FINANZA INTERNAZIONALE E DISTRIBUZIONE DEL REDDITO di

FINANZA INTERNAZIONALE E DISTRIBUZIONE DEL REDDITO•
di
Pietro Alessandrini
e
Alberto Niccoli
1.
Introduzione
Il nostro obiettivo è quello di ripercorrere sinteticamente i principali contributi di Fausto Vicarelli su
temi di economia internazionale, con particolare riferimento alla crisi strutturale del sistema finanziario
internazionale e ai suoi effetti sulla distribuzione internazionale dei redditi. L’arco temporale coperto
dagli studi di Vicarelli va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta del secolo scorso. Si tratta di un
periodo molto importante, segnato da grandi cambiamenti nello scenario dell’economia mondiale. Il
sistema monetario internazionale basato sugli accordi di Bretton Woods del 1944, dopo aver
contribuito nei primi quindici anni alla diffusione dello sviluppo economico trainato dagli scambi
internazionali, è progressivamente entrato in crisi negli anni Sessanta. I rapporti di cambio sono rimasti
troppo a lungo irrigiditi e non più rispondenti agli squilibri delle bilance dei pagamenti. Le banche
centrali hanno fatto ampio ricorso a politiche di sterilizzazione per isolare i mercati interni dagli effetti
di aggiustamento provocati, in cambi fissi, dagli squilibri esterni. La conseguenza inevitabile è stata
l’attivazione della spirale speculativa sui mercati valutari, difficilmente contrastabile da parte delle
banche centrali, soprattutto nei paesi in deficit. Negli anni Settanta sono giunte a piena maturazione le
spinte destabilizzanti della crisi, con la fine del sistema di Bretton Woods, sancita con la dichiarazione
dell’inconvertibilità del dollaro in oro e il passaggio ad un sistema di cambi fluttuanti, e con
l’esplosione di due pericolose ondate di inflazione mondiale.
•
Gli autori desiderano ringraziare Michele Fratianni, Luca Papi, Alberto Zazzaro e un anonimo referee per gli utili
commenti ricevuti, ovviamente senza impegno di responsabilità.
Vicarelli si è distinto come un osservatore attento e rigoroso del processo involutivo del sistema
finanziario dei primi decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale. E’ riuscito a
ricondurre entro un quadro interpretativo unitario le cause delle dinamiche sottostanti la crisi
progressiva e le conseguenze che si sono prodotte soprattutto in termini di distribuzione internazionale
del reddito.
La nostra ricognizione è articolata in quattro parti, oltre alla introduzione e alle conclusioni. Nel
secondo paragrafo si mette in evidenza il metodo che ha contraddistinto i contributi di Vicarelli e
vengono ripresi i termini essenziali del modello di base che egli ha utilizzato come chiave interpretativa
della crisi del sistema finanziario internazionale. Il terzo paragrafo prende in esame le spiegazioni delle
crisi degli anni Settanta. Nei successivi due paragrafi si sposta l’attenzione sullo scenario attuale che,
pur essendo profondamente modificato rispetto ai decenni precedenti, rinnova le stesse preoccupazioni
di fondo espresse da Vicarelli sui rischi di una accumulazione eccessiva di ricchezza finanziaria, che
rappresenta una potenziale fonte di destabilizzazione dell’economia mondiale. Emerge un contesto di
prevalente finanziarizzazione, nel quale assumono un rilievo centrale le decisioni relative alla gestione
degli stock, reali e finanziari, con conseguenti guadagni e perdite in conto capitale, che determinano
forti mutamenti nella distribuzione dei redditi.
2.
Il metodo e il modello di riferimento
Su temi internazionali, come in tutta la sua attività, i contributi di Vicarelli si distinguono per il metodo,
basato su rigore scientifico, coerenza di pensiero, chiarezza espositiva.
Il rigore scientifico lo ha spinto ad una serrata e approfondita ricerca dei nessi logici in una visione di
assieme, senza accontentarsi di spiegazioni parziali. L’idea di fondo che con coerenza ha perseguito è
la necessità di integrare quattro livelli di analisi:
1) lo schema teorico con la verifica empirica
2) il sistema reale con il sistema finanziario
3) l’ottica di breve con l’ottica di lungo termine
4) le interazioni dei flussi con gli stock
Questo approccio integrato è nello stesso tempo necessario e difficile da realizzare. Necessario perché
nell’analisi degli scambi reali e finanziari internazionali tra aree e paesi entrano in gioco
interdipendenze strutturali a livello macroeconomico che rendono inevitabile assumere una visione
d’assieme. E’ però difficile ricondurre entro un quadro interpretativo coerente e rappresentativo
2
l’individuazione dei nessi causali fondamentali che spiegano l’intricata rete di rapporti reali e
finanziari.
Ciò nonostante i lavori di Vicarelli hanno il pregio della chiarezza espositiva, dettata dall’impegno non
solo di capire, ma anche di farsi capire, con un linguaggio chiaro, stringato, ordinato in senso logico,
nel quale l’analisi empirica non è mai descrittiva, ma viene posta a sostegno del ragionamento
economico, limitando all’essenziale i tecnicismi e le formalizzazioni.
La sua chiave interpretativa unitaria si rifà ad un modello base che considera i legami flussi-stock che
legano gli squilibri reali alla formazione di ricchezza finanziaria netta, la quale può determinare effetti
di ritorno destabilizzanti sui mercati reali. Il meccanismo di trasmissione di questi impulsi retroattivi è
il real balance effect alla Patinkin. Secondo questo schema le perturbazioni traggono origine dalla
intrinseca instabilità del sistema finanziario, che in presenza di squilibri strutturali genera
comportamenti speculativi.
Il principale lavoro nel quale Vicarelli ha messo a punto il modello teorico di riferimento è il lungo
saggio “Verso un’integrazione tra teoria pura e teoria monetaria del commercio internazionale” (1972).
Lo stesso approccio è già presente nei saggi raccolti nel volume “Moneta, ricchezza e bilancia dei
pagamenti” (1971) e successivamente viene sviluppato in “Flussi finanziari internazionali” (1974).
