Prima edizione 2013, Padova University Press Titolo originale © 2013 Padova University Press Università degli Studi di Padova via 8 Febbraio 2, Padova www.padovauniversitypress.it Redazione Progetto grafico Immagine di copertina ISBN Stampato per conto della casa editrice dell’Università degli Studi di Padova - Padova University Press nel mese di Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati. Abeunt studia in mores. Saggi in onore di Mario Melchionda PADOVA UNIVERSITY PRESS Prefazione L’accezione baconiana del titolo vuole essere un riconoscimento a cinquanta anni di attività accademica in cui gli studi linguistico-letterari si sono fatti sostanza di vita e passione di ricerca e insegnamento. Chi lo conosce – e uno dei due curatori per consuetudine di quasi mezzo secolo, passata all’altro per proprietà transitiva – sa dell’esuberanza verulamia di Mario: la latitudine di interessi; l’eloquio pronto, articolato, arguto, e sapido di conoscenze affidate a un vivido teatro della memoria; l’impegno profuso anno dopo anno e giorno per giorno in quella che è stata magna pars della sua vita universitaria – insegnamento e responsabilità istituzionali. E sa della generosità intellettuale e morale che in lui ha sempre sussunto l’accademico nell’uomo. I saggi raccolti in questo volume ruotano attorno ad alcuni dei suoi interessi principali, e speriamo lo rappresentino nella varietà di ambiti, di lingue e di mondi evocati. Li accomuna il tentativo di rispondere alla più grande dote di Mario, la generosità. Abbiamo deciso di concentrarci sulle tre principali aree di interesse (e di lavoro) di Mario: il rinascimento inglese, e i suoi rapporti con l’età classica e l’Italia, spaziando dal teatro alla lirica alla poesia epica; le letterature in lingua inglese degli ultimi due secoli; e la traduzione letteraria, che Mario ha esplorato nei rapporti e negli intrecci tra più lingue, come dimostrano i suoi studi su Anabase. Inevitabilmente, tra le tre parti del volume gli echi e i rimandi si inseguono. Così la prima sezione si apre con uno studio della prima traduzione in lingua inglese dell’Eneide virgiliana, ad opera dello scozzese Gavin Douglas: qui Alessandra Petrina esplora i margini del testo, concentrandosi sul prologo del primo libro e sul rapporto che il traduttore instaura con la sua fonte. Michele Stanco ci porta invece nella poesia lirica, discutendo i Canzonieri elisabettiani (in particolare le raccolte di Philip Sidney, Edmund Spenser e William Shakespeare), nei quali il poeta offre una maschera lirica che sia allo stesso tempo palesamento autobiografico e dichiarazione poetica. In entrambi i saggi il tentativo è di rivelare l’intenzione dell’autore in ambito poetico prima ancora che biografico o sentimentale. Si passa poi al teatro elisabettiano, aprendo con Franco Marenco che ci accompagna in un’esplorazione del tanto discusso rapporto tra Seneca, Thomas Kyd e William Shakespeare, ricostruendo così l’evoluzione della tragedia di vendetta dal modello senecano ad Amleto: un’evoluzione che, come ci mostra Marenco, passa per la coscienza dell’eroe tragico di essere protagonista di una finzione retorica. Alice Equestri ci porta invece in un altro ambito shakespeariano, quello dei romances, e analizza il meno esplorato rapporto di Shakespeare con le sue fonti inglesi medievali, e in particolare con Chaucer, leggendo Hermione come moderno ritratto di Griselda. Infine, Sara Trevisan guarda a The Merchant of Venice, leggendone l’immagine del naufragio e della fortuna affidata al mare come metafora dell’esistenza umana. Attraverso questi tre esempi, a cui aggiungiamo il saggio di Stanco, il lettore potrà avventurarsi per felice caso nella varietà di temi e generi dell’opera shakespeariana, e Mario potrà ripercorrere anni di analisi e discussione con i suoi studenti e i suoi colleghi. Rocco Coronato si rivolge invece a Ben Jonson e al suo Every Man in His Humour per coniugare con grazia close reading e