q - Dipartimento di Scienze sociali e politiche

Università degli studi di Milano
Dipartimento di studi sociali e politici
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8/ 2003
Enzo Colombo
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Quando il vicino è straniero: il PXOWLFXOWXUDOLVPR TXRWLGLDQR
come spazio di costruzione della differenza e di analisi
sociologica
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A partire dalla seconda metà degli anni ’80 il tema della differenza ha assunto una
rilevanza particolare nelle società occidentali contemporanee. Si assiste infatti a un
rapido diffondersi di una maggiore sensibilità verso la specificità individuale e di
gruppo che si trasforma in strumento retorico centrale per la formulazione di nuove
domande di inclusione o di rivendicazione di privilegi. Il riconoscimento pubblico della
propria differenza costituisce uno degli ambiti di scontro più evidenti e una delle
principali poste in gioco di gran parte degli attuali conflitti sociali.
Il dibattito sociologico sullo statuto teorico da assegnare alla differenza è stato aspro ed
è tutt’altro che concluso; da più parti si è messo in evidenza la necessità di riformulare i
concetti sociologici classici di struttura, disuguaglianza, stratificazione, appartenenza di
classe – accusati di eccessivo determinismo e di scarsa capacità di rendere conto
dell’azione soggettiva – sostituendoli con concetti maggiormente in grado di cogliere la
dimensione culturale e di evidenziare il ruolo fondamentale svolto dall’attiva e continua
opera di significazione da parte degli attori sociali. A loro volta, i concetti “culturali”
sono stati accusati di occultare le determinanti strutturali e l’azione del potere favorendo
un’immagine irreale di soggetti onnipotenti, impegnati a creare dal nulla una realtà
improntata alle loro fantasie, ai loro interessi e ai loro desideri.
Questo dibattito è stato frequentemente condotto entro la più ampia discussione relativa
al tema del multiculturalismo, un concetto a sua volta problematico e controverso,
spesso privo di una chiara definizione sociologica.
Obiettivo di questo lavoro è cercare di definire uno spazio teorico e analitico di carattere
specificamente sociologico in cui sia possibile riflettere sulle società multiculturali e
sulla centralità assunta dalle richieste di riconoscimento della differenza. Uno spazio
che consenta di definire un preciso ambito empirico di ricerca su questi temi. Questo
implica una revisione critica del concetto di differenza in modo da poterlo tradurre in
criteri analitici e quindi in operazioni di ricerca. Una più attenta costruzione del concetto
di differenza si pone inoltre come strumento per un contributo sociologico al dibattito
sul multiculturalismo. La preferenza personale per una prospettiva costruzionista e
processuale orienta l’attenzione verso le pratiche della vita quotidiana e verso la
possibilità di restituire, a partire da relazioni e processi contestualizzati, una WKLFN
GHVFULSWLRQ (Geertz 1973) della società contemporanea.
Incrociando le riflessioni contemporanee relative al multiculturalismo con quelle
relative alla vita quotidiana e alle sue trasformazioni, ci cerca di definire un campo
specifico di possibile osservazione empirica in cui la differenza diviene,
contemporaneamente, oggetto di attenzione e strumento analitico.
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Il contesto più generale entro cui la riflessione proposta si inserisce tende a considerare
le società occidentali contemporanee come caratterizzate da una radicale rimessa in
discussione dei principi della modernità. A partire dalla seconda metà degli anni ’60 –
fino a costituire a partire dalla seconda metà degli anni ’80 una vera e propria cifra
distintiva del mondo occidentale –, si assiste a una diffusa e profonda ridefinizione dei
modi di essere, di conoscere e di narrare (Colombo 1998) che avevano caratterizzato le
società moderne a partire dalla fine del XVIII secolo. La valutazione positiva della
differenza rappresenta forse uno dei più evidenti segni di questo tentativo di revisione
critica dei concetti della modernità.
Un contributo fondamentale a favore dell’ enfasi posta sul tema della differenza e sulla
rilevanza di un suo pubblico riconoscimento viene dall’ azione dei nuovi movimenti
sociali. Al di là delle specificità tematiche che caratterizzano l’ azione dei movimenti di
rivendicazione e di protesta, essi sono caratterizzati dall’ obiettivo di rimettere in
discussione il presunto carattere di normalità della vita quotidiana, di rifiutare i modelli
sociali proposti accusandoli di spingere verso percorsi di omologazione che reprimono
ogni forma di specificità e di opposizione alle regole date. Pongono in primo piano
l’ importanza e la variabilità delle scelte e delle esperienze personali, la volontà e la
necessità di mantenere una distanza critica e un certo grado di autonomia nel confronti
del senso comune e di percorsi biografici predefiniti.
Le richieste fondamentali dei precedenti movimenti sociali di carattere storico (Touraine
1978) – centrate sui temi dell’ eguaglianza, dell’ inclusione e della giustizia redistributiva
– vengono affiancate da una nuova serie di rivendicazioni di riconoscimento delle
specificità, sintetizzate negli slogan “black is beautiful” e “orgoglio omosessuale”
oppure nella riappropriazione di termini solitamente usati in forma dispregiativa (TXHHU)
(Butler 1996).
L’ idea di eguaglianza e l’ obiettivo del melting pot vengono accusati non tanto di essere
irrealizzati o ristretti ad alcune specifiche categorie sociali, quanto di essere obiettivi
politici che, lontani dal promuovere maggiore giustizia sociale, sono orientati a favorire
forme di omologazione funzionali al mantenimento della situazione di dominio di un
particolare gruppo sociale (quello dei maschi, bianchi, eterosessuali, cristiani, borghesi).
Gli afroamericani, le donne o gli omosessuali non limitano più le loro richieste al
riconoscimento del diritto e della possibilità di partecipare “alla pari” alla vita sociale al
di là di qualsiasi differenza di età, sesso, religione o appartenenza etnica, né del diritto
ad avere accesso a risorse scarse da cui sono stati tradizionalmente esclusi, ma
rivendicano la possibilità di conservare e manifestare liberamente e pubblicamente le
proprie differenze senza essere per questo discriminati o esclusi, rivendicano la
possibilità di partecipare alla vita sociale senza rinunciare alle proprie specificità.
I processi di individuazione (Beck 2000), favoriti dalle trasformazione produttive e di
mercato, costituiscono un secondo rilevante elemento di spinta verso una valutazione
positiva della differenza. Il superamento del modello di produzione fordista (Piore,
Sabel 1987) e l’ imporsi di una “società dei consumi” (Baudrillard 1970) hanno favorito
il passaggio da una produzione di beni durevoli altamente standardizzati a una
produzione flessibile e differenziata di beni voluttuari e di servizi immateriali che
contribuiscono a esaltare l’ unicità del soggetto consumatore. Il consumatore diviene
sovrano, almeno nel discorso dominante che ne celebra continuamente l’ ampia libertà di
scelta come strumento efficace di controllo, orientamento, partecipazione. Si diffonde
l’ immagine di un soggetto artefice unico del proprio destino grazie alla possibilità di
scegliere e di possedere oggetti e prestazioni che, proprio nell’ unicità della selezione
personale che ciascuno può assemblare, riflettono e amplificano le qualità di chi ne può
essere consumatore. Costruire la propria specifica identità diviene il fine e la
gratificazione ricavata dal consumo; identità che viene percepita degna di valore nella
misura in cui si presenta come unica e personale, nella misura in cui differenzia e
distingue.
I processi di individuazione si connettono a un diffuso aumento della capacità personale
(Melucci 2000), cioè delle risorse individuali a disposizione dei soggetti sociali per
pensarsi, definirsi e agire come soggetti autonomi e per investire nella realizzazione di
sé come persona umana. Capacità personale che diviene un elemento strutturale nel
funzionamento delle società complesse, le quali richiedono in forma sempre più diffusa
attori in grado di partecipare in modo dinamico, di fungere da terminali attivi, capaci di
scelta tra opzioni differenziate e di azione autonomamente decisa.
Anche lo sviluppo di nuove teorie della conoscenza contribuisce a una valutazione
positiva della differenza. La svolta epistemologica del secondo dopoguerra mette in
discussione in modo definitivo il modello di conoscenza positivista, sottolineando il
carattere inevitabilmente parziale e situato di ogni forma di conoscenza nonché la
rilevanza dell’ osservatore. I contributi della filosofia del linguaggio, dell’ ermeneutica,
della semiotica e della nuova filosofia della scienza sottolineano come la realtà
percepita non sia indipendente dalle forme linguistiche utilizzate per descriverla e come
sia problematico continuare a pensare che il linguaggio possa limitarsi a riflettere una
realtà data e universale. Si fa strada una prospettiva relativista che assume che il
significato e il contenuto di verità di un’ affermazione non possano essere dedotti dalla
relazione tra nome e cosa nominata ma debbano essere valutati in base alla situazione,
alle relazioni sociali in cui tale affermazione è avanzata nonché alle caratteristiche
individuali di chi la propone. In campo sociologico, l’ etnometodologia (Garfinkel 1967)
e il costruzionismo (Berger e Luckmann 1969) mettono in luce come la realtà sociale sia
il risultato di pratiche e procedure che la costituiscono come realtà data e non
problematica. Si evidenzia che ciò che appare come ontologico e universale, in realtà è
il risultato di una costruzione sociale, di una continua opera di revisione, modifica,
aggiustamento che è profondamente radicata nella condizione storica e culturale
particolare di ogni specifico gruppo sociale. L’ antropologia interpretativa (Geertz 1973,
2001; Clifford, Marcus 1986; Marcus, Fisher 1986) sottolinea che valori, conoscenze e
verità sono relative, dipendono cioè dal contesto sociale e culturale in cui sono prodotte.
La nuova sociologia critica (Foucault 1969, 1977; Said 1991; Hall 1992) evidenzia
come queste attività particolari di produzione di verità parziali siano in stretta relazione
con il potere. Potere e sapere vengono visti come inseparabili e ogni forma di
conoscenza viene considerata capace di costituire un modo specifico di guardare alla
realtà sociale contribuendo a renderla legittima e a disciplinarne i rapporti sociali.
