stato e scienza
Testi e saggi di Dottrina dello Stato e Diritto pubblico
raccolti da Giuliana Stella
3
La collana “Stato e scienza” si propone come un progetto editoriale
che intende raccogliere saggi e materiali finalizzati a un approfondimento teorico e storico delle problematiche classiche attinenti la
dottrina generale dello Stato, all’incrocio tra diritto costituzionale e
filosofia politico–giuridica. Il programma consiste nell’evidenziare
come il tema dello Stato rappresenti un patrimonio di concetti e
categorie, non soltanto storicamente identificativo dello jus publicum
europaeum, ma utile ancora al fine della comprensione dei fenomeni
politico–sociali più recenti e discussi, dalla “globalizzazione” agli ordinamenti sovranazionali.
Comitato scientifico
Agostino Carrino
Università Federico II di Napoli
Giuliana Stella
Università Federico II di Napoli
Francesco Saverio Trincia
Università “Sapienza” di Roma
Günther Winkler
Università di Vienna
Federico Lijoi
La positività del diritto
Saggio su Hans Kelsen
Copyright © MMXI
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via Raffaele Garofalo, 133/A–B
00173 Roma
(06) 93781065
isbn 978-88-548-4453-7
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di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
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senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: dicembre 2011
Indice
9Introduzione
29Avvertenza e ringraziamenti
31 Capitolo I
Norma giuridica e legge naturale
nei Hauptprobleme der Staatsrechtslehre
1.1. I Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico (1911–1923) – 1.2. Il
Wollen come Spezialfall del Sollen – 1.3. La Trennung del Sollen: l’autonomia della
morale e l’eteronomia del diritto – 1.4. «Sollen impliziert Können». Osservazioni critiche sulla Trennungsthesis – 1.5. L’esigenza di uno schematismo: la ragion
pratica come «Kausalität aus Freiheit» – 1.6. Diritto consuetudinario, morale
sociale, legislazione volontaria – 1.7. Conclusione
97 Capitolo II
Verfassung e Konstitution: obbedienza e sanzione
nella Reine Rechtslehre (1934)
2.1. La prima edizione della Reine Rechtslehre (1934) – 2.2. Società, natura, morale – 2.3. Il dover essere tra categoria trascendentale e idea trascendente – 2.4.
Grundnorm e Urverfassung: il punto di partenza della costruzione giuridica – 2.5.
Validità, efficacia, effettività, efficienza – 2.6. Conclusione
155 Capitolo III
L’eccezione non eccezionale:
sulla «differenza non indifferente» di diritto e morale
3.1. Scopo del diritto e coercizione. Teoria generale del diritto e dello Stato (1945) –
3.2. Coazione interna e coazione esterna – 3.3. Obbligo morale e obbligo giuridico – 3.4. Una metafora del «punto di passaggio»: Karl Olivecrona e la corrente
del fiume – 3.5. La ragion pratica come fondamento dell’analogia contrastiva:
legge naturale, diritto naturale e norma giuridica – 3.6. Validità ed efficacia:
identità, sovrapposizione, eccezione – 3.7. La teoria del riconoscimento. Difficoltà e contraddizioni – 3.8. Conclusione
7
8
Indice
255Capitolo IV
Diritto naturale e diritto positivo:
dalla differenza assoluta alla differenza relativa
4.1. La seconda edizione della Reine Rechtslehre (1960) – 4.2. La Übergangsstel­
le: dal senso soggettivo al senso oggettivo – 4.3. Il circolo virtuoso: efficacia e
validità nella statica del diritto – 4.4. Conditio per quam e conditio sine qua non: il
sillogismo normativo nella dinamica del diritto – 4.4.1. Il sillogismo della posizione – 4.4.2. Il sillogismo dell’obbedienza – 4.4.3. Discussione – 4.5. Sollen e
Rechtspflicht. Kelsen contro Alf Ross – 4.6. Libertà infinita e libertà finita. Sulla
revocabilità della Verbindlichkeit giuridica – 4.7. Libertà e necessità. Analisi del
§23 della Reine Rechtslehre (1960) – 4.8. Diritto positivo e diritto naturale. Differenza relativa e “Lücken” im Recht
371 Conclusione
375 Bibliografia
Introduzione
È certo in sé errato contrapporre l’uno all’altro essere e dovere come due
diverse “sfere” o “piani”. Ancor meno si può sollevare la questione se l’oggetto di questa o quella scienza sia da collocare in una o nell’altra di queste sfere. Infatti non si può pensare alcun oggetto di una scienza che non
abbia un qualche essere. Ciò che non è qualcosa, è certo nulla e perciò accanto alla sfera dell’essere non vi può essere nessuna altra sfera, nemmeno
la sfera del dovere. […] Piuttosto vanno determinati all’interno dell’unica
sfera dell’essere distinti modi di essere1.
