SCRIVERE SENZA SAPERE COSA SI SCRIVE Più di una teoria della metà del secolo scorso ha fatto credere a generazioni di studenti di composizione che non era importante il risultato sonoro ma la struttura che si creava, la matematica e la geometria che dava dignità a lavori altrimenti incomprensibili (tanto valeva fare come Cage che con il caos otteneva lo stesso ”ordine” di Boulez). In un’intervista Boulez, incalzato da un giornalista che chiese, dopo una dotta spiegazione sul comporre, se la composizione doveva prescindere dalla fantasia, la creatività e dal genio del musicista, rispose: “Vuole che le risponda con sincerità? Si ne prescinde totalmente”. Ecco svelato l’inganno, almeno apprezziamo la sincerità. Se questi duri e puri si rendessero conto cosa hanno creato si condannerebbero da soli. Cosa hanno creato? Beh si ignoranza, mancanza di tecnica, incapacità a pensare artisticamente, lobby culturali ed economiche che sono la gioia di compositori che scrivono per essere ascoltati da altri compositori, tutto questo è ovvio ma non mi riferivo all’ovvio. Hanno creato i mostri della musica classica che crede di essere tale e che suona come la leggera, musica di consumo con orchestra, facilonerie di vario genere che sono l’altra faccia della medaglia, hanno dato spazio alla musica di consumo in genere, relegato, dopo un ventennio di speranze sulla nuova musica, i teatri al ruolo di musei dell’arte musicale che conservano i tesori del passato. Con il risultato che se tutta questa “ondata di novità” non ci fosse stata credo che il progresso dell’arte musicale oggi sarebbe molto più avanti. In tutto ciò che fine fece l’orchestrazione? Beh meno male che Darmstadt, o meglio il “partito” vincente, come disse Ligeti, prese le mosse da Webern perché nel compositore austriaco si trovano tante di quelle cose anche nella strumentazione che almeno da lì qualcosa si è potuto portare avanti. Webern curava moltissimo l’orchestrazione e lo vediamo sia nei brani cameristici come le Sei Bagatelle op. 9 per quartetto d’archi che nei lavori di dimensione più ampia come la Sinfonia op. 21. Cercava sonorità nuove da adeguare ad un contesto nuovo, sfumature, indicazioni di esecuzione etc.. Questo ha fatto si che, finita l’era dello strutturalismo, si è iniziato a lavorare sul suono, la sua emissione, usi non convenzionali di strumenti acustici ed altro ancora. Ed è stato un bene perché ha spostato l’asse di interesse da un fatto meramente combinatorio di contrappunti a quello della ricerca delle sonorità. Che poi in fondo non era altro rispetto a ciò che sognavano Beethoven, Schubert, Wagner ad altri, ciascuno con il loro mondo e il proprio stile. L’orchestrazione è stata per almeno 30 anni e più, dominando i figli di Darmstadt nelle accademie, nei concorsi etc., anch’essa un fatto puramente combinatorio di timbri da scegliere ed associare ai vari contrappunti che venivano lanciati dalla rampa missilistica. Niente è stato più deleterio per l’orchestrazione perché non si scriveva per gli strumenti o pensando ad un organico ma si scriveva per teorie e poi si attribuivano timbri. Col risultato che una piccola ma consistente percentuale di ciò che veniva scritto anche da “eminenti” compositori non poteva essere suonato e non si suonava. Provocatoriamente direi meglio l’alea di Cage, affidiamo tutto agli esecutori che suonano quello che vogliono almeno suoneranno note che esistono e che il loro strumento possiede o può fare, così non si sbaglia. Certo manca la composizione. Ma mezzo secolo fa anche questo era composizione e anche adesso c’è chi ci crede. Il problema fu, per dirla alla Grisey, esponente della musica spettrale francese, che non si pensò musicalmente, non si pensò musica ma teorie che giustificassero qualcosa di nuovo e di diverso che senza giustificazioni intellettualistiche non sarebbe stato preso in considerazione. Ma pensare musicalmente, sembra banale ma non lo è, significa pensare musica. Sentirla, desiderarla, avere delle idee che portino a creare un mondo sonoro che stiamo pensando e che ci coinvolge, il nostro suono e il suono del nostro tempo che dobbiamo imparare ad ascoltare. Se pensiamo musica pensiamo suoni, pensiamo strumenti, non solo ma soprattutto strumenti. Non pensiamo mai così ciò che ci viene in mente ma pensiamo con un indirizzo ben preciso. E qui entriamo direttamente in merito all’orchestrazione. Ci viene proposto di scrivere per un imprecisato organico di orchestra da camera. Dobbiamo focalizzare quanto prima gli strumenti da utilizzare in considerazione anche di quanto ci hanno suggerito e il nostro pensiero si deve rivolgere ai timbri che possediamo. Da lì scaturirà fuori qualcosa di nuovo ed anche inaspettato ma sempre frutto di un pensiero musicale. Quando scriviamo dobbiamo tenere conto del nostro organico e pensare per quell’organico e utilizzare, anche in modo non convenzionale, gli strumenti per i nostri fini artistici. Una linea melodica che suona bene con il flauto non è detto che suoni bene con l’oboe, non è facilmente sostituibile perché non dobbiamo distribuire timbri ma creare dai timbri che ci sono stati messi a disposizione. Ogni parte avrà così un valore per sé stessa e sarà in funzione dell’insieme. Quando si scrive in genere ma soprattutto per orchestra bisogna sapere cosa si vuole scrivere e dove si vuole arrivare, cosa si vuol dire con la musica. Quando Boulez scrisse Pensare la musica oggi si riferiva a ben altro occupandosi di un aspetto costruttivo-scientifico indipendente dalla musica. Pensare la musica non è cosa facile ma quando si arriva alla fine del lavoro poter dire: “ecco questo è proprio ciò che prima di iniziare a scrivere ho pensato, immaginato” è non solo una grande soddisfazione ma qualcosa che ci fa comprendere che si è espresso arte, quella creazione che solo l’uomo imperfetto può realizzare non la perfezione delle macchine, la matematica, i calcoli che sono cose che non sbagliano e quindi non potranno mai essere arte.