CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE - Ordine Avvocati

CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
PRESSO IL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
OSSERVAZIONI SULLA SEGNALAZIONE AGCM DEL 21
SETTEMBRE 2009 IN ORDINE AL DDL DI RIFORMA
DELLA PROFESSIONE FORENSE
(approvato dal Consiglio nazionale forense nella seduta amministrativa del 25 settembre 2009)
SOMMARIO: 1. LE SEGNALAZIONI DELL’AGCM. NATURA GIURIDICA E PRECEDENTI. 2.
QUELLO CHE L’AGCM NON DICE. 3. LA QUESTIONE DELLE ATTIVITÀ RISERVATE. LA
CONSULENZA LEGALE. 4. L’ACCESSO ALLA PROFESSIONE. 5. LE TARIFFE PROFESSIONALI.
L’INDEROGABILITÀ DEI MINIMI. 6. LA PUBBLICITÀ DEGLI AVVOCATI. L’AUTONOMIA
NORMATIVA DELLA CATEGORIA PROFESSIONALE. 7. IL TITOLO DI SPECIALISTA. 8. LE
INCOMPATIBILITÀ. 9. ASSOCIAZIONI MULTIDISCIPLINARI E SOCIETÀ PROFESSIONALI. 10.
IL POTERE REGOLAMENTARE DEL CNF.
1. Le segnalazioni dell’AGCM. Natura giuridica e precedenti.
L’AGCM non è nuova ad intervenire nel dibattito legislativo relativo a provvedimenti
di interesse per l’Avvocatura facendo uso del potere di segnalazione di cui all’art. 21
della propria legge istitutiva (legge 287/1990).
Immancabilmente, tale potere è stato sempre esercitato in una direzione contraria alle
istanze portate avanti dalla classe forense e dai suoi organi rappresentativi.
L’ultimo caso significativo riguardò il provvedimento (poi diventato legge n. 339 del
2003) con il quale la professione di avvocato è stata esclusa dal campo di applicazione
delle norme che consentono ai dipendenti pubblici part time l’iscrizione negli albi
professionali1. Nonostante tale segnalazione la legge venne approvata in via definitiva
1
Nell’ambito del procedimento di formazione della legge 25 novembre 2003, n. 339, l’Autorità garante
per la concorrenza ed il mercato effettuò una segnalazione in data 6 dicembre 2001(bollettino n. 48/2001),
ai sensi e per gli effetti dell’art. 21 della legge 10 ottobre 1990, n. 287. L’AGCM, in quell’occasione,
segnalò al legislatore il carattere settoriale della disciplina in corso di adozione, e ritenne di affermare che
“in tale contesto, dunque, la misura dell'esclusione dei dipendenti pubblici a tempo ridotto dall'accesso al
mercato dei servizi professionali svolti dagli avvocati appare introdurre un limite alla libertà di iniziativa
economica dell'avvocato, che non può ritenersi giustificato e proporzionato rispetto all'esigenza di evitare
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dalla Camera dei deputati il 5 novembre 2003, con il larghissimo consenso di tutte le
forze politiche, senza distinzioni tra maggioranza ed opposizione; del pari la presunta
lesione al principio di concorrenza lamentata dall’AGCM non trovò ascolto neanche
presso la Corte costituzionale, che ebbe ad esaminare la legge in oggetto, rigettando le
prospettate questioni di legittimità costituzionale2.
Il precedente segnala inequivocabilmente non solo come le Camere non abbiano alcun
obbligo di dare seguito alle segnalazioni dell’Autorità, ma anche come tale istituzione
sia incline a farsi portatrice dell’interesse pubblico al rispetto della libertà di
concorrenza senza assumere mai l’onere di effettuare una ponderazione bilanciata
rispetto ad altri interessi pubblici coinvolti. In altre parole, l’AGCM si pone come un
soggetto istituzionale portatore di uno specifico limitato interesse, che il legislatore ha il
dovere di tenere in considerazione, conservando tuttavia la piena responsabilità politica
di adottare le soluzioni ritenute più opportune, che debbono tenere conto di un più
ampio quadro di interessi coinvolti. Nel caso da ultimo descritto, inoltre, la
ragionevolezza della scelta del legislatore è stata avallata addirittura dalla Corte
costituzionale.
Non è questa la sede per soffermarsi sul progressivo spostamento dell’AGCM verso la
posizione di organizzazione rappresentativa di interessi, piuttosto che di istituzione
pubblica che responsabilmente conforma l’azione di tutela del proprio interesse
pubblico primario in termini coerenti con altri interessi pubblici rilevanti nelle
fattispecie considerate. Né per esaminare l’inevitabile perdita di autorevolezza che tali
contegni comportano. Qui basti solo segnalare come la posizione dell’AGCM sia
parziale, e come tale posizione non comporti (e non abbia in effetti comportato) alcun
obbligo di conformazione in capo al legislatore.
l'insorgere di situazioni di conflitto di interessi, che potrebbero pregiudicare l'effettività del diritto di
difesa”.
2
Corte costituzionale 8 novembre - 21 novembre 2006, n. 360, con nota di G. COLAVITTI, Il rapporto di
impiego pubblico a tempo parziale tra libertà di concorrenza e specialità della professione forense, in
Giur. cost., 2006, 4076 e ssg.
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2. Quello che l’AGCM non dice.
Prima di entrare nel merito dei rilievi espressi dall’AGCM, vale la pena evidenziare due
elementi.