“L’idea di fondo di quella proposta è la distinzione tra equilibrio di breve periodo e equilibrio di
lungo periodo del sistema di scambi internazionali” (1975, p.11).
In un sistema a cambi fissi, nel breve periodo si realizzano surplus (deficit) esterni correnti compatibili
con gli equilibri interni dei mercati reali. La controparte finanziaria di questi squilibri registra
l’attivazione di flussi finanziari internazionali a saldo nei portafogli dei privati, degli intermediari e/o
delle banche centrali. Se squilibri esterni dello stesso segno si protraggono nel lungo periodo, la
redistribuzione di ricchezza finanziaria netta determina alla lunga effetti ricchezza positivi per i paesi in
surplus (negativi per i paesi in deficit) con conseguente spostamento verso l’alto (verso il basso) dei
livelli di assorbimento interno delle risorse che portano all’aggiustamento delle bilance correnti e alla
determinazione delle ragioni di scambio con esso coerenti.
“Se, però, per vari motivi, quegli spostamenti nei livelli di assorbimento non si verificano, il
meccanismo di aggiustamento non opera, ed il sistema è soggetto ad una crisi strutturale che,
pur se latente per molto tempo, troverà prima o poi l’occasione per manifestarsi” (1975, p.12)
3
Mutamenti nelle aspettative sui tassi di cambio, sui tassi di interesse, sui tassi di inflazione possono
determinare improvvise riallocazioni degli stock di ricchezza finanziaria con effetti destabilizzanti sui
mercati valutari e soprattutto sui mercati reali
La ricchezza finanziaria indesiderata viene trasformata in domanda di ricchezza reale, con variazioni di
stock in un lasso di tempo molto breve che determinano una forte spinta inflazionistica: prima sulle
merci immagazzinabili (beni primari, in primis) e sulle merci già esistenti, senza che ci sia il tempo per
aumentare l’offerta. Il primo impatto avviene sui mercati internazionali. Poi si propaga ai mercati
interni. Il risultato finale è il rovesciamento rapido delle ragioni di scambio e dei saldi correnti.
3.
Le crisi degli anni Settanta
Con questo schema interpretativo Vicarelli è riuscito a fornire spiegazioni convincenti dei gravi
problemi che l’economia mondiale ha dovuto affrontare negli anni Settanta1, segnati dalla crisi del
sistema monetario internazionale, dalla inflazione mondiale e dal rallentamento del processo di
integrazione europea.
Il potenziale destabilizzante che ha scatenato questo stato di crisi generalizzata è stato accumulato negli
anni Cinquanta-Sessanta. In questo lungo periodo, il sistema monetario internazionale è stato
amministrato secondo quanto previsto dagli accordi di Bretton Woods, con l’impegno degli Stati Uniti
a garantire la convertibilità in oro del dollaro e l’impegno delle banche centrali del resto del mondo ad
intervenire per mantenere fissi i tassi di cambio e controllare i movimenti di capitale. Ma le regole del
gioco sono state rispettate solo in parte, perché si è realizzata una convergenza di interessi a mantenere
nel tempo gli squilibri strutturali senza adottare i previsti correttivi2. Le monete dei paesi in surplus non
sono state rivalutate per non perdere i vantaggi della competitività. Gli Stati Uniti hanno evitato di
svalutare il contenuto aureo del dollaro via aumento del prezzo dell’oro, per non perdere i vantaggi
della sovranità monetaria derivante dall’emettere la moneta-chiave del sistema monetario
internazionale. Le banche centrali, soprattutto (ma non solo) dei paesi in deficit, hanno fatto ampio
ricorso ad operazioni di sterilizzazione degli squilibri esterni, compensando gli effetti monetari dei loro
interventi sui mercati dei cambi con interventi di segno opposto sui mercati interni. E’ così prevalso un
sistema di finanziamento senza aggiustamento degli squilibri esterni, con il duplice obiettivo di
mantenere i cambi fissi, per favorire gli scambi internazionali, e di non subordinare gli equilibri interni
(reddito, occupazione, inflazione) al raggiungimento degli equilibri esterni.
1
2
Vicarelli (1973), (1975), (1985).
Vedi Alessandrini (1974)
4
Il mantenimento di prezzi delle monete e dell’oro amministrati dalle banche centrali, ma palesemente
disallineati rispetto ai valori di equilibrio, ha alla lunga innescato massicci attacchi speculativi sui vari
mercati, dei cambi, delle materie prime, dei manufatti. Le conseguenze sono state la fine del sistema di
Bretton Woods, con la dichiarazione di inconvertibilità in oro del dollaro e la fluttuazione dei tassi di
cambio, e la crisi inflazionistica mondiale, sancita dal primo shock petrolifero.
Correttamente, Vicarelli ha individuato nell’eccessivo accumulo di ricchezza finanziaria il
combustibile che ha alimentato queste gravi crisi dell’economia mondiale:
“Non è pensabile il persistere nel tempo di un sistema internazionale in cui alcuni paesi
esportano costantemente risorse reali accumulando ricchezza finanziaria, perché ciò finisce per
innescare prima o poi un processo di riaggiustamento la cui velocità, essendo a priori
indeterminata, può indurre spinte inflazionistiche incontrollabili” (1975, p.35)
Il mutamento delle aspettative sui tassi di cambio, sui tassi nominali di interesse, sui tassi di inflazione
può determinare improvvise riallocazioni degli stock di ricchezza finanziaria con effetti destabilizzanti
sui mercati valutari e soprattutto sui mercati reali.
“Ebbene, all’inizio degli anni settanta tutte e tre queste variabili si sono mosse nella direzione di
ridurre il rapporto desiderato tra ricchezza finanziaria sull’estero e ricchezza reale al di sotto del
rapporto esistente” (1975, p.26)
L’eccesso indesiderato di ricchezza finanziaria internazionale, accumulata nel lungo periodo, provoca
un repentino aumento della domanda di risorse reali (materie prime, manufatti). Ma poiché è logico
attendersi che nel breve periodo l’offerta di queste risorse non sia sufficientemente elastica, il risultato
finale è la forte spinta inflazionistica che l’economia mondiale ha sperimentato negli anni Settanta.
