La Teoria dell’evoluzione Parte 3 Dio e Darwin Teoria evoluzione e teologia, è un capitolo della questione del rapporto fra religione/teologia ed una teoria scientifica, che si trascina dai tempi di Galileo. Nel 2009 si sono celebrati i 150 anni dalla pubblicazione de L'Origine delle specie, e Darwin è tornato a fare problema. Evidentemente attorno alla tematica evoluzionista si concentrano alcuni interrogativi centrali per il rapporto tra scienza e fede, con una varietà di problematiche a cui non sono certo in grado di rispondere. La mia idea è questa: che la teoria darwiniana abbia accertato alcuni fatti che assestano un ulteriore colpo ad una concezione antropocentrica dell’universo (creazione in termini teologici), secondo la quale tutto starebbe evolvendo da 14 miliardi di anni in vista della nostra comparsa, avvenuta alcuni istanti fa, istante nel quale l’intero universo e la sua storia avrebbe acquistato senso. Le conoscenze di cui oggi disponiamo hanno qualche ricaduta sul modo di concepire l’opera di Dio nel mondo, ed il nostro rapporto con Lui? La relazione girerà attorno questo interrogativo con alcune riflessioni, tra quelle che conosco, che ritengo significative. Scienza e fine dell’antropocentrismo Anche senza la cosmologia moderna l’antico credente era colto da stupore e domandava a Dio: “Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte, che cos’è l’uomo perché lo ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura?” (Sal. 8,4) Stupore condivisibile: Dio ha impegnato se stesso per incontrare un frammento che, sia per quanto riguarda lo spazio che il tempo, è irrilevante nell’immensità dell’universo? ammesso che ne esista uno solo. E’ plausibile tutto ciò? Un intero universo con centinaia di miliardi di galassie, con cui non entreremo mai in contatto, tutto solo per l’angolino da noi occupato? Per dirla prudente c’è motivo di stupore,. Poi Darwin: che concepisce l’essere umano in continuità con i primati, nessun salto ontologico, la coscienza dell’essere umano è un effetto collaterale dell’evoluzione del cervello, senza i cui neuroni non c’è coscienza. La crisi dell’antropocentrismo, sia cosmologico che ontologico, richiede uno sforzo di confronto al pensiero teologico per pensare la fede in termini responsabili. La teologia del XX secolo ha presentato, in sostanza, due modelli di approccio alla sfida costituita dall’evoluzionismo: da un lato la sottolineatura della distinzione di piani, dall’altro, il tentativo di fare i conti con l’evoluzione, intendendola però sempre orientata ad un fine: noi. Per questo secondo modello mi riferirò a Teilhard de Chardin, perché era anche un paleontologo, che ha dato contributi a questa scienza, e perché anche altre riflessioni in ambito teologico partono sempre dal suo impianto di base. Il primo modello, della distinzione dei piani, ha dalla sua parte ragioni assai forti, non c’è dubbio che è doveroso distinguere. Il limite di questo modello è che porti ad una indifferenza che finisca per ignorare i problemi più che risolverli Non che si voglia fare una impossibile sintesi tra scienza e teologia, si tratta di assumere il fatto che uomini e donne moderni non possono ignorare i risultati della scienza, e che anche alla teologia tocca una risposta responsabile che assuma questa tensione. In ambito teologico la posizione della teologia evangelica è così sintetizzata da R. Gibellini: E’ l’orientamento prevalente della teologia evangelica a partire dalla teologia dialettica ed annovera teologi molto diversi tra loro, come Karl Barth, Rudolf Bultmann e Friedrich Gogarten. Per questa linea di pensiero, Dio si rivela solo tramite la sua Parola: la Parola della rivelazione; il mondo (religione compresa) è opaco in direzione di Dio; il mondo è solo mondo; il mondo è mondano; il saeculum è secolare. Nessuna diafania dell’essere in direzione di Dio. (Teilhard de Chardin e la teologia contemporanea- Borla 1983- pag.116) 1 o come spiegava Paul Althaus: ‘la proposizione che il mondo è stato creato non è una teoria, non è un’ipotesi atta a spiegare il mondo, bensì una conoscenza personale, esistenziale. Poiché la certezza del mondo come creazione si fonda sull’incontro di Dio con me’ (ibid.pag.52) Tuttavia rimangono aperte domande cruciali: una dottrina teologica della creazione può limitare il contenuto della fede nella creazione all’autocomprensione esistenziale della persona? Qual è rapporto tra il mondo del quale parla la teologia, e quello descritto dalla scienza? la teologia è chiamata a mostrare che queste due storie parlano della stessa realtà? I tentativi compiuti sono numerosi, ma non mi pare si sia elaborato un paradigma teologico convincente, che assuma coerentemente le evidenze acquisite dalla biologia. Teilhard de Chardin Teilhard de Chardin, proprio per la sua formazione scientifica oltre che teologica, è sicuramente colui che, più di ogni altro, ha fatto dell’evoluzione la chiave di lettura fondamentale dell’universo, e la sua riflessione è dominata dal tentativo di cercare delle linee di sviluppo all’interno dei meccanismi casuali darwiniani che in qualche modo spieghino l’emergenza del fenomeno umano. Infatti parla di evoluzione che procede a tentoni tra grandi numeri, ma ciò non gli impedisce di vedere un punto finale verso cui tutto è diretto: L’uomo non centro statico del Mondo- come egli per molto tempo ha creduto di essere: ma asse e punta avanzata dell’Evoluzione il che è assai più bello.