A conferma dell’univocità di direzione che questi interventi assumono, assordante
risulta il silenzio dell’AGCM a proposito della ricorrente mancata inclusione degli
avvocati e delle altre libere professioni in ogni provvedimento normativo ed in ogni
azione governativa che miri a sostenere i comparti economico produttivi in questo
delicato frangente storico di crisi. La crisi economica colpisce infatti le categorie
professionali non meno delle imprese e del lavoro dipendente, causando sia il
ridimensionamento dei grandi studi legali, con conseguente riduzione del numero di
professionisti inquadrati in tali organizzazioni, sia, in termini generali, la riduzione del
fatturato di operatori medi e piccoli, con il rischio di collocare al di fuori del mercato
numerosi professionisti. Se ne sono finalmente accorti i mass media3, ma non l’AGCM,
che nei provvedimenti di sostegno alle imprese non rileva alcuna disparità di
trattamento meritevole di segnalazione. Eppure, una distorsione alle dinamiche
concorrenziali appare evidente, laddove si consideri che, nel settore dei servizi
professionali, le politiche pubbliche di protezione ed incentivazione sono sempre rivolte
a soggetti che se ne avvantaggiano in quanto imprese (società di consulenza, società di
architettura ed ingegneria, etc. etc.), e mai al professionista che vi opera. In questo
quadro le professioni libere sono sempre figlie di un dio minore, non ricevendo né i
sostegni rivolti alle imprese, né i sussidi e le forme di copertura assistenziale proprie del
lavoro subordinato.
Iniziando invece ad occuparci della segnalazione in oggetto, merita riflessione il
mancato pronunciamento dell’AGCM su alcuni delicati profili del disegno di legge di
riforma della professione.
Primo fra tutti la regolamentazione della funzione disciplinare.
3
Cfr. I. TROVATO, L’altro volto della crisi: avvocati e architetti sono i più colpiti, in Corriere economia,
21 settembre 2009, pag. 2, 3.
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Evidentemente, la soluzione adottata dal disegno di legge, pur innovativa rispetto alla
normativa vigente, incontra il favore dell’Autorità, che altrimenti – si deve ritenere –
non avrebbe mancato di esercitare il suo occhiuto controllo eccependo altri presunti
vulnera alla libertà di concorrenza.
3. La questione delle attività riservate. La consulenza legale.
Gli strali della Autorità garante hanno colpito prima di tutto le attività professionali che,
secondo il disegno di legge di riforma, possono costituire oggetto di riserva. Oltre alla
difesa, alla rappresentanza ed alla assistenza in giudizio, la riforma include tra le attività
riservate anche: a) l’assistenza, la rappresentanza e la difesa “nelle procedure arbitrali,
nei procedimenti di fronte alle autorità amministrative indipendenti, e ad ogni altra
amministrazione pubblica e nei procedimenti di conciliazione e mediazione” (articolo 2,
comma 5); b) l’assistenza, la rappresentanza e la difesa, salve le specifiche competenze
di altri professionisti, in procedimenti di natura amministrativa, tributaria e disciplinare
(articolo 2, comma 6); c) l’attività, svolta professionalmente “di consulenza legale e di
assistenza stragiudiziale in ogni campo del diritto”, fatte salve specifiche competenze di
altri professionisti espressamente individuati (articolo 2, comma 7). La denunzia
dell’Autorità omette di rilevare che, nel caso sub a), per ciò che concerne le
amministrazioni pubbliche, il progetto di legge fa “salvo quanto previsto dalle leggi
speciali per l'assistenza e la rappresentanza per la pubblica amministrazione”.
A ben vedere, le competenze di cui alle lettere a) e b) trovano fondamento nella
necessità della assistenza dell’avvocato in ogni procedura a carattere contenzioso, e
quindi condividono la medesima ratio della soggezione a riserva dell’attività giudiziale,
che invece la AGCM tollera, anche in virtù, probabilmente, della diretta copertura
costituzionale (art. 24 Cost.). Non vi è dubbio infatti che taluni procedimenti presso le
autorità indipendenti raggiungano soglie di complessità spesso di gran lunga superiori a
quelle proprie di un ordinario giudizio civile: non si vede perché la necessità della
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assistenza e della difesa tecnica debba sussistere solo nel secondo caso, e non anche nel
primo.
Quanto a quelle procedure che mirano ad evitare le liti giudiziali (conciliazione e
mediazione), qui la presenza dell’avvocato è necessaria per prospettare alla parte
proprio gli eventuali vantaggi che presenterebbe il mancato ricorso al processo, o,
viceversa, la opportunità di procedere comunque per le vie giudiziarie. Solo un avvocato
che conosca le dinamiche processuali può offrire al cliente una prospettazione completa
della propria posizione giuridica e delle modalità più opportune per tutelare i propri
diritti. Peraltro, anche in queste modalità alternative di risoluzione delle controversie
sussiste pienamente la contrapposizione di interessi che è propria dei procedimenti
giudiziali.
Ma la questione forse più delicata riguarda l’attività di consulenza legale.
Deve innanzi tutto contestarsi che l’ordinamento comunitario osti ad una scelta del
legislatore nazionale di sottoporre a riserva l’attività di consulenza legale, se svolta
professionalmente.
Basti al riguardo considerare il più recente e politicamente significativo atto normativo
comunitario di indirizzo in tema di servizi professionali e di liberalizzazione degli
stessi: la Direttiva Bolkestein.
Sotto il profilo qui indicato, la direttiva servizi non prende posizione, o se la prende, lo
fa in modo coerente con la tradizione normativa italiana in materia di libere
professioni4.
