Aristotele e l`Islam - Dignitatis Personae

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Autore: Luporini, Giulio
I rapporti in campo filosofico tra Islam e Occidente
In un periodo come quello che stiamo attraversando parlare di Islam e rapporti
tra Occidente ed Islam è diventato quasi un obbligo, come se la presenza della
civiltà islamica, con tutto ciò che comporta la sua ricchezza e la sua differenza,
fosse emersa solo oggi. La realtà storica è ben diversa e basterebbe un rapido
sguardo alla storia per rendersene conto.
Il rapporto con l'Islam è stata una costante del mondo europeo cristiano (oggi
dobbiamo dire occidentale, dal momento che a differenza del Medioevo
cristianità e occidente non sono più identificabili); rapporto fatto di scontri, ma
anche di scambi culturali, che hanno profondamente segnato entrambe le
civiltà. In particolare, qui vorrei soffermarmi su quello scambio culturale che
nel Medioevo, in epoca di Crociate, permise all'occidente cristiano di
recuperare, proprio attraverso gli arabi, la filosofia di Aristotele, così decisiva
per l'intero sviluppo culturale dell'Europa. Ritengo che soffermarmi su tale
episodio sia utile perché, superando una lettura superficiale, che riduca
l'evento ad un semplice passaggio, come se il pensiero aristotelico fosse
qualcosa di simile ad un pacco, consente di capire meglio, chiarendo alcuni
aspetti delle due civiltà, la possibilità dei rapporti con l'Islam oggi, senza
censurarne problemi e difficoltà.
Una lettura superficiale, in quanto coglie una verità che è solo parziale, è
quella di Montgomery Watt, che oggi si sente spesso ripetere, magari con toni
e modalità diversi, nel tentativo di sottolineare una certa dipendenza
dell'occidente dalla cultura islamica, soprattutto con l'intento di mostrare come
l'Islam non solo non possa essere considerato inferiore alla civiltà occidentale,
ma in qualche modo vada ritenuto superiore. Tesi che può essere così
sintetizzata dalle parole dello stesso Montgomery Watt: "Poiché l'Europa
reagiva contro l'Islam, sminuì l'influenza dei Saraceni e esagerò la sua
dipendenza dall'eredità greca e romana. Così oggi è dovere primario di noi
Europei occidentali, che ci avviciniamo all'epoca di un mondo unificato,
correggere questa falsa enfasi e riconoscere in pieno il nostro debito nei
riguardi del mondo arabo e islamico". (Montgomery Watt, The influence of
Islam on Medieval Europe, London, 1972, trad. it. L'Islam e l'Europa
medievale, Oscar Mondadori, Milano, 1991). Che si debba riconoscere un
debito nei riguardo del mondo islamico è vero, anche se sarebbe più preciso
dire del mondo arabo, comunque tale affermazione va guadagnata in tutto il
suo significato storico contestualizzandola e verificandone la portata.
La parzialità di tale posizione consiste nel fatto che non sempre vengono colti
alcuni aspetti che risultano di fondamentale importanza per capire "come" e
"che cosa" l'occidente cristiano deve al mondo arabo mussulmano del XIII
secolo. Questi aspetti possono essere così sintetizzati:
l'intero percorso che ha portato Aristotele in Occidente;
l'originalità con cui il pensiero dello Stagirita fu assimilato dalla filosofia
cristiana, soprattutto attraverso la persona di S. Tommaso;
il diverso sviluppo che l'aristotelismo, e con esso il pensiero filosofico, ebbero
in occidente e nel mondo islamico.
1. Come arrivò Aristotele in Occidente
In primo luogo, se si afferma correttamente che furono gli arabi a portare
Aristotele in Europa, si dimentica troppo spesso di precisare come gli stessi
arabi entrarono in possesso della cultura ellenistica filosofica e scientifica. In
realtà il movimento che portò Aristotele in Europa fu di tipo circolare secondo
l'immagine usata da Gilson. Occorre cioè ricordare, chiudendo il cerchio, che
furono i cristiani orientali in particolare siriani, incaricati dai mussulmani, a
tradurre in arabo l'intero patrimonio culturale ellenistico, sforzandosi di
ripensarlo in maniera adeguata. L'origine del movimento che fece giungere
Aristotele in Occidente è quindi da vedersi in una filosofia araba cristiana e non
mussulmana.