L’errore di fondo è stato quello di non considerare le implicazioni di medio-lungo periodo di bilance
dei pagamenti fortemente squilibrate e ignorare le interazioni tra vincolo esterno e sviluppo
dell’integrazione internazionale:
“Si considerava accettabile il raggiungimento dell’equilibrio esterno qualunque fosse la
composizione del saldo tra partite correnti e movimenti di capitali” (1985, p.108)3.
Il mancato aggiustamento degli squilibri ha avuto effetti ritardanti anche sul processo di integrazione
reale-finanziaria europea4. Nei primi quindici anni dopo il Trattato di Roma, i sei paesi fondatori della
3
4
Per i limiti di questa impostazione si veda McKinnon (1969), al quale rinvia lo stesso Vicarelli.
Vedi Vicarelli (1973) ed anche Alessandrini e Vito Colonna (1973).
5
CEE più che da trade diversion, a favore degli scambi comunitari, hanno tratto vantaggio da trade
creation dell’apertura dei mercati internazionali. Hanno esportato risorse reali nette, accumulando
riserve in dollari, le cui contropartite interne sono state sterilizzate con interventi compensativi delle
banche centrali, secondo le tendenze sopra evidenziate. L’ottica prevalente è stata quella di preservare
l’autonomia nazionale. Questo atteggiamento non ha certo favorito l’integrazione europea e ha esposto
le monete dei paesi membri a forti attacchi speculativi destabilizzanti sui mercati valutari, che hanno
vanificato i tentativi di mantenere rapporti di cambio stabili all’interno della CEE, per tutti gli anni
Settanta. Questa instabilità si è protratta anche dopo l’istituzione dello SME, le cui parità hanno subito
numerosi riaggiustamenti nel corso degli anni Ottanta.
Pertanto trova ampie giustificazioni il pessimismo espresso da Vicarelli nei primi anni Settanta nei
confronti dell’unificazione monetaria:
“i vari progetti di <unione monetaria> appaiono sempre più come delle fughe in avanti (…)
l’unione monetaria non può precedere ma solo coronare un processo di effettiva
<omogeneizzazione> delle economie dei paesi membri” (1973, p.285)
L’economia italiana rappresenta un caso emblematico di mancati aggiustamenti che hanno soddisfatto
esigenze di equilibrio interno di breve periodo, ma che hanno alla lunga creato il potenziale finanziario
destabilizzante le cui conseguenze sono state pagate negli anni Settanta.
Un periodo cruciale da questo punto di vista è il quinquennio 1964-1969, durante il quale l’Italia ha
accumulato forti surplus delle partite correnti, che hanno compensato le carenze della domanda interna.
Anno dopo anno sono state cedute all’estero risorse reali in cambio di risorse finanziarie, con il
risultato di accumulare due potenziali destabilizzanti. Il primo riguarda il settore reale: in alternativa
alle esportazioni nette, l’eccesso di risorse prodotte poteva essere assorbito all’interno sotto forma di
maggiori investimenti privati e pubblici. Si è trattato di un’occasione storica perduta per innovare il
sistema produttivo e soddisfare le crescenti esigenze di infrastrutture e di servizi pubblici5. Si è
investito meno di quanto era possibile e di quanto era necessario. Di conseguenza, l’economia italiana
si è trovata impreparata a sostenere le richieste di redistribuzione dei redditi provocate dallo shock
salariale dell’autunno 1969. Il secondo potenziale destabilizzante ha agito sul fronte finanziario, con
l’accumulazione di ricchezza finanziaria internazionale sull’estero come contropartita ai surplus
correnti. Anche in questo caso si è trattato di un’occasione storica perduta, perché l’economia italiana
non si è internazionalizzata via investimenti diretti, ma più semplicemente e meno elegantemente sono
5
Vedi Alessandrini (1983).
6
state seguite le vie dei movimenti di capitale clandestini, registrati ex-post sotto forme di rimesse di
banconote italiane dall’estero. Anche su questo aspetto Vicarelli (1970) ha dato un significativo
contributo.
Su entrambi i fronti, reale e finanziario, l’apertura ai mercati internazionali non è stata sfruttata come
opportunità di sviluppo e di consolidamento del capitalismo italiano. Ma piuttosto è prevalsa un’ottica
residuale di breve periodo a fini di stabilizzazione congiunturale e, sul fronte finanziario, di
speculazione puramente parassitaria, di sfiducia nei confronti della stabilità della lira.
Le conseguenze di queste miopie strategiche sono diventate evidenti nelle crisi degli anni Settanta, che
hanno trovato l’economia italiana attardata a livello tecnologico, produttivo e sociale, quindi più
vulnerabile di altri paesi alla crisi energetica, all’aggravamento del vincolo esterno, alla
destabilizzazione dei cambi, all’inflazione, ai conseguenti conflitti sociali interni per la redistribuzione
dei redditi.
4.
Lo scenario attuale: vecchi e nuovi squilibri strutturali
E’ certamente utile riportare al contesto attuale l’analisi compiuta da Vicarelli con riferimento al
ventennio Sessanta-Settanta del secolo scorso, per verificare se il metodo e la chiave interpretativa che
egli ha adottato mantengono la loro validità pur in presenza di profondi cambiamenti strutturali.
La situazione economica del mondo si è modificata in misura assai ampia. Nuovi attori, importanti
come la Cina e l’India, sono saliti alla ribalta internazionale. La rivoluzione tecnologica informatica ha
abbattuto i costi di raccolta e distribuzione delle informazioni e ha consentito nuove modalità
organizzative dell’attività economica. A livello istituzionale, il cambiamento più rilevante è legato alla
realizzazione dell’Unione monetaria europea, che ha comportato l’istituzione della Banca Centrale
Europea, a capo del Sistema Europeo di Banche Centrali, e l’accentramento sopranazionale delle
decisioni di politica monetaria all’interno dell’Eurosistema.