La controprova di tale ragionamento è offerta dalla lettura stessa della direttiva. Ai sensi
di uno specifico considerando, il n. 88, sono compatibili con essa sistemi normativi
nazionali che addirittura sottopongano a riserva l’attività di consulenza legale: “88. La
disposizione sulla libera prestazione di servizi non dovrebbe applicarsi nei casi in cui, in
conformità del diritto comunitario, un’attività sia riservata in uno Stato membro ad una
professione specifica, ad esempio qualora sia previsto l’esercizio esclusivo della
4
Cfr. G. COLAVITTI, La Direttiva Bolkestein e la liberalizzazione dei servizi professionali, in corso di
pubblicazione negli studi in onore di Francesco Capriglione (2009)
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consulenza giuridica da parte degli avvocati”. Il che accade, per esempio, in Portogallo,
con la legge 24 agosto 2004 n. 49, che ha espressamente riconosciuto agli avvocati
l’esclusiva per l’attività di consulenza svolta in forma professionale, ribadendo la
legittimazione processuale dell’ordine per reprimere i contegni abusivi.. Ciò che
importa sottolineare è che la disposizione appena citata conferma come un Paese può
introdurre una simile riserva di attività “in conformità al diritto comunitario”.
Esistono inoltre numerose ragioni che depongono nel senso di una eventuale scelta del
legislatore nazionale a favore dell’esplicito assoggettamento a riserva della consulenza
legale.
La prima ragione consiste nella doverosa concezione unitaria della professione forense.
Tale visione non appartiene ai desiderata della categoria, ma è radicata
nell’ordinamento, ed è immanente, potremmo dire, alla logica del sistema: che logica vi
è nel radiare dall’albo un professionista che si macchi di gravi responsabilità
disciplinari, se questi, appena subita la sanzione, può tranquillamente fornire pareri
legali alla clientela? Quale tutela della fede pubblica realizza una situazione quale quella
da ultimo descritta?
La professione forense è un’insieme di attività che devono essere considerate
unitariamente, in maniera onnicomprensiva; basti avere riguardo ad una serie di
elementi di diritto positivo. La professione, infatti è:
- oggetto di tassazione senza differenze;
- oggetto di prelievo previdenziale, senza differenze;
- oggetto di responsabilità civile e penale, senza differenze;
- oggetto di responsabilità deontologica, senza differenze5.
La distinzione, dunque, tra attività giudiziale e stragiudiziale, ha carattere meramente
fattuale, salve le disposizioni speciali che riguardano la partecipazione dell'avvocato al
giudizio nella qualità di rappresentante e di difensore. Ma queste regole riguardano il
processo, non la categoria professionale, e neppure la natura giuridica dell'attività, in
quanto tale.
5
G. ALPA, …………………………….
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La consulenza legale, infatti, come ogni prestazione professionale dell’avvocato, è
oggetto di uno specifico contratto che ha regole sue proprie: il contratto di prestazione
professionale, che può essere forse considerato un tipo speciale di contratto d’opera. In
questo contratto assume un rilievo determinante il profilo soggettivo di una delle due
parti contrattuali: deve trattarsi di soggetto che ha non solo una particolare
qualificazione tecnico-culturale, ma che si muove in condizioni di indipendenza e
autonomia intellettuale. Tutte condizioni che debbono presidiare non solo alla attività
giudiziale, ma anche alle attività di assistenza e consulenza, se correttamente intese.
Anche sul fronte dell’antiriciclaggio, le direttive europee in materia e gli atti normativi
italiani di recepimento presentano una concezione unitaria della professione: infatti,
sono esonerate dall’obbligo di segnalazione non solo le informazioni acquisite
dall’avvocato nel corso della difesa giudiziale, ma anche quelle raccolte nell’“esame
della posizione giuridica del cliente”, cioè nell’attività di consulenza legale.
Deve inoltre segnalarsi che non sono mancate pronunzie giudiziali che hanno
riconosciuto – già allo stato attuale della legislazione vigente – la soggezione a riserva
dell’attività di riserva svolta professionalmente. Si consideri innanzi tutto il bene
giuridico tutelato dalla norma di cui all’art. 348 cp (e a ben vedere dall’intero impianto
dell’assetto normativo delle professioni regolamentate), cioè quello della “necessità di
tutelare il cittadino dal rischio di affidarsi, per determinate esigenze, a soggetti inesperti
nell’esercizio della professione, o indegni di esercitarla”; “la libera professione, per la
sua naturale attitudine a soddisfare bisogni collettivi rilevanti anche per l’interesse
generale della comunità, e per la funzione di mediazione che spesso svolge tra lo Stato e
il cittadino, ha una rilevanza sociale e pubblica”. Così, espressamente, Cassazione,
sentenza n. 1151/02.
Il punto è la protezione del ragionevole affidamento del cittadino che, dovendo
usufruire di una prestazione professionale, si rivolge ad un professionista che ha
superato un esame di Stato di abilitazione, e che è membro di un ordinamento sezionale
che lo assoggetta ad una serie di prescrizioni di ordine deontologico e ad un sistema - il
procedimento disciplinare - che può rilevare e far valere le violazioni dei suoi doveri.
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Da qui la distinzione tra atti riservati espressamente dalla legge agli iscritti negli albi, ed
atti non riservati ma comunque caratteristici della professione, ed il cui compimento può
essere considerato libero solo se non condotto in forma sistematica ed organizzata, e
dietro corrispettivo. Solo, insomma, se non è svolto in modo professionale!
Più recentemente, la Corte di Cassazione - con la sentenza n. 9237/2007 della terza
sezione civile – ha superato l’ambiguità sul sistema delle competenze professionali,
dovute alla tradizionale incertezza sulla ripartizione tra prestazioni “riservate” e
prestazioni “protette”. Come afferma la Corte, “le attività di assistenza e consulenza in
materia legale e tributaria rientrano tra le prestazioni professionali protette che possono
essere svolte soltanto da professionisti iscritti ai relativi albi”.