Infine, il diffondersi di processi di globalizzazione (Giddens 1994; Featherstone, Lash,
Robertson 1995; Robertson 1992) aumentano le interconnessioni tra azioni che
avvengono in un contesto spazio-temporale ormai planetario. La velocità e la maggiore
disponibilità di mezzi rapidi di spostamento e la diffusione dei mezzi di comunicazione
di massa rendono più diffusa e “ quotidiana” l’ esperienza della differenza, favorendo,
almeno in forma mediata e immaginata, la percezione dell’ esistenza di differenti
possibilità e di differenti prospettive. La diffusione dei media elettronici e il rilievo
sociale assunto dai processi migratori contribuiscono a trasformare il mondo quotidiano
e fanno della differenza una delle risorse maggiormente disponibili e valutate per la
definizione e la sperimentazione di sé. Come sottolinea Appadurai (2001, 17), immagini
in movimento che incrociano spettatori deterritorializzati creano “ sfere pubbliche
diasporiche” , nuovi spazi sociali, politici e culturali attraversati e caratterizzati dalla
differenza e dalla volontà di preservarla, senza annullarla in una sintesi percepita come
perdita e riduzione. Spazi che mettono in crisi le teorie che continuano a vedere lo stato
nazione come fattore chiave dei più rilevanti mutamenti sociali e l’ ideale di eguaglianza
come fondamento unico per la solidarietà e la giustizia sociale. In particolare, le
caratteristiche inedite assunte dai processi migratori – grazie alla facilità e velocità di
spostamento, alla diffusione di sistemi di ricezione satellitare e alla creazione di
comunità deterritorializzate, caratterizzate dall’ esperienza del movimento e della
diaspora più che dalla condivisione di un luogo – consentono di mantenere radicati e
concreti legami con il gruppo e il paese di provenienza favorendo la volontà di
affermare e sostenere una visibile distinzione rispetto al nuovo contesto di migrazione
(Sassen 2002; Davis 2001).
Tutti questi fattori convergono nel porre in luce nuova la differenza, che ora è percepita
come un valore da difendere e uno degli elementi fondamentali con cui costruire una
libera e autonoma immagine di sé. Per essere in grado di un’ azione consapevole gli
individui devono essere prima di tutto riconosciuti nella loro specificità e nella loro
irriducibile unicità; ogni mancato riconoscimento, così come ogni riconoscimento
parziale che restituisce un’ immagine negativa o distorta, mina la capacità personale, la
possibilità di sviluppare una piena stima di sé e quindi la possibilità stessa dell’ azione
auto-diretta (Taylor 1992). La differenza diviene un elemento centrale dell’ esperienza
quotidiana, continuamente richiamata ed enfatizzata, presentata come fondamento
indispensabile di auto-stima e libertà.
Inizialmente utilizzata per la sua apparente capacità di descrivere l’ esperienza di
mutamenti e trasformazioni di cui si era testimoni ma che non si era ancora in grado di
nominare in modo esauriente o per la sua apparente capacità di segnalare, con intento
critico, il carattere egemonico e oppressivo dello sguardo moderno positivista ed
etnocentrico, orientato a una sintesi omologante e a un universalismo ostile a ogni
manifestazione di resistenza e devianza, la differenza (come i concetti analoghi di
identità e cultura) si è trasformata, in molti casi, in un’ ossessione contemporanea. La
differenza diviene “ irrinunciabile” , “ costitutiva” e si pone come base per una possibile
SROLWLFDGHOODGLIIHUHQ]D, cioè per azioni attive in difesa della propria specificità e volte
al riconoscimento di trattamenti differenziati per gruppi differenziati.
La valutazione positiva della differenza, la richiesta di un suo riconoscimento pubblico
e la possibilità di rivendicare, a partire da essa, un certo grado di autonomia nel definire
le proprie regole di vita, indipendentemente da quelle ritenute valide dalla maggioranza,
costituiscono i punti centrali di dibattito sul multiculturalismo.
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Questo dibattito si è spesso articolato attorno a una polarità ben definita: da un lato i
sostenitori di politiche di eguaglianza e di equità, dall’ altro i sostenitori di politiche
della differenza o dell’ identità (Fraser 2001). I primi propongono una diversa e più equa
allocazione di beni e risorse in modo da favorire il raggiungimento di una effettiva
eguaglianza di possibilità e contenere o superare antiche e radicate forme di
discriminazione. L’ orizzonte normativo entro cui queste proposte sono avanzate è
quello dell’ universalismo e la prassi politica di riferimento è quella del riformismo
liberale e del socialismo. Lo sforzo comune dei sostenitori delle politiche
dell’ eguaglianza è orientato a trovare punti di accordo tra la prospettiva democratica e
liberale occidentale e una concreta lotta all’ emarginazione e all’ esclusione (Rex 1996).
La prospettiva democratica viene assunta come indispensabile e valida base di partenza
per la realizzazione di una effettiva parità tra individui e gruppi diversi che
costituiscono la società (Habermas 1998). L’ obiettivo dell’ eguaglianza non è
considerato con sospetto né viene visto come un ideale irrealizzabile, ma semplicemente
come un compito auspicabile ma non ancora attuato; la differenza viene vista come un
vincolo alla piena realizzazione della giustizia sociale, risultato di disuguaglianze
strutturali o di retaggi storici che occorre superare. La differenza assume valore solo
come caratteristica del singolo, come attributo individuale, mentre deve essere il più
possibile controllata e osteggiata quando è manifestata nello spazio pubblico. Solo
promovendo la libertà del soggetto, la sua capacità di scegliere quale identità assumere e
in quale gruppo riconoscersi tra le diverse opzioni disponibili, nonché la sua effettiva
possibilità di cambiare identità o gruppo ogni volta ne senta l’ esigenza, si è in grado di
garantire una reale convivenza tra differenze (Hollinger 1995; Touraine 1998). La
differenza viene percepita come variabilità, come catalogo di possibilità e di opzioni,
non un valore in sé ma un contesto virtuoso in cui è possibile costruire una piena e
autonoma realizzazione di sé.
Queste posizioni sembrano efficaci quando il problema da affrontare è riconducibile
all’ ambito della definizione di una teoria della giustizia che abbia carattere universale e
quando si tratta di affrontare questioni distributive, riguardanti risorse sociali scarse e
ambite. In questi casi, il modello democratico e la divisione tra spazio pubblico e spazio
privato appaiono un fecondo punto di partenza per risolvere o contenere forme di
discriminazione e di esclusione. Le politiche dell’ eguaglianza rappresentano quindi uno
strumento rilevante quando si tratta di dare seguito a domande che riguardano una
maggiore giustizia distributiva o una più ampia partecipazione alle decisioni politiche e
alla vita sociale. Appaiono invece meno adatte a rispondere a domande più radicali,
quando è la legittimità e la forma stessa della struttura democratica che vengono rimesse
in discussione; quando non si tratta di rispondere a domande di inclusione ma di
confrontarsi con la richiesta di rivedere le regole della vita comune, le relazioni di
potere che la strutturano, i fondamenti impliciti che la legittimano.
I promotori di politiche dell’ identità sono, almeno nominalmente, più simpatetici nei
confronti della differenza. Sostengono la necessità del riconoscimento pubblico delle
specificità in modo da garantire eguale rispetto per tutti i membri di una collettività
(Taylor 1992); eguale rispetto che costituisce la base minima per rendere concreti i
diritti umani, civili e politici, assicurando pari dignità e pari opportunità di
partecipazione alla vita sociale senza pagare il prezzo preventivo di una assimilazione e
omologazione ai valori e alla visione del mondo della maggioranza. Per garantire una
reale capacità di azione individuale consapevole non è sufficiente garantire i diritti
individuali ma è necessario riconoscere dei diritti collettivi, che garantiscano ai diversi
gruppi di proteggersi dall’ omologazione della maggioranza e di mantenere e riprodurre
le proprie caratterizzanti specificità. La libertà individuale diviene effettiva solo se si
riconosce l’ importanza dell’ appartenenza dei singoli soggetti a specifiche culture –
definite da linguaggio, storia, memorie e tradizioni condivise – capaci di fornire quegli
elementi cognitivi indispensabili alla selezione, alla presa di posizione, al discernimento
e, quindi, all’ azione consapevole (Kymlicka 1999). Il riconoscimento dei diritti
individuali non è sufficiente a garantire la libertà di identificazione con una particolare
cultura, soprattutto se questa costituisce una minoranza. Garantire ai soggetti libertà di
parola non indica quale lingua potrà essere usata per esprimersi nello spazio pubblico né
quale lingua e quale storia saranno insegnata a scuola, così come garantire libertà di
voto non definisce come stabilire i confini dei distretti elettorali o quali forme di
rappresentanza approntare per garantire l’ effettiva presenza delle minoranze negli
organi di governo. Se si affidano decisioni di questo tipo al criterio democratico della
maggioranza non si hanno garanzie di difesa delle minoranze e del diritto individuale a
vedersi riconosciuta l’ appartenenza a un gruppo particolare. Date le attuali condizioni di
disparità e di emarginazione, spesso radicate in una storia plurisecolare, delle
minoranze, l’ unico modo per assicurare pari possibilità è di garantire politiche
differenziate che, privilegiando gruppi minoritari, consenta di compensare le posizioni
svantaggiate nella competizione per la definizione dello spazio sociale e per
l’ assegnazione di risorse scarse (Young 1996).
Questa posizione appare più adeguata ad accogliere le richieste legate alla revisione
critica dei criteri di convivenza in modo che non siano definiti in modo acritico sulle
caratteristiche e le necessità della maggioranza e sappiano tener conto della necessità di
proteggere dall’ omologazione e dalla discriminazione posizioni minoritarie. Mette in
evidenza come la supremazia del gruppo dominante tenda spesso a proteggersi dietro un
velo di apparente normalità e universalismo che occulta il carattere parziale delle scelte
pubbliche presentandole come auto-evidenti, valide indipendentemente dal contesto
storico e sociale. Rischia però di trascurare le questioni di giustizia distributiva,
spostando il dibattito da questioni di definizione rispetto a ciò che è considerabile giusto
– e che quindi assume un carattere generale e universale che va al di là della specificità
del contesto analizzato – a questioni etiche – cioè legate alla possibilità di definire ciò
che è buono –indissociabili da valutazioni situate e parziali, legate alla specificità del
contesto analizzato e degli individui coinvolti (Fraser 2001). Le valutazioni etiche
risultano problematiche, si sottraggono facilmente a possibilità di mediazione e di
traduzione, tendono ad assumere un carattere ideologico, di contrapposizione
inconciliabile tra visioni e posizioni incommensurabili perché trovano della differenza e
nella specificità reciproca la loro giustificazione e la loro forza argomentativa.
Il dibattito sul multiculturalismo appare così intrappolato entro una polarità che, da un
lato, rimane ostile alla differenza, incapace di rendere conto del rilievo che essa ha
assunto nella vita quotidiana e nella definizione di sé, orientata a considerare il
riconoscimento collettivo e il legame con una comunità specifica come forme di
riduzione della libertà individuale e retaggio di modelli di socialità obsoleti e primitivi,
incapace di considerare il conflitto come ambito particolare di produzione di spazio
sociale perché centrata sulla dimensione del dialogo e dell’ intesa, visti come modelli di
relazione liberi e simmetrici; dall’ altro, assume un carattere ideologico che trasforma la
differenza in un valore irrinunciabile, reificandola in una essenza da proteggere e
riprodurre senza eccessive alterazioni e contaminazioni.
