NOMINA DEL DIFENSORE E INAMMISSIBILITÀ DEL RICORSO La sentenza n. 22601 dell’8 luglio 2004 (depositata il 2 dicembre 2004) della Corte di cassazione, Sezioni Unite Civili, trae origine dal contrasto giurisprudenziale in ordine alle conseguenze della mancata sottoscrizione, da parte di difensore tecnico abilitato, del ricorso proposto alla Commissione tributaria, per cause eccedenti i cinque milioni di lire. Con la citata pronuncia, l’organo supremo della giustizia, in ossequio al principio di certezza del diritto, dichiara di far proprie le conclusioni cui era pervenuta la Corte Cost. nella sentenza 13 giugno 2000, n. 189 (interpretativa di rigetto), che aveva dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale - sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24, comma 1, Cost. - del combinato disposto degli artt. 12, comma 5, e 18, commi 3 e 4, D.lgs. 30 dicembre 1992 n. 546, ove interpretato nel senso che il ricorso sottoscritto dal solo contribuente sia inammissibile. Secondo la Consulta, infatti, l’inammissibilità del ricorso deve intendersi riferita soltanto all’ipotesi in cui sia rimasto ineseguito l’ordine del Presidente della commissione, della sezione o del collegio, rivolto alle parti diverse dall’amministrazione, di munirsi, nel termine fissato, di assistenza tecnica, conferendo incarico a difensore abilitato. La decisione, al di là del suo specifico oggetto, è importante per la rilevante attualità della problematica attinente ai rapporti tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, in relazione al problema dell’attività interpretativa delle disposizioni impugnate. Si tratta della dialettica tra il ruolo della Cassazione, nella sua funzione di nomofilachìa1, e quello della Corte Cost., quale giudice delle leggi, e, dunque, della dibattuta quaestio se la funzione della prima esplichi influenza anche nei confronti della Corte costituzionale, ovvero se quest’ultima possa opporre alla lettura nomofilattica della norma oggetto di giudizio una differente interpretazione adeguatrice2. Un breve excursus storico si rende opportuno per la comprensione delle ragioni, politiche e giuridiche al tempo stesso, che hanno dato origine alla querelle. La norma fondamentale che definisce le funzioni della Corte di cassazione è rappresentata dall’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario, approvata con il R.D. 30 gennaio 1941 n. 12, che assegna alla Corte il compito di assicurare, nella sua qualità di “organo supremo della giustizia”, “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge” e “l’unità del diritto oggettivo nazionale”, attraverso la fissazione di “precedenti” suscettibili di esercitare un’importante efficacia persuasiva nei confronti degli altri giudici e di tutti gli operatori del diritto. Ciò si verifica in virtù del sistema piramidale dell’ordinamento delle giurisdizioni, le quali sono inquadrate in modo che sussista la possibilità, almeno teorica, che le questioni decise dai giudici di prima o di seconda istanza distribuiti sul territorio dello Stato vengano riesaminate da un unico organo accentrato, che è appunto la Corte suprema di cassazione. Senza che in tal modo si formi tra i giudici un rapporto di gerarchia, che ne limiterebbe la libertà di decisione, garantita dal principio costituzionale in virtù del quale essi sono sottoposti soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), tale possibilità di riesame viene a concretare un’influenza sulle determinazioni dei giudici più vicini alla base della piramide, influenza derivante dal fatto che ove la loro decisione dovesse venire sottoposta al controllo della Corte di cassazione è da presumere che questa tornerebbe ad adottare la stessa interpretazione già posta a base delle precedenti sentenze3. Dunque, la collocazione istituzionale della Corte al vertice del sistema le consente di porre fine alle frequenti oscillazioni interpretative su una stessa questione riscontrabili nelle sedi giudiziarie, onde perseguire l’obiettivo di fare chiarezza nella confusione creatasi nella giurisprudenza delle corti inferiori e di rendere costante il significato attribuito alla norma. In tal senso, trovano realizzazione le funzioni di Dal greco: nomos, legge, e phylakè, custodia. (Nell’antica Grecia, il nomofilàce era il magistrato che custodiva il testo ufficiale delle leggi.) 