Uno dei motivi per cui il dominio mussulmano in Medio Oriente fu inizialmente
rispettoso e tollerante delle comunità locali (dopo il X secolo le cose
cambiarono) fu il riconoscimento di una civiltà superiore da cui potere
attingere il sapere: "I freschi dominatori arabo-mussulmani non soltanto
imposero e determinarono un nuovo regime o sistema imperiale - il califfato -,
ma lo fecero nei confronti di civiltà che sentirono da subito superiori e da cui si
disposero, senza mai recedere dal mutato quadro dell'Islam, a imparare a
ricevere e adottare ciò che di meglio era stato da esse prodotto e custodito,
però facendolo orgogliosamente rifluire nella lingua araba" (Luca Montecchi,
L'incontro storico tra Islam e Occidente, in AAVV, L'Islam: una realtà da
conoscere, Marietti, Genova 2001, p. 43). Non si capirebbe in nessun modo la
ricchezza della cultura araba mussulmana medievale se non si tenesse conto
del fatto che l'apice raggiunto dalla civiltà mussulmana intorno al 950 è stato,
infatti, "possibile per l'avvenuta assimilazione delle culture anteriori,
soprattutto quella ellenistica, e in parte anche quella siriaca, persiana. Coloro
che hanno trasmesso l'ellenismo al mondo arabo, permettendo lo straordinario
sviluppo della cultura e della scienza araba, non sono stati in primo luogo i
mussulmani, bensì i cristiani". (Samir Khalil Samir, Il dialogo tra Cristianesimo
e Islam: un'esperienza dal Medio Oriente, in AAVV, L'Islam: una realtà da
conoscere, Marietti, Genova 2001, pp.52-53). Un rapido sguardo alla storia
della medicina di quel periodo lo dimostra (medicina in cui diventerà
successivamente riferimento fondamentale per tutto l'Occidente il nome del
mussulmano Avicenna): "Fino all'XI secolo la medicina araba si è evoluta
grazie ai cristiani arabi. I più grandi nomi della medicina, per quattro secoli
dopo l'avvento dell'Islam, non sono mussulmani, ma in maggioranza
cristiani" (Ibidem, p.53). Lo stesso vale per la filosofia: "Il movimento filosofico
arabo durante l'XI secolo passò lentamente dai cristiani (che ne avevano il
monopolio) ai mussulmani" (Ibidem, p. 55). Se si vuole quindi fino in fondo
capire l'apporto e il merito della filosofia araba mussulmana, che nel XIII
secolo rifluì in Occidente, introducendo quella parte fondamentale del pensiero
di Aristotele sconosciuta (precisamente la metafisica, la fisica e la psicologia,
visto che la logica era almeno in parte già conosciuta), occorre tenere presente
che "furono gli uomini del popolo cristiano a creare la grande stagione della
cultura islamica. Furono essi a portare la cultura greca dentro l'Islam, a
determinare una nuova rinascita ellenica all'interno dell'Islam" (Gianni Baget
Bozzo, Di fronte all'Islam, Marietti, 2001 Genova, p. 30).
2. L'originalità con cui il pensiero dello Stagirita fu assimilato dalla
filosofia cristiana
In secondo luogo, se è vero che la metafisica e l'ontologia aristotelica furono
conosciute attraverso le traduzioni e i commenti degli arabi, i cui nomi più
significativi a riguardo risultano sicuramente quelli di Avicenna e soprattutto di
Averroè, non bisogna dimenticare che l'aristotelismo cristiano non coincise con
l'avicennismo o l'averroismo. Non si trattò quindi di un semplice passaggio, in
cui i pensatori cristiani si sarebbero limitati a ricevere Aristotele così come la
filosofia araba lo aveva assimilato e ripensato, ma piuttosto di un confronto
critico che, non rifiutando a priori quanto proveniva dal mondo islamico, lo
vagliò e lo rielaborò personalmente, non senza difficoltà ed incomprensioni
iniziali. Si verificò una rilettura assolutamente originale che, attingendo
sicuramente dal lavoro dei filosofi arabi, riuscì, soprattutto grazie alla persona
di S. Tommaso, a produrre una filosofia nuova, in grado da un lato di
recuperare aspetti dell'aristotelismo originario, e dall'altro di introdurre, in
maniera coerente, elementi propri della tradizione agostiniana, quindi
platonica. Il confronto critico non fu dei più semplici, infatti l'averroismo
presentava aspetti che difficilmente si conciliavano con la fede cristiana (del
resto neanche con l'Islam e per questo fu rifiutato dagli stessi mussulmani), ad
esempio la negazione dell'immortalità dell'anima, conseguenza della teoria
dell'intelletto unico di Averroè. A questo si deve aggiungere probabilmente
anche un certo timore nei confronti dell'Islam, come evidenzia Chesterton: "Il
panico intorno al pericolo aristotelico, che traversò i luoghi alti della Chiesa,
era probabilmente un vento arido del deserto. In realtà era carico di paura di
Maometto più che di paura di Aristotele" (Chesterton, Introduzione a San
Tommaso, Piemme, 1998 Casale Monferrato, p. 67). Solo forse grazie al genio
e alla figura di S. Tommaso si evitò di identificare l'aristotelismo con
l'averroismo. Se, come dice Chesterton, fu "perché il suo personale
cattolicesimo era così convincente" che "al suo impersonale aristotelismo fu
concesso il beneficio del dubbio", fu però per il modo nuovo di guardare ad
Aristotele, introdotto dall'Aquinate, che fu possibile l'assimilazione del pensiero
dello Stagirita, superando l'averroismo e le sue difficoltà.