I primi tendono a ignorare la dimensione culturale e quanto abbia assunto rilevanza la
capacità riflessiva dei soggetti di interpretare il senso alle loro azioni e di agire in base a
obiettivi e orientamenti che non si esauriscono sul piano materiale ma sono fortemente e
primariamente connessi alla dimensione simbolica ed espressiva; i secondi tendono a
ridurre tutto alla dimensione culturale trascurando i vincoli strutturali e a esaltare una
rappresentazione onnipotente di attori sociali capaci di creare realtà condivise a partire
dai desideri e dalla volontà individuale, costretti a vivere in un mondo in cui l’ azione
del potere sembra manifestarsi solo nell’ azione oppressiva della maggioranza.
Il dibattito rimane facilmente ristretto al piano normativo, all’ elaborazione di una
coerente teoria della giustizia capace di ribadire o riformulare dei criteri sostenibili e
ritenuti legittimi utilizzabili per risolvere questioni distributive e per affrontare scelte
tragiche, tenendo conto della differenza, dell’ esistenza di quadri di riferimento
cognitivi, valoriali e normativi differenziati. Oppure rimane facilmente limitato al piano
pratico, all’ implementazione di politiche sociali orientate all’ integrazione delle
minoranze. Ancora più facilmente scivola sul piano ideologico favorendo il
contrapporsi in modo sordo di posizioni favorevoli all’ universalismo e posizioni
favorevoli alla differenza. In tutti questi casi, la differenza tende ad assumere il carattere
di una essenza, una caratterizzazione fondante la specificità individuale e di gruppo che,
proprio per questo suo carattere sacro e costitutivo, deve essere preservata nella sua
presunta purezza, protetta da mutamenti e miscelazioni. La nominale attenzione alla
differenza e a un suo effettivo riconoscimento si traduce, in pratica, in un’ ostilità decisa
verso ogni forma di differenza che si contrapponga alla propria specificità,
rappresentando una potenziale minaccia di annullamento o contaminazione.
Il piano più prettamente sociologico, attento a come la differenza viene costruita,
interpretata e utilizzata nello specifico delle diverse relazioni sociali, rimane sullo
sfondo, se non del tutto assente. Uno dei modi per provare a reintrodurre la dimensione
sociologica potrebbe essere quello di porre attenzione alla dimensione quotidiana, a
partire dal ruolo che in essa tende ad assumere la differenza.
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Anche in questo caso, per semplicità analitica, può essere utile presentare la riflessione
sociologica relativa alla vita quotidiana come un dibattito tra due polarità differenziate:
da un lato, l’ idea che il quotidiano sia il luogo della routine, della produzione del senso
comune e delle abitudini; dall’ altro, l’ idea che il quotidiano sia il luogo della libera
manifestazione di sé, della realizzazione personale, lo spazio per la sperimentazione e
per la messa alla prova delle proprie potenzialità, per la continua costruzione di
differenziazioni e identità.
Nel primo caso, il rimando obbligato è alla fenomenologia e a Schütz in particolare. Il
mondo della vita quotidiana è l’ ambito delle relazioni faccia a faccia in cui la realtà ci
appare ordinaria, ovvia, familiare. È l’ ambito in cui prevale il “ dato per scontato” , cioè
la convinzione che la realtà si fonda sulla reciprocità delle prospettive; che le apparenze
hanno un carattere di oggettività e di stabilità e non sono ingannevoli; che ciò che
accade ha un carattere tipico, riconducibile a forme conosciute, già sperimentate; che
esiste, infine, un ampio, ovvio e condiviso fondo di senso comune con cui interpretare e
comunicare senza fraintendimenti ciò che accade. Pur se la realtà umana è caratterizzata
da processi continui di interpretazione e di sedimentazione di significati, essa appare
nella sua dimensione quotidiana come “ già data” alla nostra esperienza e alla nostra
interpretazione, rendendo opachi i processi continui di produzione che la caratterizzano
(Schütz 1979). La vita quotidiana risulta così caratterizzata dal senso comune e dalla
ULFRUVLYLWj (Jedlowski 1994, 2002).
La differenza, esemplificata dalla presenza o dalla posizione dello straniero, è
profondamente destabilizzante, perché in grado di lasciar emergere il carattere
contingente e parziale che fonda ogni particolare costruzione di senso. La differenza è
sinonimo di crisi, in quanto capace di minare l’ idea condivisa e necessaria per
un’ interazione non problematica che il mondo sia realmente e stabilmente come ci
appare e noi lo conosciamo. La presenza dello straniero risulta una provocazione
perché, mostrandoci che sono possibili altri modi di interpretare, dare senso e agire,
mette in luce quanto le nostre credenze più sacre, ciò che consideriamo ovvio e
scontato, sia in realtà il risultato di una tradizione, di un lavoro attivo di selezione e
sedimentazione di significati particolari, che non hanno altro fondamento se non il fatto
di risultarci familiari e utili.
Il secondo polo, che trova radici nel surrealismo francese del Collège di Sociologie di
Bataille e di Leiris, vede nel quotidiano non il regno del banale e dello scontato bensì il
regno del meraviglioso e dell’ imprevisto. Lo spazio in cui è possibile liberarsi dai
vincoli angusti del pensare-come-il-solito, delle routine e delle abitudini omologanti per
ritrovare l’ originalità dell’ inventiva e della creatività personale. La differenza diviene
l’ oggetto “ sacro” che lo spazio quotidiano protegge e alimenta, aiutando a sfuggire alle
pressioni omologanti della società e consentendo ai soggetti di fare esperienza della loro
parte più originale e fondamentale. Una parte del pensiero postmoderno, riprenderà
amplificandola questa idea della quotidianità come luogo del FROODJH, della confusione,
della possibilità inattesa (Lyotard 1985, Gergen 1991). In questo scenario, la differenza
non è più caratteristica costitutiva dell’ altro – non si ritiene solo che persone diverse
interpretino e agiscano in modo diverso – ma diviene un elemento costitutivo di ogni
identità: si ritiene che persone diverse interpretino e agiscano diversamente in momenti
e luoghi diversi.
Il primo polo tende a favorire una visione reificata della differenza presentandola come
una distinzione originaria, una condizione costitutiva dell’ essere sociale e
individualmente interiorizzata nel periodo della socializzazione primaria («Solamente i
modi in cui vissero i propri padri e i propri nonni diventano per ognuno elementi del
proprio modo di vita. Tombe e reminescenze non si possono né trasferire né
conquistare» (Schütz 1979, 380)). Ne risulta, così, un’ immagine essenzialista e
primordialista della differenza.
Il secondo polo dissolve ogni identità e ogni realtà in un assemblaggio continuo di
differenze, in un accostamento senza possibilità di sintesi tra elementi distinti e
incommensurabili. In questo caso, la differenza è comunque innalzata a valore e
concepita come essenza in quanto elemento costitutivo del flusso continuo di modifica e
trasformazione che rappresenta la condizione più autentica e positiva dell’ esperienza
umana.
È possibile identificare un terzo percorso di riflessione. Le trasformazioni che hanno
portato a una nuova e positiva considerazione per la differenza hanno in parte
modificato anche lo sguardo sulla vita quotidiana, evidenziandone il carattere
processuale. Come già annunciato da Simmel (1903 trad. it. 1995) descrivendo la vita
urbana, il quotidiano diviene ambito di confronto continuo con la differenza, ambito di
processi dinamici orientati a rendere familiare lo straordinario e l’ inatteso, a rendere
abituale la distruzione delle abitudini, a favorire l’ incorporazione del nuovo e adeguarsi
in modo flessibile a nuovi contesti (Highmore 2002). Il quotidiano assume la forma di
un insieme di particolarità irriducibili, l’ esperienza di un accumulo di momenti distinti,
imprevedibili e indeterminati.
La differenza diviene un elemento costante e costitutivo del quotidiano contemporaneo;
lo straniero non è più solo immaginato e localizzato come colui che vive al di là dei
confini del gruppo, ma è colui che vive e rimane tra noi. In questa veste, non solo, e non
sempre, costituisce una differenza che si dissolve e si diluisce nello sfondo dello
scenario urbano, fonte di eccitazione e di imprevisto stimolante, ma diviene annuncio di
possibile minaccia, segnala una discontinuità significativa, diviene prodotto e mezzo di
produzione di identità e riconoscimenti esclusivi. In sintesi, come afferma Bauman
(1999a), lo straniero è costantemente DQWHSRUWDV, ambivalentemente percepito come il
segno della presenza di un fattore esterno nella dimensione più intima e personale della
familiarità e contemporaneamente come il segno della presenza di fattori intimi e
personali nelle relazioni con chi è maggiormente distante e differente. Introduce il
sospetto che chi ci è vicino e chi pensiamo di conoscere, chi condivide parte della nostra
vita quotidiana, possa rivelarsi una minaccia, possa lasciar trasparire la distanza che ci
separa e creare occasioni per scontri, incomprensioni, malintesi; ma anche la possibilità
che ciò che è evidentemente lontano, diverso, diventi un personaggio familiare, intimo:
il vicino di casa, la moglie o il marito, il collega di lavoro o la fonte di sopravvivenza e
di cura per noi o per i nostri cari.
Il quotidiano caratterizzato dalla presenza costante della differenza orienta verso una
continua attenzione alle pratiche, alle tattiche e alle resistenze, all’ azione costante di
EULFRODJH e alla capacità di assemblare realtà, significati e azioni a partire da ciò che i
diversi contesti forniscono – da ciò che “ è dato” – riproducendolo continuamente in
modo imperfetto, confermandolo ma trasformandolo (de Certeau 1990). Capacità di
azione e di resistenza che nasce dalla differenza e nella differenza. È la presenza
costante di differenti punti di vista, aspettative, volontà, immaginazioni e interessi che
favoriscono il mantenimento di una distanza dal contesto, dagli oggetti dati; distanza
che è provocata dalla sensazione di continuo spaesamento e di diffidenza alimentata
dall’ impossibilità di prevedere completamente e in modo certo il corso di un’ azione, il
risultato di un dialogo o di un processo interpretativo. La vita quotidiana appare
caratterizzarsi sia per la tensione continua di adattamento flessibile alle condizioni
esterne sia per la volontà di sviluppare strategie e tattiche che sfruttino le possibilità
offerte da situazioni e contesti che sfuggono alle possibilità di controllo puntuale dei
singoli, ma nondimeno forniscono spiragli, ambiguità e fratture che consentono pratiche
di resistenza, “ domesticamento” , “ familiarizzazione” , “ invenzione del quotidiano” .