2 Secondo autorevole insegnamento dottrinario, “l’interpretazione adeguatrice” non si traduce solo nell’assegnare la prevalenza, tra più alternative ermeneutiche, a quella in sintonia con la Costituzione, ma anche nel riformulare alla luce dei principi costituzionali il contenuto di norme che, in origine, ne erano distanti. 3 A. Pizzorusso, La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale: comandi o consigli?, in Riv. trim. dir. pubbl. 1963, p. 394. 1 1 nomofilachìa e di uniformità giurisprudenziale che, secondo l’insegnamento di Calamandrei, rappresentano termini di un’endiadi inscindibile. La Costituzione italiana del 1947 non disciplina invece espressamente le funzioni della Corte di cassazione, pur menzionando la stessa negli artt. 104, comma 3; 106, comma 3; 111, commi 7 e 8. In tale omissio legis si può cogliere l’intento di recepire la disciplina che al tribunale supremo riservava l’ordinamento preesistente. D’altra parte, il carattere rigido del nuovo testo costituzionale ha posto l’esigenza che le sue norme vengano garantite contro possibili violazioni a opera del legislatore. Ai padri costituenti apparve dunque necessario prevedere un meccanismo che consentisse il sindacato delle leggi ordinarie per preteso contrasto con la Costituzione, a garanzia appunto della rigidità di quest’ultima. Le soluzioni prospettabili al riguardo erano due: un sindacato diffuso (o giurisdizione di costituzionalità diffuso), rimesso ai giudici ordinari che, all’atto di applicare la legge, avrebbero dovuto accertarne la conformità alla Costituzione e disapplicarla in caso di riscontrata difformità (secondo la collaudata esperienza americana4); ovvero un sindacato accentrato (o giurisdizione di costituzionalità accentrata), che avrebbe riservato la legittimazione a sorvegliare gli eventuali abusi contra constitutionem del potere legislativo a un solo organo, di natura prevalentemente giurisdizionale (meccanismo che aveva trovato precedente concretizzazione nella Costituzione austriaca del 1919). La scelta dell’Assemblea Costituente si è orientata per quest’ultima soluzione, con l’istituzione di una magistratura speciale, la Corte Cost., cui l’art. 134 Cost. riserva, tra le altre funzioni, quella di giudicare “sulla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”. Il sindacato accentrato ha trovato concretizzazione solo nel 1956, anno in cui ha cominciato a funzionare la Consulta, ed è stata preceduta da una fase durante la quale lo stesso controllo è stato esercitato in forma diffusa dai giudici ordinari, per esplicita statuizione della VII disp. trans. Cost.. Questa vicenda offrì alla Corte di cassazione l’opportunità di assumere un ruolo simile a quello della Corte americana […]; la Corte di cassazione apparve in questa occasione sotto ogni aspetto impari al compito che le opportune circostanze le offrivano di assumere. Ciò impedì […] che tale sistema, instaurato in via transitoria a partire dal 1947, potesse risultare abbastanza efficace da far sentire come superflua l’effettiva costituzione della Corte costituzionale5. Peraltro, una volta che quest’ultima ha intrapreso l’esercizio delle sue funzioni giudiziarie è sorto il problema del suo rapporto con il giudice della legittimità; ciò soprattutto a causa del fatto che la Corte costituzionale, dovendo interpretare la legge sottoposta a controllo ai fini dell’esercizio delle sue funzioni, è venuta a rompere quella sorta di monopolio dell’interpretazione, che l’art. 65 R.D. 30 gennaio 1941 n. 12, attribuiva invece alla Cassazione, e a proporsi come punto di riferimento alternativo ad essa per i giudici di merito6. Il problema sorge dal fatto che la sottoposizione di una norma al vaglio di costituzionalità presuppone una certa interpretazione della stessa da parte del giudice rimettente; interpretazione che, in caso di provenienza dell’impugnativa da parte della Cassazione, è costituita dall’attività di nomofilachìa. Donde il problema di verificare se la Corte costituzionale, nell’esercizio del suo sindacato, si senta (o si debba sentire) vincolata da siffatta esegesi