Si ritiene pertanto che la riforma dell’ordinamento forense possa validamente
contemplare la soggezione a riserva dell’attività di consulenza legale, se svolta in modo
continuativo e professionale. Non depone in senso contrario neanche la decisione della
Corte costituzionale richiamata dall’AGCM6. Tale decisione si limita ad escludere la
incostituzionalità della mancata soggezione a riserva di talune attività di analisi
compiute dai chimici, che avrebbero voluto inibirne l’esercizio ai biologi. Nessuno ha
mai contestato l’assunto – citato dall’AGCM – per cui l’attribuzione di riserve deve
ancorarsi ad interessi della società nel suo complesso e non a quello degli ordini
professionali.
4. L’accesso alla professione.
In tema di accesso alla professione le critiche dell’AGCM coinvolgono proprio le scelte
di merito che il legislatore dovrà assumere al riguardo, e a volte si presentano addirittura
prive di collegamento con il tema della libertà di concorrenza. È il caso ad esempio
della critica al sistema dei test di ingresso per l’accesso al registro dei praticanti. Al
riguardo deve rilevarsi che il disegno di legge di riforma opta decisamente per una
responsabilizzazione della scelta della pratica forense, che deve corrispondere ad una
6
Corte costituzionale 21 luglio 1995, n. 345, in Giur. cost. 1995, 2594 e sg.
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opzione consapevole del praticante, ed essere svolta in termini di maggiore assiduità ed
effettività. Da qui le norme sul numero di praticanti che possono essere riferiti ad un
unico dominus, nonché la previsione di una anzianità minima di cinque anni in capo allo
stesso dominus. Entrambe le disposizioni vanno collocate nel quadro del principio per
cui “L'avvocato è tenuto ad assicurare che il tirocinio si svolga in modo proficuo e
dignitoso” (art. 40, comma 8). In questo quadro vanno pertanto considerate anche le
disposizioni che, innovando la normativa vigente, dispongono l’incompatibilità
dell’attività di tirocinio con altre attività, o prevedono la necessaria frequenza di corsi
professionalizzanti. L’Autorità suggerisce piuttosto di “ridurre la durata del tirocinio”, e
di “prevedere lo svolgimento del tirocinio eventualmente già durante il corso
universitario”. Non si vede invero perché un sostanziale “alleggerimento” del tirocinio
debba essere obiettivo confacente ad evitare limitazioni alla libertà di concorrenza. Non
si vede invero che relazione vi sia tra un tirocinio meno qualificante e la libertà di
concorrenza: proprio ai fini di alimentare una concorrenza più sana tra operatori
qualificati sarebbe piuttosto opportuno rafforzare gli strumenti che promuovono una
maggiore preparazione dei tirocinanti, piuttosto che favorire regole di indirizzo
contrario. Quanto al rilievo mosso avverso la soppressione della previsione di una
remunerazione del praticante, è notorio che il Consiglio nazionale forense concorda
sull’opportunità di prevedere per il praticante “un compenso proporzionato all’apporto
professionale ricevuto”, come anche recita il codice deontologico forense all’art. 26,
comma 1, e si augura che i lavori parlamentari possano ripristinare tale disposizione di
equità rimossa in sede di Comitato ristretto.
5. Le tariffe professionali. L’inderogabilità dei minimi.
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Al riguardo l’AGCM ripropone temi e teoremi ampiamente noti, riportando
parzialmente i risultati raggiunti al riguardo dalla giurisprudenza comunitaria, e
difendendo le scelte a suo tempo operate dal Decreto Bersani7.
È bene pertanto ripercorrere, seppur rapidamente, i passaggi al riguardo segnati dalla
giurisprudenza comunitaria, che dimostrano inequivocabilmente come un sistema di
tariffe inderogabili nei minimi può essere compatibile con il diritto comunitario se
assunto con l’obiettivo di assicurare una buona amministrazione della giustizia e/o la
protezione dei consumatori.
Il primo capitolo di questa vicenda è la oramai risalente e assai nota sentenza Arduino
del 2002 (causa C-35/99).
Il giudice remittente, in quel caso, aveva adito la Corte del Lussemburgo per far rilevare
la asserita violazione dell'art. 85 trattato CE da parte della normativa italiana in materia
di tariffe forensi, deducendo che queste, adottate da un ente qualificabile come
associazione di imprese (il Consiglio nazionale forense) integrerebbero intese restrittive
della libertà di concorrenza. In buona sostanza l'oggetto del contendere era proprio la
compatibilità con il quadro normativo comunitario del sistema tariffario vigente in Italia
per l'esercizio della professione forense. Ovvero la compatibilità con il quadro
comunitario di un elemento normativo di notevole importanza per la definizione del
modello ordinistico italiano: la sentenza era infatti particolarmente attesa in Italia, dove
da alcuni anni, a partire dalla indagine conoscitiva avviata nel 1994 dall'AGCM, si
dibatteva intorno al sistema degli ordini professionali.
La conclusione cui è arrivata la Corte è la piena compatibilità dei sistemi tariffari con il
diritto comunitario della concorrenza, nel momento in cui afferma che "gli artt. 5 e 85
del Trattato CE (divenuti artt. 10 Tr. CE e 81 Tr. CE) non ostano all'adozione da parte
di uno Stato membro di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base
di un progetto stabilito da un ordine professionale forense, una tariffa che fissa dei
7
D.L. 4 luglio 2006, n. 223 convertito nella legge 6 agosto 2006, n. 248. Sul Decreto Bersani ed i profili
di incostituzionalità ravvisati in esso cfr. P. RIDOLA, Parere sulla legittimità costituzionale del decreto
legge Bersani, in Rassegna forense, n. 3/2006, 1353 e ss., e M. LUCIANI, Parere sulla legittimità
costituzionale del decreto legge Bersani, in Rassegna forense, n. 3/2006, 1381 e ss.