In una prospettiva processuale e attenta alle pratiche, la differenza diviene elemento
sostantivo e indispensabile per la produzione di significato. È nel continuo GLDORJR
(Bachtin 1979), nell’ impossibilità di riduzione della differenza al medesimo,
nell’ impossibilità di un’ identificazione empatica totale, che si crea uno spazio di
produzione di senso che consente di trasformare il già dato e il consueto e favorisce una
FRPSUHQVLRQH FUHDWULFH (Bachtin 1988). La differenza assicura la possibilità di
sviluppare un certo grado di HVVRWRSLD (Bachtin 1988), di GLVORFDPHQWR (Derrida 1997)
che permettono di vedersi “ con DOWUL occhi” , di vedersi “ DOWULmenti” . La differenza
diviene l’ altra faccia dell’ identità, non perché ne costituisce la forma RSSRVWD e
speculare (in una contrapposizione sostanziale che fonda ogni principio di
classificazione e si pone come completamento delle categorie capaci di comprendere in
modo esaustivo le possibilità presenti nell’ esperienza della realtà – cfr. le distinzioni tra
sacro e profano (Durkheim 1912), tra natura e cultura, crudo e cotto (Lévi-Strauss 1947,
1964), tra puro e impuro (Douglas 1975)), ma perché crea uno spazio per il VXSSOHPHQWR
(Derrida 1972) entro cui identità e differenza possono esistere in forma dinamica e
dialogica.
Si tratta di una prospettiva anti-essenzialista che consente di guardare all’ identità e alla
differenza non come GDWL che precedono l’ azione sociale e la orientano, ma come IDWWL,
cioè processi sociali risultato di interazioni, narrazioni e istituzionalizzazioni che
SURGXFRQR identità e differenze in condizioni situate e contesti specifici. In questa
prospettiva, l’ identità e la differenza costituiscono l’ ambiente e il prodotto dell’ azione
sociale dotata di senso, non le sue determinanti.
2OWUHOHGLFRWRPLH
Il problema diviene come riportare la dimensione sociologica della differenza (e
dell’ identità), intesa come contesto e prodotto dell’ azione sociale, nel dibattito attuale
sul multiculturalismo.
Si tratta prima di tutto della necessità di argomentare a favore del superamento di un
radicale rifiuto dell’ uso della categoria di differenza nella spiegazione della realtà
sociale. Chi si oppone a questo uso tende a contrapporre differenza e universalismo
oppure differenza e disuguaglianza. Da questa prospettiva, dare rilievo alla differenza
significa abbandonare l’ ideale di eguaglianza come guida e criterio selettivo per la
valutazione delle scelte sociali, favorendo un particolarismo estraneo a ogni idea di
giustizia e incapace di garantire la permanenza del legame sociale. Partire dalla
differenza significa inoltre trascurare i fattori strutturali e le disparità sociali che
pongono i soggetti in condizioni asimmetriche rispetto alla possibilità di esercitare
potere e acquisire risorse scarse (Bannerji 2000). L’ enfasi sulla differenza rende più
opaca la capacità di prendere decisioni eque e di cogliere le reali determinanti dei
processi sociali. In sostanza, si sostiene che lasciare spazio a una valutazione positiva
della differenza conduce verso una frantumazione della realtà sociale, promovendo la
rivendicazione di specificità insuperabili e quindi favorendo la costruzione di barriere e
zone fortificate isolate entro cui proteggere la propria differenza e i privilegi che ne
derivano. Beneficiarie di questa frantumazione sociale sono esclusivamente alcune élite
dei gruppi minoritari oppure la parte più privilegiata della società che può consentirsi il
lusso di allentare i legami con i meno privilegiati lasciando così cadere anche le
responsabilità derivanti dalla posizione asimmetrica occupata. Inoltre, l’ insistenza sul
tema della differenza sposta il dibattito dalla rivendicazione di maggiore eguaglianza
sociale e dalla lotta alle disparità di classe e alla discriminazione razziale alla
dimensione simbolica e culturale impigliandosi in una rete ideologica che porta a
rincorrere un riconoscimento simbolico perché impotenti nel modificare le basi
materiali e strutturali della disuguaglianza (Gitlin 1995).
In realtà le contrapposizioni dicotomiche tra differenza e universalismo e tra differenza
e disuguaglianza appaiono tutt’ altro che inevitabili. Una prospettiva attenta alla
differenza non necessariamente arriva a negare ogni forma di universalismo, si oppone
piuttosto all’ idea di omologazione e alla semplicistica riduzione dell’ universale al
maggioritario o, in forma ancora più radicale, alla specificità del gruppo dominante. Ciò
che l’ attenzione alla differenza tende a porre in primo piano è dunque l’ impossibilità di
continuare a utilizzare in modo ideologico e non problematico l’ idea di normalità, l’ idea
di un’ eguaglianza ostile a ogni forma di distinzione e dissenso. Mette in guardia verso
un uso coercitivo dell’ idea di eguaglianza che, alimentando il mito moderno della
possibile sintesi in un’ unità positiva e coerente, tende a ridurre all’ Uno ogni
manifestazione di specificità (Bauman 1991). Un universalismo compatibile con la
differenza si presenta meno arrogante, meno certo dei suoi fondamenti; si presenta più
come possibile progetto futuro, in gran parte indefinito e da contrattare, che non come
standard già acquisito con cui valutare la realtà presente. Richiede un consenso
procedurale e non sostanziale, si propone come strumento argomentativo, come fonte di
credibilità e di legittimazione più che come valore ultimo o criterio decisionale
incontestabile.
La contrapposizione dicotomica tra differenza e disuguaglianza appare ancora meno
sostenibile (Fraser 1995; Procacci 1999), in quanto i due termini intendono sottolineare
due dimensioni distinte, seppure strettamente combinate. Disuguaglianza ha il vantaggio
di essere un termine più preciso, di rimandare in modo chiaro a una asimmetria, che ha
origini e ragioni strutturali, nella distribuzione di risorse sociali scarse. Pone
l’ attenzione sulla struttura gerarchica di inclusione e di esclusione, sulla ripartizione del
potere e delle capacità; sostiene richieste di trasformazione sociale orientate al
raggiungimento di maggiore equità ed eguaglianza nella distribuzione delle possibilità,
degli oneri e delle risorse. Il termine dis-uguaglianza rimanda immediatamente a una
mancanza di eguaglianza, assume una connotazione morale negativa, orienta verso
un’ azione normativa e una politica della giustizia. Differenza risulta essere un termine
maggiormente indeterminato perché rimanda sia al piano della distinzione culturale –
quindi su una dimensione qualitativa difficilmente comparabile – sia al piano
dell’ identità e della specificità individuale – quindi su una dimensione fondativa che
assume facilmente un carattere ontologico. In realtà differenza rimanda alla centralità
assunta nella società occidentale contemporanea della dimensione culturale e
all’ accresciuta sensibilità riflessiva degli attori sociali. L’ uso di questo termine intende
rendere conto della rilevanza assunta dai processi simbolici, di nominazione e di
significazione che costituiscono una realtà propria che si affianca alle forme classiche di
disuguaglianza connesse alla dimensione economica e materiale. Differenza si affianca
quindi a disuguaglianza senza sostituirla ma interagendo in modo nuovo a creare nuove
forme di disparità, di inclusione e di esclusione mantenendo la capacità di rimandare a
piani di significato più ampi, che hanno a che fare con una dimensione culturale in cui
risultano centrali il riconoscimento di sé e delle proprie azioni, l’ immaginazione e la
capacità simbolica di attribuire senso alla realtà.
Una seconda posizione, almeno in apparenza meno ostile all’ uso del termine differenza,
tende a contrapporlo in modo dicotomico a quello di identità o a diluirne la specificità
sovrapponendolo alle idee di gruppo, di appartenenza e di cultura. La differenza viene
presentata come essenza, come il nucleo più profondo e autentico che fonda la ragione
di esistenza del singolo o del gruppo, qualcosa che si è ricevuto come dotazione
personale particolare o come eredità forgiata attraverso lunghi periodi storici e costituita
dalla sedimentazione dei più sacri saperi del gruppo e che ora influenza e guida le
azioni, i pensieri, le volontà individuali e collettive. Il soggetto e i gruppi privati di
questo loro bagaglio specifico, privati della loro differenza, sono espropriati della
capacità di agire e di pensarsi come soggetti umani. Se la propria differenza fonda
l’ identità, la differenza dell’ altro si contrappone a questa come negazione e immagine
speculare. Le differenze risultano quindi incompatibili proprio perché costruite
nell’ esclusione reciproca. Si promuove un IHWLFLVPRGHOODGLIIHUHQ]D (Turner 1994) che
trasforma la specificità in un valore assoluto, da preservare da ogni possibile perdita o
alterazione, contrapponendosi in modo deciso e frontale ad altre forme di differenza che
la minacciano.
La visione essenzialista della differenza e un suo uso come base per la costruzione
dell’ identità, dell’ autodeterminazione e dell’ autostima è compatibile anche con una
prospettiva di radicale relativismo che dissolve la specificità in una differenza
ineliminabile e ubiquitaria. L’ idea che la differenza costituisca la base essenziale della
visione del mondo di un individuo e di un gruppo e che tale base sia il risultato della
particolare e irripetibile storia personale e collettiva porta a considerare ogni differenza
come non valutabile se non dall’ interno, dai membri che la abitano e ne sono abitati. Le
differenze sono prive di fondamento oggettivo, puro risultato di contingenze, ma
nondimeno costituiscono il fondamento per l’ identità e la premessa necessaria per
l’ azione. Pur negandone il fondamento oggettivo e quindi un’ essenzialità primordiale, si
riconosce alla differenza il carattere di fondamento essenziale per lo sviluppo di una
piena consapevolezza identitaria. Non solo, si sostiene l’ impossibilità di giudizi di
valore e di merito che non provengano dall’ interno, che non traggano legittimità
dall’ appartenenza. La differenza risulta così essere uno strumento poco utile, sia sul
piano descrittivo sia su quello conoscitivo; indica uno stato di fatto del mondo che è
contemporaneamente del tutto accidentale e fondante ogni reale possibilità di
riconoscimento e di azione. Uno strumento che può essere usato solo da chi è interno,
ma sfugge ogni possibilità di comparazione e giudizio.
Uno dei contributi più rilevanti della riflessione antropologica e sociologica al dibattito
relativo a differenza, identità e cultura consiste nella decostruzione critica della
prospettiva essenzialista. A partire da una epistemologia costruzionista, si mette in
evidenza che differenze, identità e culture non sono date ma prodotte in un’ opera
continua di mediazione, confronto, adeguamento e conflitto tra possibilità differenziate.