( T.d.C. pag.31) Questa semplice frase contiene il punto centrale della questione. Dire che l’essere umano è l’asse e punta avanzata dell’evoluzione significa avere in mente un’idea precisa dell’evoluzione stessa, la quale deve contenere in sé una forza che la faccia procedere lungo una precisa direzione, l’asse che porta all’essere umano appunto. Questo modo di concepire l’evoluzione non è affatto quello prevalente in ambienti scientifici. Ritornando a Teilhard, il presupposto iniziale che maggiormente è in discussione, è certamente quello di inserire nei meccanismi evolutivi dei fattori preferenziali che mostrino come l’evoluzione sia in qualche modo canalizzata verso la formazione di strutture sempre più complesse, fino all’emergere dell’essere pensante. L’evoluzione procede lungo una direzione, e questa direzione è individuata da quella che Teilhard chiama legge di complessificazione e che lui vede agire fin dai primi istanti di vita dell’universo: Questa scoperta fondamentale che tutti i corpi derivano, per organizzazione, da un unico tipo iniziale corpuscolare, è il lampo che illumina, ai nostri occhi, la storia dell’Universo. A modo suo la Materia obbedisce, sin dalle origini, alla grande legge biologica (sulla quale avremo occasione di ritornare continuamente) di “complessificazione”. (ibid. pag 43) Questa legge di complessificazione agisce fin dagli inizi sulla Stoffa di cui è fatto l’Universo, determinandone una progressiva concentrazione in forme di Materia sempre più organizzate. Recentemente il teologo Vito Mancuso ha ripreso il concetto: la materia non è morta, qualcosa di contrapposto allo Spirito, perché la vita viene da lì, dal basso- polvere vitale- il soffio vitale di Dio è stato dato alla polvere e non direttamente all’essere umano. Nessun dualismo tra spirito e materia. Lo spirito non ci sarebbe senza la materia. Da sempre il soffio è contenuto nella materia. A ben vedere sembra che Dio prima abbia creato per tentativi, poi ha visto che era cosa buona. Ci ha provato, se così si può dire. Secondo un midrash ci sarebbero stati 26 tentativi falliti. All’ultimo pare abbia esclamato: “speriamo stia in piedi”. Ma la cosa più importante è che il compito dell’evoluzione non si esaurisce una volta arrivati a noi. C’è ancora molta strada da percorrere. Noi non la vediamo avanzare perché va secondo le modalità proprie delle grandissime cose, vale a dire, quasi insensibilmente. Eppur si muove: non c’è niente che sta fermo, è tutto un muoversi verso, e ci deve essere una qualche ragione profonda perché sia 2 proprio così. Non c’è nessun cambiamento improvviso cui pensava l’apocalittica, e che noi recitiamo anche nel Credo : credo nella Resurrezione dei morti e nella vita nel mondo che verrà. L’unica differenza tra i cristiani e chi prevede la fine nel 2012 è solo una questione di data? Ecco le cose che, freddamente e logicamente, io vorrei, senza Apocalisse, permettermi di suggerire, più per riflettere che per affermare qualcosa. (Il fenomeno umano, pag.256) Così Teilhard de Chardin inizia la sua visione delle cose ultime. Lui pensava che l'evoluzione non si sarebbe fermata con l'essere umano, ma sarebbe andata avanti proprio grazie all'essere umano. -C’è uno stadio successivo all’essere umano. L'evoluzione procede, non verso un super-uomo, ma verso la "socializzazione": "un fenomeno di convergenza (convergere è una parola chiave del suo pensiero) dell'umanità su se stessa, in forza del quale viene superato l'individualismo per attuare una solidarietà di pensare, di volere, di agire, di produrre". Non un super-uomo, ma una super-umanità, che si raggruppa e si organizza per convergere su se stessa in un nuovo unico super-organismo, per raggiungere infine Dio. Questo è il punto omega che rappresenterebbe, di fatto e senza rimpianto alcuno, la fine dei tempi. C’è una ascesa continua della coscienza, che provocherà un grande effetto di unificazione di tutti gli elementi pensanti della terra. Non tener conto di questo fatto significherebbe viziare sin dall’inizio le nostre predizioni sull’Avvenire del Mondo. ….L’Esito del Mondo, le porte dell’Avvenire, l’accesso al Super-umano, non si dischiudono in avanti per qualche privilegiato, o per un solo popolo eletto tra tutti i popoli! Non si apriranno che sotto la spinta di tutti insieme, in una direzione in cui tutti insieme possano raggiungersi e compiersi in un rinnovamento spirituale della Terra. (Il fenomeno umano, pag.228) Può sembrare una prospettiva inquietante che distrugge la personalità dei singoli. Teilhard de Chardin, comunque, si sforza di spiegare come la socializzazione non depersonalizzerà gli individui, ma al contrario li super-personalizzerà: lui pensa alla fraternità non al termitaio, una fraternità determinata dalla forza dell'amore, che renderà gli associati capaci di realizzare imprese che sono impossibili ai singoli individui: la fraternità come punto d’arrivo dell’evoluzione, la fraternità anche come unica via per uscire dal vicolo cieco in cui ci stiamo cacciando. Perché dovrebbe essere chiaro che siamo in un vicolo cieco. Così Teilhard. Certo la sua teoria è ingenuamente finalistica, introduce uno scopo finale, che la rende anacronistica nel dibattito attuale. Una considerazione teologica dell’evoluzione oggi non può prescindere dalla dimensione di contingenza che la caratterizza, come evidenziato acutamente