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minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell'ordine, qualora tale misura statale
sia adottata".
Da ciò l'importante conseguenza che non spetta al giudice nazionale compiere una
valutazione caso per caso e applicare o disapplicare le tariffe se non ha motivo di
ritenere che siano state adottate nell'interesse nazionale. La valutazione l'ha già
compiuta una tantum la Corte di giustizia.
La linea argomentativa sostenuta dalla Corte poggiava fondamentalmente sul
riconoscimento del fatto che le tariffe professionali, seppur proposte dall'ordine, sono
comunque approvate dal Ministro della Giustizia, dietro parere del Consiglio di Stato e
del CIP, e che dunque l'atto è sostanzialmente oltre che formalmente imputabile ad
un'autorità dello Stato. Ciò impedisce di riconoscerne l'origine in organismi espressione
della categoria che rende le prestazioni professionali e che avrebbe perciò interesse a
promuovere intese restrittive della concorrenza.
Un secondo episodio fondamentale è rappresentato da una decisione più recente, la
sentenza Cipolla e Macrino (cause C-94/04 e C-202/04). La sentenza non contiene la
condanna del sistema tariffario che alcuni auspicavano e che taluni cercano di
intravedervi.
Le conclusioni dell’Avvocato Generale, quanto alle questioni sollevate nel caso Cipolla,
erano state nel senso di riaffermare il principio espresso dalla Corte nel caso Arduino e
quindi di legittimare il regime tariffario solo se sottoposto ad un effettivo controllo dello
Stato nonché la sua applicazione da parte del giudice conforme al diritto della
concorrenza (artt. 10 e 81 TCE).
La Corte ha seguito questo suggerimento e, mantenendo ferma la propria giurisprudenza
– cioè non modificando né smentendo la propria posizione assunta nel caso Arduino –
ha confermato che il sistema tariffario proposto dal Consiglio Nazionale Forense e poi
disposto con decreto da parte del Ministro Guardasigilli non è in contrasto con il diritto
comunitario, sub specie di diritto della concorrenza, né per le tariffe minime previste
per le attività riservate, cioè per l’attività giudiziale, né per le tariffe previste per le
attività libere, quali l’attività stragiudiziale.
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Un sistema tariffario comprensivo di minimi inderogabili è dunque ammissibile,
secondo la Corte, purché siano rilevabili uno o più dei seguenti motivi di pubblico
interesse: tutela dei consumatori; buona amministrazione della giustizia.
“Senza dover arrivare quindi alla conclusione un po’ semplicistica che vorrebbe
individuare vincitori e vinti all’esito della vicenda giudiziaria, si deve però riconoscere,
senza infingimenti e “distinguo”, che la Commissione ha avuto torto nel sostenere la
violazione della normativa comunitaria (sia in punto di libera concorrenza sia in punto
di libera prestazione dei servizi) per il solo esistere delle tariffe forensi; che il Governo
italiano che aveva sostenuto le buone ragioni dell’ Avvocatura ha avuto ragione; che la
nuova normativa interna (il decreto Bersani) introdotta in via d’urgenza e sotto il
vincolo della fiducia, senza attendere ( si sarebbe trattato di sei mesi) l’esito dei due
procedimenti , ora appare di ancor più difficile interpretazione8.
All’esito di questo ragionamento sul terreno del diritto comunitario, allora, bisogna
evidenziare che la responsabilità delle scelte operate con le atipiche norme del “decreto
Bersani” è integralmente del legislatore (rectius dell’Esecutivo, che ha ottenuto la
ratifica sommaria del Legislatore su una serie eterogenea di disposizioni) che ha voluto
mascherare con l’interesse del consumatore e con gli obblighi comunitari di natura
concorrenziale l’introduzione di norme che ora si rivelano ultronee rispetto a tali vincoli
ed interessi.
A conferma di tale linea, si segnala la giurisprudenza della Corte di cassazione, sez.
unite, sent. 11 settembre 2007, n. 19014, che ha confermato la legittimità della
disciplina delle tariffe come prevista dalla legge professionale, sottolineando che la
disciplina consente al giudice una valutazione sufficientemente discrezionale per la
determinazione in giudizio delle spese di lite, e quindi anche dei compensi professionali
dei difensori, ed ha riaffermato i principi di adeguatezza e proporzionalità a cui la
disciplina si ispira.
8
G. ALPA, Relazione inaugurale dell’anno giudiziario presso il Consiglio nazionale forense (Roma, 14
marzo 2007), in Rassegna forense 2007, 1 e ssg., 18.
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6. La pubblicità degli avvocati. L’autonomia normativa della categoria
professionale.
L’AGCM contesta l’idea stessa di “informazione” pubblicitaria, ritenendo improprio il
presunto mancato riferimento alla pubblicità tout court, e mancando di rilevare come
l’espressione “pubblicità” compaia già nella rubrica dell’art. 9, intitolato appunto
“Pubblicità e informazioni sull'esercizio della professione”. Sono inoltre criticati i limiti
previsti al riguardo dal progetto di riforma, ed è in particolare ritenuto ingiustificato il
divieto
di
pubblicità
comparativa
ed
elogiativa.
La
questione
merita
un
approfondimento, anche se l’AGCM rimane sul punto laconica ed assertiva,
rinunziando quasi a qualsiasi dimostrazione dei propri assunti. Ed ignorando
clamorosamente gli stessi contenuti della Direttiva Bolkestein, che si occupa
diffusamente di pubblicità professionale.