Il sistema monetario internazionale è divenuto più flessibile e più efficiente, per l’effetto combinato di
diversi fattori evolutivi, quali la liberalizzazione dei mercati finanziari, la flessibilità dei tassi di
cambio, l’unione monetaria europea, che ha contribuito a ridurre le monete oggetto di speculazione
internazionale, ha istituzionalizzato la cooperazione tra le più importanti banche centrali europee ed ha
contribuito a rafforzare il principio della indipendenza della politica monetaria.
Ciò nonostante, il potenziale di instabilità finanziaria alla Vicarelli, basato su interazioni stock-flussi
che nel lungo periodo possono divenire destabilizzanti, è ancora presente.
7
Dal punto di vista dei flussi reali e dei conseguenti saldi finanziari, si sommano vecchi squilibri
strutturali, che si sono aggravati, come è nel caso dei deficit esterni degli Stati Uniti, a nuovi squilibri,
che si sono rapidamente dilatati, come è nel caso dei surplus correnti della Cina e di altri paesi asiatici.
Nello scenario internazionale, vi è una dissociazione crescente tra vecchi debitori netti (gli Stati Uniti,
oltre ai paesi in via di sviluppo) e nuovi paesi creditori netti. Non c’è sufficiente spinta
all’aggiustamento degli squilibri reali, per una serie di fattori che, sia pure in un contesto differente,
ripropongono i comportamenti che in precedenza hanno portato alla crisi del sistema di Bretton Woods.
Le variazioni dei tassi di cambio vengono contenute rispetto alle esigenze di aggiustamento degli
squilibri fondamentali. Da questo punto di vista il dollaro è sopravalutato e la moneta cinese è
sottovalutata, con il risultato di favorire le esportazioni nette cinesi, da un lato, e rendere più
convenienti gli investimenti diretti in Cina, dall’altro. Il consolidamento degli squilibri esterni viene
rafforzato dal diffuso ricorso delle banche centrali dei paesi eccedentari alla sterilizzazione monetaria,
che interrompe il meccanismo di trasmissione dei saldi finanziari esterni sugli equilibri interni. Come
evidente conseguenza, si ha una distribuzione squilibrata di stock di ricchezza finanziaria
internazionale nei portafogli di privati, intermediari e delle banche centrali, soprattutto di quella cinese.
A fronte di questa situazione, è lecito temere che per l’economia mondiale si rinnovi il pericolo della
accumulazione di un potenziale finanziario destabilizzante che, al mutamento delle aspettative e in
presenza di una eventuale crisi di fiducia, possa in tempi rapidi e con una massa d’urto inarrestabile
scaricarsi sui cambi e sui prezzi.
5.
La finanziarizzazione dell’economia
Tra i diversi cambiamenti che caratterizzano lo scenario attuale, si osserva una crescita del ruolo degli
stock, in particolare di quelli relativi alla finanza, che ha sempre interessato Vicarelli6 ed è divenuta
centrale. Si è fortemente ridimensionata la manifattura; nei paesi più importanti, le attività produttive in
senso stretto, cioè materiali e fisiche, hanno perso peso; le operazioni relative alla compravendita di
beni capitali, i mercati e le imprese finanziarie hanno assunto un rilievo quale non si era mai avuto in
passato; i comportamenti e le scelte relative alla finanza sono divenute centrali anche per le famiglie e
le imprese non finanziarie.
In particolare, tre cambiamenti relativi alla finanza appaiono particolarmente significativi nella
prospettiva e nel taglio che Vicarelli ha utilizzato nei propri lavori:
6
Vedi Vicarelli (a cura di), (1979).
8
1. la riduzione drastica, in particolare in Italia, della dimensione dei saldi finanziari;
2. l’aumento, altrettanto significativo e pure più diffuso, della dimensione degli stock finanziari;
3. la finanziarizzazione, enorme, dei sistemi economici.
Fig. 1
Italia - settori istituzionali
Somma dei valori assoluti dei saldi finanziari, in % del PIL
Saldi dei settori finanziari
Somma dei valori assoluti
50%
40%
30%
20%
10%
0%
1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005
Fonte dei dati: Banca d’Italia, Conti finanziari, diversi anni
Pochi dati statistici sono sufficienti per illustrare i tre punti. Per quanto riguarda il primo, e cioè la
riduzione in Italia della dimensione dei saldi finanziari, in proporzione a quella del sistema economico,
e quindi al PIL, possono essere utili i valori riportati nella figura 1. Si può notare che il valore della
somma assoluta dei saldi finanziari dei diversi settori istituzionali, che si era quasi triplicato nel
ventennio compreso fra il 1965 e il 1985, passando dal 15% del PIL nel 1965 a più del 41% nel 1985,
si è ridotto ad un livello ancora più basso rispetto a quello iniziale nel ventennio successivo, risultando
per il 2005 pari ad appena il 12,4% circa, sempre del PIL. Certamente, i valori non sono omogenei nel
corso del tempo, e quindi vanno presi con cautela. Sono cambiate sia le definizioni dei settori
istituzionali, sia le modalità di calcolo; tuttavia la riduzione risulta estremamente rilevante, e non è
limitata solo al caso dell’Italia.
9
Per quanto riguarda il secondo punto, e cioè quello relativo all’aumento dell’incidenza degli stock,
risulta significativa la figura 2, nella quale è mostrato, in rapporto al PIL, il totale delle attività, o
passività finanziarie.
Fig. 2
Italia - settori istituzionali
Somma dei valori delle AF, o delle PF, in rapporto del PIL
10
8
6
4
2
0
1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005
Fonte dei dati: Banca d’Italia, Conti finanziari, diversi anni
L’aumento del valore dell’indice, progressivo ma lento fino alla metà degli anni ’90 del secolo scorso,
mostra un salto nell’ultimo decennio: lo stesso aumento percentuale, circa i due terzi del valore iniziale,
che si era avuto nell’arco di un trentennio, si manifesta in cinque anni soltanto, fra il 1995 e il 2000; il
lieve ridimensionamento nei cinque anni successivi, dovuto alla crisi delle quotazioni azionarie a
cavallo del millennio, non modifica in modo sostanziale il quadro che ne risulta. Le modalità di calcolo
dei valori sono ovviamente cambiate, e a più riprese, nel corso dei 40 anni considerati, ma l’evidenza
empirica è chiara: il mondo è cambiato, rispetto a quello di prima. Gli stock sono cresciuti
enormemente, pur in presenza di una riduzione altrettanto forte nella dimensione dei flussi che pure
quegli stock alimentano.
