklyn, ma bisogna compiere il consueto
rito prima di lasciare Asbury Park: i musicisti veneti imbracciano gli strumenti e cantano
qualche traditional sotto un sole che, spandendo la sua luce, tenta di attutire il sentimento di
malinconia che irrora già gli animi nel dover lasciare una cittadina che a suo modo ha
trasmesso tanto. Siccome il sacco vuoto non sta
in piedi, prima di partire definitivamente verso
New York, si fa colazione al fido Frank’s Deli. E’
un tipico localino di provincia in cui la piastra
sfrigola a qualsiasi ora e ci sono sempre un paio
di scrambled eggs e mezzo litro di spremuta
fresca pronti a riempire gli stomaci degli
affamati. Ma il richiamo della musica è fetente,
non ti lascia in pace neanche a colazione:
custodie delle chitarre spalancate in mezzo al
corridoio del locale, cembali alla mano e
fischietti in bocca non ci si esenta
dall’improvvisare un’apprezzatissima “Under
The Boardwalk” e la classica “Ring Of Fire” per coinvolgere gli avventori armati di cellulare
per immortalare i cinque musici capitanati da Mr. Washboard. In tarda mattinata si piglia il
treno e si torna verso Brooklyn, tempo di rilassarsi un’oretta a casa e poi via di nuovo verso la
periferia cittadina per portare un po’ di musica al Freddy’s Bar: un classico pub newyorkese
popolato da americani con il birrone alla mano e gli orecchi tesi verso il palchetto in
penombra. Memorabile la versione intimista di “Il tempo di morire” per spargere un po’ di
sentimento italiano e concludere una giornata musicalmente densa.
La mattina seguente, ancora con l’adrenalina in
circolo, ci si fionda da Ma ‘n’ Pop Soul Food a far
colazione ma, ovviamente, con gli strumenti appresso:
un paio di canzoni giusto per ringraziare la carissima
Joy che ci ha sopportati, serviti e riveriti durante
queste nostre lunghe e trasognate mattinate. La
giornata trascorre in fretta tra un museo e una
passeggiata a Central Park, arriva sera e facciamo un
saltino al 55 Bar nel Greenwich Village per il concerto
di Tony Mason, Clark Gayton e Brian Mitchell: un
groove jazz che guarda al funk, vibrazioni super positive che ti fanno capire che di bellezza in
giro ce n'è tanta, basta solo trovarla e saperla ascoltare. Poi
capisci che questo quartiere è speciale perché nel bel mezzo
della serata entra nel localino il piccolo grande Willie Nile,
stavolta in veste di avventore. Si torna verso la base, ma le
sorprese non sono ancora finite. In metropolitana una ragazza
di colore allieta il viaggio dei pendolari notturni con una "A
change is gonna come" che ti fa sembrare, per quei pochi
minuti, di vivere dentro un’ideale palla di vetro dove la vita
scorre al rallenty, seducente e irreale allo stesso tempo. C'è
soul nell'aria, non solo in senso musicale: New York è una città
che vive col cuore in mano e regala ai turisti e agli stessi
abitanti situazioni emotive di un livello impressionante.
E’ il penultimo giorno in terra americana e le mete oggi è impegnativa da raggiungere:
Woodstock con i Levon Helm Studios e la The Big Pink. Noleggiamo un’auto, sfrecciamo verso
nord e tra una suonata di clacson e qualche dubbio sullo svincolo autostradale da imboccare,
arriviamo sani e salvi tra i boschi che circondano la modesta casetta rosa di Saugerties a cui si
ispirò The Band per il titolo del celebre album.
Giriamo i tacchi e partiamo verso i
Levon Helm Studios per registrare una
manciata di brani: è un edificio in legno
che emana storia da ogni asse, lo
spirito di Levon Helm veglia sugli umili
visitatori. Un posto magico, il sound si
espande nell'aria e un'ondata di
sensazioni diverse ti rimbalzano
addosso, è un misto di felicità,
incredulità, riverenza e soddisfazione.
Considerate anche che ad accoglierci,
oltre che un elegantissimo pianoforte a coda e un imponente Hammond B3, c’è niente meno
che la Gretsch rossa del buon Levon. Non vi sto neanche qui a descrivere lo stato di estasi che
ha pervaso Giovanni nel sedersi dietro a quella batteria e farla sua per due ore. The Fireplaces,
prima band italiana che prova e registra dei brani in presa diretta nei Levon Helm Studios:
un’esperienza estraniante e superlativa che si conclude con un rispettoso silenzio degno
dell’aura di sacralità che emana questo magico edificio immerso nella natura. La soggezione
che infonde un posto del genere è un
macigno che pesa sul groppone della
band, cavare dalle chitarre degli accordi
degni di poter risuonare lì dentro è un
compito non da poco. Ma alla fine ciò
che conta è suonare la propria musica:
come scriveva Maxence Fermine, “non si
tratta di tecnica, né di ispirazione, né di
genio. E’ soltanto emozione”. E
credetemi che di emozione, lì dentro, se
ne respirava a palate.
Sotto una pioggia liberatoria torniamo verso Brooklyn silenziosi e increduli, tentando di
digerire la botta emotiva della giornata. “It's time to move on, time to get going..” Tom Petty ci
ricorda che è tempo di muoversi, di prendere un aereo e tornare in patria alla solita
quotidianità. Dylan ci dice di aver cura dei nostri ricordi perché non possiamo viverli di
nuovo, ma i cinque Caminetti questa esperienza ce l’hanno marchiata nel cuore e la
ricorderanno per molto tempo, questo è poco ma sicuro.
-Sara Bao-
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