Il tema della pubblicità dello studio legale è quello che, assieme alla questione tariffaria,
ha da sempre rappresentato la frontiera più avanzata ed esposta rispetto al tema della
promozione di maggiore concorrenzialità nel mondo professionale. Non a caso la
materia è stata interessata negli anni da numerose modifiche del codice deontologico
forense. La posizione culturale più antica sulla pubblicità degli avvocati era fortemente
restrittiva, nella convinzione che la concorrenza tra avvocati sulla base di pubblicità
commerciali, in presenza di rilevanti asimmetrie informative, portasse ad uno
scadimento e ad una svalutazione della professione anziché ad un suo miglioramento. Il
principio che ha in passato informato la normazione deontologica è quello secondo cui
la comunicazione a carattere di pubblicità è da vietarsi in quanto forma di
accaparramento di clientela a danno dei colleghi. La conferente norma del codice
deontologico, nella versione approvata nel 1997, recitava recisamente «è vietata
qualsiasi forma di pubblicità dell’attività professionale». I notevoli mutamenti del
contesto socio-economico degli ultimi anni ed una forte pressione di alcuni settori
dell’opinione pubblica hanno condotto il Consiglio nazionale forense a modifiche in
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senso ampliativo delle facoltà comunicative del professionista. Fino al 2006 il codice
deontologico elencava puntualmente i mezzi attraverso i quali era possibile comunicare
a terzi l’attività dello studio. Erano sostanzialmente esclusi i mass media, con
l’eccezione de «gli annuari professionali, le rubriche telefoniche, le riviste e le
pubblicazioni in materie giuridiche», ma anche de «i siti web con domini propri e
direttamente riconducibili all’avvocato, allo studio legale associato, alla società di
avvocati, sui quali gli stessi operano una completa gestione dei contenuti e previa
comunicazione al consiglio dell’ordine di appartenenza».
Con l’ultima modifica, approvata dal Consiglio nazionale il 14 dicembre 2006, si è
affermato l’opposto principio, ossia quello della libertà di forme nella comunicazione di
informazioni sull’attività professionale: attualmente l’iscritto può rendere nota l’attività
dello studio legale con i mezzi più idonei, ma «il contenuto e la forma dell’informazione
devono essere coerenti con la finalità della tutela dell’affidamento della collettività e
rispondere a criteri di trasparenza e veridicità» (art. 17 c.d.f.). Più specificamente,
quanto al contenuto «l’informazione deve essere conforme a verità e correttezza e non
può avere ad oggetto notizie riservate o coperte dal segreto professionale», mentre
rispetto alla forma ed alla modalità «l’informazione deve rispettare la dignità e il decoro
della professione». I principî di dignità, decoro e lealtà nello svolgimento (e nella
comunicazione) delle attività professionali sono, nell’ottica della deontologia forense,
superiori all’interesse all’acquisizione di nuova clientela (cfr., ex multis, Consiglio
nazionale forense, 31 dicembre 2007, n. 268)9.
La direttiva Bolkestein non manca di affrontare il tema, senza però introdurre principi
diversi da quelli da ultimo ricordati. E richiamando il concetto di decoro, pure così
avversato dall’AGCM.
Nella direttiva servizi le pubblicità dei professionisti sono chiamate pudicamente
“comunicazioni commerciali emananti dalle professioni regolamentate” (art. 24). Non è
un dato di poco momento che non sia ripreso il termine “pubblicità” nella disciplina
9
Per ulteriori approfondimenti sul tema della pubblicità tra professionisti sia consentito il rinvio a G.
COLAVITTI, La pubblicità degli avvocati tra diritto vivente della giurisprudenza disciplinare e disciplina
della concorrenza, in Rassegna forense 2004, 703 e ssg.;
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generale sulla liberalizzazione dei servizi, ossia in quella che dovrebbe essere la
normativa più avanzata nel senso della rimozione di ogni ostacolo al dispiegarsi delle
virtualità delle dinamiche della concorrenza. Non può evidentemente essere un caso: lo
dimostra il tenore delle disposizioni dello stesso art. 24, che, dopo avere nel primo
comma previsto la “soppressione dei divieti totali in materia di comunicazioni
commerciali per le professioni regolamentate”, prevede al comma secondo: “Gli Stati
membri provvedono affinché le comunicazioni commerciali che emanano dalle
professioni regolamentate ottemperino alle regole professionali, in conformità del diritto
comunitario, riguardanti, in particolare, l’indipendenza, la dignità e l’integrità della
professione nonché il segreto professionale, nel rispetto della specificità di ciascuna
professione. Le regole professionali in materia di comunicazioni commerciali sono non
discriminatorie, giustificate da motivi imperativi di interesse generale e proporzionate”.
Difficilmente il legislatore comunitario avrebbe potuto trovare una formula più
rispettosa delle tradizioni dei Paesi che adottano il modello ordinistico di trattamento
giuridico delle professioni libere. Il richiamo ai valori dell’indipendenza, della dignità e
dell’integrità della professione, il richiamo all’istituto del segreto professionale
collocano chiaramente la comunicazione commerciale in un quadro di riferimento
coerente con le regole che gli organi di autogoverno delle professioni si sono date in
Italia.