Non esistono come realtà SXUH, ma solo come processi intrinsecamente caratterizzati da
contraddizione, instabilità, mutamento e miscelazione (Clifford 1993, Hannerz 2001,
Amselle 1999).
La prospettiva anti-essenzialista tende spesso a scivolare verso una prospettiva di
radicale processualismo che dissolve la specificità in una continua produzione di
differenze e identità prive di stabilità e di esistenza propria e occulta l’ azione del potere
e il carattere asimmetrico connesso a ogni definizione di differenza. L’ insistenza
postmoderna e poststrutturalista sul carattere inevitabilmente ibrido di ogni identità e
cultura toglie di fatto rilievo alla differenza, trasformandola in un elemento costitutivo
ma non caratterizzante (Young 1995; Werbner e Modood 1997). Inoltre favorisce l’ idea
che le differenze siano equivalenti e simmetriche, che l’ ibrido sia una nuova condizione
di parità che somma e trasforma le differenze iniziali secondo logiche di miscelazione
continua che occultano e rendono apparentemente insignificanti le diverse posizioni di
potere. L’ ibrido tende ad apparire sempre positivo, sempre capace di lasciarsi alle spalle
le disparità e le disuguaglianza degli elementi che entrano in contatto. Occulta il fatto
che la forma assunta dall’ ibrido non è indipendente dalla forza di definizione e di
resistenza dei singoli elementi in miscelazione, forza che è distribuita in modo
disomogeneo e non casuale (Nederveen Pieterse 2001). Grazie a quest’ azione di
occultamento, il discorso sull’ ibridità appare funzionale alla costruzione di una nuova
ideologia che cerca di far fronte al declino dell’ egemonia occidentale; un’ ideologia
orientata alla costruzione di nuove forme di dominio e di modelli positivi di
riconoscimento per una classe di cosmopoliti, sganciati dall’ appartenenza nazionale, che
si caratterizza per la sua capacità di passare da un contesto all’ altro, di rendersi mobile e
flessibile (Friedman 1999).
Il concetto di ibrido appare importante sul piano analitico e teorico in quanto consente
di superare categorie binarie, riconosce l’ esistenza e la rilevanza di uno spazio
intermedio, LQEHWZHHQ (Bhabha 2001), uno spazio liminale e di resistenza (bell hooks
1998), consente inoltre di superare una visione essenzialista dell’ identità e della cultura
evidenziando l’ importanza del dialogo, del confronto, del movimento e della diaspora
(Hall 1990; Gilroy 1993). Segnala che identità, culture e differenze non si danno mai in
forma SXUD e omogenea, ma trovano condizione di possibilità nel confronto continuo,
nel loro carattere indefinito e LPSXUR, nello spazio intermedio che risulta
dall’ impossibilità di definire in modo preciso la propria e l’ altrui identità e la propria e
l’ altrui differenza. Ibridità non si limita dunque a un catalogo di differenze, la sua
consistenza non risulta dalla somma delle parti, ma emerge dal processo di dialogo,
confronto e trasformazione di identità e differenze (Papastergiadis 1997).
L’ enfasi sui processi di miscelazione rischia comunque di scivolare su un piano
normativo che occulta le dinamiche di potere presentando l’ ibrido come sempre
positivo, emancipazione da precedenti vincoli e poteri, condizione auspicabile per una
maggiore consapevolezza e una più ampia garanzia di libertà e di giustizia (West 1992;
Anthias 2001). Il concetto di ibrido risulta inoltre confuso quando utilizzato
empiricamente perché se, da un lato, la critica decostruzionista al concetto di differenza,
identità, etnia e cultura ha reso problematico continuare a usare in modo acritico questi
concetti considerandoli come entità costituenti i soggetti e la realtà sociale nonché entità
determinanti le azioni e le conformazioni istituzionalizzate, dall’ altro, tale critica rischia
di favorire un’ immagine eccessivamente fluida e contingente della differenza,
un’ immagine in contrasto con l’ evidenza empirica che mostra quanto differenze e
identità siano oggi percepiti come elementi irrinunciabili per la definizione di sé e del
proprio gruppo.
/DGLIIHUHQ]DFRPHVWUXPHQWRDQDOLWLFR
Le riflessioni sin qui proposte cercano di orientare verso l’ individuazione di uno spazio
teorico entro cui sia possibile pensare la differenza come utile strumento analitico per la
lettura della realtà sociale contemporanea. Suggeriscono, innanzitutto, la necessità di
“ prendere la differenza sul serio” , cioè di considerarla non solo come una fallace e
fumosa argomentazione degli attori sociali che maschera, più o meno consapevolmente,
le reali determinanti strutturali. Questo significa rinunciare a considerare il ricercatore e
l’ intellettuale come capaci di cogliere la realtà più profonda e più vera che sfugge a chi
è protagonista dell’ azione; significa considerare gli attori come capaci di produrre senso
e realtà sociale, capaci di dare forma specifica ed efficace al mondo in cui vivono;
spinge a concentrare l’ analisi sulle modalità empiriche in cui la differenza viene creata,
imposta, utilizzata per giustificare richieste di riconoscimento, di inclusione o di
esclusione.
Considerare la differenza come un elemento rilevante della realtà sociale occidentale
contemporanea non è però certamente sufficiente a trasformarla in concetto
analiticamente utile. Le due posizioni dicotomiche solitamente utilizzate per rendere
conto della natura e della consistenza della differenza – essenza e ibrido – appaiono
incapaci di rendere conto delle sue manifestazioni empiriche. La differenza considerata
come essenza, come fondamento per l’ identità, la solidarietà e l’ azione, sembra
efficacemente descrivere alcune contemporanee forme di chiusura e di contrapposizione
tra gruppi sociali che si considerano differenti, così come la gran parte delle richieste di
riconoscimento e di autodeterminazione, alcune reazioni di protesta nei confronti
dell’ immigrazione, il riproporsi e il diffondersi dell’ integralismo nelle sue diverse
forme. Sembra invece inadeguata a cogliere le dinamiche attraverso cui queste
differenze si impongono rispetto ad altre, ad analizzare i contesti entro cui una
particolare differenza viene creata o rivalutata dopo periodi di latenza e di oblio, a
mettere in luce gli attori che promuovono il continuo lavoro di selezione, di
significazione e di traduzione che consente a una specifica differenza di imporsi come
evidente e credibile fonte di identificazione e di azione.
Il concetto di ibrido consente di rendere conto del carattere fluido, frammentato e
provvisorio entro cui si manifesta gran parte della differenza e dell’ identità
contemporanea. Risulta utile per descrivere riconoscimenti e solidarietà che appaiono
pluristratificate, che valgono in determinati contesti e momenti ma non in altri, per
descrivere appartenenze che sono sempre più polivalenti, che includono tratti ed
elementi differenziati. Rende conto in modo efficace dei processi e delle condizioni di
produzione della differenza ma tende a presentare i soggetti come eccessivamente
distaccati, EODVp, capaci di sviluppare un atteggiamento ironico e dubitativo verso le loro
più profonde certezze. Una descrizione che si scontra spesso con una realtà empirica in
cui la differenza muove passioni ed emozioni, alimenta ideologie, favorisce scontri e
volontà di distruzione reciproca.
I dibattiti relativi al tema del multiculturalismo e alla vita quotidiana aiutano a inserire
due nuove dimensioni rilevanti per il tentativo di definizione analitica della differenza.
Il primo introduce la polarità tra inclusione e distinzione, evidenzia il carattere politico
dell’ attuale uso della differenza, la possibilità che sia invocata per rivendicare sia
richieste di maggiore partecipazione sia richieste di separazione e di autonomia. Il
secondo rimanda alla polarità tra stabilità e mutamento, pone in primo piano le
potenzialità dinamiche e trasformative della differenza associate al carattere
destabilizzante e di potenziale minaccia che le accompagna, ne evidenzia la rilevanza
cognitiva nella produzione di significati ma anche il suo potenziale di disturbo e di
decostruzione nei confronti delle presunte certezze.
Il campo entro cui caratterizzare e analizzare la differenza appare così definito da tre
dimensioni, da tre vettori che ne indicano le tensioni fondamentali, i limiti estremi di
possibilità e lo spazio di esistenza: essenza vs. costruzione, inclusione vs. distinzione,
stabilità vs. mutamento.
'LPHQVLRQLWHRULFKHGHOPXOWLFXOWXUDOLVPRTXRWLGLDQR
Un passo importante verso una definizione analiticamente utile del concetto di
differenza è costituito dalla possibilità di fornire un’ argomentazione antiessenzialista
ma capace di rendere conto delle forme di rappresentazione e di confronto con la
differenza così come esse si presentano nella vita quotidiana. A questo scopo, può
essere interessante partire dalla distinzione che Bachtin (1981) propone tra due forme di
possibile ibridazione linguistica: l’ ibribità organica e l’ ibridità intenzionale. La prima
rende conto del processo inevitabile e fondante ogni forma di linguaggio: il continuo
appropriarsi irriflessivo di forme, modelli e parole derivante dall’ incontro con altri
linguaggi. La condizione di evoluzione storica di ogni linguaggio (cultura) è costituita
da un continuo miscelamento che, lungi dal costituire una forma di destabilizzazione, ne
rappresenta il fondamento di esistenza e di persistenza. L’ ibridazione organica rimane
un processo muto e opaco, non fa uso di contrasti e opposizioni consapevoli, ma risulta
fecondo di possibilità per mutamenti futuri (Werbner 2001). L’ ibridità intenzionale è
l’ incontro consapevole di due differenti universi linguistici, è una collisione tra due
differenti punti di vista sul mondo, l’ apertura di uno spazio dialogico che consente di
definire la propria specificità nell’ incontro e nel riconoscimento della differenza altrui.
Consente la produzione di nuovi significati nel riconoscimento riflessivo della propria e
dell’ altrui differenza.
Per l’ argomentazione qui sviluppata, la distinzione è parallela a quella avanzata in
campo sociologico tra riflessività essenziale e riflessività di secondo ordine. La prima,
di matrice etnometodologica (Garfinkel 1967, Pollner 1991) richiama l’ attenzione sulla
particolare caratteristica del mondo sociale per cui, perché un’ azione sociale sia
possibile, riconoscibile e dotata di senso, devono essere presupposte le condizioni della
sua produzione; produzione che a sua volta contribuisce alla costruzione di un senso
condiviso entro cui collocare e riconoscere tale azione. Richiama un’ ineliminabile
circolarità tra descrizione e produzione di un’ azione, tra azione e contesto in cui essa è
possibile. La riflessività evidenziata dagli etnometodologi è HVVHQ]LDOH perché
inevitabile e costitutiva di ogni pratica e di ogni spiegazione e EDQDOH perché rimane
necessariamente al di là delle capacità e degli interessi cognitivi degli attori impegnati
nell’ azione. Differentemente, la riflessività di secondo ordine rimanda a un uso
consapevole e strategico della riflessività, cioè alla capacità di incorporare la riflessione
sull’ azione e i suoi possibili esiti nell’ azione stessa, alla capacità di vedersi mentre si
agisce e di pensarsi come produttori di azioni che hanno implicazioni sulla realtà e sul
corso stesso dell’ azione (Giddens 1994, Beck 2000, Melucci 1998).