da Gould, e rende assai più problematico pretendere che sia la ricerca scientifica ad evidenziare la presenza di una direzionalità nel processo evolutivo. Non è possibile oggi riconoscere per via scientifica che c’è una freccia “di un universo in corso di complessificazione materiale e di interiorizzazione psichica sempre più accelerate come credeva Teilhard de Chardin. Posizioni in ambito scientifico Una possibile strada che assuma la tensione tra le due visioni deve evitare due estremismi, che sono due strade speculari che si reggono l’un l’altra: 1- Creazionismo scientifico: che ha molte sfaccettature che vanno da una lettura letterale del testo sacro (storia tipicamente americana ma non troppo- De Mattei) ed arrivano all’ID che è una forma di neocreazionismo in cui la natura è interpretata come le vestigia di un essere superiore anche se si evita di chiamarlo Dio. 2- Quella opposta, filosoficamente ingenua, di Dawkins, che inizia la sua Illusione di Dio dicendo che dimostrerà che l’esistenza o no di Dio è una ipotesi scientifica come un'altra. Poi leggendo il libro si vede che si tratta di vecchi argomenti filosofici già trattati da B. Russell, che non hanno a che fare con argomenti scientifici. Per chi voglia vedere la teoria darwiniana come una minaccia alla religione Richard Dawkins è l’avversario perfetto, convinto che sia possibile dimostrare l’ateismo per via scientifica. Per Dawkins la scienza non è soltanto una luce nell’oscurità. Essa è di gran 3 lunga la nostra migliore luce, forse l’unica. Il solo grande strumento a nostra disposizione per produrre conoscenze oggettive sul mondo. E’ stato fatto notare che è strano che un ateo si prefigga obiettivi di proselitismo quasi missionario proponendo comandamenti laici alternativi. Così un intero coro di voci si solleva per dire che l’evoluzionismo non è scienza ma una ideologia materialista, nascondendo il vero problema: che la teoria dell’evoluzione è la migliore spiegazione che abbiamo sul mondo vivente e un qualsiasi percorso tra fede e scienza deve misurarsi con tutta la sua ricchezza e complessità. Si può essere darwiniani in modi diversi Gould combatte su entrambi i fronti, sostiene con chiarezza la reciproca autonomia dei linguaggi, e prende risolutamente le distanze dagli eccessi delle scienze empiriche. La sua posizione dei Magisteri Non sovrapposti (MSN) riprende Galileo. La religione è, anche per lo scienziato, uno dei “Pilastri del tempo”, una dimensione decisiva dell’esperienza umana, e colloca il contributo della religione nell’ambito della “ricerca di senso”. Posizione che lo trova in ampia compagnia teologica. La teologia può far propria fino in fondo questa posizione? Distinguere i piani è buona cosa, per un agnostico può essere sufficiente: non ritengo che lo sia per la fede cristiana (Fulvio Ferrario). Se ci mettessimo d’accordo su regole di comportamento condivise sarebbe una strada straordinaria. Però in linea di fatto i due magisteri si sovrappongono, è normale che succeda. Sfido chiunque a trovare una religione che non faccia anche affermazioni su come va il mondo. Il primo articolo del Credo confessa che Dio è il Creatore di questo mondo e che lo ha fatto in base a un progetto. Parola screditata, progetto, come metafora alternativa è stata proposta quella di sogno o di visione. Qualunque metafora si usi il fatto rimane: l’idea di Creazione riguarda questo mondo. La distinzione dei piani non impedisce l’intersezione, non ci può essere assoluta separazione. La possibilità che affermazioni formulate nei due linguaggi siano, se non incompatibili, almeno in forte tensione reciproca, non può essere esclusa in linea di principio. Come andrebbe interpretata tale tensione qualora si verificasse? Si è fatto notare che due Magisteri separati impoveriscono entrambi. Non molti sarebbero d’accordo sull’idea che la religione sia un insieme di norme che ci dicono come comportarci e basta. Così per la scienza. Di fatto ci si scontra con queste intersezioni. A parte il fatto che il dialogo e la tensione sono nella stessa persona dello scienziato, che spesso è sia credente che darwiniano. E’ più sensato continuare a dialogare e magari sovrapporsi se no il bello del confronto si perde nell’indifferenza. Se l’interferenza è inevitabile meglio assumerla consapevolmente per non diventarne vittime. Come fondare un confronto costruttivo? da una parte si dovrebbe essere consapevoli che la struttura logica della fede non ha nulla a che fare con quella dell’astrologia o altre forme di superstizione come ritengono alcuni critici. Anche gli scienziati lavorano in base alla loro weltanschauung, che non è indifferente rispetto alle modalità con cui interpretano i dati sperimentali- Vedi teoria dello stato stazionario e principio Cosmologico Perfetto. Dall’altra si dovrebbe riconoscere l’inconsistenza di alcune obiezioni che costantemente vengono rivolte alla teoria darwiniana, a partire da concezioni che discendono direttamente da Bellarmino. Questa seconda ci interpella direttamente. Obiezioni: Quella evoluzionistica è solo una teoria Effettivamente è solo una teoria. Quando si discute di evoluzione c'è sempre qualcuno che dice che si tratta solo di una teoria- con il sottinteso che dire teoria equivalga a dire ipotesi o supposizione: di ipotesi se ne possono fare molte, a scelta- e inoltre non spiega molte cose. In campo scientifico una teoria non è una semplice