stato e scienza Testi e saggi di Dottrina dello Stato e Diritto pubblico raccolti da Giuliana Stella 3 La collana “Stato e scienza” si propone come un progetto editoriale che intende raccogliere saggi e materiali finalizzati a un approfondimento teorico e storico delle problematiche classiche attinenti la dottrina generale dello Stato, all’incrocio tra diritto costituzionale e filosofia politico–giuridica. Il programma consiste nell’evidenziare come il tema dello Stato rappresenti un patrimonio di concetti e categorie, non soltanto storicamente identificativo dello jus publicum europaeum, ma utile ancora al fine della comprensione dei fenomeni politico–sociali più recenti e discussi, dalla “globalizzazione” agli ordinamenti sovranazionali. Comitato scientifico Agostino Carrino Università Federico II di Napoli Giuliana Stella Università Federico II di Napoli Francesco Saverio Trincia Università “Sapienza” di Roma Günther Winkler Università di Vienna Federico Lijoi La positività del diritto Saggio su Hans Kelsen Copyright © MMXI ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 isbn 978-88-548-4453-7 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: dicembre 2011 Indice 9Introduzione 29Avvertenza e ringraziamenti 31 Capitolo I Norma giuridica e legge naturale nei Hauptprobleme der Staatsrechtslehre 1.1. I Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico (1911–1923) – 1.2. Il Wollen come Spezialfall del Sollen – 1.3. La Trennung del Sollen: l’autonomia della morale e l’eteronomia del diritto – 1.4. «Sollen impliziert Können». Osservazioni critiche sulla Trennungsthesis – 1.5. L’esigenza di uno schematismo: la ragion pratica come «Kausalität aus Freiheit» – 1.6. Diritto consuetudinario, morale sociale, legislazione volontaria – 1.7. Conclusione 97 Capitolo II Verfassung e Konstitution: obbedienza e sanzione nella Reine Rechtslehre (1934) 2.1. La prima edizione della Reine Rechtslehre (1934) – 2.2. Società, natura, morale – 2.3. Il dover essere tra categoria trascendentale e idea trascendente – 2.4. Grundnorm e Urverfassung: il punto di partenza della costruzione giuridica – 2.5. Validità, efficacia, effettività, efficienza – 2.6. Conclusione 155 Capitolo III L’eccezione non eccezionale: sulla «differenza non indifferente» di diritto e morale 3.1. Scopo del diritto e coercizione. Teoria generale del diritto e dello Stato (1945) – 3.2. Coazione interna e coazione esterna – 3.3. Obbligo morale e obbligo giuridico – 3.4. Una metafora del «punto di passaggio»: Karl Olivecrona e la corrente del fiume – 3.5. La ragion pratica come fondamento dell’analogia contrastiva: legge naturale, diritto naturale e norma giuridica – 3.6. Validità ed efficacia: identità, sovrapposizione, eccezione – 3.7. La teoria del riconoscimento. Difficoltà e contraddizioni – 3.8. Conclusione 7 8 Indice 255Capitolo IV Diritto naturale e diritto positivo: dalla differenza assoluta alla differenza relativa 4.1. La seconda edizione della Reine Rechtslehre (1960) – 4.2. La Übergangsstel­ le: dal senso soggettivo al senso oggettivo – 4.3. Il circolo virtuoso: efficacia e validità nella statica del diritto – 4.4. Conditio per quam e conditio sine qua non: il sillogismo normativo nella dinamica del diritto – 4.4.1. Il sillogismo della posizione – 4.4.2. Il sillogismo dell’obbedienza – 4.4.3. Discussione – 4.5. Sollen e Rechtspflicht. Kelsen contro Alf Ross – 4.6. Libertà infinita e libertà finita. Sulla revocabilità della Verbindlichkeit giuridica – 4.7. Libertà e necessità. Analisi del §23 della Reine Rechtslehre (1960) – 4.8. Diritto positivo e diritto naturale. Differenza relativa e “Lücken” im Recht 371 Conclusione 375 Bibliografia Introduzione È certo in sé errato contrapporre l’uno all’altro essere e dovere come due diverse “sfere” o “piani”. Ancor meno si può sollevare la questione se l’oggetto di questa o quella scienza sia da collocare in una o nell’altra di queste sfere. Infatti non si può pensare alcun oggetto di una scienza che non abbia un qualche essere. Ciò che non è qualcosa, è certo nulla e perciò accanto alla sfera dell’essere non vi può essere nessuna altra sfera, nemmeno la sfera del dovere. […] Piuttosto vanno determinati all’interno dell’unica sfera dell’essere distinti modi di essere1. Kelsen ha il merito di aver trattato già nel 1920, con il suo particolare accento, della parentela logica di teologia e giurisprudenza. […] [A]lla base della sua identificazione, propria della concezione dello Stato di diritto, fra Stato e ordinamento giuridico, sta una metafisica che identifica legge di natura e legge normativa. Essa deriva da un’impostazione esclusivamente propria delle scienze naturali, riposa sul ripudio di ogni “arbitrio” e cerca di eliminare ogni eccezione dall’ambito dello spirito umano2. Da questi due passi trae ispirazione la nostra ricerca. Dal primo coglie la necessità di mettere in discussione il senso della strikte Tren­ nung tra Sein e Sollen proposta da Kelsen come caratteristica irrinunciabile della sua concezione metodologica; dal secondo, lo spunto per individuare ragioni e conseguenze di tale insuperabile distinzione, riportandola ad una irriflessa identificazione di legge normativa e legge naturale. 