Kelsen ha il merito di aver trattato già nel 1920, con il suo particolare accento, della parentela logica di teologia e giurisprudenza. […] [A]lla base
della sua identificazione, propria della concezione dello Stato di diritto, fra
Stato e ordinamento giuridico, sta una metafisica che identifica legge di
natura e legge normativa. Essa deriva da un’impostazione esclusivamente
propria delle scienze naturali, riposa sul ripudio di ogni “arbitrio” e cerca
di eliminare ogni eccezione dall’ambito dello spirito umano2.
Da questi due passi trae ispirazione la nostra ricerca. Dal primo
coglie la necessità di mettere in discussione il senso della strikte Tren­
nung tra Sein e Sollen proposta da Kelsen come caratteristica irrinunciabile della sua concezione metodologica; dal secondo, lo spunto
per individuare ragioni e conseguenze di tale insuperabile distinzione, riportandola ad una irriflessa identificazione di legge normativa
e legge naturale.
1.
A. Hold–Ferneck, Lo Stato come superuomo. Con una discussione della dottrina del
diritto di Kelsen, in Lo Stato come superuomo. Un dibattito a Vienna, Torino 2002, pp. 30–31.
2.
C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla storia della sovranità, in Le cate­
gorie del politico, Bologna 2003, pp. 64–65.
9
10
La positività del diritto. Saggio su Hans Kelsen
Il suo obiettivo è critico e, insieme, storico–ricostruttivo. Una simile convergenza è possibile, perché una critica della teoria del diritto kelseniana è opportuna solamente qualora rinvenga, nei passi
concettuali in cui Kelsen inavvertitamente critica se stesso, l’indizio
di una rotta di pensiero divergente e complementare. Procedere ad
una disamina analitica della sua filosofia del diritto equivale, dunque, a ricostruirne l’evoluzione, mettendo il giurista viennese di
fronte a se stesso.
Com’è noto, l’ambizione più impegnativa del positivismo kelseniano è stata quella di affrancare la Rechtswissenschaft dal riferimento — più o meno strumentale ed ideologico — ad un sistema
giuridico particolare e determinato (non per forza storicamente
esistito), ovvero quella di liberare la forma del diritto dai valori che
essa, quale mero veicolo, può contenere e portare ad espressione.
Tale ambizione può ritenersi la conseguenza più importante del
suo relativismo. Ciò naturalmente ha sortito un duplice effetto, prima sulla scienza giuridica, poi sulla concezione del diritto stesso.
La prima si è resa autonoma dalle altre scienze, aspirando alla consistenza formale di una disciplina naturale, more geometrico demon­
strata; il secondo, colto unicamente a partire dalla sua Grundform
(trascendentale e non meramente astratta), ha acquisito, rispetto
al diritto positivo particolare, quasi una esistenza propria, altrettanto concreta e vitale di quella del suo sostrato fattuale. In qualche
modo, si potrebbe dire, il diritto razionale che sorge dalla scienza
giuridica sta di fronte al diritto storicamente vigente proprio come
il diritto naturale, nel corso di una lunga tradizione, si è trovato
dinanzi al diritto positivo.
Il paragone cui ci conduce il presupposto del relativismo kelseniano, quello appunto tra diritto razionale e diritto naturale, è una
«mezza verità» molto significativa. È falso, in effetti, che il diritto
razionale che Kelsen ricava analiticamente mediante la scienza giuridica sia naturale, poiché non si pone affatto come criterio di valutazione del diritto vigente. Esso, proprio in quanto diritto formale,
è diritto positivo, e non naturale. D’altra parte, però, è da Kelsen
sostenuto con chiarezza — a partire dal 1920 — che la forma può
essere, proprio dal contenuto, «tesa fino al limite estremo della ricet-
Introduzione11
tività»: «Qui il contenuto minaccia già di far saltare la forma»3. E con
quest’affermazione, se non una differenza tra diritto giusto e diritto
ingiusto (compito che all’analisi positiva non deve competere), Kelsen ha almeno posto un «grado» nella razionalità del diritto, ovvero
una dipendenza tra forma e contenuto, e quindi una connessione tra
scienza (ragione) e morale (volontà).
Sulla suddetta analogia tra forma e scienza, morale e contenuto, è necessario soffermarsi brevemente4. Non bisogna incorrere
nell’errore di credere che in Kelsen il diritto positivo — che ha pure
un «contenuto», in quanto è storicamente determinato — finisca
per «vaporizzarsi» nella logica della scienza giuridica, e che, quindi,
come anche è stato detto, sia solamente «diritto della scienza giuridica» quello di cui Kelsen ragiona, e non diritto positivo. Se, infatti,
nell’analisi del diritto kelseniana è osservabile una preminenza della
forma sul contenuto, ciò non è affatto attribuibile alla circostanza
per cui il diritto positivo verrebbe dalla scienza giuridica ingiustamente «svuotato» del suo Inhalt, bensì al fatto che il diritto positivo,
nella sua essenza (e dunque correttamente compreso), per Kelsen
non è altro che forma, ovvero un complesso di giudizi logici qualificativi. In tal senso, come già si accennava sopra, solamente il diritto
razionale, in quanto formale, è autenticamente positivo. Il diritto
naturale ne costituisce invece il «contenuto di valore», oltre a rappresentare, qualora lo si sostituisca al diritto razionale in sede di anali
3.H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo
per una dottrina pura del diritto (1920), Milano 1989, p. 450.