opinione. Una teoria è la spiegazione migliore che abbiamo di un particolare aspetto della natura, e comprende osservazioni, fatti, leggi, ipotesi controllate al meglio delle nostre possibilità. Cos'altro producono gli scienziati? Newton ha prodotto la teoria della gravitazione universale, che descriveva i fenomeni, ma rinunciava a cercarne la causa: Hypotheses non fingo. Non era più un motore immobile a muovere i pianeti ma una forza di cui non si capiva l’origine. Einstein formula la teoria della relatività, che si trova in grave contrasto con la teoria atomica della materia, ed entrambe sono lungi dallo spiegare tutto ciò che riguarda il mondo microscopico o macroscopico. Ma di queste nessuno direbbe che si tratta solo di una teoria, perché una teoria non è una ipotesi. Di sicuro non lo direbbe chi vive grazie ad un pace-maker o una TAC o una risonanza magnetica, tutte 4 cose che non esisterebbero senza una robusta teoria. Certo una teoria scientifica, proprio perché scientifica, non è scolpita su tavole di pietra, e può sempre essere sostituita. Da cosa? Da un’altra teoria. Non ci si scappa, ce ne vuole un’altra che spieghi meglio l’aspetto della natura a cui si riferisce, e se vengono accertati dei fatti la teologia non può ignorarlo. Quando la riflessione teologica si era troppo legata ad ipotesi scientifiche poi rivelatesi errate, ha dovuto subire un adeguamento molto doloroso. E’ il caso dell’ipotesi geocentrica, ma anche quello di una interpretazione letterale della Genesi che ha portato a negare l’esistenza dell’evoluzione. Per quanto riguarda la teoria darwiniana l’ombra di Bellarmino incombe ancora. Vediamo alcune recenti posizioni della Chiesa: C’è stato l’importante messaggio sull’evoluzione che Giovanni Paolo II rilasciò nel 1996 all’Accademia Pontificia delle Scienze. In quell’occasione, Karol Wojtyla affermò apertamente che la teoria dell’evoluzione fosse più che una «mera ipotesi», sussistendo una convergenza di prove empiriche fornite in suo favore da molti campi scientifici indipendenti, dalla biologia molecolare alla paleontologia. Questo non impedì al card. Schonnbörn di denunciare la falsità della teoria neodarwiniana, basata su variazioni genetiche casuali e selezione naturale, e le presunte insanabili lacune della spiegazione evoluzionista, in un articolo sul NYT nel luglio 2005, rivendicando “la palmare evidenza di un disegno in natura”. La teoria neodarwiniana, così come l’ipotesi dei molti universi in cosmologia, sono state inventate per evitare la schiacciante evidenza di una finalità e di un disegno riscontrata nella scienza moderna. Di fronte a queste minacce la Chiesa Cattolica difenderà ancora l’umana ragione proclamando che l’immanente disegno evidente nella natura è reale. Immanente, evidente e reale. Neanche Paley era stato così tassativo. Si confronti con il card. Newmann: Credo in un disegno perché credo in Dio e non credo in Dio perché vedo un disegno. Credere in Dio significa credere che c’è un Disegno, ma che essendo di Dio riguarderà i tempi lunghi, e richiede fiducia più che comprensione. Ancora il card. Schonborn al seminario di Castel Gandolfo del settembre 2006, dove si trova: la teoria dell’evoluzione “in gran parte non è dimostrabile sperimentalmente perché non possiamo introdurre in laboratorio 10.000 generazioni. Dunque non è una teoria completa scientificamente verificabile. Anche il convegno organizzato dalla pontificia Accademia della Scienze nel novembre 2008 è sulla stessa linea. "il processo è razionale nella misura in cui riveli un ordine di evidenti corrispondenze e innegabili finalità". Solo così inteso il processo è razionale: se rivela una finalità. Poiché la scienza non può essere irrazionale essa dovrà necessariamente partire dall'idea che ci siano innegabili finalità altrimenti il processo non sarebbe nemmeno intellegibile. E se i fatti dicono qualcosa di diverso? E’ così evidente un disegno quando accertiamo che la storia naturale è transitata attraverso innumerevoli biforcazioni contingenti, con innumerevoli cambiamenti, che andavano da fiumi di basalto fuso, ad impatti di asteroidi, a cambiamenti dell'asse terrestre, alla stessa orbita terrestre soggetta a cambiamenti caotici, a glaciazioni che cambiavano le correnti oceaniche, che facevano inaridire le radure africane e che al posto delle foreste si è sviluppata la savana che rese vantaggioso la postura bipede. In tutto questo risulta così evidente una necessità interna? Era chiaro che i mammiferi simili a toporagni che esistevano ai tempi dei dinosauri erano i precursori di tutti i mammiferi? Che finalità ci può essere nel fatto che il 99% delle specie apparse si siano estinte? Basandoci su questi dati possiamo dire che non c’è assolutamente nessuna prova di progetto o finalità nell’universo. Questa è una buona affermazione scientifica. Ma se poi dico: perciò, siccome non ho prove, allora non vi è alcun progetto o finalità, faccio una dichiarazione metafisica e non 5 scientifica, che posso fare ma non spacciandola per scientifica. Il fatto che io non trovi prova di un progetto non vuol dire che il progetto non ci sia. L’assenza di una prova non è una prova dell’assenza, C.Sagan. Dire che non ci sono prove di un progetto o di uno scopo nell’universo non è come dire che in assoluto non ci sono né progetto né scopo. Sul ricostruire la storia evolutiva si sta indagando attivamente. Allo stato attuale alcune