1. A. Hold–Ferneck, Lo Stato come superuomo. Con una discussione della dottrina del diritto di Kelsen, in Lo Stato come superuomo. Un dibattito a Vienna, Torino 2002, pp. 30–31. 2. C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla storia della sovranità, in Le cate­ gorie del politico, Bologna 2003, pp. 64–65. 9 10 La positività del diritto. Saggio su Hans Kelsen Il suo obiettivo è critico e, insieme, storico–ricostruttivo. Una simile convergenza è possibile, perché una critica della teoria del diritto kelseniana è opportuna solamente qualora rinvenga, nei passi concettuali in cui Kelsen inavvertitamente critica se stesso, l’indizio di una rotta di pensiero divergente e complementare. Procedere ad una disamina analitica della sua filosofia del diritto equivale, dunque, a ricostruirne l’evoluzione, mettendo il giurista viennese di fronte a se stesso. Com’è noto, l’ambizione più impegnativa del positivismo kelseniano è stata quella di affrancare la Rechtswissenschaft dal riferimento — più o meno strumentale ed ideologico — ad un sistema giuridico particolare e determinato (non per forza storicamente esistito), ovvero quella di liberare la forma del diritto dai valori che essa, quale mero veicolo, può contenere e portare ad espressione. Tale ambizione può ritenersi la conseguenza più importante del suo relativismo. Ciò naturalmente ha sortito un duplice effetto, prima sulla scienza giuridica, poi sulla concezione del diritto stesso. La prima si è resa autonoma dalle altre scienze, aspirando alla consistenza formale di una disciplina naturale, more geometrico demon­ strata; il secondo, colto unicamente a partire dalla sua Grundform (trascendentale e non meramente astratta), ha acquisito, rispetto al diritto positivo particolare, quasi una esistenza propria, altrettanto concreta e vitale di quella del suo sostrato fattuale. In qualche modo, si potrebbe dire, il diritto razionale che sorge dalla scienza giuridica sta di fronte al diritto storicamente vigente proprio come il diritto naturale, nel corso di una lunga tradizione, si è trovato dinanzi al diritto positivo. Il paragone cui ci conduce il presupposto del relativismo kelseniano, quello appunto tra diritto razionale e diritto naturale, è una «mezza verità» molto significativa. È falso, in effetti, che il diritto razionale che Kelsen ricava analiticamente mediante la scienza giuridica sia naturale, poiché non si pone affatto come criterio di valutazione del diritto vigente. Esso, proprio in quanto diritto formale, è diritto positivo, e non naturale. D’altra parte, però, è da Kelsen sostenuto con chiarezza — a partire dal 1920 — che la forma può essere, proprio dal contenuto, «tesa fino al limite estremo della ricet- Introduzione11 tività»: «Qui il contenuto minaccia già di far saltare la forma»3. E con quest’affermazione, se non una differenza tra diritto giusto e diritto ingiusto (compito che all’analisi positiva non deve competere), Kelsen ha almeno posto un «grado» nella razionalità del diritto, ovvero una dipendenza tra forma e contenuto, e quindi una connessione tra scienza (ragione) e morale (volontà). Sulla suddetta analogia tra forma e scienza, morale e contenuto, è necessario soffermarsi brevemente4. Non bisogna incorrere nell’errore di credere che in Kelsen il diritto positivo — che ha pure un «contenuto», in quanto è storicamente determinato — finisca per «vaporizzarsi» nella logica della scienza giuridica, e che, quindi, come anche è stato detto, sia solamente «diritto della scienza giuridica» quello di cui Kelsen ragiona, e non diritto positivo. Se, infatti, nell’analisi del diritto kelseniana è osservabile una preminenza della forma sul contenuto, ciò non è affatto attribuibile alla circostanza per cui il diritto positivo verrebbe dalla scienza giuridica ingiustamente «svuotato» del suo Inhalt, bensì al fatto che il diritto positivo, nella sua essenza (e dunque correttamente compreso), per Kelsen non è altro che forma, ovvero un complesso di giudizi logici qualificativi. In tal senso, come già si accennava sopra, solamente il diritto razionale, in quanto formale, è autenticamente positivo. Il diritto naturale ne costituisce invece il «contenuto di valore», oltre a rappresentare, qualora lo si sostituisca al diritto razionale in sede di anali 3.H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto (1920), Milano 1989, p. 450. 