ovvero possa prescindere dalla stessa, reinterpretando diversamente la norma denunciata. Il rapporto tra le due Corti apicali ha costituito oggetto nel corso degli anni di un lungo processo evolutivo, caratterizzato da contrasti anche sincronici di giurisprudenza, continui sbandamenti e oscillazioni valutative. Le posizioni giuridiche a confronto nel panorama dottrinale e giurisprudenziale possono riassumersi in questi termini. La prima fase è cristallizzata nella sentenza n. 3 del 1956, in cui la Corte Cost. mostra un atteggiamento rispettoso delle interpretazioni giurisprudenziali. In tal senso, passaggio fondamentale della parabola motivazionale della citata pronuncia è il seguente: “la Corte, pur ritenendo di potere e di dovere Il sistema in questione, peraltro, aveva suscitato in passato vivaci discussioni, a seguito delle frequenti ingerenze dei giudici ordinari nel merito delle scelte legislative; il fenomeno, polemicamente etichettato “governo dei giudici”, era stato censurato sotto il profilo della sostanziale alterazione della distribuzione costituzionale delle competenze. 4 5 6 A. Pizzorusso, voce Corte di cassazione, in Enc. Giur. Treccani. A. Pizzorusso, voce Corte di cassazione, in Enc. Giur. Treccani. 2 interpretare con autonomia di giudizio e di orientamenti e la norma costituzionale che si assume violata e la norma ordinaria che si accusi di violazione, non può non tenere il debito conto di una costante interpretazione giurisprudenziale che conferisca al precetto legislativo il suo effettivo valore nella vita giuridica, se è vero, come è vero, che le norme sono non quali appaiono in astratto, ma quali sono applicate nella quotidiana opera del giudice, intesa a renderle concrete ed efficaci”.7 Siffatto atteggiamento ha caratterizzato un periodo di breve durata, cui ha fatto seguito una fase di aperta conflittualità, che si colloca temporalmente intorno agli anni ’60 del secolo scorso. Sintomatica in tal senso è la pronuncia n. 11 del 19658, in cui la Corte Cost. testualmente afferma: “E’ evidente che della legittimità costituzionale di una norma non si può giudicare senza aver prima stabilito quali della norma siano il contenuto e la portata. A questo fine, non è escluso che la Corte costituzionale possa anche avvalersi di una precedente interpretazione, sempre però che, a seguito di una piena adesione, questa sia divenuta anche la interpretazione propria. Stabilire infatti quale sia il contenuto della norma impugnata è inderogabile presupposto del giudizio di legittimità costituzionale; ma esso appartiene al giudizio della Corte non meno della comparazione, che ne consegue, fra la norma interpretata e la norma costituzionale, l’uno e l’altro essendo parti inscindibili del giudizio che è propriamente suo”. Nella citata decisione, il giudice delle leggi ha dichiarato non fondata la questione di legittimità dopo aver reinterpretato la norma denunciata (in specie, l’art. 392 c.p.p. in tema di istruzione sommaria) in senso contrario all’indirizzo seguito dalla prevalente giurisprudenza e confortato anche da sentenze della Corte di cassazione a Sezioni Unite. In altri termini, la Corte costituzionale, decidendo con una sentenza interpretativa di rigetto, non ha avuto considerazione dell’esistenza di un percorso esegetico consolidato in giurisprudenza, ritenendo di reinterpretare comunque la disposizione in senso conforme a Costituzione. La questione relativa all’art. 392 c.p.p., peraltro, non ha trovato assestamento con la citata pronuncia, registrandosi il mantenimento testardo da parte della magistratura del pregresso indirizzo ermeneutico, giustificato dalla considerazione che le sentenze interpretative di rigetto non sono dotate di alcun effetto vincolante nei confronti della generalità dei giudici. Il contrasto sulla portata applicativa della menzionata norma procedurale ha trovato il suo epilogo solo nella sentenza n. 52 del 19659, con la quale la Corte costituzionale, preso atto che la disposizione di cui all’art. 392 c.p.p. ha continuato a vivere nella realtà concreta in modo incompatibile con la Costituzione, si è determinata alla fine a dichiararne l’illegittimità. In tal modo, il giudice delle leggi, persistendo