10
Per gli anni più recenti sono disponibili dati per più paesi, relativi agli stock di attività e passività
finanziarie, per il settore delle famiglie e per quello delle imprese. La tavola 1 si riferisce alle attività
finanziarie; la tavola 2 alle passività.
Tav. 1
Attività finanziarie di famiglie e imprese, in % del PIL
Paesi
Famiglie
Imprese
Anni
1995
2004
1995
2004
Italia
173
220
63
93
Francia
140
176
132
230
Germania
149
183
69
89
Regno Unito
273
280
79
128
Stati Uniti
290
310
75
112
Fonte dei dati: Banca d’Italia, Relazione annuale per il 2005, tav. D4
Tav. 2
Passività finanziarie di famiglie e imprese, in % del PIL
Paesi
Famiglie
Imprese
Anni
1995
2004
1995
2004
Italia
18
28
127
180
Francia
36
41
189
319
Germania
63
70
114
151
Regno Unito
67
94
218
245
Stati Uniti
66
88
236
264
Fonte dei dati: Banca d’Italia, Relazione annuale per il 2005, tav. D8
Attività e passività aumentano parallelamente, sia per le famiglie, sia per le imprese non finanziarie;
l’aumento rispetto al PIL è molto rapido, soprattutto negli anni alla fine del secolo scorso; negli anni
dal 2000 al 2004, l’andamento è in genere decrescente per il periodo caratterizzato dal crollo delle
11
borse, nel biennio 2000-2002, torna a salire successivamente. Per quanto, in generale, si osservino
ancora valori più bassi per i paesi dell’Europa continentale rispetto a quelli anglosassoni, appare
evidente una forte tendenza alla crescita. In generale, dal puro punto di vista quantitativo, la funzione
relativa alla gestione degli stock finanziari ha acquisito importanza, mentre quella relativa al
trasferimento dei flussi risulta fortemente ridimensionata.
Si osserva, inoltre, una progressiva divaricazione delle condizioni delle famiglie, anche di quelle
italiane, molte delle quali sono indebitate, non solo, come avveniva in passato, per il mutuo relativo
all’acquisto dell’abitazione, ma pure per il credito al consumo: le famiglie appartenenti ai primi due
quartili di reddito disponibile hanno un debito al consumo superiore al 36 % dello stesso reddito, cioè
rilevante, e quelle appartenenti al primo quartile hanno una ricchezza finanziaria negativa7; si conferma
dunque l’importanza della gestione della ricchezza finanziaria.
La finanziarizzazione dei sistemi economici – ed in questo consiste il terzo fenomeno meritevole di
attenzione – appare così un fenomeno evidente, sul piano interno e su quello internazionale; esso
coinvolge operazioni di dimensioni enorme: a solo titolo di esempio, ricordiamo che i flussi
“TARGET”, in entrata e in uscita dall’Italia, cioè per un paese di dimensioni limitate, corrispondono
per il 2005 a circa 40 mld di € al giorno, ovvero circa 700 € pro capite al giorno, e che i flussi annui
trattati nei sistemi di compensazione e regolamento corrispondono a circa trenta volte il PIL8. Il
confronto fra i dati relativi ai sistemi di compensazione e regolamento, da una parte, e quelli
concernenti la matrice intersettoriale dell’economia, dall’altra, mostrano come gli scambi abbiano
un’enorme componente di natura finanziaria e relativa agli stock rispetto a quella di natura “reale” e
relativa ai flussi: nelle matrici più recenti il valore degli scambi di natura “reale” – tutti concernenti i
flussi e relativi alle materie prime, alle componenti della domanda finale, alle importazioni di beni e
servizi, da una parte, e alla distribuzione dei redditi ai diversi fattori produttivi, dall’altra – è dell’ordine
del triplo rispetto a quello del PIL; i sistemi di pagamento, invece, regolano pagamenti dell’ordine delle
trenta volte, sempre rispetto al PIL.
Per quanto i confronti fra questi dati vadano presi con beneficio d’inventario, perché essi hanno origini
diverse fra loro, gli uni sono, per valore, un decimo degli altri, il che rappresenta un indice significativo
di quanto pesino gli scambi di origine finanziaria e relativi agli stock sul totale di quelli del sistema: gli
7
8
Vedi Banca d’Italia (2006), tav. D7, p. 215.
Vedi Banca d’Italia (2006), tavv. aH11 e aH12, p. 226 dell’Appendice.
12
scambi relativi ai flussi “reali” per un decimo; quelli concernenti gli stock, reali e finanziari, per nove 9.
In ogni caso, se anche gli scambi relativi ai flussi “reali” avessero dimensione doppia rispetto a quelli
rilevati dall’ISTAT attraverso la tavola intersettoriale – e non si comprende perché un Istituto di
Statistica che gode di buona fama a livello internazionale dovrebbe commettere errori così gravi – la
dimensione di quelli relativi agli stock, reali e finanziari, ne manterrebbe una più che quadrupla rispetto
ai primi; ovvero, non la semplice maggioranza, ma la stragrande quota degli scambi in una economia
pur non particolarmente finanziarizzata come quella italiana si manifesta con riferimento agli stock,
reali e finanziari: operazioni di compravendita di abitazioni, terreni, beni d’investimento, come quadri,
capannoni, impianti, da una parte, e la miriade di contratti finanziari, dall’altra. Le implicazioni di
questo fatto sono esaminate nel par. 5.2 del lavoro.