Ma in cosa consisteva questo nuovo modo di guardare ad Aristotele proprio di
S. Tommaso? Innanzitutto, una maggiore fedeltà al testo aristotelico garantita
da un metodo di lavoro che risultava più sistematico di quello usato dai filosofi
arabi. Avicenna, infatti, non commentava direttamente il testo aristotelico, ma
ne presentava parafrasi, dove finivano per confondersi elementi platonici e
spunti personali, facendo così risultare difficile scorgere quanto di puramente
aristotelico fosse presente, come egli stesso ammette: "Non ho omesso nulla di
ciò che è di qualche valore nei libri degli Antichi. Se qualche elemento non si
trova nel luogo usuale o nel solito contesto, ciò significa che l'ho posto nel
luogo che ho stimato convenirgli di più." Averroè, invece, era solito
commentare il testo di Aristotele, tanto che S. Tommaso lo chiamava il
Commentatore e per Dante era l'autore del "gran commento". Tuttavia,
nell'operazione di commentare, S. Tommaso, che come Averroè partiva dal
testo Aristotelico, aveva elaborato un metodo in cui, a differenza dello stesso
Averroè, si sforzava di capire il significato del testo all'interno del pensiero
dello Stagirita. Ciò gli consentiva una maggiore criticità. A questo riguardo
risultano illuminanti le parole di Cornelio Fabro: "Non v'è dubbio che
l'originalità dell'innovazione dottrinale di S. Tommaso ha per principale causa
la conoscenza e l'assimilazione degli scritti di Aristotele. Infatti a differenza di
Alberto Magno, che come Avicenna fa la parafrasi, san Tommaso adotta, con
Averroè, il metodo letterale. La prima preoccupazione nei commenti tomisti è
di cogliere il senso diretto della littera del filosofo che a quell'epoca, per via
delle traduzioni varie, incomplete e spesso discordanti, non era impresa facile;
S. Tommaso ha cura poi di mostrare la struttura che ha il periodo nel capitolo,
il capitolo nel libro e il libro nel complesso dell'opera intera e del corpus
aristotelicum, con intento critico che nessun commentatore cercò ed ebbe
prima di lui. […] Perciò S. Tommaso può rimproverare ad Averroè, sulla base
dell'analisi del contesto, di non avere afferrato il metodo del filosofo: "Eius
expositio non est conveniens, quia non coniungit totum ad unam
intentionem" (De substantiis separatis, c.13; edizione a cura di Perrier, c. 12,
n. 77, p. 174)" (Cornelio Fabro, Introduzione a San Tommaso, Edizioni Ares,
1997 Milano, p. 68). Ed è tale criticità a consentire allo stesso Aquinate di
scoprire la vera origine del Liber de causis, erroneamente attribuita ad
Aristotele: "Speciale merito san Tommaso si guadagnò per avere individuato
l'origine del celebrato opuscolo De causis" (Ibidem, p. 73).