4.In diverse occasioni Kelsen nota l’influenza che una concezione scientifica del diritto sortisce dal punto di vista pratico. Per esempio, nel breve saggio del 1929 su Justiz und Verwaltung, Kelsen rilevava come «un’errata teoria dell’essenza dello Stato e delle sue funzioni» possa condurre a «importanti conseguenze pratiche», e sottolineava, di seguito, «quale significato eminentemente pratico [possa] avere una dottrina depurata» (Giurisdi­ zione e amministrazione (1929), in Il primato del parlamento, Milano, 1982, p. 140). In Una nuova scienza politica, Torino 2010, a proposito della scienza politica, Kelsen ammette che «l’interpretazione della realtà sociale da parte della scienza politica dovrebbe essere, e può essere, oggettiva, mentre l’autointerpretazione della società, sebbene anch’essa pretenda di esserlo, è necessariamente più o meno soggettiva, ovvero determinata dagli interessi sociali del soggetto interpretante. Questa differenza, per essere precisi, è solamente relativa. Non vi è altra scienza in cui la realizzazione del requisito dell’oggettività sia così difficile come nella scienza politica» (p. 34). 12 La positività del diritto. Saggio su Hans Kelsen si scientifica, un cattivo esempio di sincretismo metodologico, che dogmaticamente vincola la forma del diritto (il diritto positivo) ad un valore determinato (il diritto naturale, appunto). Abbiamo poco sopra affermato che tra forma e contenuto, diritto positivo e diritto naturale, si stabilisce una connessione tale per cui il secondo è in grado di deformare la prima. La sensibilità della forma al contenuto è un punto estremamente rilevante. L’idea che vi sia un particolare valore — ovvero una determinata Rechtspolitik — che sia più razionale di altri, innanzitutto perché più elastico, e quindi, potremmo dire, più «omologo», alla forma che lo riceve, ci fornisce un criterio decisivo per comprendere in che senso l’anima formale del positivismo kelseniano abbia a fondamento una concezione relativistica dei valori. L’indipendenza della forma dal contenuto propugnata dalla scienza giuridica si precisa nei termini di una uguale dignità di tutti i valori (la neutralità scientifica si trasforma nel postulato della libertà politica), per cui infrangere un tale formalismo per Kelsen non significa privilegiare uno solo di questi valori sugli altri, bensì non riconoscere uguale dignità degli altri all’ultimo di essi. L’uguaglianza dei valori che consegue dal relativismo kelseniano costituisce, dunque, precisamente il limite — ovvero, il grado — della neutralità della forma. Dal punto di vista politico, il diritto razionale di Kelsen si dispiega in due importanti corollari5: il primo consiste nell’idea che sta a fondamento del principio di legalità e dello Stato di diritto, secondo cui l’atto di volontà dello Stato, ovvero il suo potere esecutivo, debba figurare necessariamente come contenuto di una norma, ovvero del potere legislativo. Il secondo, al primo strettamente connesso, riguarda il carattere sociale e, in particolare, parlamentare (quest’ultimo ritenuto organo della società6, non dello Stato) della 5.Sul punto, si veda, diffusamente, G. Bongiovanni, Reine Rechtslehre e dottrina giuridica dello Stato. H. Kelsen e la costituzione austriaca del 1920, Milano 1998, pp. 3–120. 6. L’idea del parlamento come “organo della società” fu fatta valere da Kelsen, in un’accezione segnatamente democratica, contro il liberalismo anti–democratico di Jellinek, il quale, in Gesetz und Verordnung (1887), nel System der öffentlichen subjektiven Rechte (1892) e nella Allgemeine Staatslehre (1900), proponeva, coerentemente con la sua radicata diffidenza nei confronti dell’organo legislativo, che il parlamento venisse fortemente su- Introduzione13 produzione giuridica. Il parlamento, come apparirà più chiaramente negli scritti kelseniani sulla democrazia, diviene la possibilità di una libera espressione e competizione delle concezioni sostantive, dunque morali, operanti nella società e indirettamente rappresentate dai partiti politici. Nei Problemi fondamentali, scritti alla vigilia del tramonto dell’impero asburgico, la subordinazione della volontà dello Stato alla legge, corroborata da una concezione democratica della legislazione, aveva lo scopo preciso di limitare l’arbitrio del potere pubblico sia nelle teorie