A ben vedere, però, nelle disposizioni in commento c’è di più: con il richiamo al
rispetto della specificità di ciascuna professione, e anche con la stessa nozione di
“regole professionali” che devono disciplinare la materia, l’assetto di questa si muove
nell’ambito di un principio di autoregolazione di ciascuna categoria, piuttosto che nella
direzione di una eteronormazione di origine statale. In buona sostanza, non dovrebbero
essere le leggi statali a disciplinare le comunicazioni commerciali, bensì proprio le
regole professionali, che altro non sono se non le regole deontologiche che ciascuna
professione adotta, in autonomia dai pubblici poteri. Una eteronormazione del settore
mal si concilierebbe infatti con il considerando n. 100, che afferma: “Per quanto
riguarda il contenuto e le modalità delle comunicazioni commerciali, occorre
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incoraggiare gli operatori del settore ad elaborare, nel rispetto del diritto comunitario,
codici di condotta a livello comunitario”. L’opzione del legislatore comunitario verso
formule di autoregolazione delle professioni, è chiara ed univoca. La stessa logica è
infatti applicata alla questione delle assicurazioni professionali; queste non dovrebbero
essere imposte dalla legge, ma “dovrebbe essere sufficiente che l’obbligo di
assicurazione faccia parte delle regole deontologiche stabilite dagli ordini o organismi
professionali” (considerando n. 99). Siamo molto lontani da quella sorta di
liberalizzazione imposta dall’alto che la legislazione italiana ha conosciuto con il
decreto Bersani nell’estate del 2006, e che infatti attenti studiosi non hanno mancato di
criticare proprio con riguardo, tra l’altro, al tema della lesione degli spazi di autonomia
che l’ordinamento italiano dovrebbe assicurare alle comunità professionali, intese come
formazioni sociali protette dall’art. 2 Cost., e come associazioni ad appartenenza
obbligatoria protette dall’art. 18 Cost.10.
Se si aggiunge al quadro considerato il fatto che, anche in materia di informazione agli
utenti sul tipo e le caratteristiche del servizio prestato, la Direttiva opta per un modello
più vicino al concetto di pubblicità informativa che a quello di pubblicità
commerciale11, si può concludere che, sotto il profilo delle norme dettate in materia di
libera prestazione dei servizi, la direttiva Bolkestein non appare certo portatrice di
alcuna rivoluzione liberale, ma semmai si limita a registrare esiti già acquisiti negli Stati
membri, talvolta anche in forma volontaria da parte delle categorie. L’attuale
disposizione del progetto di riforma che disciplina l’informazione alla clientela – così
come quella parallela del codice deontologico - appare pertanto certamente coerente con
l’art. 24 della direttiva; i limiti che tali norme impongono non riguardano la forma della
comunicazione (il mezzo o media utilizzato) ma il contenuto della stessa, e sono
certamente giustificati da motivi imperativi di interesse generale, quale è senza dubbio
10
Cfr, P. RIDOLA, op. cit.; M. LUCIANI, op. cit.
A proposito dei mezzi attraverso i quali il prestatore di servizi può comunicare al pubblico le
caratteristiche della propria attività, il considerando n. 96 prevede che “le informazioni che il prestatore
ha l’obbligo di rendere disponibili nella documentazione con cui illustra in modo dettagliato i suoi servizi
non dovrebbero consistere in comunicazioni commerciali di carattere generale come la pubblicità, ma
piuttosto in una descrizione dettagliata dei servizi proposti, anche tramite documenti presentati su un sito
web”.
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l’interesse pubblico alla protezione dell’affidamento della clientela che non deve essere
tratta in inganno da informazioni fallaci, non veritiere o decettive12.
7. Il titolo di specialista.
Non soddisfano l’AGCM anche le norme sulle cd. specializzazioni, che pure sono state
pensate proprio per valorizzare i saperi specifici dell’avvocato, e sottolineare la sua
particolare qualificazione in determinati settori piuttosto che in altri, nella
consapevolezza che il mercato professionale richiede prestazioni sempre più puntuali,
con la progressiva tendenziale scomparsa dell’avvocato “generalista”.
In realtà l’AGCM non contesta il concetto stesso di specialista ma solo il fatto che sia la
rappresentanza istituzionale della categoria, il Consiglio nazionale forense, a
regolamentare la materia. Si dice infatti che il CNF, “in ragione della sua natura,
potrebbe privilegiare alcune attività attribuendo la relativa specialità e non riconoscerne
altre con l’effetto di svantaggiare o avvantaggiare alcune categorie di professionisti”.
L’AGCM non si cura di dimostrare perché la natura dell’ente debba condurre a contegni
così impropri, ne da cosa derivi tale sfiducia rispetto alla natura dell’ente. Tale natura –
forse è bene ribadirlo – è quella di un ente pubblico, come tale preposto alla cura di
interessi pubblici, e primariamente dell’interesse pubblico al corretto esercizio della
professione. La natura, inoltre, è quella di un ente rappresentativo, esponenziale della
categoria, e legittimato proprio dalla funzione rappresentativa svolta. Non è dato sapere
a quale profilo della natura dell’ente si riferisca l’AGCM, quando allude alla presunta
tendenza a discriminare talune categorie di avvocati piuttosto che altre. Forse, più
semplicemente, non ci sono idee molto chiare sulla natura del Consiglio nazionale.
Tanto è vero che segue un’altra curiosa affermazione: quella per cui “il CNF non appare
12
La posizione delle norme deontologiche forensi nell’ordinamento è, secondo la più recente
giurisprudenza della Cassazione, quella integrativa della legge, sicché le norme deontologiche assumono
valore primario e devono essere interpretate alla stregua dei criterî interpretativi generali propri delle fonti
primarie, come tali interpretabili direttamente dalla Corte di legittimità (Cass., sez. un., 20 dicembre 2007,
n. 26810, in Rassegna forense, n. 2/2008, 449 ss).
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il soggetto istituzionalmente più adeguato ad individuare le branche scientifiche che
giustificano l’esistenza di specializzazioni”: si tratta forse di un’accusa di
incompetenza? E chi dovrebbe essere “più adeguato” allo scopo? Forse la stessa
AGCM? Se il Consiglio nazionale forense non è in grado di sapere meglio di altri in
quali branche di specializzazione la pratica forense si va differenziando, forse sarebbe
opportuno che l’AGCM si sforzasse di indicare chi altri sia in grado.