l’interpretazione da esso già disattesa, ha ritenuto necessario emettere una decisione di accoglimento, al fine di rimuovere, con effetto erga omnes, il significato normativo incostituzionale. Il travagliato rapporto tra interpretazione dell’autorità giudiziaria e libertà esegetica della Corte costituzionale in ordine alla disposizione legislativa oggetto di giudizio (che può compendiarsi nella vicenda sommariamente descritta) ha successivamente trovato una fase di assestamento a seguito dell’uso da parte della Consulta del cd. “diritto vivente”, come oggetto del giudizio di costituzionalità. La genesi del “diritto vivente” risale a un famoso saggio di Tullio Ascarelli10, secondo cui l’ambiguità di un testo normativo trova il criterio di soluzione nelle applicazioni concrete che esso ha ricevuto, atteso che la norma esiste come tale solo nel momento della sua applicazione. Secondo il giurista, dunque, la sovrapposizione ermeneutica può essere agevolmente evitata. La Corte costituzionale non può infatti interpretare diversamente la disposizione impugnata, in presenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale che determina il modo in cui concretamente la disposizione legislativa vive nell’ordinamento. Questo significa che, ogni qualvolta la disposizione sindacata sia costantemente e con uniformità applicata in un certo modo, viene a costituirsi un limite all’attività ermeneutica del giudice costituzionale. L’adesione della Consulta a siffatta ricostruzione concettuale risulta palesata in una serie di significative pronunce. Si citano, a titolo dimostrativo, le sentenze n. 129/197511 (… è compito del giudice operare le opportune puntualizzazioni interpretative, mentre spetta alla Corte la funzione di porre a confronto la norma, Corte cost. 23 giugno 1956 n. 3, in www.cortecostituzionale.it. Corte cost. 19 febbraio 1965 n. 11, in www.cortecostituzionale.it. 9 Corte cost. 26 giugno 1965, n. 52, in www.giurcost.it (voce decisioni). 10 T. Ascarelli, Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione, in Riv. Dir.Proc. 1957. 11 Corte cost. 28 maggio 1975 n. 129, in Giur. Cost. 1975, p. 1311. 7 8 3 nel significato comunemente ad essa attribuito, con le disposizioni della Costituzione, per rilevarne eventuali contrasti e trarne le conseguenze sul piano costituzionale) e n. 24/197812 (… la interpretazione data alla norma denunziata dall’ordinanza di rimessione riflette l’orientamento ormai pacifico degli organi giurisdizionali istituzionalmente chiamati ad applicarla. Pertanto questa Corte non può non prenderne atto ed esaminare, muovendo da tale presupposto, il dubbio di legittimità costituzionale sollevato con l’ordinanza in epigrafe)13. Logico corollario di tale ricostruzione è evidentemente che, solo in assenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, la Consulta recupera piena libertà ermeneutica. Peraltro, sussistendo interpretazioni divergenti, quest’ultima può condividere la proposta interpretativa della Cassazione, facendola divenire “diritto vivente” (esemplificativa di tale modus operandi è la sentenza n. 925/198814, che ha assunto come conforme a Costituzione, e dunque da seguire, l’indirizzo ermeneutico a cui ha aderito la Cassazione). Nonostante il concetto del diritto vivente abbia riscosso notevoli consensi giurisprudenziali (e anche dottrinali15) e abbia contribuito a eliminare la conflittualità tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, che, come accennato, ha caratterizzato soprattutto gli ultimi anni ’60 del Novecento, la fortuna di questa tesi ha avuto un andamento ciclico e non del tutto univoco. La ricostruzione circa l’efficacia vincolante dell’orientamento concorde della magistratura nei confronti del giudice costituzionale che si appresta a interpretare la disposizione impugnata è, infatti, tuttora contrastata da parte di coloro che difendono l’opinione della più ampia libertà interpretativa di quest’ultimo. La stessa giurisprudenza delle Corti apicali ha continuato a seguire un percorso altalenante. La difficoltà solutoria del problema è riconosciuta anche dalle Sezioni Unite, nella pronuncia oggetto di commento, laddove viene affermato che è stato ampiamente dibattuto il problema della diffusione