che esplicitamente lo formulavano, come quella di Otto Mayer7, sia nella pratica di governo imperiale, come nel caso dell’abuso del Notverordnungsrecht8 (§13 Februarpatent, 1861; §14 Dezember­ verfassung, 1867). La giuridificazione dei rapporti fattuali occorrenti tra le nazioni dell’impero aveva un duplice scopo: da un lato, quello di regolamentare la forza dello Stato, facendone l’oggetto di un giudizio logico che la ponesse come conseguenza di una condizione, e dunque “addomesticandone” l’intervento a partire dal verificarsi dell’evento collegato; dall’altro, quello di impedire che la volontà del soggetto politicamente più forte, proprio come nella Ständever­ fassung, potesse prevalere senza appello sulla più fiacca potenza degli altri gruppi. Insomma, l’uguaglianza giuridica provvista dal grado bordinato al governo. Quando poi, innanzitutto nella prima edizione di Essenza e valore della democrazia (1920), Kelsen definirà il parlamento “organo dello Stato”, lo farà per due motivi: da un lato, per prendere posizione, nel dibattito sul conflitto tra Bund e Länder all’interno della neonata repubblica austriaca, a favore della centralità e unità dello Stato dinanzi alle spinte centrifughe dei Länder (così Kelsen aveva in effetti inteso il ruolo della Corte Costituzionale); dall’altro, per ribadire il carattere costituzional–liberale, dunque sostanziale, della sua concezione della democrazia, secondo cui il valore della libertà individuale non può essere conculcato da nessuna maggioranza, per quanto ampia possa rivelarsi. Sul punto, si veda S. Lagi, Il pensiero politico di Hans Kelsen (1911–1920). Le origini di Essenza e valore della democrazia, Genova 2007, p. 78 sgg. e p. 208 sgg. 7.Sul punto, si veda H. Kelsen, Zur Lehre vom öffentlichen Rechtsgeschäft, in “Aör”, Band 31, 1913, pp. 53–98, 190–249; per un utile inquadramento della questione, M. Fioravanti, Kelsen, Schmitt e la tradizione giuridica dell’Ottocento, in Id., La scienza del diritto pub­ blico, Milano 2001, tomo II, pp. 605–656. 8.Sul punto, per un preciso inquadramento storico, si veda il volume di G.D. Hasiba, Das Notverordnungsrecht in Österreich (1848–1917). Notwendigkeit und Mißbrauch eines “Staats–erhaltenden Instrumentes”, Wien 1985. 14 La positività del diritto. Saggio su Hans Kelsen più razionale della forma del diritto aveva come principale proposito la realizzazione dell’uguaglianza politica9. Nei Hauptprobleme, dunque, al relativismo corrisponde l’indipen­ denza della forma, ovvero della validità giuridica, dal contenuto, vale a dire dall’efficacia di un determinato complesso di norme. Il rifiuto kelseniano della teoria del riconoscimento come fondamento della validità giuridica10 declina l’effetto del diritto sulla morale nei termini di un’indipendenza del dovere dall’essere. Ma ciò significa che la dipendenza del contenuto dalla forma, o viceversa la sensibilità della forma al contenuto di cui dicevamo sopra, si esprime precisamente — senza che ciò suoni paradossale — in tale indipendenza dell’ordinamento giuridico dal riconoscimento attribuitogli dai suoi destinatari. E se qui l’indipendenza del diritto dalla morale — vale a dire, da un tipo esclusivo di concezione morale – che connota il relativismo positivo ha luogo solamente nel contesto della strutturale dipenden­ 9.Il carattere giuridico dell’unione sovranazionale, oltre a fondarsi sulla critica scientifica alla finzione di un qualche nesso reale fra gli uomini che compongono lo Stato, rappresentava per Kelsen una risposta al problema specificamente austriaco della convivenza fra gruppi differenti: «Al cospetto dello Stato austriaco, che si componeva di così tanti gruppi differenti per razza, lingue, religione e storia, quelle teorie che cercavano di fondare l’unità dello Stato su un qualche nesso social–psicologico o social–biologico degli uomini che giuridicamente appartenevano allo Stato, si dimostravano del tutto chiaramente come finzioni. Nella misura in cui [la teoria giuridica dell’unità dello Stato] è una parte essenziale della dottrina pura del diritto, la dottrina pura del diritto può essere considerata come una teoria specificamente austriaca» (R.A. Métall, Hans Kelsen. Leben und Werk, Wien 1969, p. 42). Sul punto ha richiamato esplicitamente l’attenzione A. Carrino, Kelsen e il problema della scienza giuridica (1910–1935), Napoli 1987, p. 35. 