Tuttavia, l'originalità, con cui S. Tommaso guardava ad Aristotele, aveva, oltre
alla maggiore precisione e criticità, una causa ancora più radicale. S. Tommaso
guardava con estremo interesse ad Aristotele perché il pensiero dello Stagirita
era visto come una modalità nuova di leggere più a fondo la stessa esperienza
di fede cristiana vissuta. Fu quindi il desiderio di approfondire la propria
esperienza cristiana a muovere l'Aquinate verso Aristotele. L'aristotelismo,
perciò, non è tanto da vedersi come qualche cosa che si va ad aggiungere
estrinsecamente alla riflessione teologica e filosofica cristiana, attaccandosi in
qualche modo ad essa, quanto come uno sviluppo coerente di essa: "Il
movimento tomistico in metafisica […] fu un'espansione e una liberazione, fu
decisamente uno sviluppo della teologia cristiana dall'interno: decisamente non
fu un contrarsi della teologia cristiana sotto la spinta di influenze pagane e
nemmeno umane. […] Non si può capire la grandezza del tredicesimo secolo,
se non si comprende che fu una grande crescita di cose nuove prodotte da una
cosa viva. […] In una parola, san Tommaso rese più cristiana la cristianità
rendendola più aristotelica" (Chesterton, Introduzione a San Tommaso,
Piemme, 1998 Casale Monferrato, p. 28). Le affermazioni di Chesterton si
capiscono se si tiene presente che l'aristotelismo, con il suo realismo, il pieno
recupero e la valorizzazione della dimensione corporea e sensibile della realtà e
della conoscenza risultava decisamente in linea con il valore attribuito alla
corporeità dal cristianesimo in virtù dell'Incarnazione. Ciò significava che S.
Tommaso aveva un motivo per leggere e apprezzare Aristotele che era del
tutto estraneo alla cultura mussulmana. Per questo motivo Chesterton afferma
che "fu un miracolo squisitamente cristiano a far resuscitare il grande pagano",
precisando che "c'era davvero una nuova ragione per considerare i sensi, le
sensazioni del corpo e le esperienze dell'uomo comune, con un rispetto che
avrebbe sbalordito il grande Aristotele, e che nel mondo antico nessuno
avrebbe lontanamente capito. […] Dal momento che l'Incarnazione era
diventata l'idea centrale della nostra civiltà, era inevitabile che vi fosse un
ritorno al materialismo, nel senso del profondo valore della materia e della
creazione del corpo. Una volta risorto Cristo, era inevitabile che risorgesse
Aristotele" (Ibidem, pp. 97). In altre parole "sarebbe […] falso sostenere che
l'Aquinate traesse la sua prima ispirazione da Aristotele. […] San Tommaso
diventava più cristiano, e non semplicemente più aristotelico, quando ribadiva
che Dio e l'immagine di Dio erano entrati in contatto col mondo materiale
attraverso la materia" (Ibidem, pp. 23-24).
3. Differente sviluppo dell'aristotelismo e della filosofia
Come terzo ed ultimo punto su cui intendo soffermarmi affinché sia più chiaro
nelle sue linee essenziali ciò che avvenne nel XIII secolo e quali furono le sue
conseguenze, di cui si possono vedere alcuni effetti ancora oggi, vorrei fare
alcune considerazioni sul diverso sviluppo che ebbe l'aristotelismo e con esso la
filosofia nel mondo occidentale cristiano e nel mondo arabo mussulmano.
Se è vero che gli arabi furono il tramite attraverso il quale i pensatori
occidentali poterono entrare in contatto con Aristotele, è anche vero che
l'aristotelismo, e la filosofia con esso ebbero fortune ben diverse. Nell'occidente
cristiano, infatti, superate le difficoltà iniziali, Aristotele divenne punto di
partenza fondamentale per l'elaborazione della filosofia cristiana. La sintesi
tomista in particolare nel corso dei secoli assumerà un ruolo di primo piano
all'interno della Chiesa. Sebbene non possa essere identificata con la filosofia
della Chiesa, perché sarebbe improprio affermare che ne esista una,
sicuramente rimane ancora oggi una delle correnti di pensiero che è riuscita
meglio a conciliare la ragione e la sua capacità conoscitiva con la fede e i suoi
fondamentali contenuti. Per questo motivo viene indicata dallo stesso
Magistero come modello da imitare: "Nella sua riflessione [S. Tommaso],
infatti, l'esigenza della ragione e la forza della fede hanno trovato la sintesi più
alta che il pensiero abbia mai raggiunto, in quanto egli ha saputo difendere la
radicale novità portata dalla Rivelazione senza mai umiliare il cammino proprio
della ragione" (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 78). Anche nella filosofia
moderna si deve riconoscere come il pensiero è stato elaborato a partire da
Aristotele, o meglio da quella sintesi che i pensatori cristiani ne avevano fatto e
anche quando cercherà di allontanarsene sarà sempre una critica ad essa: "la
filosofia occidentale come tale è la critica della metafisica cristiana" (Gianni
Baget Bozzo, Di fronte all'Islam, Marietti, 2001 Genova, p. 39).