4.In diverse occasioni Kelsen nota l’influenza che una concezione scientifica del
diritto sortisce dal punto di vista pratico. Per esempio, nel breve saggio del 1929 su Justiz
und Verwaltung, Kelsen rilevava come «un’errata teoria dell’essenza dello Stato e delle sue
funzioni» possa condurre a «importanti conseguenze pratiche», e sottolineava, di seguito,
«quale significato eminentemente pratico [possa] avere una dottrina depurata» (Giurisdi­
zione e amministrazione (1929), in Il primato del parlamento, Milano, 1982, p. 140). In Una
nuova scienza politica, Torino 2010, a proposito della scienza politica, Kelsen ammette
che «l’interpretazione della realtà sociale da parte della scienza politica dovrebbe essere,
e può essere, oggettiva, mentre l’autointerpretazione della società, sebbene anch’essa
pretenda di esserlo, è necessariamente più o meno soggettiva, ovvero determinata dagli
interessi sociali del soggetto interpretante. Questa differenza, per essere precisi, è solamente relativa. Non vi è altra scienza in cui la realizzazione del requisito dell’oggettività
sia così difficile come nella scienza politica» (p. 34).
12
La positività del diritto. Saggio su Hans Kelsen
si scientifica, un cattivo esempio di sincretismo metodologico, che
dogmaticamente vincola la forma del diritto (il diritto positivo) ad
un valore determinato (il diritto naturale, appunto).
Abbiamo poco sopra affermato che tra forma e contenuto, diritto
positivo e diritto naturale, si stabilisce una connessione tale per cui il
secondo è in grado di deformare la prima. La sensibilità della forma
al contenuto è un punto estremamente rilevante. L’idea che vi sia
un particolare valore — ovvero una determinata Rechtspolitik — che
sia più razionale di altri, innanzitutto perché più elastico, e quindi,
potremmo dire, più «omologo», alla forma che lo riceve, ci fornisce
un criterio decisivo per comprendere in che senso l’anima formale
del positivismo kelseniano abbia a fondamento una concezione relativistica dei valori. L’indipendenza della forma dal contenuto propugnata dalla scienza giuridica si precisa nei termini di una uguale
dignità di tutti i valori (la neutralità scientifica si trasforma nel postulato della libertà politica), per cui infrangere un tale formalismo
per Kelsen non significa privilegiare uno solo di questi valori sugli
altri, bensì non riconoscere uguale dignità degli altri all’ultimo di essi.
L’uguaglianza dei valori che consegue dal relativismo kelseniano costituisce, dunque, precisamente il limite — ovvero, il grado — della
neutralità della forma.
Dal punto di vista politico, il diritto razionale di Kelsen si dispiega in due importanti corollari5: il primo consiste nell’idea che sta a
fondamento del principio di legalità e dello Stato di diritto, secondo cui l’atto di volontà dello Stato, ovvero il suo potere esecutivo,
debba figurare necessariamente come contenuto di una norma, ovvero del potere legislativo. Il secondo, al primo strettamente connesso, riguarda il carattere sociale e, in particolare, parlamentare
(quest’ultimo ritenuto organo della società6, non dello Stato) della
5.Sul punto, si veda, diffusamente, G. Bongiovanni, Reine Rechtslehre e dottrina
giuridica dello Stato. H. Kelsen e la costituzione austriaca del 1920, Milano 1998, pp. 3–120.
6. L’idea del parlamento come “organo della società” fu fatta valere da Kelsen, in
un’accezione segnatamente democratica, contro il liberalismo anti–democratico di Jellinek, il quale, in Gesetz und Verordnung (1887), nel System der öffentlichen subjektiven Rechte
(1892) e nella Allgemeine Staatslehre (1900), proponeva, coerentemente con la sua radicata
diffidenza nei confronti dell’organo legislativo, che il parlamento venisse fortemente su-
Introduzione13
produzione giuridica. Il parlamento, come apparirà più chiaramente negli scritti kelseniani sulla democrazia, diviene la possibilità di
una libera espressione e competizione delle concezioni sostantive,
dunque morali, operanti nella società e indirettamente rappresentate
dai partiti politici.