questioni sono sicure altre rimangono incerte, altre sono solo ipotesi, altre ancora, come il momento in cui apparve la vita, rimangono ignote. Tuttavia l’incertezza su determinati argomenti non lascia dubbi sulla realtà dell’evoluzione e sul fatto che la teoria sviluppata a partire da Darwin sia la migliore spiegazione che al momento abbiamo. Non esiste teoria che si possa dire completa, nel senso di non lasciare la possibilità di essere superata. Una teoria completa sarebbe definitiva, quindi antiscientifica. Per fortuna rimane molto da spiegare senza il bisogno riuscire dal proprio campo di indagine. Eppure una delle affermazioni più deliranti dell’ID è che se la teoria non riesce a spiegare alcuni fenomeni, allora la spiegazione corretta debba essere per forza la teleologia. Come dice il giudice John E. Jones III nella sentenza Kitzmiller vs. Dover Area District School: Un osservatore obiettivo non può non capire che parlare di disegno intelligente e insegnare che la teoria evoluzionistica presenta “lacune” e “problemi irrisolti” è una strategia creazionistica e religiosa evolutasi da precedenti forme di creazionismo. L’ID si basa su una falsa dicotomia, ovvero sull’idea che screditare la teoria evoluzionistica significhi automaticamente confermare l’ID stesso. Si tratta del Dio tappabuchi. In alternativa propongo un brano di D. Bonhoeffer dalla lettera scritta da Tegel il 29 maggio 1944 (D.Bonhoeffer, Resistenza e resa, ed. S.Paolo, pag 382): Il libro di Weizsäcker sull’ “immagine che la fisica ha del mondo” continua ad impegnarmi molto. Per me è nuovamente evidente che non dobbiamo attribuire a Dio il ruolo di tappabuchi nei confronti dell’incompletezza delle nostre conoscenze; se infatti i limiti della conoscenza continueranno a d allargarsi- il che è oggettivamente inevitabile- con essi anche Dio viene continuamente sospinto via, e di conseguenza si trova in una continua ritirata. Dobbiamo trovare Dio in ciò che conosciamo: non in ciò che non conosciamo. Dio vuole essere colto da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quelle risolte. Questo vale per la relazione tra Dio e la conoscenza scientifica. Intuizione straordinaria: Dobbiamo trovare Dio in ciò che conosciamo, non in ciò che non conosciamo, al centro del villaggio non nelle lacune. A proposito della teoria dell’evoluzione non dobbiamo cercarlo in ciò che ancora non è spiegato, ma chiederci: che immagine di Dio ne esce da ciò che sicuramente sappiamo circa il processo evolutivo? Nelle questioni riguardanti la scienza è diventato un fatto scontato che “l’ipotesi di lavoro Dio” sia superflua. Si è visto che tutto funziona anche senza Dio, etsi Deus non daretur. Se Dio è concepito come “soluzione” a domande o problemi, come “tappabuchi”, questo processo appare necessariamente minaccioso: toglie “spazio a Dio”. Da qui i tentativi di mostrare come, in realtà, di Dio ci sia ancora bisogno; come, cioè, egli sia ancora utile. L’ambito nel quale questa difesa sembra meglio riuscire è l’ambito esistenziale delle questioni ultime: morte sofferenza, colpa. Sul letto di morte Dio resta l’ultimo appiglio. (A.Gallas; Resistenza e resa, pag. 16). . In questa maniera Dio diventa un Dio legato alla nostra debolezza. Dio diventa il Dio dei nostri limiti, limiti che tendono a restringersi sempre di più. I fautori dell’ID ricorrono all’Architetto per spiegare quelle che considerano complessità irriducibili, cioè entità composte da molte parti interagenti e nelle quali la rimozione di una qualsiasi fa sì che il sistema smetta di funzionare. 6 E’ lo stesso argomento di Paley con 200 anni di ritardo. Gli argomenti sulla complessità irriducibile addotti dagli alfieri dell’ID sono un argumentum ad ignorantiam. Siccome qualcuno non sa come si sia originato un organo complesso, l’organo viene definito irriducibilmente complesso. Questo argomento viene meno con l’estendersi delle conoscenze scientifiche. Theodosius Dobzhansky, uno dei maggiori evoluzionisti del XX secolo e tra l’altro era credente scrive: Vi sono però persone a cui le lacune della nostra comprensione piacciono per un motivo diverso. Queste persone sperano che tali lacune siano permanenti e che quello che non è ancora spiegato resti inspiegabile. Con un ragionamento curiosamente tortuoso, fanno rientrare ciò che rimane inspiegato nel regno dell’attività divina. Che il “Dio delle lacune” continui in eterno a rifugiarsi in questi anfratti è molto improbabile sotto il profilo storico. Tuttavia niente può soddisfare il tipo di mentalità che si rifiuta di accettare la testimonianza dell’esperienza storica.” Francisco Ayala: Elogio dell’imperfezione Il libro di F. Ayala (Darwin: dono alla scienza e alla religione) suppone che sia possibile elaborare un pensiero di fede anche entro un orizzonte che consideri la teoria darwiniana come descrizione migliore dei fattori cui si deve l’evoluzione della vita. Come osserva Ayala non vi sono più motivi di considerare atea la teoria dell’evoluzione e la spiegazione del disegno di Darwin, di quanti ve ne siano per considerare anticristiane le leggi del moto di Newton. La situazione attuale sembra essere che la maggior parte dei biologi- anche quelli che si riconoscono in una tradizione religiosa- ritiene che una teoria dell’evoluzione non abbia bisogno, sul piano scientifico, di essere integrata con fattori estranei al naturalismo metodologico introdotto da Darwin. E’ insensato