Diverso sicuramente risulta lo sviluppo del pensiero filosofico all'interno del
mondo arabo mussulmano. Qui non si verificò quella sintesi armonica tra
ragione e fede, operata da S. Tommaso in Occidente e alla lunga finì per
prevalere un atteggiamento in cui il Corano divenne l'unico punto di riferimento
autorevole. A questo si deve aggiungere che il testo sacro mussulmano, a
differenza delle Sacre Scritture cristiane non lasciava spazio all'interpretazione
e pertanto la stessa fede poteva essere difficilmente pensata criticamente. Si
finì così per mettere sempre più in secondo piano la riflessione filosofica, se
non addirittura per abbandonarla del tutto: "la grande civiltà araba terminò
nella Cristianità. Gli eredi di Avicenna e di Averroè sono nell'Occidente
cristiano, non nel mondo islamico. I cristiani portarono nel mondo islamico la
sorgente greca, ma essa si esaurì dopo un periodo di splendore: l'Islam si
rivelò incompatibile con la filosofia. La scelta fu di fermarsi al Corano,
bloccando la dinamica del pensiero" (Gianni Baget Bozzo, Di fronte all'Islam,
Marietti, 2001 Genova, p. 30). Il mancato sviluppo del pensiero aristotelico e
più in generale filosofico deriva quindi dall'incapacità di superare il contrasto
tra il Corano e il sapere filosofico, incapacità che viene espressa da Chesterton
con la sua consueta ironia in questi termini: "dei filosofi maomettani possiamo
dire in generale che quanti divennero dei bravi filosofi divennero cattivi
mussulmani" (Chesterton, Introduzione a San Tommaso, Piemme, 1998 Casale
Monferrato, pp. 67-68)
Quali furono le principali cause che determinarono di fatto questa incapacità di
conciliare ragione e fede, filosofia e teologia, all'interno del mondo
mussulmano? La figura di Averroè a questo riguardo è significativa perché
forse nessuno meglio di lui rappresenta il duplice tentativo fallito di affermare
la possibilità di interpretare il Corano da un lato e di conciliare l'ambito
teologico con quello filosofico, la ragione con la fede dall'altro. Per quanto
riguarda l'interpretazione del Corano bisogna tenere presente una differenza
radicale che si è originata nel corso dei secoli rispetto al modo di interpretare
la Bibbia da parte del cristiano. Per il mussulmano il Corano è "dettato" da Dio,
e almeno a partire dal XI secolo, ciò ha eliminato ogni possibilità di
interpretazione. A differenza la Bibbia, che è sempre stato concepito come un
testo ispirato, in cui l'ispirazione è mediata dall'uomo, ha sempre lasciato
spazio all'interpretazione, alla possibilità di scostarsi dalla lettera per cogliere
attraverso l'uso della ragione il significato allegorico. A volte questo è risultato
storicamente difficile, ma sempre possibile in linea di principio. "Per il
mussulmano, il Corano non è rivelato, o ispirato come la Bibbia per i cristiani,
ma è disceso su Maometto. Il Corano storico è la trascrizione letterale del
Corano che si trova presso Dio e che è "disceso" e ha preso la forma del
Corano storico; non è una creazione di Maometto. […] La conseguenza
teologica di questo dogma è gravissima: se il Corano è una "discesa", allora
non c'è più la possibilità di interpretare. Io posso fare la critica biblica - ed essa
viene fatta non già dall'Illuminismo, ma a cominciare dai Padri della Chiesa -,
perché questo testo è rivelato da Dio in modo umano, perché l'Incarnazione
già si compie nella Bibbia. […] Un testo simile non mi lascia alcuno spazio di
interpretazione critica o storica, neppure per quegli aspetti che più
palesemente sono legati agli usi e costumi di un contesto storico e particolare
ormai superato. Questo è il punto: qual è il ruolo della ragione nell'interpretare
il testo? Su questo argomento, Averroè ha scritto un famoso trattato, tradotto
almeno due volte in italiano, Il trattato decisivo sull'armonia tra la ragione e la
legge rivelata. È davvero un libro splendido, straordinario: ciò che Averroè
cerca di dire è che abbiamo diritto di interpretare il Corano, anzi abbiamo il
dovere di interpretarlo, e non solo di commentarlo. Tuttavia ad un certo punto
si è deciso che l'interpretazione non è possibile, che anche solo cercare di