ipotesi interpretative; dal confronto tra le due versioni del testo, in particolare per quanto riguarda l’uso o l’abuso di prophanities, emerge in filigrana il lavoro dell’autore-revisore, stretto tra le esigenze del palcoscenico, i dettami della censura e il dettato della musa. Di diverse esigenze del palcoscenico ci parla Fiona Dalziel, che negli ultimi quindici anni è stata l’anima di uno straordinario progetto di teatro in lingua inglese, realizzato con e per gli studenti presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Anglo-Germaniche e Slave (poi confluito nel Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari). A questo progetto Mario ha aderito con entusiasmo, collaborando in particolare alla messa in scena di testi elisabettiani; e il suo determinante apporto quando, nel 2009, l’English Theatre Workshop decise, con lucida follia, di mettere in scena The Duchess of Malfi, è qui ricordato con arguzia e gratitudine. La sezione si chiude con uno dei poeti più ostinatamente amati da Mario, John Milton: se Marialuisa Bignami si dedica ai sonetti miltoniani e al loro rapporto con l’italiano, Carla Gnappi ci riporta al tema della poesia epica nel suo rapporto con fonti straniere e tradizione classica, analizzando nel prologo del primo libro del Paradise Lost l’immagine del Creatore “brooding on the vast Abyss”. In entrambi i casi prestiti interlinguistici e influenze che travalicano i confini di nazione, di epoca e di genere giocano un ruolo importante, e Milton viene rappresentato nella sua vorace curiosità di lettore prima ancora che come sommo scrittore britannico. Il passaggio di confine si fa ancora più evidente nella seconda sezione del volume, dedicata alle letterature in lingua inglese dall’Ottocento a oggi, offrendo quindi una panoramica della straordinaria esplosione di ambiti culturali e di genere a cui abbiamo assistito negli ultimi due secoli. Chi scrive conosce l’interesse di Mario per i nuovi fenomeni letterari, il suo entusiasmo per gli autori emergenti (come quando dopo la lettura di Waterland di Graham Swift esclamò, “Non è stato scritto nessun romanzo più bello dopo Virginia Woolf!”), la sua inesauribile attenzione. Questo serto di doni, che va da Dickens a Ishiguro, è perciò tanto più gradito. A Dickens si dedica Patrizia Zambon, mostrandoci come il popolare personaggio di Scrooge, in tempi pre-disneyani e quindi non sospetti, fosse già diventato popolare in Italia attraverso traduzioni e rifacimenti, e venisse fatto oggetto di discussione e creativa imitazione anche da scrittori come Dino Buzzati e Tomasi di Lampedusa – un riflesso dell’attenzione che la cultura italiana ha riservato e riserva alla grande tradizione della narrativa britannica. I saggi successivi ci portano invece oltreoceano: Stefano Bosco studia la poesia della Guerra Civile Americana, concentrandosi soprattutto su Walt Whitman e Herman Melville – autori di cui si è innamorato proprio grazie a Mario; Anna Scacchi ritorna sul tema dell’identità nazionale espressa attraverso le forme letterarie: se Bosco esplora la presa di coscienza della propria identità attraverso le forme poetiche, Scacchi si dedica più specificamente alla questione della lingua, e ci mostra i primi dibattiti sulla possibilità di una lingua nata sul Tamigi di rappresentare la grandezza del Mississippi. Attraverso tale analisi ritroviamo l’attenzione al ruolo della lingua come veicolo della riforma culturale, che è uno dei motivi che percorrono questo volume. Ritorniamo in Europa, ma ci spostiamo a sud con il contributo di Barbara Gori, che di Fernando Pessoa, icona eteronimica della letteratura portoghese, studia l’opera di sperimentatore lirico in lingua inglese. Carol Taylor si dedica invece a una delle scrittrici più amate da Mario, Virginia Woolf, e garbatamente affronta la questione dell’appartenenza a un genere letterario attraverso l’analisi linguistica: prova ulteriore, se ce ne fosse bisogno, che lo studio della lingua e