attribuire al Creatore la responsabilità della struttura degli organismi, anche perché imperfezioni e difetti sono assai diffusi nel mondo. Non è buona teologia perché induce a concludere che l’Architetto sia tutt’altro che onnisciente, onnipotente e, soprattutto, misericordioso. Le deficienze e le disfunzioni sono così pervasive da mettere in evidenza un disegno incompetente. Si pensi alla mascella umana: troppi denti rispetto alle dimensioni della mascella. Non è un errore dell’architetto, è l’evoluzione che di fronte al cervello che aumentava di dimensione ha dovuto rimodellare il cranio riducendo le mascelle, altrimenti la testa del neonato sarebbe stata troppo grossa per passare dal canale del parto, che già risulta troppo stretto perché la testa del bambino passi agevolmente. Migliaia, milioni, di madri e bambini sono morti per questa disfunzione. E’ il caso di accusare Dio per questa disfunzione, o meglio dire che la selezione naturale non genera strutture ottimali, ma modifica e rabbercia le strutture esistenti? Ancora più inquietante il fatto che il 20% di tutte le gravidanze umane di cui la donna è consapevole termini con l’aborto spontaneo entro i primi due mesi. Il processo della gravidanza non è perfetto. Dovrebbe essere un sollievo per i teologi che la scienza sollevi Dio dalla responsabilità di difetti strutturali: non è meglio attribuire queste spaventose conseguenze alle goffaggini del processo evolutivo? E’ lungo l’elenco dei difetti dei vari organismi che rispecchiano, il carattere opportunistico e da rattoppatrice della selezione naturale che realizza strutture imperfette anziché intelligenti. La natura abbonda di stranezze e di comportamenti che se fossero imputabili ad esseri dotati di etica sarebbero di una crudeltà inimmaginabile. Pag. 223 Già Darwin scriveva in una lettera: 7 Che razza di libro potrebbe scrivere il cappellano del diavolo sulle opere rozze, sciupone, abborracciate, vili e orribilmente crudeli della natura. Nella struttura degli organismi si osservano caratteristiche così strane, crudeli e poco funzionali che attribuirle ad una azione mirata di un Dio onnipotente e benevolo è difficile. Alla domanda da dove viene il male l’evoluzione ci è venuta in soccorso. T. Dobzhansky: Se l’universo è stato creato secondo un piano che aveva come fine una condizione di bellezza e bontà assolute, si trattava di un piano assai lacunoso…perché un numero così esorbitante di false partenze, estinzioni, calamità, infelicità, angosce e infine morti? Il Dio dell’amore e della misericordia non avrebbe mai potuto ideare tutto questo. Qualunque dottrina consideri l’evoluzione predeterminata o guidata contrasta clamorosamente con il fatto ineluttabile dell’esistenza del male. Un altro nodo di problemi della visione darwiniana del mondo è dovuta alle mutazioni casuali ed alle conseguenze che ciò comporta rispetto all’idea di un progetto divino all’opera nella realtà. Il progetto, o la visione o il sogno del Creatore può discendere soltanto da una lettura teologica della realtà, e la visione darwiniana del mondo presenta una realtà attraversata da una tale quantità di sofferenza insensata, da rendere, per dirla prudente, non evidente la possibilità di qualunque interpretazione che rinvii alla volontà del Dio cristiano. Lo stesso Darwin ebbe in proposito dubbi sempre più radicali (lettera ad Asa Grey) Nella letteratura sull’argomento ha avuto molta fortuna l’esempio degli icneumonidi. In un racconto di Mark Twain la piccola Bessie tiene una lezione di storia naturale alla mamma: Il signor Hollister dice che le vespe catturano ragni e li cacciano nei loro nidi nel terreno – ancora vivi mamma!- e che là essi vivono e soffrono giorni e giorni e giorni, e le piccole vespe affamate mangiano le loro zampe, e affondano di continuo le loro mandibole nel loro ventre, per renderli buoni e religiosi e far sì che lodino Dio per le sue grazie divine. Io penso che il signor Hollister sia molto amabile, e anche gentile, poiché quando gli chiesi se lui avrebbe trattato un ragno in quel modo, disse che sperava di essere dannato se lo avesse fatto; e poi – ma, mamma cara, sei svenuta! Si tratta solo di un esempio tra i mille che si potrebbero fare. La meravigliosa armonia della natura sussiste solo ad un prezzo di una sofferenza infinita da parte di un numero incalcolabile di esseri, che vengono accettati da altri esseri solo perché possono essere un buon pasto. La fede è chiamata a dire in cosa può consistere alla luce di tutto ciò, il progetto (la visione, il sogno) benevolo del Dio Creatore. L’evoluzione ci racconta di una ambiguità radicale, insolubile sul piano morale. Proprio quelle alterazioni del DNA che producono la distrofia di Duchenne, e molte malattie genetiche, se viste in maniera generale, sono anche la materia prima dell’evoluzione. Senza quegli errori di copiatura non vi sarebbe stata alcuna evoluzione e noi non saremmo qui. Un pacchetto completo per produrre novità. Insieme dentro la stessa logica. Il crinale che fa pendere tra una vita normale e la morte di un bambino è una molecola che finisce al posto sbagliato. Attribuire simili orrori all’azione diretta del Creatore è sostanzialmente blasfemo. La teoria dell’evoluzione che a prima vista sembrava aver eliminato il bisogno di Dio dal mondo, è riuscita ad affrancarci dalla necessità di spiegare come mai il disegno divino abbia prodotto le imbarazzanti