capire che significa per noi è come ripensarlo. Questa è la tragedia del mondo
islamico: nessuno sa veramente chi l'abbia deciso, ma per tutti è così, dal X-XI
secolo in poi la "porta dello sforzo personale" dell'interpretazione è chiusa e
nessuno riesce più ad aprirla" (Samir Khalil Samir, Origini e natura dell'Islam,
in AAVV, Islam: una realtà da conoscere, Marietti, 2001 Genova, pp. 28-30.) Il
tentativo di Averroè di distinguere diversi piani di lettura del Corano, a seconda
delle diverse categorie di spiriti e di uomini, quello filosofico, quello teologico,
quello della fede rimase non solo inascoltato, ma anche osteggiato tanto che lo
stesso Averroè fu esiliato e riammesso nella comunità islamica solo poco prima
di morire. Inoltre tale prospettiva, quella di distinguere diversi metodi di
leggere il Corano rispetto ai diversi tipi di uomini (filosofo, teologo, semplice
credente), non era esente da una certa ambiguità di fondo. Infatti, se si
verificavano contrasti tra l'ambito filosofico ed il mondo del semplice credente
Averroè poteva rispondere: "lasciamo il filosofo parlare da filosofo ed il
semplice credente parlare da credente", ma si dà il caso che Averroè fosse
nella condizione di essere contemporaneamente entrambe le cose e allora? La
filosofia doveva considerarsi qualcosa di superiore alla Rivelazione stessa? Si
poteva fare a meno della fede una volta raggiunto il livello filosofico? Averroè
da mussulmano non avrebbe mai potuto accettare tale soluzione. Quindi
quando Averroè cercava di conciliare quanto indagato e colto dalla ragione con
il contenuto della Rivelazione, trovando grosse difficoltà ad ipotizzare che il
contenuto di quest'ultima, anche quando sembrava contraddire la ragione
stessa, fosse diversamente spiegabile che in modo letterale, non aveva altra
strada che affermare, non senza una certa ambiguità, che ragione e fede erano
come due strade parallele. Affermazione che conteneva una certa ambiguità,
tanto che erroneamente, perché non fu mai sostenuto da Averroè, gli interpreti
cristiani la identificarono con la tesi che sosteneva l'esistenza di una doppia
verità.
Ben diversa è la posizione di S. Tommaso che, recuperando quanto nei secoli a
lui immediatamente precedenti aveva rischiato di andare perduto, riaffermò
con decisione la possibilità di interpretare anche in modo allegorico le Sacre
Scritture, aiutandosi in tale lavoro anche con quanto emerso a partire
dall'indagine della ragione stessa: "Sul tema dell'ispirazione delle Sacre
Scritture, fu il primo a mettere in rilievo il fatto evidente, dimenticato da
quattro furiosi secoli di battaglie settarie, che il significato delle Sacre Scritture
è tutt'altro che evidente; e che spesso dobbiamo interpretarlo alla luce di altre
verità. Se un'interpretazione letterale è veramente e apertamente contraddetta
da un fatto ovvio, ebbene allora dovremo necessariamente concluderne che
l'interpretazione letterale dev'essere una falsa interpretazione" (Chesterton,
Introduzione a San Tommaso, Piemme, 1998 Casale Monferrato, p. 70). Ciò
era sostenibile da S. Tommaso perché egli era convinto che tra ragione e fede
dovesse esserci un pieno accordo. Pieno accordo che non significa che il
contenuto della Rivelazione non superi quanto la stessa ragione con le sue sole
forze può raggiungere, ma che non può contraddire quanto la ragione stessa
con le sue forze è riuscita a cogliere in modo corretto: "Sebbene la verità della
fede cristiana superi la capacità della ragione, tuttavia i princìpi naturali della
ragione non possono essere in contrasto con codeste verità […] è impossibile
che una verità di fede possa essere contraria a quei princìpi che la ragione
conosce per natura" (S. Tommaso, Summa contra Gentiles, I, 7). Tale pieno
accordo nella concezione di S. Tommaso trova il suo fondamento ultimo nella
comune origine divina delle due diverse conoscenze, quella per fede e quella
razionale: "La luce della ragione e quella della fede provengono entrambe da
Dio, egli argomentava; perciò non possono contraddirsi" (Giovanni Paolo II,
Fides et ratio, 43).