5.1. Flussi e stock nell’analisi di Vicarelli
Quando i saldi sono grandi e gli stock relativamente piccoli, i riaggiustamenti nella composizione degli
stock possono avvenire tramite quella dei saldi. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, questo è
il mondo che Vicarelli aveva in mente con riferimento agli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso,
con una eccezione che esamineremo in seguito. Se, come risulta dai dati alla base della figura 1, il
risparmio finanziario delle famiglie costituisce percentuali dell’ordine persino del 15-20% del PIL,
quello negativo delle imprese e del settore pubblico rispettivamente il 5-10%, o il 10-15% della stessa
variabile, è sufficiente scegliere in modo adeguato la composizione dei flussi per modificare in misura
anche molto rilevante quella degli stock; non vi è bisogno, per lo meno a livello di interi settori
dell’economia, di vendere attività o passività finanziarie per adeguare i portafogli finanziari al mutare
delle condizioni. Quando invece le percentuali relative ai flussi sono dell’ordine dei pochi punti
percentuali del PIL il riaggiustamento ottenibile in questo modo, cioè riallocando opportunamente i
flussi, risulta il più delle volte insufficiente, perché permette modifiche solo marginali nella
composizione della ricchezza finanziaria.
La valutazione appena espressa risulta anche più fondata quando si pensi all’enorme aumento
dell’articolazione dei portafogli finanziari: come risulta dai dati delle tabelle 1 e 2, i settori istituzionali
delle famiglie e delle imprese non finanziarie detengono contemporaneamente attività e passività, non
più prevalentemente attività, le prime, e passività, le seconde; i portafogli finanziari di ogni operatore si
9
Una parte dei pagamenti avviene utilizzando il circolante; ciò presumibilmente avviene per una quota più elevata per i
pagamenti relativi ai flussi che non per quelli concernenti gli stock, il che accentua la rilevanza delle considerazioni svolte
nel testo.
13
gonfiano e si sgonfiano continuamente, ogni volta che una nuova operazione finanziaria conduce al
contemporaneo accumulo di nuovi strumenti finanziari attivi finanziati attraverso la raccolta di nuove
passività. Inoltre, il numero degli strumenti disponibili si è ampliato enormemente, attraverso continui
processi di innovazione finanziaria, per cui quelli nuovi sono inseriti nei portafogli a scapito di quelli
vecchi. Gli effetti in termini di accumulazione di stock finanziari sono stati enormi, come abbiamo già
evidenziato in sede di commento della figura 2.
Vicarelli (1975) aveva presagito che i prezzi degli stock sarebbero divenuti il meccanismo di
riaggiustamento della composizione della ricchezza, in particolare quando aveva affermato che
l’aumento del prezzo delle materie prime e del petrolio nel corso dei due shock petroliferi degli anni
Settanta del XX secolo era dovuto a tre fattori:
1. alla riduzione dei tassi d’interessi nominali;
2. all’aumento delle attese di inflazione;
3. alle attese di un deprezzamento del dollaro.
Da questi elementi deriva in effetti una ricomposizione della ricchezza, ai danni di quella finanziaria e
a vantaggio delle componenti reali; gli stocks di materie prime non deperibili sono la variabile sulla
quale si scarica l’aumento di domanda. I prezzi del petrolio e delle altre materie prime aumentano di
conseguenza; l’aumento dei prezzi, negli anni Settanta del secolo scorso, non è dunque dovuto
all’esigenza di accomodare i flussi, cioè all’aumento della produzione corrente per far fronte a una
domanda che cresce nel tempo, bensì a quella di riaggiustare la composizione desiderata degli stock.
Un fenomeno analogo si è manifestato nuovamente, negli anni più recenti, nella sfera reale del sistema.
Ci riferiamo all’enorme aumento nel prezzo delle abitazioni avutosi nel corso degli ultimi anni. Anche
in questo caso è stato assai rilevante l’effetto della riduzione, enorme in Italia a seguito dell’adozione
dell’euro, ma forte anche a livello internazionale, dei tassi d’interesse nominali. A fianco di questo
effetto, è stato significativo il ruolo del peggioramento delle aspettative sull’andamento dei mercati
azionari, in particolare in concomitanza con la crisi post “11 settembre 2001”. La composizione della
ricchezza si è spostata a favore della componente reale, e il prezzo delle abitazioni è cresciuto di
conseguenza. Lo stesso fenomeno si è verificato in Giappone, con cause simili e con un anticipo di
dieci-quindici anni. Sono insomma i prezzi degli stock che riaggiustano l’equilibrio dei portafogli.
Processi analoghi avvengono anche per le componenti della ricchezza finanziaria; le conseguenze
verranno analizzate in quanto segue.
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5.2. Variazione dei prezzi degli stock e redistribuzione dei redditi
Nonostante l’aumento dello spessore dei mercati, i prezzi delle diverse attività e passività finanziarie
hanno una variabilità enorme, dovuta alle difficoltà che incontrano i riaggiustamenti negli stock, le
bolle speculative diventano estremamente rilevanti e il loro scoppio causa enormi guadagni e perdite in
conto capitale; la distribuzione del reddito, o del potere d’acquisto, non passa più, soltanto o
principalmente, tramite i flussi reali, ma attraverso i guadagni e le perdite in conto capitale. I diversi
soggetti del sistema economico, insomma, risultano arricchirsi, o impoverirsi nel corso del tempo,
essere ricchi o essere poveri in un certo momento, in modo totalmente diverso da quello considerato
nella teoria neoclassica, o dalla concezione che Vicarelli aveva a proposito della distribuzione del
reddito.
Secondo la teoria neoclassica, un soggetto accumula ricchezza attraverso la politica della formica: il
risparmio è rinuncia al consumo presente e viene gratificato dall’ottenimento di interessi che, insieme
alla ricchezza, crescono nel corso del tempo. È facile rendersi conto, tuttavia e con semplici calcoli, che
questo comportamento genera livelli di ricchezza assolutamente trascurabili, rispetto a quelli che
caratterizzano i soggetti realmente ricchi10.