del potere-dovere di un’interpretazione adeguatrice conforme a Costituzione e che non sono state enunciate regole certe nella giurisprudenza del giudice delle leggi e di questa Corte, essendosi di frequente verificato un reciproco adeguamento di ciascun ordine di giudici alle soluzioni adottate dall’altro ordine. Particolarmente interessante è il riferimento della Corte di legittimità alla prospettiva, per così dire mediana, di chi ravvisa nella tendenza della Corte costituzionale a tener conto del diritto vivente un atteggiamento di self restraint; non quindi un vincolo o un comportamento necessitato, secondo l’insegnamento ascarelliano, ma un autolimite, “una sorta di inespresso patto istituzionale” (mutuando espressione di autorevole dottrina) che intercorre tra il giudice delle leggi e l’autorità giudiziaria, ispirato a una logica di matrice compromissoria. Le Sezioni Unite sono consapevoli che non può riconoscersi alla Corte di cassazione un monopolio nella formazione del diritto vivente e nell’enunciazione di interpretazioni adeguatrici, ricavato dal compito di nomofilachìa assegnatole dall’art. 65, comma 1, dell’ordinamento giudiziario. Tale compito non è, infatti, integralmente coperto da garanzia costituzionale, oltretutto considerato che – secondo l’art. 111 Cost., anche nel testo novellato – al controllo della Corte di cassazione sull’interpretazione (ed applicazione) della legge sfuggono ampi settori dell’ordinamento, costituiti dalle materie attribuite alla giurisdizione del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, le cui decisioni sono sottoposte al vaglio di legittimità della Cassazione solo per quanto attiene ai limiti esterni della giurisdizione. Esiste, piuttosto, un potere-dovere diffuso di interpretazione conforme al dettato costituzionale. In ciò l’ordinamento italiano presenta elementi di affinità con l’esperienza tedesca. Infatti, in Germania esiste un apposito tribunale costituzionale federale, il Bundesverfassungsgericht, cui è attribuito il compito, analogo a quello svolto dalla nostra Consulta, di giudicare sulla conformità delle leggi alla Costituzione. Anche in quell’ordinamento veniva originariamente dubitato che al Bundesverfassungsgericht 12 Corte cost. 20 marzo 1978 n. 24, in www.giurcost.it (voce decisioni). Espressi rinvii al diritto vivente elaborato dalla giurisprudenza si riscontrano anche nelle pronunce nn. 143 del 1980; 33 del 1981; 104 del 1984; 369 del 1985; 209 del 1987 e così via. 13 Corte cost. 27 luglio 1988 n. 925, in Giur. Cost. 1988, p. 4301. Tra le adesioni più note, si ricorda: T. Martines, Diritto costituzionale, Giuffrè, 1992, p. 596: “Il potere di reinterpretare il testo si arresta, per riconoscimento della stessa Corte, innanzi alla costante interpretazione giurisprudenziale che attribuisce al precetto legislativo un determinato significato”. 14 15 4 competesse un potere di interpretazione della legge secondo la traiettoria costituzionale, riconoscendosi piuttosto che lo stesso fosse riservato ai giudici chiamati all’applicazione della legge. Tale ricostruzione fu rapidamente contraddetta dalla prevalente dottrina e dalla giurisprudenza dello stesso “Bundesverfassungsgericht”, pervenendosi a una visione diffusa del potere-dovere di interpretazione conforme, il quale è attribuito, non solo al giudice che deve applicare la legge, ma anche a quello costituzionale e perfino alla pubblica amministrazione […]. Sulla base di tali premesse, le Sezioni Unite, pur essendo consapevoli che le sentenze interpretative della Corte costituzionale non sono munite di efficacia erga omnes, facendo sorgere un vincolo solo nei confronti del giudice a quo, prendono atto dell’interpretazione accolta dal giudice delle leggi e ritengono di condividerne il tenore (pur essendo in contrasto con l’indirizzo esegetico in precedenza seguito dalla Cassazione stessa), se non altro perché la diversa interpretazione condurrebbe inevitabilmente a una dichiarazione d’incostituzionalità, ove la Corte costituzionale dovesse rilevare la formazione di un diritto vivente in tal senso, espresso in una pronuncia delle Sezioni Unite. Maria Rosaria Di Mattia Dottoranda in “Diritto comparato dell’economia e della finanza” 5