È questo modo di risolvere il problema del rapporto tra ragione e fede che ha
consentito all'occidente di sviluppare un pensiero filosofico con una propria
autonomia, che non necessariamente ha significato indipendenza e
autosufficienza della filosofia (affermate solo a partire dalla modernità), ma
semplicemente che la ragione ha un proprio ambito di indagine in cui muoversi
secondo princìpi e procedimenti propri. Ciò non si è verificato nel mondo
islamico dove l'autonomia della ragione non è stata riconosciuta. Significativo a
questo riguardo prendere, a titolo assolutamente esemplificativo, cioè senza in
alcun modo pretendere di esaurire l'argomento, il problema dei diritti
dell'uomo. Perché infatti, la cultura islamica fatica a recepire alcuni dei diritti
fondamentali della persona riconosciuti dall'Occidente, sebbene lungo un
itinerario a volte tortuoso e difficile? Semplicemente perché nella loro cultura è
di fatto privo di valore parlare di diritti dell'uomo, perché questi richiedono che
sia stato individuato uno statuto ontologico proprio della natura umana, a
partire dal quale ricavare per via razionale una legge naturale. Richiedono cioè
che sia possibile una filosofia morale. Mentre tale percorso è stato fatto proprio
dal mondo cristiano a partire da S. Tommaso, per il quale è possibile indagare
razionalmente l'uomo per conoscere tutta una serie di leggi morali, che sono
proprie della dimensione umana, ciò non è avvenuto nel mondo islamico dove
non è contemplata, o comunque fortemente ostacolata dagli ambienti religiosi,
la possibilità di una fondazione filosofica della morale. Pertanto, "in ambito
cristiano la legge morale naturale è considerata espressione della legge divina,
quindi la legge divina si manifesta attraverso due canali: la legge positiva - ad
esempio i dieci comandamenti, che sono rivelati - e la legge morale naturale,
cioè la coscienza che parla all'interno dell'uomo, i cui dettami l'uomo può
conoscere con la propria ragione, con la propria esperienza" (Andrea Pacini,
L'Islam e i diritti, in AAVV, Islam: una realtà da conoscere, Marietti, Genova
2001, pp. 80-81). Invece "all'interno dell'Islam, sebbene nei primi secoli,
quando più forte era la speculazione filosofica, vi è stato un dibattito a questo
proposito, poi tale concetto non si è imposto e si è privilegiata in maniera
unilaterale la dimensione del diritto divino rivelato" (Ibidem, p. 81). Così il
mondo occidentale, grazie al riconoscimento di S. Tommaso dell'assoluto valore
della ragione e della sua autonomia, è riuscito, non senza difficoltà, a
riconoscere un livello universale dei diritti. Il mondo islamico, invece, non
riconoscendo lo stesso valore alla ragione, si è così di fatto precluso, almeno
fino ad ora, e lo dimostrano le numerose polemiche e riserve con cui è stata
accettata e non da tutti i paesi islamici la Dichiarazione dei Diritti dell'uomo del
1948, la possibilità di parlare di diritti universali dell'uomo. Non solo, ma di
fatto nei paesi islamici, anche in quelli così detti moderati, si vive
contraddicendo palesemente alcuni dei principali diritti riconosciuti
internazionalmente dal 1948. Basti ricordare, per citarne solo alcuni, la
disuguaglianza a livello giuridico e sociale tra l'uomo e la donna, l'assenza di
libertà di coscienza, per cui non è possibile al mussulmano convertirsi ad altra
religione senza essere punito (pena di morte nei paesi più intransigenti, morte
civica nei paesi moderati), l'assenza o le forti limitazioni in fatto di libertà
religiosa. Diritti che non vengono riconosciuti o che vengono sistematicamente
ignorati e calpestati perché il diritto divino rivelato, ricavabile dal Corano e
dalla Sunna, secondo scuole giuridiche che differiscono tra loro per maggiore o
minore fedeltà alla lettera, è l'unico esistente e non li prevede o addirittura ne
chiede la loro violazione.