Nei Problemi fondamentali, scritti alla vigilia del tramonto dell’impero asburgico, la subordinazione della volontà dello Stato alla legge, corroborata da una concezione democratica della legislazione,
aveva lo scopo preciso di limitare l’arbitrio del potere pubblico sia
nelle teorie che esplicitamente lo formulavano, come quella di Otto
Mayer7, sia nella pratica di governo imperiale, come nel caso dell’abuso del Notverordnungsrecht8 (§13 Februarpatent, 1861; §14 Dezember­
verfassung, 1867). La giuridificazione dei rapporti fattuali occorrenti
tra le nazioni dell’impero aveva un duplice scopo: da un lato, quello
di regolamentare la forza dello Stato, facendone l’oggetto di un giudizio logico che la ponesse come conseguenza di una condizione,
e dunque “addomesticandone” l’intervento a partire dal verificarsi
dell’evento collegato; dall’altro, quello di impedire che la volontà
del soggetto politicamente più forte, proprio come nella Ständever­
fassung, potesse prevalere senza appello sulla più fiacca potenza degli
altri gruppi. Insomma, l’uguaglianza giuridica provvista dal grado
bordinato al governo. Quando poi, innanzitutto nella prima edizione di Essenza e valore
della democrazia (1920), Kelsen definirà il parlamento “organo dello Stato”, lo farà per due
motivi: da un lato, per prendere posizione, nel dibattito sul conflitto tra Bund e Länder
all’interno della neonata repubblica austriaca, a favore della centralità e unità dello Stato
dinanzi alle spinte centrifughe dei Länder (così Kelsen aveva in effetti inteso il ruolo della
Corte Costituzionale); dall’altro, per ribadire il carattere costituzional–liberale, dunque
sostanziale, della sua concezione della democrazia, secondo cui il valore della libertà
individuale non può essere conculcato da nessuna maggioranza, per quanto ampia possa
rivelarsi. Sul punto, si veda S. Lagi, Il pensiero politico di Hans Kelsen (1911–1920). Le origini
di Essenza e valore della democrazia, Genova 2007, p. 78 sgg. e p. 208 sgg.
7.Sul punto, si veda H. Kelsen, Zur Lehre vom öffentlichen Rechtsgeschäft, in “Aör”,
Band 31, 1913, pp. 53–98, 190–249; per un utile inquadramento della questione, M. Fioravanti, Kelsen, Schmitt e la tradizione giuridica dell’Ottocento, in Id., La scienza del diritto pub­
blico, Milano 2001, tomo II, pp. 605–656.
8.Sul punto, per un preciso inquadramento storico, si veda il volume di G.D. Hasiba, Das Notverordnungsrecht in Österreich (1848–1917). Notwendigkeit und Mißbrauch eines
“Staats–erhaltenden Instrumentes”, Wien 1985.
14
La positività del diritto. Saggio su Hans Kelsen
più razionale della forma del diritto aveva come principale proposito
la realizzazione dell’uguaglianza politica9.
Nei Hauptprobleme, dunque, al relativismo corrisponde l’indipen­
denza della forma, ovvero della validità giuridica, dal contenuto, vale
a dire dall’efficacia di un determinato complesso di norme. Il rifiuto
kelseniano della teoria del riconoscimento come fondamento della
validità giuridica10 declina l’effetto del diritto sulla morale nei termini di un’indipendenza del dovere dall’essere. Ma ciò significa che la
dipendenza del contenuto dalla forma, o viceversa la sensibilità della
forma al contenuto di cui dicevamo sopra, si esprime precisamente
— senza che ciò suoni paradossale — in tale indipendenza dell’ordinamento giuridico dal riconoscimento attribuitogli dai suoi destinatari. E se qui l’indipendenza del diritto dalla morale — vale a dire, da
un tipo esclusivo di concezione morale – che connota il relativismo
positivo ha luogo solamente nel contesto della strutturale dipenden­
9.Il carattere giuridico dell’unione sovranazionale, oltre a fondarsi sulla critica
scientifica alla finzione di un qualche nesso reale fra gli uomini che compongono lo Stato, rappresentava per Kelsen una risposta al problema specificamente austriaco della convivenza fra gruppi differenti: «Al cospetto dello Stato austriaco, che si componeva di così
tanti gruppi differenti per razza, lingue, religione e storia, quelle teorie che cercavano
di fondare l’unità dello Stato su un qualche nesso social–psicologico o social–biologico degli uomini che giuridicamente appartenevano allo Stato, si dimostravano del tutto
chiaramente come finzioni. Nella misura in cui [la teoria giuridica dell’unità dello Stato] è
una parte essenziale della dottrina pura del diritto, la dottrina pura del diritto può essere
considerata come una teoria specificamente austriaca» (R.A. Métall, Hans Kelsen. Leben
und Werk, Wien 1969, p. 42). Sul punto ha richiamato esplicitamente l’attenzione A. Carrino, Kelsen e il problema della scienza giuridica (1910–1935), Napoli 1987, p. 35.
