LUIGI CAMPAGNER, PSICOANLISTA SAP S. FREUD CENTRI

LUIGI CAMPAGNER, PSICOANLISTA SAP S. FREUD
CENTRI ARTEMISIA – KIRIKÙ -SNODI
Ilsussidiario.net 22 aprile 2015
L’islam moderato e le sviste di Kareem Abdul Jabbar
Dopo l’attentato parigino a “Charlie”, le uccisioni di Copenaghen e l’attentato di Tunisi, c’è
chi guarda ai convertiti americani degli anni 70’ per ottenere autorevoli rassicurazioni che
Islam e terrorismo non siano la stessa cosa.
“L’Islam non c’entra nulla”. “Aspetto il giorno in cui questi atti organizzati da musulmani
autoproclamati saranno visti come attacchi politici”. Ferdinand Lewis Alcindor Jr. scende in
campo dalle pagine del Time a favore dell’Islam, la religione che ha abbracciato nel 1964,
a diciassette anni, dopo la lettura dell’autobiografia di Malcom X, cambiando il suo nome in
Kareem Abdul Jabbar, una delle stelle fisse del basket NBA. Campione di stile e di
tecnica, e insuperato recordman di realizzazioni Kareem, come lo chiamano i suoi fan in
tutto il mondo, è l’emblema, oppure il miraggio, a seconda dei punti di vista, di un Islam
moderato, di cui i più non sanno dire se sia una chimera o trovi una sua “incarnazione” da
qualche parte nel mondo.
Kareem chiama palla. Ci mette la faccia: “non importa la religione, alle persone interessa
avere una vita tranquilla e vivere in una comunità armoniosa e ciò si fa promuovendo
l’amicizia, a prescindere dalla fede. Questo mi ha insegnato l’Islam.” Negli ultimi mesi
Kareem, oggi columnist del Time, ha lanciato rassicuranti dichiarazioni ai media quasi
fossero sky hook, il marchio di fabbrica del suo immarcabile tiro spalle a canestro. Ma
questa volta i lanci non muovono le statistiche, vanno a vuoto, non arrivano al ferro. Alla
base delle argomentazioni di Malcom X, profeta a stelle e strisce delle conversioni
Islamiche anni 70’ targate USA, sta la volontà di distinzione e di radicalizzazione dalla
protesta di Martin Luter King, considerato alla stregua di uno “nero da cortile”. Una sorta di
“zio Tom” sempre fedele al padrone, contrapposto ai neri da piantagione che Malcom X
considera (loro e i loro discendenti) come preziosa terra di coltura per la “lotta di classe”.
Una dottrina che, come è noto, non è un frutto dell’albero di Maometto.
La calma olimpiaca di Kareem Abdul Jabbar, la stessa che aveva in campo al cospetto di
qualsiasi avversario, poggia sulla sua personale, pacifica, elaborazione del Corano (letto
in inglese), e sul fatto che il suo maestro Malcom, pur disprezzando come ”roba da
schiavi” la dottrina della non violenza, non approda mai al terrorismo. Ma l’islam
protestatario di Malcom X non avrebbe mai visto la luce nel regno sunnita dei Saud o
nell’Iran sciita degli ayatollah, né nell’Afghanistan dei mujaheddin prima e dei talebani poi,
né in Pakistan, né in Malesia né in qualsiasi altro stato islamico. Perché l’Islam a stelle e
strisce è un fenomeno occidentale, nasce geneticamente modificato inglobando, al suo
interno tutte le principali conquiste dell’occidente: da quel “date a Cesare quel che è di
Cesare”, lievito di ogni pensiero laico a venire, ai diritti di uomini e donne, al suffragio
universale, alla divisione dei poteri dello stato. Per dirla in sintesi ingloba l’intera filosofia
politica della modernità. In questo sta la debolezza dell’analisi del grande cestista.
D’altro e di opposto avviso è invece Irshad Manji la brillante giornalista (femminista e
dichiaratamente omosessuale) di fede Islamica, nata in Nigeria nel 1968, e cresciuta in
Canada, a Toronto, dov’è diventata una polemista di primissimo ordine. “Noi musulmani
siamo in crisi e in questa crisi ci stiamo tirando dietro il resto del mondo”. “Nel corso della
mia vita ho visto il numero delle vittime dei terroristi passare da poche unità a centinaia,
migliaia, potenzialmente centinaia di migliaia“. “Se la mia analisi è giusta, sapete
spiegarmi perché nessuna altra religione al mondo sta producendo, nel nome di Dio, tanti
travisamenti terroristici e tante violazioni dei diritti dell’uomo? E riuscite a farlo senza
puntare il dito contro tutti, tranne i mussulmani?”
Il suo libro Quando abbiamo smesso di pensare. Un’islamica di fronte ai problemi
dell’Islam (Edizioni Guanda) è diventato un best seller internazionale. In Italia è stato
recensito, tra gli altri, da Elena Lowenthal, la principale traduttrice del maggiori scrittorie
ebrei, odierni e non, che lo descrive come un opera critica “radicata nell’attualità, che non
disdegna le digressioni storiche”. Quello di Irshad Manji è un contributo importante in un
tempo in cui andare oltre alla satira, alla boutade, alla vignetta sferzante, al vaffa!
liberatorio, è diventato vitale. Il suo libro è incalzante, un torrente di fuoco appassionato,
“volutamente enfatico”, ma allo stesso tempo lucido, contro i pregiudizi di cui è
“impregnata la psiche della massa islamica”. Alla comunità islamica, nella quale è
cresciuta, ancora la lega un sottile quanto tenace senso di appartenenza. “È con tenacia di
credente che Irshad Manji invoca il principio di una riforma dell’Islam”, per questo, come
ancora sottolinea Lowenthal, la sua critica trasuda di dolore e ciò non di meno è senza
sconti: dalla matrice imperialista dell’Islam storico, alla subordinazione delle razze a quella
araba, al ripudio dell’Ithiad (l’approccio razionale alla fede, esauritosi già nell’XII sec.), al
medievalismo dei Sauditi, al vittimismo dei palestinesi, al ruolo delle madrasse,
all’intolleranza verso le altre religioni, al divieto di lettura del Corano in una lingua diversa
dell’arabo, che Irshad ricorda come la sua prima disubbidienza.
In America l’era di Malcom X è finita. Nello sconfinato “mondo islamico” non è mai iniziata.
Qualcuno mandi un Tweet a Kareem.