Questo diverso sviluppo del pensiero filosofico tra mondo occidentale (cristiano
nelle sue origini) e mondo islamico, trova, oltre al diverso modo di rapportarsi
ai testi Sacri e quindi ai testi classici, un ulteriore motivo di spiegazione nel
diverso modo di concepire Dio e il rapporto tra Dio e le creature.
"Nell'Islam nulla conta l'uomo, sia pure il suo Profeta, di fronte all'assoluta
sovranità eterna di Dio, al quale egli deve darsi, abbandonarsi. Assoluta è la
distanza abissale fra Dio e uomo. Dio è il Signore, l'uomo lo schiavo. In questa
religione Dio è liberissimo ed arbitrario. Accanto a questa adogmaticità
assoluta, vi sono soltanto semplici istruzioni normative e organizzative per
questo mondo" (cfr. C. Baffioni, Storia della filosofia islamica, Milano 1991, p.
5). È a partire proprio da questa concezione di Dio infatti, che Al-Ghazzali nel
XII secolo scrive, con l'intento di confutare l'altro grande aristotelico
mussulmano Avicenna, un'opera dal significativo titolo La distruzione dei
filosofi. Egli cioè nega la possibilità stessa di argomentare intorno alla realtà,
perché non esiste legge naturale, in quanto la realtà è regolata,
costantemente, dal volere divino stesso che è totalmente arbitrario.
Soprattutto è impossibile riconoscere nessi di causa-effetto nella realtà e tanto
meno tra realtà creata ed creatore: "Non è necessario, secondo noi, che nelle
cose che abitualmente accadono, si cerchi un rapporto ed un legame tra ciò
che si crede essere la causa e ciò che si crede essere l'effetto" (Cit. in Gilson,
La filosofia nel Medioevo, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 431). Risulta del
tutto impossibile pertanto pensare a Dio, parlare di Dio, se non come l'autore,
che continua a rimanere celato, del comando, che viene rivelato nel Corano.
Risulta di fatto impossibile una metafisica. Critica, quella di Al-Ghazzali, che
ebbe i suoi effetti allora, se come rileva Gilson, ebbe come risultato "quello di
fare emigrare la filosofia mussulmana in Spagna", ma che di fatto continua a
rimanere latente e a costituire una grossa obiezione alla possibilità stessa di
qualsiasi tentativo di filosofia (intesa come metafisica) tutt'oggi.
Le cose sono andate diversamente se si guarda alla tradizione cristiana. Ancora
una volta la concezione cristiana stessa di Dio e il modo di concepire il rapporto
tra creatore e creatura possono essere viste come fattore che facilitò la piena
assimilazione del pensiero Aristotelico. Infatti, qui il rapporto tra Dio e l'uomo,
tra Dio e la realtà, non è più immaginato come qualcosa di assolutamente
distante. Anzi, l'uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio, la realtà, che
è opera della creazione, di Dio (significativo il fatto che nel Corano non
esistano racconti della creazione) è segno di Dio. Quindi la ragione può e, in un
certo senso deve, se vuole essere conforme alla sua natura, risalire dalla
creatura al Creatore. S. Tommaso nell'appropriarsi del metodo filosofico di
Aristotele trovò uno strumento validissimo per indagare la realtà sensibile,
mostrandone la propria insufficienza e la necessità di ammettere l'esistenza di
Altro che potesse rendere ragione della stessa realtà di cui faceva esperienza:
"L'esistenza esiste; ma non è abbastanza autosufficiente; e non diventerebbe
tale semplicemente col continuare ad esistere. Lo stesso senso primario che ci
dice che è essere, ci dice che non è essere perfetto; imperfetto non solo nel
popolare senso polemico che contiene peccato o dolore; ma imperfetto come
essere; meno attuato dell'attuazione che esso implica. Per esempio, il suo
essere è spesso solo divenire; cominciare ad essere o finire di essere; implica
una cosa più costante e completa della quale non offre in se stesso nessun
esempio. È questo il significato della basilare affermazione medievale: "Tutto
ciò che si muove è mosso da altro"; che, nel linguaggio chiaro e sottile di San
Tommaso, implicitamente sta a significare più del semplice deistico "qualcuno
ha caricato la pendola" col quale probabilmente viene spesso confuso.
Chiunque rifletta profondamente vedrà che il moto ha in sé una fondamentale
incompletezza che tende a qualcosa di più completo" (Chesterton, Introduzione
a San Tommaso, Piemme, 1998 Casale Monferrato, p. 145).
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