Del pari fumoso e generico l’auspicio di un “sistema aperto e alternativo” rispetto a
quello delle scuole di specializzazione. Anche qui non è dato di sapere quale sia questo
altro sistema. Ciò che conta è che non sia il CNF ad occuparsene.
Sia consentito sul punto limitarsi a rilevare come, alla luce del principio di autonomia
evidenziato anche nella direttiva Bolkestein, non possa che essere la stessa categoria
professionale, e per essa il proprio organo istituzionale di rappresentanza, a definire i
confini delle specializzazioni.
8. Le incompatibilità.
L’AGCM ritiene poi improprio il regime di incompatibilità previsto dalla riforma con
riguardo ad altre attività di lavoro autonomo o dipendente anche part time.
Si tratta del tentativo di riproporre argomenti che, come ricordato al paragrafo 1,
l’Autorità tentò di promuovere senza successo già in occasione del varo della legge 339
del 2003, che escludeva gli avvocati dal campo di applicazione delle norme che
consentono l’iscrizione in albi professionali ai dipendenti pubblici partimisti.
In verità la Corte costituzionale ha sempre riconosciuto la discrezionalità politica del
legislatore ordinario nella definizione delle cause di incompatibilità, con il solo limite
della manifesta irragionevolezza della scelta compiuta. Sulla base di questo criterio la
Corte, nel rispetto della natura discrezionale e politica delle scelte operate dal legislatore
ordinario, si riserva il potere di valutare in concreto se l’attività di ponderazione e di
bilanciamento tra interessi costituzionalmente protetti operata nel caso singolo integri o
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meno una violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’assoluta mancanza di
ragionevolezza e logicità della scelta operata13. In passato, ad esempio, si è ritenuto del
tutto conforme a Costituzione la disciplina legislativa che considera il lavoro dipendente
pubblico incompatibile con la professione forense. Lo status di dipendente pubblico
comporta infatti una serie di doveri e di obblighi che la Costituzione sintetizza
enfaticamente nell’obbligo esclusivo di fedeltà alla Nazione (art. 98, comma I, Cost.).
Tali doveri mal si conciliano con la fisiologica vicinanza agli interessi giuridicamente
rilevanti della clientela, che la condizione di libero professionista ontologicamente
comporta. Si pensi ad un avvocato tributarista che sia anche pubblico dipendente di un
ufficio dell’amministrazione finanziaria, centrale o periferica, o dell’ufficio imposte di
un ente locale. In questo caso si appalesa evidente il contrasto tra il dovere d’ufficio e il
dovere professionale che gravano sul medesimo soggetto, con il rischio di un
sistematico nocumento all’imparzialità dell’azione amministrativa arrecato dal pubblico
dipendente che sia anche libero professionista. Senza considerare le distorsioni della
libera concorrenza che si avrebbero in un caso simile: un avvocato dipendente
dell’amministrazione finanziaria sarebbe certamente molto appetibile sul mercato, in
ragione proprio della sua afferenza alla pubblica amministrazione. Potrebbe infatti
avvantaggiarsi di elementi acquisiti nella veste di pubblico dipendente. Del pari un
avvocato dipendente di un’azienda privata sarebbe privo dell’autonomia operativa ed
intellettuale sul quale il cliente deve poter sempre contare, per avere un’assistenza
adeguata.
9. Associazioni multidisciplinari e società professionali.
Viene poi sottoposta a critica la disciplina resa a proposito delle associazioni e delle
società disciplinari. In particolare si contesta la limitazione della forma societaria al tipo
della società di persone, che è peraltro il modello già scelto dal legislatore nazionale con
13
Cfr. A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, II ed., Giuffré, Milano, 1997, 233 e ssg..
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riguardo alle società tra avvocati, per effetto del d. lgsl. n. 96 del 2001, cui la attuale
proposta di riforma si richiama. Viene poi compiuta un’affermazione giuridicamente
errata, laddove si richiama il principio per cui, ad oggi, a seguito del Decreto Bersani, i
professionisti sarebbero liberi di costituire società di capitali. Così non è. Non è questa
la sede per soffermarsi sulla portata della clausola abrogativa del DL Bersani richiamata
dall’AGCM. Si è trattato, come è noto, di una “norma bandiera”, inidonea a costituire la
base normativa per la costituzione di società professionali di capitali, mancando del
tutto ogni disposizione che specifichi regime giuridico, disciplina delle responsabilità,
modalità di costituzione (cosa che invece fa il d. lgsl. n. 96 del 2001 per le Stp). A
dimostrazione di quanto affermato basti constatare quante società di capitali tra avvocati
si siano costituite dopo il Decreto Bersani: nessuna.
10. Il potere regolamentare del CNF.
Apodittica ed indimostrata l’asserzione per cui il diritto comunitario osterebbe
all’attribuzione di poteri regolamentari al CNF.
Nel paragrafo n. 5 si è già rilevato come la devoluzione di talune materia all’autonomia
regolamentare della categoria sia metodo non solo consentito ma anzi auspicato dalla
Direttiva Bolkestein.
In questa sede basti aggiungere come tale devoluzione appaia coerente con il principio
di sussidiarietà e con il principio di autonomia delle formazioni sociali (art. 2 Cost.). E
come il legislatore abbia già per altre professioni fatto ricorso ad una ampia attribuzione
di potestà regolamentare al relativo Consiglio nazionale: si pensi al nuovo ordinamento
della professione di dottore commercialista (d. lgsl. n. 139/2005)14, a proposito del
quale l’AGCM non ha ritenuto di sollevare obiezione alcuna
14
R. PROIETTI, G. COLAVITTI, S. COMOGLIO, A. POLICE, Dottori commercialisti ed esperti contabili,
Giuffrè, Milano 2009.
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