10. La critica di Kelsen alla teoria del riconoscimento, quale corollario dell’imperativismo, non è affatto diversa da quella che Hegel propone contro il contrattualismo:
«Però giacché egli (scilic.) Rousseau prese la volontà soltanto nella forma determinata
della volontà singola […] e la volontà universale non come il razionale in sé e per sé della
volontà, sibbene soltanto come ciò che è comune, che verrebbe fuori da questa volontà
singola come da volontà cosciente; il risultato è che l’unione degli individui nello Stato
diviene un contratto, il quale ha quindi per base il loro arbitrio, la loro opinione e il loro
espresso consenso, dato a piacimento, e seguono le ulteriori conseguenze meramente intellettualistiche, distruggenti il divino essente in sé e per sé e l’assoluta autorità e maestà
di esso. […] Contro il principio della volontà singola occorre rammentarsi del concetto
fondamentale che la volontà oggettiva è il razionale in sé nel suo concetto, venga esso
conosciuto dai singoli e voluto dal loro libito oppure no» (Lineamenti di filosofia del diritto.
Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio (1821), Roma–Bari 2005, pp. 196–197).
Introduzione15
za fra i due, ciò accade innanzitutto perché, accanto all’esigenza
dell’autorità del diritto sulle ragioni soggettive dei consociati, Kelsen non può dimenticare il nesso rappresentativo che lega la società
allo Stato e che fa dello Stato la forma della società11. Così, si può affermare che ciò che il postulato politico neoliberale12 assunto da Kelsen realizza da un lato, innalzando la norma sul fatto, disfa dall’altro,
costruendo un «luogo di passaggio [nel quale] gli elementi amorfi
della società trapassano nelle forme fisse dello Stato e del diritto»13.
Dal punto di vista della teoria del diritto non è affatto strano che
anche per Kelsen tutto ciò rappresenti un mistero, anzi «il grande
mistero del diritto e dello Stato». La motivazione politica che ha promosso e guidato le indagini kelseniane, tuttavia, rende altrettanto
evidente che, tra i due estremi del «grande mistero», per ora, sia l’aspetto dell’indipendenza a prevalere e che, dunque, la morale, quale
comportamento meramente qualificato, rientri nella natura, mentre
il solo diritto, in quanto norma, occupi l’ambito separato del dovere. Il progressivo approfondimento teorico, però, e in particolare il
passaggio dal metodo statico–formale a quello dinamico, ha indotto
più chiaramente Kelsen a scoprire il lato della dipendenza, conducendolo sia ad una ridiscussione della problematica collocazione della
morale nell’ambito della natura, sia a far emergere i rischi che la
sola forma istituzionale all’interno della quale il relativismo positivo
risulta possibile, vale a dire, quella della democrazia parlamentare,
comporta.
11. H. Kelsen, Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico esposti a partire
dalla dottrina della proposizione giuridica, Napoli 1997, p. 460.
12.Così scriveva Kelsen nella prefazione alla prima edizione dei Problemi fondamen­
tali, cit.: «Poiché in ciò i miei risultati si toccano con parecchi risultati della più antica teoria liberale dello Stato, non potrei in alcun modo oppormi se si dovesse vedere nel mio
lavoro un sintomo di quel neoliberalismo che nei tempi più recenti sembra prepararsi
dappertutto» (p. 12). Sul significato del “neoliberalismo”, si veda chiaramente C. Mortati, Le forme di governo. Lezioni, Padova 1973, p. 47.
13. Ibidem. Una prova dell’ambiguità appena rilevata è rintracciabile anche nel
modo in cui Kelsen formula il rapporto tra Stato e diritto, da un lato affermando che
lo Stato costituisce il contenuto del diritto, dall’altro asserendo che lo Stato non è altro
che l’ordinamento giuridico (Problemi fondamentali, cit., p. 712 sgg.). Siffatta ambiguità è
ben rilevata da F. Sander, Staat und Recht. Prolegomena zu einer Theorie der Rechtserfahrung,
Wien 1922, p. 1146.
16
La positività del diritto. Saggio su Hans Kelsen
L’individuazione della dipendenza — e, dunque, della differenza
— tra diritto e morale quale fondamento della loro indipendenza,
ovvero la possibilità che la morale, in quanto idea (diritto naturale)
del diritto positivo, sia criticamente in grado di produrre effetti sulla
sussistenza dell’ordinamento giuridico (siano essi di conservazione
o di rivoluzione), si esemplifica nella figura dialettica che abbiamo
definito differenza non indifferente: il diritto naturale viene in possesso
dell’autonomia critica capace di sortire effetti sul diritto positivo in
virtù di una differenza che attiva il rapporto fra i due e che, dunque,
rimuove il diffuso fraintendimento che di tale indipendenza ha fatto
una mera indifferenza. L’indipendenza, infatti, è qui precisamente la
negazione dell’identità tra diritto e morale, ovvero della esclusiva assegnazione al diritto di una concezione sostantiva particolare14.