Le due distinzioni pongono in evidenza due piani differenti di osservazione. Un primo
piano che rimanda ai processi di produzione della realtà e ai fondamenti inconsapevoli
dell’ azione. Si tratta di un piano di interesse epistemologico prima ancora che
sociologico: si interroga sulle condizioni di possibilità e sulle modalità di costruzione
della realtà sociale. Costituisce un ambito di interesse per l’ osservatore mentre tende a
divenire opaco e banale nel momento in cui si è impegnati nell’ azione. Per rendere
conto di questo livello si può parlare di una GLIIHUHQ]DFRVWLWXWLYD, una differenza che si
pone come elemento di produzione di significato, che si manifesta come supplemento
(Derrida 1972), continua traduzione (Clifford 1993, Appadurai 2001), fonte di
spaesamento (Todorov 1996), che consente e promuove identità, mutamento e spazi di
resistenza. La differenza costitutiva si presenta come flusso, come processo, può essere
colta nella forma dell’ ibrido, del divenire altro. Evidenzia una “ costruttività essenziale”
che fonda la realtà e l’ azione sociale a cui è impossibile sottrarsi. La differenza appare,
a questo livello di analisi, come qualcosa di inevitabilmente costruito, incompleto e
mutevole, l’ elemento propulsore e il risultato di ogni possibile azione sociale. Un livello
di analisi in cui la differenza appare inevitabilmente priva di ogni essenza pre-sociale,
ambito specifico di interrogativi ed esplorazioni sui fondamenti sociali dell’ azione e
della realtà.
Il secondo piano di osservazione rimanda a una GLIIHUHQ]D WDWWLFD, a come gli attori
sociali utilizzano la differenza per costruire significati e realtà. Si occupa dell’ uso
intenzionale e politico della differenza nelle relazioni sociali; si occupa della differenza
quando questa diviene “ oggetto” e “ problema” sociale, quando le viene attribuito un
senso e una capacità di dare senso alla realtà e all’ azione. Prevede un certo grado di
“ oggettivazione” della differenza, la sua trasformazione in un’ evidenza sociale, in una
realtà consistente e sufficientemente ovvia da essere utilizzata come giustificazione e
argomentazione legittima o plausibile. La differenza tattica si pone a un livello di analisi
interessato alle pratiche e ai loro effetti, alle modalità con cui gli attori sociali (non un
osservatore posto a un livello superiore) attribuiscono senso alle loro azioni e alla realtà.
Il termine “ tattica” riprende (con un elevato grado di infedeltà) la distinzione che de
Certeau (1990, 59) fa tra questa e “ strategia” . Tattica intende segnalare un’ azione
strumentale ma priva di una progettualità forte, rimanda all’ azione di adeguamento
resistente a situazioni e contesti la cui definizione non risiede nella capacità degli attori;
differentemente dalla strategia, la tattica non richiede la capacità di rimettere in
discussione le relazioni di potere e le definizioni date ma si basa sulla possibilità di
insinuarsi, di ritagliarsi spazi di plausibilità e di indipendenza temporanea. Differenza
tattica intende evidenziare un uso calcolato della differenza che non implica il suo
esplicito e consapevole riconoscimento come strumento politico, ma piuttosto ne
avverte la potenziale utilità per produrre affermazioni ritenute dotate di senso, accettate
e legittime, per rivendicare trattamenti privilegiati o per garantire spazi di resistenza e
autonomia. Non è costituita da una differenza stabile, omogeneamente e
consapevolmente costruita, ma si alimenta di frammenti discorsivi ed esempi raccolti in
ambiti disparati o costruiti localmente per esigenze temporanee e specifiche, si
costruisce “ caso per caso” . Rende conto della realtà empirica spesso caratterizzata dal
fatto che la differenza è presa sul serio senza essere per questo trasformata in essenza e
in un dato stabile (Walby 2001).
La differenza tattica appare come caratteristica del multiculturalismo quotidiano, cioè in
situazioni di confronto continuo con la differenza; situazioni in cui la differenza viene
presa sul serio e utilizzata come risorsa strategica per definire modelli di interazione. Lo
spazio analitico definito dall’ idea di multiculturalismo quotidiano vuole sottolineare il
carattere fluido e mutevole assunto dalla differenza nell’ interazione quotidiana senza
però dissolverla completamente nel processo di miscelazione continua; vuole
evidenziare come la capacità e la possibilità di stabilizzare la differenza, seppure
temporaneamente e in modo parziale, sia una condizione indispensabile per un suo
possibile utilizzo come risorsa per l’ interazione. La differenza diviene un elemento
diffuso e rilevante dell’ esperienza quotidiana e si dimostra uno spazio che consente
opportunità e resistenze, acquisizione di vantaggi e possibilità di mutamento, pratiche di
attribuzione di senso che fungono da base per riconoscimenti, solidarietà ed esclusioni.
La differenza tattica può in date condizioni (la cui definizione puntuale apre possibilità
importanti di ricerca empirica) trasformarsi in differenza strategica, cioè assumere il
carattere di un preciso progetto di azione orientato a definire inclusioni ed esclusioni
che si cristallizzano in barriere e confini istituzionalizzati e che prendono una
dimensione strutturale. La differenza strategica tende a presentarsi, nei discorsi e
nell’ esperienza degli attori, come essenza, come fondamento irrinunciabile, come
elemento caratterizzante. Per essere strumento strategico efficace, la differenza deve, in
questo caso, essere percepita e presentata come costitutiva dell’ identità e dell’ alterità,
richiede identificazione, investimento emotivo, senso di coinvolgimento.
L’ idea di differenza tattica intende inoltre sottolineare che mentre costruzione, ibridità e
acquisizione sembrano essere le caratteristiche fondanti i processi sociali, reificazioni,
autenticità e ascrizione sembrano essere le caratteristiche irrinunciabili della realtà
sociale. Ponendo attenzione particolare all’ ambito del quotidiano come luogo di
produzione di pratiche e di creazione continua di significati condivisi che assumono
l’ evidenza di realtà, l’ idea di differenza tattica intende però evitare reificazioni e
generalizzazioni eccessive: i processi di oggettivazione della differenza non sono
scontati e definibili in modo generale, ma sono legati al contesto, alle soggettività e ai
poteri che lo abitano. L’ attenzione alla dimensione quotidiana è utile, inoltre, per
evidenziare il carattere imprevedibile e ambivalente della differenza tattica: una
differenza che approfitta delle occasioni per produrre conoscenza, dialogo, mutamento,
ma anche per trasformarsi in strumento politico di differenziazione ed esclusione; che
usa la differenza come possibile strumento per definirsi, parlare di sé e riconoscersi, ma
lo fa producendo, almeno in potenza, alterità assoluta e incommensurabile.
Mentre la differenza costitutiva caratterizza l’ ambito delle interazioni minute e banali e
la differenza strategica caratterizza l’ ambito dei discorsi, delle rappresentazioni
collettive, delle relazioni e delle interpretazioni poste a livello “ macro” , la differenza
tattica è propria soprattutto dello spazio della vita quotidiana, delle pratiche, dell’ azione
situata, è uno degli strumenti fondamentali dell’ “ arte di fare” , della capacità di produrre
adattamenti, innovazioni creative, resistenze passive.
Ponendo attenzione alle pratiche, soprattutto ai contesti quotidiani in ambito urbano, la
differenza tattica pare non solo pervadere i discorsi e le azioni ma assumere il carattere
di risorsa: principale strumento retorico e politico capace di utilizzare discorsi,
identificazioni e alleanze che si creano e si mantengono a livello macro per adattarli e
trasformarli nelle necessità contingenti dell’ azione situata. Così come la vita quotidiana
sembra oggi porsi come punto privilegiato di osservazione per analizzare come il
generale e il globale vengono rielaborati nell’ esperienza locale e individuale – dando
vita a quella che Robertson (1992) definisce la dimensione JORFDOH –, il
multiculturalismo quotidiano sembra caratterizzarsi per la capacità di evidenziare come
la differenza tattica si costituisca nello sforzo continuo di adattare e trasformare i
discorsi dominanti relativi alla differenza in discorsi demotici (Baumann 1997), cioè di
usare le rappresentazioni reificate della differenza e dell’ appartenenza che vengono
costruite e diffuse su scala globale (dal discorso politico, dai mezzi di comunicazione di
massa, dalle discussioni astratte e generalizzate relative al multiculturalismo e alle
politiche della differenza) in strumenti relazionali, in risorse per l’ azione.
Il multiculturalismo quotidiano appare essere l’ ambito di DGGRPHVWLFDPHQWR delle
differenze reificate prodotte su scala macro, il luogo in cui ciò che è altro viene
continuamente dotato di senso, ricondotto al solito e al noto, ma non necessariamente al
medesimo, lasciando in questo modo aperto uno spazio per l’ adattamento e il
mutamento. La vita quotidiana caratterizzata dalla presenza costante della differenza
sembra essere maggiormente qualificata dall’ imprevedibilità e dal lavoro pratico di
adattamento e di traduzione che non da ciò che è dato per scontato, dal procedere come
il solito (Schütz 1979, Jedlowski 2002). Appare essere uno spazio d’ azione in cui, da un
lato, si cerca di stabilizzare il flusso continuo in oggettivazioni utilizzabili
nell’ interazione, dall’ altro, si è impegnati a decostruire e adattare reificazioni e
generalizzazioni alle esigenze specifiche del proprio contesto di pratiche e di relazioni.
'LPHQVLRQLDQDOLWLFKHGHOPXOWLFXOWXUDOLVPRTXRWLGLDQR
Il rilievo assunto dalla differenza come risorsa per l’ azione – oltre a collegarsi
all’ importanza che essa assume nella società contemporanea – è legato sia al fatto che
essa sembra costituire una risorsa ampiamente disponibile (si basa su qualcosa che
potenzialmente tutti possiedono) (Stolke 1995) sia al fatto che si presta a un uso
poliedrico. Innanzitutto, la differenza si presenta come QXRYDIRUPDGLLGHQWLILFD]LRQH,
cioè come strumento di resistenza contro l’ omologazione nel modello dominante. Il
ricorso ad argomentazioni basate sul diritto a essere riconosciuti e a vedere difesa la
propria specificità sono divenuti strumenti legittimi per retoriche e pratiche di
opposizione verso altri modelli, soprattutto se dominanti e maggioritari. Nell’ ambito del
multiculturalismo quotidiano tende a garantire la possibilità di rivendicare spazi di
indipendenza, manifestazioni di autonomia e libertà di definire e manifestare le proprie
preferenze. L’ azione dei movimenti femministi e di altri gruppi che rivendicano una
specificità soprattutto di ordine culturale, ha ampiamente utilizzato e diffuso questo
modello di argomentazione e di azione.