Vicarelli, pur non condividendo la teoria neoclassica della distribuzione, considera rilevanti gli aspetti
relativi alla distribuzione fra salari, profitti e interessi, o rendite; la sua concezione al proposito è
fortemente influenzata dalla visione di Sraffa (1960), secondo cui la distribuzione dipende dalla forza
relativa delle classi sociali; interessi e rendite, in linea con Ricardo (1821) e, si può aggiungere,
Schumpeter (1912), frenano lo sviluppo. Anche Vicarelli, tuttavia, considera centrale la distribuzione
dei redditi, sia pure con la qualificazione che per lui risulta particolarmente importante quella
funzionale; sono principalmente i flussi, non gli stock, quelli che contano.
Nell’attuale contesto economico, entrambe queste concezioni – quella neoclassica e quella di
derivazione neoricardiana – appaiono inadeguate. La distribuzione del potere d’acquisto ha
limitatamente a che fare con salari, profitti e interessi; risente molto di più della distribuzione dei
guadagni, e contestualmente delle perdite, in conto capitale. La miriade di operazioni, relative agli
stock, sia reali sia finanziari, che ogni giorno vengono realizzate, nei mercati regolamentati e al di
fuori degli stessi, conduce a guadagni e perdite di dimensioni enormi. Chi guadagna nelle operazioni di
gestione degli stock? Chi perde? A livello empirico sappiamo ben poco, per mancanza di dati statistici.
10
Una famiglia, anche con un reddito pari al doppio di quello medio nazionale italiano, se accumula risparmio finanziario,
per 40 anni e in quota del proprio reddito doppia rispetto a quella media, con un tasso d’interesse reale dell’ordine del 3%
all’anno, dopo 40 anni si ritrova con una ricchezza dell’ordine dei due milioni di €: un valore certamente elevato, proprio di
una famiglia benestante, ma non quello di una ricca.
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Le informazioni relative ai redditi derivano da numerose indagini campionarie, che hanno numerosi
limiti, ma che mantengono una loro rilevanza e significatività Quelle relative alla ricchezza, in
particolare a quella finanziaria, sono molto meno attendibili, per gli ovvi comportamenti reticenti da
parte degli intervistati. Ancora meno dettagliate sono le informazioni relative ai risultati delle singole
operazioni e contratti: acquisto e vendita di beni capitali; trasformazione della loro natura ed
utilizzabilità, come avviene quando un terreno agricolo viene, con un tratto di penna, reso edificabile;
operazioni finanziarie e relativi contratti; trasformazione e ristrutturazione di strumenti finanziari; ecc..
L’elenco delle operazioni è pressoché infinito; ne vengono inventate ogni giorno di nuove. Eppure,
sulle loro conseguenze in termini di chi ci guadagna e chi, parallelamente, ci perde, non sappiamo
pressoché nulla, perché vi sono ovvie ragioni che conducono a livelli di ritrosia particolarmente intensi
sulla rivelazione dei loro risultati.
In effetti, vi sono forti motivazioni razionali, legate al desiderio di evitare imposte, da una parte, e
dall’esigenza di non diffondere notizie negative, dall’altra, che spingono i soggetti a nascondere i
risultati delle proprie operazioni in conto capitale, sia quando essi sono positivi, ovvero consistono in
guadagni, sia quando sono negativi, ovvero costituiscono l’altra faccia della medaglia. Quindi,
l’enorme volume delle operazioni di questo genere emerge dai dati sui sistemi dei pagamenti che
venivano ricordati al termine della prima parte di questa sezione, non se ne trova invece il riscontro in
quelli relativi alla distribuzione del reddito, se non nella misura in cui le società a responsabilità
limitata decidano di farli apparire nei loro bilanci.
A livello teorico, possono tuttavia essere avanzate due ipotesi non alternative che possano contribuire
ad identificare i soggetti che ottengono i guadagni e quelli che invece subiscono le perdite; proponiamo
al proposito due linee di spiegazione che risultano facilmente riconducibili al pensiero di Vicarelli:
quella che si basa sull’innovazione finanziaria; quella che invece considera le frodi e i comportamenti
illeciti.
Per quanto riguarda la prima11, occorre considerare il fatto che l’innovazione finanziaria nasce nei
principali centri finanziari del mondo, si diffonde in tempi molto rapidi e, usualmente, non è brevettata:
per avere successo, questo tipo di innovazione, e a differenza di quelle relative ai prodotti industriali o
di altro genere, deve essere utilizzata contemporaneamente, o quasi, da un numero molto elevato di
soggetti; per questo, chi la introduce, non la brevetta. Perché allora viene introdotta, nonostante non dia
luogo a profitti da monopolio?
11
Vedi Niccoli (1989, parr. 3.2.1 e 3.5.3).
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La spiegazione è molto semplice: ogni nuovo strumento finanziario determina una riallocazione dei
portafogli finanziari dei diversi soggetti, che debbono incorporare quello nuovo, dando allo stesso lo
spazio che merita; ciò comporta una riduzione della domanda per quelli precedentemente esistenti, e
quindi una caduta dei loro prezzi, tanto più rapida, quanto più il nuovo strumento si diffonde
istantaneamente. Inoltre, alcuni vecchi strumenti finanziari possono essere complementari rispetto al
nuovo, e quindi i loro prezzi si muoveranno in direzione opposta, verso l’alto. Chi introduce
l’innovazione finanziaria, ne conosce in anticipo le caratteristiche ed è in grado di prevedere come si
modificheranno i prezzi degli altri strumenti finanziari; effettua quindi una congrua quantità di
operazioni in conto capitale, ed ottiene i relativi guadagni.
Sono insomma gli operatori dei centri finanziari più importanti che introducono l’innovazione
finanziaria, ne conoscono le caratteristiche, e sono in grado di lucrare i guadagni in conto capitale con
le operazioni che svolgono al momento, o immediatamente prima, del lancio di tale innovazione; le
perdite si distribuiscono nella periferia del mondo e tra coloro che non detengono le informazioni
rilevanti. Pochi guadagnano tanto, e tantissimi perdono poco, in assoluto, molto in proporzione alla loro
ricchezza. Questo spiega perché la ricchezza finanziaria sia così concentrata nel mondo, in misura
assolutamente non raggiungibile attraverso la politica della formica alla quale avevamo fatto
riferimento in precedenza, secondo il meccanismo di accumulo della ricchezza proposto dalla teoria
neoclassica.