Nelle analisi che seguono, allora, il tentativo intrapreso è quello di mostrare come il passaggio della morale dall’ambito naturale
a quello normativo (sebbene non positivo) abbia condotto Kelsen
all’ammissione — in precedenza categoricamente esclusa — di una
differenza relativa, e non più assoluta, tra diritto naturale e diritto
positivo. Tale emergere dell’aspetto della dipendenza tra diritto e morale, quale fondamento della loro indipendenza e autonomia, in particolare, porta con sé la comparsa di una concezione dell’ordinamento giuridico ispirata alla contingenza e alla revocabilità (quale esito
del nesso rappresentativo). Si tratta di una rilevante conseguenza della
trasformazione della posizione della morale: l’indifferenza dell’ordinamento giuridico alle ragioni soggettive dei consociati, in cui
l’autorità del diritto era chiamata a consistere nella complessa situazione sociale dell’impero asburgico nel primo decennio del Novecento, prende le forme, in particolare dopo il drammatico passaggio
della catastrofe hitleriana, di un relativismo positivo realisticamente
14.H. Kelsen, Una nuova scienza politica, cit.: «Se lo studente si accorge che nella
scelta di un valore politico, nella decisione di sostenere un sistema socialista o capitalista,
democratico o autocratico, non può fare affidamento sull’autorità della scienza, poiché la
scienza non detiene tale autorità e quindi non può restringere la libertà della sua scelta,
capirà allora che dovrà assumersi la responsabilità della propria scelta; conseguenza profon­
damente morale di una scienza libera da valori» (p. 21, c.vo mio). L’argomentazione decisiva, al
proposito, viene fornita da Kelsen ne La dottrina pura del diritto (1960), Torino 1966, p. 82.
Introduzione17
esposto alla fragilità delle proprie concessioni. Infatti, nella misura
in cui l’autonomia della morale dal diritto prevede la libera espressione e il libero confronto parlamentare delle ragioni soggettive dei
singoli, necessariamente convogliate nei corpi intermedi dei partiti,
non può evitarsi che tale assetto costituzionale, proprio di seguito
alla sua professione di relativismo e, dunque, «con i suoi principi
di legalità e di tolleranza, con la libertà di opinione e la tutela delle
minoranze»15 allevi addirittura gli avversari.
La revocabilità dell’ordinamento giuridico, pertanto, in particolare di quella forma scientifica del diritto che consente l’indipendenza dell’ordinamento giuridico da un contenuto morale esclusivo
e, quindi, rende possibile la mediazione compromissoria dei valori
nella sede istituzionale del parlamento, rappresenta il costo del relativismo positivo, ovvero la dipendenza tra diritto e morale su cui,
nel contempo, la loro indipendenza trova il proprio fondamento. La
dipendenza, insomma, esprime nello stesso tempo il plusvalore —
l’indipendenza — e il costo — la revocabilità — della democrazia costituzionale quale forma istituzionale del relativismo positivo. Rispetto
alla forma autocratica, infatti, la democrazia costituzionale possiede
«il privilegio paradossale di potersi eliminare con i metodi di formazione della volontà che le sono peculiari, di potersi quindi eliminare legalmente da sola»16. In tal senso, l’autonomia della morale, colta
nel contesto del relativismo positivo e concretizzata nelle istituzioni liberal–democratiche, propone in un modo del tutto peculiare la
propria specificità: se, infatti, è vero che l’indipendenza del diritto
dalla morale colloca proprio nella convinzione del carattere relativo
di tutte le convinzioni l’antidoto al veleno che inietta nel suo organismo politico, risulta altrettanto conseguente che la difesa di tale
autonomia, e dunque la sussistenza di un ordinamento giuridico che
assicuri l’uguaglianza delle libertà, non possa affatto essere condotta
coercitivamente17. Così il carattere assoluto del relativismo demo15. H. Kelsen, Forme di governo e concezioni del mondo, in Il primato del parlamento,
Milano 1982, p. 52.
16. Ibidem.
17.Nella discussione della Juristische Prinzipienlehre di Bierling, questa circostanza
emerge con chiarezza: «[N]on v’è dubbio – scrive Kelsen – che non si può costringere ad
18
La positività del diritto. Saggio su Hans Kelsen
cratico, che spesso è stato rimproverato a Kelsen come un’insanabile contraddizione all’interno della professata indipendenza della
scienza giuridica dai valori18, si svela coerentemente differente, nella
sua disarmata incapacità di difendersi dai suoi avversari, dall’assolutismo che innerva la forma di governo autocratica. Nel 1932, alla vigilia della catastrofe hitleriana, infatti, nient’altro che di «fedeltà alla
propria bandiera» potrà parlare Kelsen quale disperata Verteitigung
der Demokratie:
Ma in rapporto a questa situazione ci si chiede anche se perciò non si
debba smetterla di difendere la democrazia con le teorie, se la democrazia
non debba essere difesa contro il popolo che non la vuole più, contro una
maggioranza unanime solo nella volontà di distruzione della democrazia.