10. La critica di Kelsen alla teoria del riconoscimento, quale corollario dell’imperativismo, non è affatto diversa da quella che Hegel propone contro il contrattualismo: «Però giacché egli (scilic.) Rousseau prese la volontà soltanto nella forma determinata della volontà singola […] e la volontà universale non come il razionale in sé e per sé della volontà, sibbene soltanto come ciò che è comune, che verrebbe fuori da questa volontà singola come da volontà cosciente; il risultato è che l’unione degli individui nello Stato diviene un contratto, il quale ha quindi per base il loro arbitrio, la loro opinione e il loro espresso consenso, dato a piacimento, e seguono le ulteriori conseguenze meramente intellettualistiche, distruggenti il divino essente in sé e per sé e l’assoluta autorità e maestà di esso. […] Contro il principio della volontà singola occorre rammentarsi del concetto fondamentale che la volontà oggettiva è il razionale in sé nel suo concetto, venga esso conosciuto dai singoli e voluto dal loro libito oppure no» (Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio (1821), Roma–Bari 2005, pp. 196–197). Introduzione15 za fra i due, ciò accade innanzitutto perché, accanto all’esigenza dell’autorità del diritto sulle ragioni soggettive dei consociati, Kelsen non può dimenticare il nesso rappresentativo che lega la società allo Stato e che fa dello Stato la forma della società11. Così, si può affermare che ciò che il postulato politico neoliberale12 assunto da Kelsen realizza da un lato, innalzando la norma sul fatto, disfa dall’altro, costruendo un «luogo di passaggio [nel quale] gli elementi amorfi della società trapassano nelle forme fisse dello Stato e del diritto»13. Dal punto di vista della teoria del diritto non è affatto strano che anche per Kelsen tutto ciò rappresenti un mistero, anzi «il grande mistero del diritto e dello Stato». La motivazione politica che ha promosso e guidato le indagini kelseniane, tuttavia, rende altrettanto evidente che, tra i due estremi del «grande mistero», per ora, sia l’aspetto dell’indipendenza a prevalere e che, dunque, la morale, quale comportamento meramente qualificato, rientri nella natura, mentre il solo diritto, in quanto norma, occupi l’ambito separato del dovere. Il progressivo approfondimento teorico, però, e in particolare il passaggio dal metodo statico–formale a quello dinamico, ha indotto più chiaramente Kelsen a scoprire il lato della dipendenza, conducendolo sia ad una ridiscussione della problematica collocazione della morale nell’ambito della natura, sia a far emergere i rischi che la sola forma istituzionale all’interno della quale il relativismo positivo risulta possibile, vale a dire, quella della democrazia parlamentare, comporta. 11. H. Kelsen, Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico esposti a partire dalla dottrina della proposizione giuridica, Napoli 1997, p. 460. 12.Così scriveva Kelsen nella prefazione alla prima edizione dei Problemi fondamen­ tali, cit.: «Poiché in ciò i miei risultati si toccano con parecchi risultati della più antica teoria liberale dello Stato, non potrei in alcun modo oppormi se si dovesse vedere nel mio lavoro un sintomo di quel neoliberalismo che nei tempi più recenti sembra prepararsi dappertutto» (p. 12). Sul significato del “neoliberalismo”, si veda chiaramente C. Mortati, Le forme di governo. Lezioni, Padova 1973, p. 47. 13. Ibidem. Una prova dell’ambiguità appena rilevata è rintracciabile anche nel modo in cui Kelsen formula il rapporto tra Stato e diritto, da un lato affermando che lo Stato costituisce il contenuto del diritto, dall’altro asserendo che lo Stato non è altro che l’ordinamento giuridico (Problemi fondamentali, cit., p. 712 sgg.). Siffatta ambiguità è ben rilevata da F. Sander, Staat und Recht. Prolegomena zu einer Theorie der Rechtserfahrung, Wien 1922, p. 1146. 16 La positività del diritto. Saggio su Hans Kelsen L’individuazione della dipendenza — e, dunque, della differenza — tra diritto e morale quale fondamento della loro indipendenza, ovvero la possibilità che la morale, in quanto idea (diritto naturale) del diritto positivo, sia criticamente in grado di produrre effetti sulla sussistenza dell’ordinamento giuridico (siano essi di conservazione o di rivoluzione), si esemplifica nella figura dialettica che abbiamo definito differenza non indifferente: il diritto naturale viene in possesso dell’autonomia critica capace di sortire effetti sul diritto positivo in virtù di una differenza che attiva il rapporto fra i due e che, dunque, rimuove il diffuso fraintendimento che di tale indipendenza ha fatto una mera indifferenza. L’indipendenza, infatti, è qui precisamente la negazione dell’identità tra diritto e morale, ovvero della esclusiva assegnazione al diritto di una concezione sostantiva particolare14. Nelle analisi che seguono, allora, il tentativo intrapreso è quello di mostrare come