imperfezioni della natura. La contingenza e l'imperfezione del processo evolutivo pongono una sfida a chi intenda assumersi l'impegno di rendere compatibili queste evidenze scientifiche con una propria prospettiva di fede, ben sapendo che non è attraverso le prove scientifiche di processi naturali che potrà riempire di contenuti la propria fede. Non si arriva alla fede attraverso il supporto della scienza. Questo sforzo intellettuale produce interessanti concezioni, come quella della contrazione di Dio per rendere possibile l'esistenza autonoma dell'universo e il suo svolgersi contingente , una sorta di rinuncia di Dio che si lascia sorprendere dalla contingenza del mondo 8 George Coyne, ex direttore dela Specola Vaticana, si spinge a dire che nemmeno Dio avrebbe saputo prevedere la nostra comparsa nell'universo " non poteva sapere ciò che non era conoscibile e la comparsa degli esseri umani non è stata soltanto il risultato di processi necessari , ma di una mescolanza di caso e necessità e di un universo molto fertile" Dio sperava e pregava che noi comparissimo " Dio sperava che un giorno noi saremmo esistiti, potrebbe aver pregato perché diventassimo una realtà vivente. Ma non avrebbe potuto rendere necessario questo esito perché ha fatto un universo che non ci ha determinati solo attraverso processi di necessità . Se credo in Dio, se mi sforzo di capire il Dio che amo e che credo abbia creato l'universo, allora la natura stessa dell'universo ha qualcosa da dirmi riguardo a quel Dio. (La variabile Dio- pag.41) Questo Dio partecipativo e non più onnisciente, che spera nella contingenza favorevole è molto diverso da quello tradizionale. La strada indicata da Padre Coyne o da F. Ayala è una rimessa in discussione dei propri convincimenti fino a definire quello di Darwin un dono alla scienza e alla religione, perché ci distoglie da qualsiasi idolatria verso la natura Insomma un mondo che Dio ha voluto autonomo. C’è un pensiero di P. de Benedetti che dovremmo scriverci da qualche parte bene in vista. In entrambi i casi dio si fida di abramo e giobbe, ciò significa che ha fede in loro e quindi non sa ma spera. Se sapesse in quanto onnisciente le due storie sarebbero sceneggiate ingiustificate e moralmente false. Dio rischia con abramo con giobbe e con noi. Un dio che rischia è un dio che non sa ancora e che conta sulla nostra tenuta. La tentazione è il bisogno di dio di verificare che noi siamo con lui Se l'autonomia deve essere qualcosa di serio e non una sceneggiata allora vuol dire che Dio si è affidato a noi per la costruzione del futuro, si è fidato di noi, nemmeno lui sa come andrà a finire, niente è già scritto. Così Dio non sapeva se Abramo gli avrebbe obbedito o no, si è fidato di Abramo come si è fidato di Giobbe e di Gesù e come ora si fida di noi. Noi rischiamo a credere in Dio ma anche Dio rischia a fidarsi di noi. Lo si intuisce fin dall'inizio: dopo la creazione dell'uomo e della donna Dio non dice che era cosa buona, come per ogni atto creativo precedente, lo dice solo alla fine del sesto giorno ma riferito a tutto l'insieme. L'essere umano è lasciato libero, quindi il giudizio su di lui rimane sospeso, non è un dato già compiuto, ma una possibilità da realizzare, quindi se anche la creazione dell'essere umano sia stata cosa buona sarà il futuro a deciderlo, ed il futuro non è scritto da nessuna parte, anche Dio si deve fidare. I primi capitoli della genesi ci dicono che ha avuto modo di pentirsi del rischio corso, infatti il mondo buono resiste solo per i primi due capitoli della Bibbia, poi comincia il dilagare del male e questo fa soffrire Dio. Ma anche l’essere umano soffre e si chiede da dove venga il male. Il nucleo del problema non è nuovo. La Bibbia dedica ad esso il libro di Giobbe ed il Qohelet. La fede che si richiama alla bibbia sa di non avere una visione del mondo che risolva in maniera definitiva il problema del male. La fede non guarda il mondo dall’alto in basso o dall’esterno, per cui non permette una visione di insieme. Siamo dentro il sistema. Nei discorsi di Giobbe l’essere umano manifesta con estrema chiarezza la coscienza dei propri limiti creaturali, il carico di infelicità che lo minaccia…. e al di sopra di tutto un sospetto: il sospetto che all’origine di tutti i suoi mali non stiano tali limiti, né una sua colpa, ma l’onnipotenza cieca di un Dio potenzialmente sadico. Azzardato? Si provi a ricordare alcune delle affermazioni più incisive del testo. Giobbe inizia con la maledizione del giorno della sua nascita. La maledizione ha accenti biografico-esistenziali, ripresi da Geremia (Ger 20, 14-18), ma subito assume risonanze cosmiche. Vengono evocate: luci che non risplendono, eclissi di sole, notti prive di computo lunare, incantesimi degni dell’Oceano e di Leviatan, stelle che si negano e aurore che non sorgono (3, 1-9). 