La differenza si presenta inoltre come QXRYD IRUPD GL HJXDOLWDULVPR, cioè come
strategia di legittimazione di richieste di inclusione. Denuncia forme antiche e radicate
di discriminazione e rivendica priorità nella distribuzione di risorse scarse in grado di
compensare e risarcire le minoranze per l’ iniquo trattamento ricevuto. Nel
multiculturalismo quotidiano si manifesta soprattutto come spazio di rivendicazione per
l’ accesso a risorse scarse da cui si è stati esclusi. Il riconoscimento di appartenenza a
specifiche differenze diviene strumento tattico per acquisire posizioni vantaggiose
rispetto ai criteri di allocazione di particolari beni o servizi.
Può inoltre essere la base per QXRYH IRUPH GL SULYLOHJLR, cioè essere trasformata in
strumento strategico per ottenere vantaggi: può essere usata per costruire barriere e
confini che riducono la concorrenza rispetto alla distribuzione delle risorse disponibili.
La differenza diviene in questo caso strumento di esclusione e di protezione degli
interessi del gruppo con cui ci si identifica. La costituzione di comitati da parte delle
élite locali e di discorsi ostili verso la differenza altrui, basati sulla difesa della propria
specificità, costituiscono esempi empirici di questo specifico utilizzo della differenza.
Infine, si può presentare come QXRYD IRUPD GL FULWLFD VRFLDOH, cioè come strategia di
legittimazione per la richiesta di ridiscutere e modificare le regole che fondano lo status
quo. In questo caso la differenza viene utilizzata per evidenziare e smascherare l’ azione
di dominio esercitata dalla presunta normalità della maggioranza, come strumento per
rimettere in discussione il senso comune, il già dato, i modelli d’ azione
istituzionalizzati. Nell’ ambito del multiculturalismo quotidiano questo uso della
differenza si sostanzia nella possibile creazione di spazi di sperimentazione, spazi che
favoriscono la contaminazione e l’ incontro, la festa, l’ inversione rituale e la
trasgressione carnevalesca.
Tutti questi casi configurano l’ utilizzo della differenza tattica in ambito quotidiano
come una nuova risorsa per la competizione sociale, come uno VWUXPHQWR SROLWLFR che
consente di tracciare confini entro cui riconoscersi e difendersi e oltre i quali esiliare gli
indesiderati e combattere i nemici. A livello dell’ interazione quotidiana, la differenza
appare essere uno strumento per la costruzione di confini simbolici e materiali che
creano alleanze, classificazioni e distinzioni, che servono come strumenti di selezione,
di inclusione ed esclusione. Uno strumento che opera sia sul piano cognitivo del
riconoscimento, della legittimazione e della capacità di giustificare e dare senso a sé e
alla realtà sociale, sia sul piano materiale come risorsa politica per la regolamentazione
dei rapporti sociali e come base legittima per la differenziazione e la discriminazione.
La dimensione politica del multiculturalismo quotidiano ne evidenzia lo stretto legame
con il SRWHUH: creare una differenza e creare un confine sono atti di imposizione e sono
possibili solo se sostenuti dalla capacità di definire e istituire differenziazioni che
assumono carattere vincolante. L’ attenzione alla dimensione del potere implica
l’ impossibilità sia di distinguere le differenze con un sistema discreto e dicotomico che
le misuri sul piano valoriale (giusto-sbagliato; ammissibile-inammissibile), sia di
considerarle sempre tra loro equivalenti. Perché risulti strumento analitico utile dal
punto di vista dell’ analisi sociologica, la differenza deve essere specificata inserendola
nel contesto di relazioni di potere entro cui viene costruita, invocata o utilizzata.
L’ analisi delle forme empiriche del multiculturalismo quotidiano non può quindi
prescindere da un’ analisi delle condizioni di potere che consentono e definiscono la
manifestazione di differenze. La possibilità di costruire differenze che assumano
carattere socialmente riconosciuto è legata al possesso di capacità personali e
relazionali, nonché di risorse materiali e simboliche, che sono distribuite in modo
disomogeneo.
Appare quindi importante poter separare i casi più estremi, in cui l’ azione del potere si
manifesta in modo più preciso ed evidente: è utile poter distinguere tra differenze
autonomamente ULYHQGLFDWH e differenze LPSRVWH. La distinzione sembra però tutt’ altro
che semplice. Più che una differenziazione dicotomica, essa sembra infatti segnalare un
continuum in cui i casi estremi appaiono più come possibilità ideal-tipiche che come
esempi empirici. I casi in cui le differenze si presentano come puramente imposte e non,
con gradi di libertà diversi, come il risultato di relazioni, scontri e aggiustamenti
reciproci, sono particolari e limitati (ma senz’ altro significativi e importanti – cfr. gli
esempi della marginalità estrema, l’ attribuzione di stigma sociale, il dibattito corrente
sull’ immigrazione o sull’ integralismo religioso). È importante, comunque, tenere in
primo piano la questione per evidenziare come l’ analisi empirica della differenza debba
includere un’ analisi dei rapporti di potere, debba evidenziare in quale contesto di potere
è possibile la costruzione di un particolare insieme di differenze. Non è possibile
analizzare quale differenza viene invocata, come viene usata, da chi e nei confronti di
quale interlocutore, senza analizzare il contesto di poteri, locali e globali, entro cui tale
differenza diviene una risorsa utilizzabile e credibile.
La questione del potere è importante anche perché consente di evidenziare come la
differenza si presenti oggi come risorsa “ aggiuntiva” connessa all’ aumento delle
capacità personali (Melucci 2000): anche se potenzialmente distribuita in modo
uniforme (tutti possono rivendicarne una), la differenza richiede risorse cognitive e la
disponibilità a investire in campo simbolico; risorse e disponibilità attivabili solo in
condizioni di relativa abbondanza di risorse materiali. Richiede inoltre il possesso di un
certo capitale sociale, cioè la possibilità di inserimento in una rete di relazioni capace di
sostenere e di rafforzare la distinzione prodotta. Questo fa della differenza una risorsa
distribuita in modo DVLPPHWULFR e responsabile della formazione di ulteriori
differenziazioni: diviene la base potenziale per la formazione di nuove disuguaglianze
che conservano una radice strutturale nella diversa distribuzione delle risorse materiali
ma si manifestano e si concretizzano nella diversa distribuzione delle risorse simboliche
e culturali. La differenza diviene significativa come risorsa relazionale solo superata una
soglia minima di garanzia per ciò che riguarda la disponibilità di risorse fondamentali
per la propria sopravvivenza (materiale, sociale e cognitiva). Ciò implica riconoscere
che la differenza non è una risorsa disponibile per i più deboli in quanto richiede delle
capacità minime per essere attivata e usata politicamente; la differenza risulta essere una
risorsa funzionale soprattutto all’ élite, sia essa dominante – per ribadire lo status quo –
oppure minoritaria e alternativa – per garantire nuovi spazi di indipendenza e di potere.
Queste osservazioni consentono di distinguere una situazione limite al di sotto della
quale risulta empiricamente irrilevante se non fuorviante considerare la differenza come
una risorsa relazionale. Nei casi in cui la differenza risulta essere PRQRORJLFD (Bachtin
1968), cioè il discorso di una sola parte, pura etichetta discriminante, la differenza va
vista come stereotipo e pregiudizio, come modalità di difesa estrema o di oppressione
egemonica. Le situazioni in cui la differenza si presenta come risultato di una
PRQRORJLFD tendono a caratterizzarsi per la manifestazione di forme di irrigidimento
identitario, queste si riscontrano principalmente in situazioni di carenza di risorse e di
capacità personali che spingono verso difese comunitarie e arroccamenti essenzialistici
oppure in situazioni di disparità e asimmetrie di potere e di risorse economiche che
spingono la parte più forte a mantenere i propri vantaggi segnalando e sottolineando la
differenza e la distanza con la parte più debole. In condizioni meno asimmetriche
prevalgono fenomeni di scambio, ibridazione, confronto, conflitto situato.
L’ idea di multiculturalismo quotidiano intende segnalare uno spazio in cui la differenza
non è completamente imposta ma risultato di processi di dialogo e di conflitto, processi
che rimangono comunque caratterizzati dalle asimmetrie di potere, influenzati dalla
diversa posizione occupata e dalla disparità delle risorse disponibili.
Considerare la differenza in stretta relazione con il potere e centrale per lo scontro
politico teso a definire i confini materiali e simbolici di inclusione e di esclusione, le
forme di distribuzione delle risorse scarse e il significato da attribuire alla realtà sociale,
implica sottolinearne il carattere DPELYDOHQWH: strumento dinamico di mutamento e di
potenziale inclusione H strumento entropico di frantumazione del legame sociale e di
costruzione di barriere ed esclusioni. Questo invita a guardare alla differenza
interrogandosi sulle implicazioni che essa ha sulle relazioni sociali nel contesto
analizzato, invita a inserire nell’ analisi quali confini una particolare differenza
costruisce, chi ne rimane posizionato all’ esterno e a quale prezzo. La differenza crea
spazi di riflessività e di mutamento ma può anche rivelarsi minacciosa e offensiva
(Werbner 2001). In quali condizioni è possibile la formazione di dialogo e di
miscelazione, quali elementi culturali e sociali vengono destabilizzati dalla differenza,
quali offrono maggiore resistenza, fino a che punto la paura della differenza rafforza la
propria appartenenza, quali gruppi e in quali condizioni sono più riluttanti a sottoporre a
discussione la propria differenza, divengono questioni empiriche centrali (Anthias
2001).
L’ evidenza del carattere ambivalente della differenza, la sua capacità di creare
inclusione e privilegio, ma anche esclusione e discriminazione, pongono in primo piano
la necessità di poter definire in quali condizioni essa tende a far prevalere il suo aspetto
di vincolo al suo aspetto di risorsa, o viceversa. A questo fine, appare utile poter
evidenziare: l’ DPSLH]]DGHOOHSRVVLELOLWj con cui la differenza si presenta ai singoli e ai
gruppi e il JUDGRGLOLEHUWj che essa mantiene per ciò che riguarda l’ adesione o l’ uscita.