il passaggio della morale dall’ambito naturale a quello normativo (sebbene non positivo) abbia condotto Kelsen all’ammissione — in precedenza categoricamente esclusa — di una differenza relativa, e non più assoluta, tra diritto naturale e diritto positivo. Tale emergere dell’aspetto della dipendenza tra diritto e morale, quale fondamento della loro indipendenza e autonomia, in particolare, porta con sé la comparsa di una concezione dell’ordinamento giuridico ispirata alla contingenza e alla revocabilità (quale esito del nesso rappresentativo). Si tratta di una rilevante conseguenza della trasformazione della posizione della morale: l’indifferenza dell’ordinamento giuridico alle ragioni soggettive dei consociati, in cui l’autorità del diritto era chiamata a consistere nella complessa situazione sociale dell’impero asburgico nel primo decennio del Novecento, prende le forme, in particolare dopo il drammatico passaggio della catastrofe hitleriana, di un relativismo positivo realisticamente 14.H. Kelsen, Una nuova scienza politica, cit.: «Se lo studente si accorge che nella scelta di un valore politico, nella decisione di sostenere un sistema socialista o capitalista, democratico o autocratico, non può fare affidamento sull’autorità della scienza, poiché la scienza non detiene tale autorità e quindi non può restringere la libertà della sua scelta, capirà allora che dovrà assumersi la responsabilità della propria scelta; conseguenza profon­ damente morale di una scienza libera da valori» (p. 21, c.vo mio). L’argomentazione decisiva, al proposito, viene fornita da Kelsen ne La dottrina pura del diritto (1960), Torino 1966, p. 82. Introduzione17 esposto alla fragilità delle proprie concessioni. Infatti, nella misura in cui l’autonomia della morale dal diritto prevede la libera espressione e il libero confronto parlamentare delle ragioni soggettive dei singoli, necessariamente convogliate nei corpi intermedi dei partiti, non può evitarsi che tale assetto costituzionale, proprio di seguito alla sua professione di relativismo e, dunque, «con i suoi principi di legalità e di tolleranza, con la libertà di opinione e la tutela delle minoranze»15 allevi addirittura gli avversari. La revocabilità dell’ordinamento giuridico, pertanto, in particolare di quella forma scientifica del diritto che consente l’indipendenza dell’ordinamento giuridico da un contenuto morale esclusivo e, quindi, rende possibile la mediazione compromissoria dei valori nella sede istituzionale del parlamento, rappresenta il costo del relativismo positivo, ovvero la dipendenza tra diritto e morale su cui, nel contempo, la loro indipendenza trova il proprio fondamento. La dipendenza, insomma, esprime nello stesso tempo il plusvalore — l’indipendenza — e il costo — la revocabilità — della democrazia costituzionale quale forma istituzionale del relativismo positivo. Rispetto alla forma autocratica, infatti, la democrazia costituzionale possiede «il privilegio paradossale di potersi eliminare con i metodi di formazione della volontà che le sono peculiari, di potersi quindi eliminare legalmente da sola»16. In tal senso, l’autonomia della morale, colta nel contesto del relativismo positivo e concretizzata nelle istituzioni liberal–democratiche, propone in un modo del tutto peculiare la propria specificità: se, infatti, è vero che l’indipendenza del diritto dalla morale colloca proprio nella convinzione del carattere relativo di tutte le convinzioni l’antidoto al veleno che inietta nel suo organismo politico, risulta altrettanto conseguente che la difesa di tale autonomia, e dunque la sussistenza di un ordinamento giuridico che assicuri l’uguaglianza delle libertà, non possa affatto essere condotta coercitivamente17. Così il carattere assoluto del relativismo demo15. H. Kelsen, Forme di governo e concezioni del mondo, in Il primato del parlamento, Milano 1982, p. 52. 16. Ibidem. 17.Nella discussione della Juristische Prinzipienlehre di Bierling, questa circostanza emerge con chiarezza: «[N]on v’è dubbio – scrive Kelsen – che non si può costringere ad 18 La positività del diritto. Saggio su Hans Kelsen cratico, che spesso è stato rimproverato a Kelsen come un’insanabile contraddizione all’interno della professata indipendenza della scienza giuridica dai valori18, si svela coerentemente differente, nella sua disarmata incapacità di difendersi dai suoi avversari, dall’assolutismo che innerva la forma di governo autocratica. Nel 1932, alla vigilia della catastrofe hitleriana, infatti, nient’altro che di «fedeltà alla propria bandiera» potrà parlare Kelsen quale disperata Verteitigung der Demokratie: Ma in rapporto