Il secondo canale di spiegazione fa riferimento alle frodi e ai comportamenti illeciti: i guadagni e delle
perdite in conto capitale possono essere la conseguenza di comportamenti truffaldini e fraudolenti. Chi
detiene l’informazione e la usa in modo fraudolento sa in anticipo come varieranno i prezzi degli
strumenti finanziari, e utilizza in modo accorto queste informazioni, anche senza l’acquisizione di
specifiche competenze. I casi Argentina, Cirio, Enron, Parmalat sono solo esempi, le cui caratteristiche
appaiono tuttavia costanti: le dimensioni complessive di questi fenomeni sono enormi; il numero dei
soggetti che se ne avvantaggiano è estremamente ridotto, mentre quello di quanti subiscono le perdite è
estremamente elevato12.
In ogni caso, non importa se a seguito di comportamenti rispettabili, come quelli relativi alla
introduzione di innovazioni finanziarie, o deprecabili, come i veri e propri reati penali, nelle operazioni
12
Non sono soltanto le operazioni finanziarie che possono dar luogo a fenomeni illeciti quali quelli descritti; anche
operazioni di natura reale possono condurre a risultati simili: un terreno non edificabile ha un valore pari ad una frazione
trascurabile dello stesso terreno dopo che ne è stata sancita la edificabilità; la decisione è, in Italia, ampiamente
discrezionale, e gli illeciti verificatisi al proposito sono numerosissimi. Enormi ricchezze sono state accumulate in questo
modo, pure alcune fra le più grandi fra quelle esistenti.
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relative agli stock, e in particolar modo negli scambi finanziari, ricavi e costi non si ripartiscono in
modo equilibrato fra le due parti dei diversi contratti; una delle due ottiene, per esempio, il 51% del
loro valore complessivo, e l’altra il 49%: questa piccola differenza trasferisce il 9% del reddito
nazionale, se tali scambi costituiscono il 90% di quelli complessivi, o il 4,5% dello stesso se essi sono
pari a 4,5 volte tanto quelli relativi ai flussi reali; questi sono in effetti i due casi – il primo realistico e
il secondo per ipotesi estrema – considerati al termine della parte iniziale del paragrafo 5 come indice
del peso degli scambi relativi agli stock rispetto a quelli relativi ai flussi
13
. Quelli appena formulati
sono puri esempi scolastici; non dovrebbe essere perso, tuttavia, il significato generale che essi hanno.
Gli spostamenti nella distribuzione del reddito, quali risultano nel corso del tempo dai dati statistici,
impallidiscono rispetto alla dimensione di quelli che abbiamo appena evidenziato: la distribuzione del
reddito non è dunque tanto il risultato di fenomeni relativi all’andamento dei flussi, quanto quello
dovuto alla gestione degli stock.
13
Le stime formulate in quella sede mostravano un’incidenza del 90% degli scambi relativi agli stock, “reali” e finanziari, e
del 10% di quelli relativi ai flussi “reali”; in tale caso un 2% di differenza fra le due parti del valore degli scambi finanziari
conduce al 9% a vantaggio di una delle due, e al 9% a danno dell’altra, in termini di reddito nazionale. Per assurdo, si è poi
supposto che l’ISTAT non rilevi la metà degli scambi relativi ai flussi; in questo caso, quelli relativi agli stock sono
proporzionali a 0,9, quelli relativi ai flussi a 0,2, cioè il doppio di quelli rilevati, e i primi sono 4,5 volte più grandi dei
secondi. L’ipotizzato 2% di differenza fra le due parti del valore degli scambi conduce, in questo caso, ad un vantaggio del
4,5% in termini di reddito nazionale per una parte e ad un analogo danno per l’altra..
18
6.
Conclusioni
Pur in presenza di importanti mutamenti strutturali e comportamentali, il metodo e le intuizioni di
Vicarelli rappresentano un patrimonio di insegnamenti ancora attuale.
Egli si sarebbe espresso in modo assai preoccupato dinanzi al mancato aggiustamento di squilibri
fondamentali negli scambi internazionali e al conseguente accumulo di ricchezza finanziaria
potenzialmente destabilizzante sui mercati reali e finanziari dell’economia mondiale.
Con riferimento alla finanziarizzazione dell’economia, Vicarelli avrebbe assunto un atteggiamento di
rigorosa severità nei confronti degli effetti redistributivi asimmetrici che possono derivare sia dai
processi di innovazione finanziaria sia dalla facile diffusione di comportamenti illeciti e fraudolenti.
Questi ultimi hanno l’aggravante di porre gravi problemi non solo di equità, ma anche di etica.
A fronte di questi problemi, che mettono in evidenza l’esistenza di una conflittualità di fondo
all’interno del sistema finanziario globalizzato, perché i guadagni degli uni corrispondono alle perdite
degli altri, è necessario mantenere una visione unitaria dei fenomeni strutturali, secondo l’approccio
integrato adottato da Vicarelli. Vi è necessità di analisi rigorose e approfondite, che debbono poter
contare su informazioni statistiche più dettagliate e che debbono essere finalizzate alla
sensibilizzazione delle istituzioni internazionali e nazionali, ma anche degli operatori, a porre i
correttivi necessari affinché lo sviluppo della finanza non sia fine a se stesso, ma sia funzionale alle
esigenze degli investimenti produttivi e della distribuzione equilibrata dei redditi. Altrimenti i focolai di
crisi e le tentazioni di guadagni “facili” saranno sempre presenti.
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OPERE CITATE
ALESSANDRINI, P.
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Internazionale di Scienze Sociali, maggio-giugno.
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SWOBODA, A.K. (eds.), Monetary Problems of the International Economy, The University
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NICCOLI, A. (1989), L’innovazione finanziaria, La Nuova Italia Scientifica, Roma.
RICARDO, D. (1821), Principi dell’economia politica e delle imposte, trad. it. UTET, Torino, 1965.
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(1972), Verso un’integrazione tra teoria pura e teoria monetaria del commercio
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