Nel primo caso è bene inserire nell’ analisi le condizioni che portano a invocare
particolari forme di differenza e il grado di disponibilità di forme alternative di
identificazione. Ciò consente di distinguere le situazioni in cui una particolare forma di
differenza risulta essere una delle poche risorse disponibili per garantirsi uno spazio di
indipendenza e di autonomia, da quelle in cui costituisce una ulteriore risorsa per
soggetti già collocati in posizioni di vantaggio o di privilegio. La distinzione di Bauman
(1999b) tra globali per scelta e locali per forza richiama quest’ importante distinzione tra
chi ha la possibilità di fare delle diverse possibili differenze a sua disposizione uno
strumento flessibile e vantaggioso e chi si vede ingabbiato in una differenza in cui viene
fagocitato senza altre possibilità di scelta.
La dimensione relativa ai gradi di libertà invita a inserire nell’ analisi i vincoli che
legano all’ identificazione in una particolare differenza nonché ai costi connessi a un
abbandono di tale inclusione. È necessario distinguere le situazioni in cui la differenza
si presenta come base indispensabile per l’ appartenenza a un particolare gruppo che
risulta centrale per l’ identità di un individuo. In questo caso, il legame interno risulta
essere molto forte e la minaccia di esclusione particolarmente distruttiva. Abbandonare
una certa differenza potrebbe significare dover rinunciare a una comunità che assicura
riconoscimento, solidarietà, valori morali e religiosi. I legami prescrittivi con il gruppo
sono particolarmente forti per le minoranze: essendo fortemente identificati con il
gruppo, la lealtà verso di esso risulta più forte (Jaggar 2000). Viceversa, gli individui e i
gruppi con maggiori risorse hanno possibilità di passare con più facilità da forme di
identificazioni ad altre, valutandone gli effetti in base ai contesti. Come sostiene
Bauman (2001a, 2002) la possibilità di non essere identificati in un unico contesto e di
avere un pacchetto di differenze da giocare nell’ interazione costituisce una nuova forma
di distinzione e di potere. La possibilità di essere mobili e flessibili si configura come
una nuova forma di manifestazione di potere che sovverte le tradizionali strategie
egemoniche. Mentre nella modernità il potere cercava di assicurarsi egemonia
soprattutto mediante la capacità di istituzionalizzazione forte, cioè la capacità di
presentarsi come evidente, normale, naturale ed eterno, nella società contemporanea la
capacità egemonica si configura come possibilità di spostamento, capacità di invisibilità
e di fuga. È egemonico un potere che può sfuggire alle proprie responsabilità, non si
lascia bloccare, non è identificabile, non mostra un unico volto, non ha una collocazione
spaziale definita.
0RGHOOLHPSLULFLGHOPXOWLFXOWXUDOLVPRTXRWLGLDQR
In conclusione – in modo rapido e senza pretesa di essere esaustivi – è possibile indicare
alcune forme empiricamente rilevabili di multiculturalismo quotidiano, alcuni modelli
diffusi di relazione con la differenza e di suo utilizzo nell’ interazione e che sono qui
presentati in forma ideal-tipica.
Un primo modello riguarda l’ espressione di una GLIIHUHQ]D IRUWH, cioè forme di
reificazione della differenza che fungono da base per chiusure verso chi è considerato
altro e da collante per il riconoscimento identitario. Richiede solitamente una serie di
“ imprenditori morali” che traducano i discorsi essenzialisti sulla differenza prodotti a
livello sovra-locale in discorso demotico e localizzato che enfatizza i temi della purezza
e della comunità. L’ espressione di una identità forte sembra favorita in condizioni in cui
esiste una elevata disparità di poteri e di risorse a cui si aggiunge una sensazione di
minaccia alla propria identità o a uno status di privilegio. Sembra inoltre favorita in
situazioni in cui le capacità personali risultano carenti e l’ identificazione in un gruppo
coeso e protettivo una delle poche risorse disponibili per contenere la sensazione di
minaccia.
Un secondo modello si esprime in una PRELOLWjIRUWH, basato sulla filosofia del “ lasciar
perdere” (Bauman 2001b), sulla capacità di sottrarsi al dialogo con la differenza nel
momento in cui questo diviene problematico e potenzialmente capace di procurare
perdite indesiderate. Può basarsi sull’ apparente manifestazione di simpatetica
benevolenza e di interesse che rimangono però limitati ad aspetti controllabili della
relazione. Un esempio può essere dato dalle situazioni di “ consumo” della differenza, di
forme di relazione basate sul modello del mercato, che consentono di mantenere il
dialogo e la relazione sul piano dello scambio economico. Si ha relazione con la
differenza finché essa è ritenuta in grado di soddisfare interesse e stimolare piacere,
mentre altri suoi aspetti rimangono esclusi dalla relazione e si sottraggono a una
valutazione grazie alla capacità di distaccarsi dalla situazione di dialogo
(cognitivamente, grazie a una presunta superiorità morale, ma anche fisicamente, grazie
alla possibilità di essere mobili, di spostarsi, di ritirarsi in enclave protette). Questo
modello sembra essere favorito quando sono disponibili risorse sufficienti a garantire
spazi di manovra e di separazione spaziale, quando inoltre si sviluppano forme di
tolleranza sostanzialmente basate su indifferenza e distacco.
Un ulteriore modello può essere ricondotto alla FRQYHUVLRQH, sia di Ego nei confronti di
Alter, sia nella direzione contraria. Conserva il carattere di un discorso monologico,
incapace di dialogo, e prende forma attraverso pratiche di riduzione di una delle due
differenze al modello costituito dall’ altra, considerando l’ alterità come esempio ideale
per il sé oppure considerandola incompiuta e incapace di completamento senza un aiuto
esterno. Si manifesta soprattutto in situazioni in cui esiste una forte disparità tra le
motivazioni che spingono all’ interazione (situazioni di aiuto, di azione volontaria)
oppure in condizioni di condivisione di spazi di intimità (in questo caso la dimensione
di genere assume una rilevanza particolare per la differenza soggetta a conversione).
A partire da questi tre modelli “ estremi” – che configurano situazioni di incapacità o di
difficoltà di dialogo con la differenza e che sono più probabili in condizioni di forte
disparità di risorse – è possibile delineare altri tre modelli – che maggiormente
definiscono gli ambiti del multiculturalismo quotidiano – in cui la dimensione di risorsa
relazionale e politica della differenza è più esplicita e si presenta in forma dinamica.
Vicino al modello della conversione, è possibile definire un modello in cui prevale una
logica del SDUWLFRODULVPR, cioè la produzione di regole di eccezione che consentono di
trattare la differenza con cui si è in relazione come un caso speciale, non riconducibile
al modello che la caratterizza su scala generale. In questo caso il discorso demotico
traduce la differenza reificata nel discorso sovra-locale nell’ eccezione del caso singolo,
evidenziandone la distanza dal modello generale e avvicinandola al proprio modello,
senza però dissolverla in una assimilazione completa come tende a fare il modello della
conversione. Il modello del particolarismo si manifesta prevalentemente nelle situazioni
in cui esiste una chiara distinzione tra minoranza e maggioranza.
Il modello dello VFDPELR sembra essere una versione meno sbilanciata del modello della
mobilità forte e si presenta come un dialogo parziale, mantenuto aperto solo su
questioni definite ma che implicano un certo grado di reciprocità. Si sviluppa nel caso in
cui le transazioni e i contatti si sviluppano in una “ storia” , in una relazione con
caratteristiche stabili e ripetute. Anche in questo caso le strategie di convivenza con la
differenza si basano sulla possibilità di definire spazi di uscita dalla relazione che
consentano di evitare conflitti e contrapposizioni forti.
Infine il modello del FRQIOLWWR si presenta come una forma più sostanziale di confronto
tra differenze. Un confronto dialogico che può riguardare anche aspetti ritenuti fondanti
le rispettive differenze e che richiede lo sviluppo di una serie di regole che definiscano
le modalità e i limiti del conflitto. Si fonda sulla possibilità di orientare gli scontri e i
confronti in campi che possono rimanere circoscritti, in cui sia possibile sostenere
sconfitte senza dover rimettere in discussione la propria specificità nella sua interezza.
Richiede quindi lo sviluppo di meccanismi di equilibrio tra le parti in causa e la
possibilità di recuperare le sconfitte e le perdite in periodi successivi o in campi
differenti.
Al di là dello schizzo impressionistico che questi modelli di espressione del
multiculturalismo quotidiano possono fornire, appare evidente la rilevanza che in
ognuno di essi assume la differenza in quanto strumento di azione politica, strettamente
connessa alle condizioni di potere che la rendono possibile e che contribuisce in modo
consistente a creare e riprodurre.
Vista da una prospettiva empirica interessata a riflettere sulle forme quotidiane di
confronto con l’ alterità, la differenza appare contemporaneamente come un vincolo e
una risorsa, caratterizzata da ambivalenza e ambiguità. In termini analitici, appare utile
non se utilizzata come causale determinante dell’ azione ma come contesto e come
strumento politico e strategico di relazione con l’ altro; un contesto e uno strumento che
non sono neutri ma che interagiscono in modo costitutivo con il potere e le dinamiche di
dominio.
La differenza non sembra inoltre interessante analiticamente se vista come contrapposta
alla disuguaglianza, ma piuttosto come possibile strumento, campo concreto e di
centrale rilevanza nella società contemporanea, per la produzione di differenziazione e
(potenziale) disuguaglianza, fonte per la creazione di nuove forme di inclusione e di
esclusione (Abu-Lughod 1991). Ciò implica che la differenza, in quanto strumento
politico, non è sempre e indiscutibilmente accettabile, né neutrale; non è sempre
ricomponibile sul piano del consenso e dell’ accordo ma include la possibilità di
conflitto.
L’ interesse sociologico per forme di multiculturalismo quotidiano non risiede tanto
nella capacità di rispondere a domande riguardanti il fondamento, la sostanza e la
consistenza della differenza, quanto a domande che riguardano FRPH la differenza è
utilizzata per produrre relazioni sociali entro contesti situati ma non isolati, che
raccolgono discorsi, rappresentazioni, linee di demarcazione e confini costruiti su scala
globale ma continuamente riadattati e addomesticati alla particolare situazione locale.
Da questa prospettiva, risulta interessante interrogarsi su come la differenza, in quanto
strumento di azione politica, viene usata, dove, da chi e a quali scopi, con quali effetti.
L’ attenzione alla differenza consente infine di porre in evidenzia come le forme di
differenziazione e il conflitto politico si giocano oggi non solo sul piano del controllo
delle risorse materiali ma anche sul piano simbolico del controllo della capacità di dare
senso alla realtà, di immaginare concreti scenari attuali e futuri, di costruire distinzioni
che possono fungere da luoghi di incontro e di confronto ma anche da barriere che
favoriscono scontri, esclusioni e privilegi.
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