della letteratura rimangono arti sorelle, e di reciproco sostegno. I saggi conclusivi di questa sezione ci portano in ambito contemporaneo, e ci permettono di riconsiderare la vexata quaestio del rapporto tra uno scrittore, la sua lingua e il suo territorio. Gli scrittori e gli uomini di cultura qui studiati sono tutti, per diversi motivi, stranieri alla loro lingua: lo sono Athol Fugard, John Kani e Winston Ntshona, che nel saggio di Annalisa Oboe vengono mostrati protagonisti di un progetto di teatro sperimentale a Città del Capo, progetto che ha dato il via a una straordinaria stagione letteraria e teatrale; lo è a suo modo anche Kazuo Ishiguro, che ci rappresenta l’alienazione attraverso la distopia di Never Let Me Go, romanzo studiato da Stefano Manferlotti attraverso la lettura dell’autocommento, le postille e i marginalia che gli autori contemporanei aggiungono alla propria opera attraverso interviste, trasmissioni televisive, blog. Mentre gli autori dei paesi emergenti, insomma, ritrovano e rivendicano il loro spazio di espressione, altri scrittori cercano spazi nuovi, in un infinito intreccio che ci rimanda a Gavin Douglas e ai suoi prologhi di traduttore. Infine, la terza sezione è più esplicitamente dedicata alla traduzione nella letteratura, che come si è visto è tema ricorrente già nelle altre. Anche qui la ricchezza è nella varietà: la definizione dello spazio linguistico anglofono viene offerta da Alberto Mioni in un tour de force linguistico che abbraccia l’Authorised Version così come i fenomeni più recenti di globish; dal canto suo, Jeremy Scott, anch’egli linguista ed esperto di lingua inglese, ci regala un’esplorazione del buono e malo uso della punteggiatura, e delle trappole che incontra lo sventurato traduttore quando viene messo a confronto con un esperto dell’arte della pausa come James Joyce. Muovendosi con spigliatezza tra cinema, letteratura, teatro e opera lirica, Pier Vincenzo Mengaldo ci offre una passeggiata nella foresta della traduzione in italiano in epoca moderna e contemporanea, invitando Mario e con lui il lettore a incontri plurilingui; come fa anche Gianfelice Peron seguendo le avventure e disavventure traduttive del titolo della Waste Land (un omaggio anche a quella straordinaria traduzione che ne fece Mario ormai vent’anni fa). Mengaldo e Peron si muovono tra lingue e culture con brio e passione; come giustamente nota Mengaldo in conclusione del suo saggio, quando osserviamo il lavoro del traduttore siamo “all’incrocio, e dunque in un trivio, fra linguaggio del tradotto, il proprio e le convenzioni o costrizioni della propria tradizione poetica, antica e nuova” – una situazione che Mario ben conosce. Altre culture ancora fanno capolino attraverso lo studio dei fenomeni traduttivi, come l’ungherese, in cui ci porta Cinzia Franchi andando a vedere quanto è entrato della cultura magiara in Italia, e quanto ancora ci sarebbe da fare per una più piena comprensione di questa letteratura. Chiara Conterno invece ci propone un’altra figura di scrittore errante, Rose Ausländer (ed è quasi di troppo esclamare qui nomen omen!), traduttrice e poetessa ebraica che visse tra l’Impero Austroungarico e la Germania nazista, rivendicando, anche grazie alle sue traduzioni e alle sue aperture a diverse culture, il diritto alla libertà di appartenere e di esplorare. Infine, Marcello Piacentini propone le versioni dell’epigramma di Giano Vitale sulle rovine di Roma nelle varie versioni, inglese, francese, tedesca, spagnola e polacca, di un talvolta sperduto originale latino: a ricordarci che la nostra diaspora linguistica europea si ricompone incessantemente nella lingua dei padri. Il volume si chiude con due affettuose offerte traduttorie di Giuseppe Brunetti (un’elegia antico inglese) e Paola Bottalla (l’esordio di un saggio di Bacone). Sono l’omaggio di due compagni di viaggio e conversazione, che si fanno portavoce dei saluti di tutti – “Fare well and fare forward, voyager”.