Porre questi interrogativi significa già negarli. Una democrazia che cerchi
di affermarsi contro la volontà della maggioranza, di affermarsi con la
forza, ha cessato di essere democrazia. Un potere popolare non può continuare ad esistere contro il popolo. E non deve nemmeno tentarlo: chi è
per la democrazia non può farsi prendere nella funesta contraddizione di
ricorrere alla dittatura per difendere la democrazia. Bisogna rimanere fedeli alla propria bandiera anche quando la nave affonda; nell’abisso si può
osservare una norma giuridica con il mezzo specifico dell’ordinamento giuridico. Pena
ed esecuzione si presentano infatti come vere sanzioni solo se la norma giuridica è già
stata trasgredita, se il compimento dell’illecito è addirittura il presupposto della sua realizzazione» (H. Kelsen, Problemi fondamentali, cit., p. 256). La confusione della validità con
l’efficacia costituisce, nello stesso senso, il movente dell’esigenza weberiana (M. Weber,
Economia e società, Milano 1974, I, p. 30) di rovesciare le premesse logiche della costruzione di Stammler, il quale, proprio come Kelsen, affermava l’impossibilità di un rapporto
causale tra l’ordinamento giuridico e l’agire reale. Nell’opera del 1922, Il concetto sociolo­
gico e il concetto giuridico dello Stato, Napoli, 1997, Kelsen non esita a definire l’inversione
proposta da Weber come l’esito di un atto di rimozione concettuale: «Ora, quando Weber indica proprio quella possibilità di efficacia come “validità” dell’ordinamento […], egli
opera ancora una volta un’inammissibile rimozione concettuale» (p. 170).
18.Osserva R. Horneffer, Hans Kelsens Lehre von der Demokratie. Ein Beitrag zur Kri­
tik der Demokratie, Erfurt, Stenger, 1926, p. 77, che nel fare del relativismo il presupposto
della democrazia, Kelsen «in tal modo riconosc[a] anche valori positivi, che presuppongono
un assolutismo di valori, mettendosi così in contraddizione con la dottrina relativistica».
Nello stesso senso e nello stesso giro di anni, nella sua Sociologia del sapere (Roma, 1966),
anche Max Scheler aveva sostenuto che alla metafisica pre–moderna e sostanzialistica
dell’assolutismo nient’altro si era sostituito, con il concetto moderno di democrazia, se
non una nuova metafisica, quella, non relativistica, del relativismo (ivi, p. 178 sgg.).
Introduzione19
portare con sé solo la speranza che l’ideale della libertà sia indistruttibile e
che quanto più sprofonda con tanta maggior passione tornerà a vivere19.
La democrazia, dunque, e con essa la forma scientifica del diritto
che vi trova esemplare realizzazione20, non esaurisce se stessa né nella
natura unicamente procedurale del suo metodo, vista la possibilità
di eliminarsi legalmente da sola, né nel mezzo specifico dell’ordinamento giuridico, ovvero quello della sanzione; i valori costituzionali
espressione del relativismo positivo esigono una pratica diuturna e
sedimentata, quale solo una «educazione alla democrazia» è in grado
di fornire. E il tema dell’educazione come fondamento di quell’efficacia21 (Wirksamkeit, Befolgung, Entsprechung) che procura validità
all’ordinamento giuridico, quale raccordo pratico tra l’aut0qualificazione della democrazia e il suo ideale scientifico22, è già ben presente
19. H. Kelsen, Difesa della democrazia, in Sociologia della democrazia, Napoli 1991, p.
50.
20.Il positivismo kelseniano, com’è noto, considera “diritto” tanto la democrazia
quanto la dittatura. È questa la conseguenza più immediata della scienza libera dai valori.
Eppure, ciò non esclude, come abbiamo mostrato nel corpo del testo, che gli «errori» che
la scienza individua nelle finzioni (politiche) del diritto pubblico sortiscono, volens nolens,
l’effetto di isolare non solo una determinata forma giuridica, in quanto quella ritenuta
scientificamente corretta, ma anche l’organizzazione politica che ad essa si riveli strutturalmente più affine. La forma del diritto individuata dalla scienza giuridica, dunque,
rappresenta il genere all’interno del quale si trovano le opposte organizzazioni giuridiche
dell’autocrazia e della democrazia; poiché la loro opposizione non comporta una differenza di genere, e dunque non produce contraddizione, come nel caso dell’opposizione
tra diritto e forza, ma soltanto una relazione di contrarietà, la forma del diritto possiede
un grado, un’intensità giuridica all’interno della quale la sua essenza può trovare una
realizzazione più o meno perfetta, e quindi subire una «deformazione» più o meno distruttiva da parte del suo contenuto. In questa progressione intensiva, la democrazia
rappresenta allora il grado più alto di realizzazione del diritto, quello in cui il significato
tecnico–scientifico del Rechtsstaat, l’eguaglianza giuridica, si trasforma, realizzandovisi,
in quello politico dell’uguaglianza delle libertà.