a questa situazione ci si chiede anche se perciò non si debba smetterla di difendere la democrazia con le teorie, se la democrazia non debba essere difesa contro il popolo che non la vuole più, contro una maggioranza unanime solo nella volontà di distruzione della democrazia. Porre questi interrogativi significa già negarli. Una democrazia che cerchi di affermarsi contro la volontà della maggioranza, di affermarsi con la forza, ha cessato di essere democrazia. Un potere popolare non può continuare ad esistere contro il popolo. E non deve nemmeno tentarlo: chi è per la democrazia non può farsi prendere nella funesta contraddizione di ricorrere alla dittatura per difendere la democrazia. Bisogna rimanere fedeli alla propria bandiera anche quando la nave affonda; nell’abisso si può osservare una norma giuridica con il mezzo specifico dell’ordinamento giuridico. Pena ed esecuzione si presentano infatti come vere sanzioni solo se la norma giuridica è già stata trasgredita, se il compimento dell’illecito è addirittura il presupposto della sua realizzazione» (H. Kelsen, Problemi fondamentali, cit., p. 256). La confusione della validità con l’efficacia costituisce, nello stesso senso, il movente dell’esigenza weberiana (M. Weber, Economia e società, Milano 1974, I, p. 30) di rovesciare le premesse logiche della costruzione di Stammler, il quale, proprio come Kelsen, affermava l’impossibilità di un rapporto causale tra l’ordinamento giuridico e l’agire reale. Nell’opera del 1922, Il concetto sociolo­ gico e il concetto giuridico dello Stato, Napoli, 1997, Kelsen non esita a definire l’inversione proposta da Weber come l’esito di un atto di rimozione concettuale: «Ora, quando Weber indica proprio quella possibilità di efficacia come “validità” dell’ordinamento […], egli opera ancora una volta un’inammissibile rimozione concettuale» (p. 170). 18.Osserva R. Horneffer, Hans Kelsens Lehre von der Demokratie. Ein Beitrag zur Kri­ tik der Demokratie, Erfurt, Stenger, 1926, p. 77, che nel fare del relativismo il presupposto della democrazia, Kelsen «in tal modo riconosc[a] anche valori positivi, che presuppongono un assolutismo di valori, mettendosi così in contraddizione con la dottrina relativistica». Nello stesso senso e nello stesso giro di anni, nella sua Sociologia del sapere (Roma, 1966), anche Max Scheler aveva sostenuto che alla metafisica pre–moderna e sostanzialistica dell’assolutismo nient’altro si era sostituito, con il concetto moderno di democrazia, se non una nuova metafisica, quella, non relativistica, del relativismo (ivi, p. 178 sgg.). Introduzione19 portare con sé solo la speranza che l’ideale della libertà sia indistruttibile e che quanto più sprofonda con tanta maggior passione tornerà a vivere19. La democrazia, dunque, e con essa la forma scientifica del diritto che vi trova esemplare realizzazione20, non esaurisce se stessa né nella natura unicamente procedurale del suo metodo, vista la possibilità di eliminarsi legalmente da sola, né nel mezzo specifico dell’ordinamento giuridico, ovvero quello della sanzione; i valori costituzionali espressione del relativismo positivo esigono una pratica diuturna e sedimentata, quale solo una «educazione alla democrazia» è in grado di fornire. E il tema dell’educazione come fondamento di quell’efficacia21 (Wirksamkeit, Befolgung, Entsprechung) che procura validità all’ordinamento giuridico, quale raccordo pratico tra l’aut0qualificazione della democrazia e il suo ideale scientifico22, è già ben presente 19. H. Kelsen, Difesa della democrazia, in Sociologia della democrazia, Napoli 1991, p. 50. 20.Il positivismo kelseniano, com’è noto, considera “diritto” tanto la democrazia quanto la dittatura. È questa la conseguenza più immediata della scienza libera dai valori. Eppure, ciò non esclude, come abbiamo mostrato nel corpo del testo, che gli «errori» che la scienza individua nelle finzioni (politiche) del diritto pubblico sortiscono, volens nolens, l’effetto di isolare non solo una determinata forma giuridica, in quanto quella ritenuta scientificamente corretta, ma anche l’organizzazione politica che ad essa si riveli strutturalmente più affine. La forma del diritto individuata dalla scienza giuridica, dunque, rappresenta il genere all’interno del quale si trovano le opposte organizzazioni giuridiche dell’autocrazia e della democrazia; poiché la loro opposizione non comporta una differenza di genere, e dunque non produce contraddizione, come nel caso dell’opposizione tra diritto e forza, ma soltanto una relazione di contrarietà, la forma del diritto possiede un grado, un’intensità giuridica all’interno della quale la sua essenza può trovare una realizzazione più o meno perfetta, e quindi subire una «deformazione» più o meno distruttiva da parte del suo contenuto. In questa progressione intensiva, la democrazia rappresenta allora il grado più alto di realizzazione del diritto, quello in cui il significato tecnico–scientifico del Rechtsstaat, l’eguaglianza giuridica, si trasforma, realizzandovisi, in quello politico dell’uguaglianza delle libertà. 