21.Si noti, in questo caso, la consonanza che qui il discorso kelseniano sembra avere con alcune affermazioni di Carl Schmitt, Teologia politica, cit.: «La norma ha bisogno
di una situazione media omogenea. Questa normalità di fatto non è semplicemente un
“presupposto esterno” che il giurista può ignorare; essa riguarda invece direttamente la
sua efficacia immanente. Non esiste nessuna norma che sia applicabile ad un caos. Prima
dev’essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico» (p. 39)
22.Negli anni ’20, Kelsen nota con precisione che il solo diritto, seppure nella sua
perfezione scientifica, non assicura l’immunità da distorsioni ideologiche della forma democratica. Se è pur vero, infatti, che «in ogni caso, il principio di maggioranza non può
20
La positività del diritto. Saggio su Hans Kelsen
a Kelsen nel 191323, e viene ribadito con nettezza negli anni successivi: «L’educazione alla democrazia diviene una delle principali esigenze della democrazia stessa»; «il problema della democrazia […],
nella pratica della vita sociale diviene un problema di educazione nel
più grande stile»24.
La suddetta dipendenza di morale e diritto si traspone così nell’idea che quella forma scientifica25 del diritto che assicura il confronto
senz’altro essere identificato […] col concetto di un dominio incondizionato della maggioranza sulla minoranza», dal fatto che nella forma parlamentare la maggioranza presupponga e, dunque, nel contempo legittimi l’esistenza di una minoranza, sostiene Kelsen,
«deriva non la necessità ma la possibilità di una tutela della minoranza di fronte alla maggioranza» (Il problema del parlamentarismo, in Id., Il primato del parlamento, cit., p. 193). Quasi
con le stesse parole, mettendo a frutto una felice intuizione weberiana formulata in Parla­
ment und Regierung, si esprimeva Kirchheimer alla vigilia del fallimento della costituzione
di Weimar, quando, ben più radicalmente di Kelsen, dubitava che la sola presenza di un
parlamento assicurasse che il potere politico vi venisse, proprio secondo quel metodo,
effettivamente prodotto: «Una maggioranza in parlamento e un potere politico effettivo
possono coincidere, ma non è necessario che coincidano. Maggioranza e potere sono cose
diverse e la maggioranza in parlamento costituisce soltanto una possibilità – non la possibilità assolutamente sicura – di conoscere i veri rapporti di potere» (O. Kirchheimer,
Bedeutungswandel des Parlamentarismus (1928), in Von der Weimarer Republik zum Faschismus:
die Auflösung der demokratischen Rechtsordnung, Frankfurt 1976, p. 62).
23. Poco prima del tramonto dell’impero asburgico, come mezzo di prevenzione
della retorica politica, Kelsen (Concezione politica del mondo ed educazione, in Dio e Stato. La
giurisprudenza come scienza dello spirito, Napoli 1988, pp. 70–71) esplicitamente riconosceva nell’educazione scientifica – e non partitica – una delle ragioni più cogenti dell’osservanza giuridica.
24.H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in La democrazia, Bologna 1995, p.
139.
25.Nella polemica di Kelsen contro Voegelin, l’attribuzione di un primato alla forma politica della democrazia liberale viene esplicitamente condotta in ragione del valore
rappresentato dalla scienza, e segnatamente dal carattere relativistico del suo positivismo. Ammesso che la scienza, infatti, a rigore non possa esprimere alcun giudizio di
valore sulla forma di governo autocratica, poiché anzi non può che ritenerla, al pari
della democrazia, un tipo specifico di organizzazione giuridica, è pur vero che quello
stesso relativismo che espunge la preferenza politica dall’ambito dell’oggettività scientifica finisce però per reintrodurvela, là dove riconosce alla democrazia – e disconosce alla
dittatura – di essere la sola forma politica capace di assicurare che «scientific positivism
goes hand in hand with relativism» (H. Kelsen, Una nuova scienza politica, cit., p. 1). Dal
relativismo negativo della scienza discende così il relativismo positivo della democrazia:
solo la convivenza dei valori propugnata da quest’ultima è ritenuta in grado di conservare l’indifferenza ai valori, e quindi la libertà di ricerca, perseguita dalla prima.