21.Si noti, in questo caso, la consonanza che qui il discorso kelseniano sembra avere con alcune affermazioni di Carl Schmitt, Teologia politica, cit.: «La norma ha bisogno di una situazione media omogenea. Questa normalità di fatto non è semplicemente un “presupposto esterno” che il giurista può ignorare; essa riguarda invece direttamente la sua efficacia immanente. Non esiste nessuna norma che sia applicabile ad un caos. Prima dev’essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico» (p. 39) 22.Negli anni ’20, Kelsen nota con precisione che il solo diritto, seppure nella sua perfezione scientifica, non assicura l’immunità da distorsioni ideologiche della forma democratica. Se è pur vero, infatti, che «in ogni caso, il principio di maggioranza non può 20 La positività del diritto. Saggio su Hans Kelsen a Kelsen nel 191323, e viene ribadito con nettezza negli anni successivi: «L’educazione alla democrazia diviene una delle principali esigenze della democrazia stessa»; «il problema della democrazia […], nella pratica della vita sociale diviene un problema di educazione nel più grande stile»24. La suddetta dipendenza di morale e diritto si traspone così nell’idea che quella forma scientifica25 del diritto che assicura il confronto senz’altro essere identificato […] col concetto di un dominio incondizionato della maggioranza sulla minoranza», dal fatto che nella forma parlamentare la maggioranza presupponga e, dunque, nel contempo legittimi l’esistenza di una minoranza, sostiene Kelsen, «deriva non la necessità ma la possibilità di una tutela della minoranza di fronte alla maggioranza» (Il problema del parlamentarismo, in Id., Il primato del parlamento, cit., p. 193). Quasi con le stesse parole, mettendo a frutto una felice intuizione weberiana formulata in Parla­ ment und Regierung, si esprimeva Kirchheimer alla vigilia del fallimento della costituzione di Weimar, quando, ben più radicalmente di Kelsen, dubitava che la sola presenza di un parlamento assicurasse che il potere politico vi venisse, proprio secondo quel metodo, effettivamente prodotto: «Una maggioranza in parlamento e un potere politico effettivo possono coincidere, ma non è necessario che coincidano. Maggioranza e potere sono cose diverse e la maggioranza in parlamento costituisce soltanto una possibilità – non la possibilità assolutamente sicura – di conoscere i veri rapporti di potere» (O. Kirchheimer, Bedeutungswandel des Parlamentarismus (1928), in Von der Weimarer Republik zum Faschismus: die Auflösung der demokratischen Rechtsordnung, Frankfurt 1976, p. 62). 23. Poco prima del tramonto dell’impero asburgico, come mezzo di prevenzione della retorica politica, Kelsen (Concezione politica del mondo ed educazione, in Dio e Stato. La giurisprudenza come scienza dello spirito, Napoli 1988, pp. 70–71) esplicitamente riconosceva nell’educazione scientifica – e non partitica – una delle ragioni più cogenti dell’osservanza giuridica. 24.H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in La democrazia, Bologna 1995, p. 139. 25.Nella polemica di Kelsen contro Voegelin, l’attribuzione di un primato alla forma politica della democrazia liberale viene esplicitamente condotta in ragione del valore rappresentato dalla scienza, e segnatamente dal carattere relativistico del suo positivismo. Ammesso che la scienza, infatti, a rigore non possa esprimere alcun giudizio di valore sulla forma di governo autocratica, poiché anzi non può che ritenerla, al pari della democrazia, un tipo specifico di organizzazione giuridica, è pur vero che quello stesso relativismo che espunge la preferenza politica dall’ambito dell’oggettività scientifica finisce però per reintrodurvela, là dove riconosce alla democrazia – e disconosce alla dittatura – di essere la sola forma politica capace di assicurare che «scientific positivism goes hand in hand with relativism» (H. Kelsen, Una nuova scienza politica, cit., p. 1). Dal relativismo negativo della scienza discende così il relativismo positivo della democrazia: solo la convivenza dei valori propugnata da quest’ultima è ritenuta in grado di conservare l’indifferenza ai valori, e quindi la libertà di ricerca, perseguita dalla prima.