9 Non c’è da meravigliarsi se, invitato dagli amici ad affidarsi all’insindacabile giustizia onnipotente di Dio, egli replica che proprio questo lo atterrisce: il potere incontrollabile di un creatore despota che può fare tutto e il contrario di tutto. Può "dispiegare i cieli da solo e cavalcare il mare", ma può anche "impedire al sole di sorgere e tenere sotto sigillo le stelle". Può condannare l’innocente e ridersela delle tragedie dell’indifeso (9, 1-24). Si interroghino pure le creature del cielo e della terra e in coro confesseranno che quando Lui "blocca le acque tutto inaridisce e quando le libera tutto inonda"; può "rendere potenti i popoli o esiliarli" e può mandare " a tentoni gli uomini nel buio senza luce" (12, 1-25). E’ Dio, creatore e signore della storia, non l’uomo, la vera minaccia. Dio è in grado di fare ciò che vuole, l’uomo è invece debole, fragile, mortale, più effimero persino di un arbusto (14, 122). Ciò che sorprende e lascia interdetti i commentatori ( Zarri, D. Solle) è l’assoluta dissonanza tra le richieste di Giobbe e la risposta di Dio. Il primo sollecita un confronto per chiarire la sua posizione e avere spiegazioni sulle cause dei suoi mali e il secondo gli squaderna con sovrabbondanza d’immagini la magnificenza della propria opera di creatore. Se pensiamo invece che la questione in gioco è la relazione essere umano-Dio, prima ancora di una spiegazione del male, allora questi discorsi divini sulla creazione acquistano un suono diverso. Sono una maniera nuova in cui Dio presenta se stesso e la sua attenzione all’essere umano. Il problema per Giobbe, come per tutti, è che questa attenzione non si manifesta in una creazione fatta su misura per l’essere umano, il mondo non è inospitale ma non è neanche antropocentricamente ordinato. Effettivamente man mano che conosciamo qualcosa della storia del mondo e di come la specie Homo sapiens si sia evoluta assieme a milioni di altre specie a partire da un unico progenitore, è difficile credere che la creazione sia antropocentricamente ordinata. In una Creazione antropocentricamente ordinata non ci dovrebbe essere spazio per il Plasmodium falciparum. Se l’organizzazione materiale del mondo deve rimandare al mistero di Dio, allora il mistero si fa più profondo, se possibile, considerando, come fa Albert Schweitzer, che: tutti siamo soggetti a quel destino misterioso e orribile che ci mette nelle condizioni di poter restare in vita soltanto a scapito di altre vite e di renderci continuamente colpevoli danneggiando e anche distruggendo la vita….Perché il Dio che si manifesta nella natura è la negazione di tutto ciò che percepiamo come morale? Perché egli è contemporaneamente una forza che costruisce la vita e le dà senso e una forza che senza alcun senso distrugge la vita? l'autore del libro di Giobbe segue e propone un modello di creazione alternativo sia al racconto Jahvista che a quello Sacerdotale, in quanto rifiuta tanto l’idea del dominio (o la versione soft di custodia) dell’essere umano sul mondo animale, quanto quella di una natura uscita perfettamente ordinata e buona dalle mani di Dio. Basta guardarsi intorno, tanto buona non è. Costitutiva è, infatti, in essa la presenza del mare e del deserto, coi suoi animali irriducibili ad ogni disciplina, ineliminabile la presenza di Behemot e Leviatan. Siamo di fronte all’indecifrabile mistero della creazione e del creatore, di fronte al quale Dio e l’essere umano possono solo collaborare nella lotta contro la misteriosa presenza del male. In questo senso il piegarsi a Dio di Giobbe non è un perdere la faccia, perché può dire: "Ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti hanno veduto" (42, 5). E Dio può, senza pericolo, ammettere che proprio Giobbe, il ribelle, ha parlato bene di lui e con fondamento (42, 8). Questo è il tentativo di risposta di Giobbe. Dico tentativo perché nella Bibbia il tema della sofferenza innocente non arriverà mai….mai….ad una risposta soddisfacente. Neanche dopo per la verità. Al momento la risposta data a Giobbe sul nostro rapporto con la creazione mi sembra la migliore in circolazione: Tematizzare la crisi dell’antropocentrismo a partire dalla croce di Gesù implica anche la rinuncia alla sintesi onnicomprensiva, la realtà appare frammentata in numerose domande, che si oppongono ad una sintesi risolutiva. La vita di fede e la teologia raccordano alcuni frammenti che ritengono di cogliere nel loro cammino che non dispone di navigatore satellitare, ma che avanza con molta modestia passo passo (Fulvio Ferrarri, Protestantesimo 65, 2010) Il punto critico è: questo non è un Dio Onnipotente? 10 HANS JONAS: La onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale noncomprensibilità di Dio, Dio come mistero assoluto. Di fronte all’esistenza del male nel mondo, male morale o fisico, dovremmo sacrificare la comprensibilità di Dio per salvare gli altri attributi. Solo di un Dio incomprensibile si può affermare che è assolutamente buono e onnipotente e che nonostante ciò, sopporta il mondo così com’è. Due attributi escludono il terzo. Il problema è: quali sono i due concetti veramente irrinunciabili per il nostro concetto di Dio? Perché a uno dobbiamo rinunciare. Certo la bontà, intesa come volontà del bene, è inseparabile dal nostro concetto di Dio. La comprensibilità, pur se limitata, dall’essere di Dio e dai nostri limiti, non può in nessun modo essere negata. Il Dio nascosto è un concetto estraneo all’ebraismo, la Torah si fonda sul presupposto che noi conosciamo qualcosa di lui, del suo volere e delle sua intenzioni, dal momento che Egli stesso ce lo ha rivelato. Ce lo ha rivelato nell’unico modo possibile, ricorrendo al linguaggio degli uomini e del tempo, quindi con tutti i limiti del caso, non si è chiuso perciò in un impenetrabile mistero (ci ha dovuto parlare per mille anni e poi presentarsi di persona, e nella vicenda di Gesù dire la parola definitiva su di sé, nell’unico modo per vincere le nostre resistenze e incomprensioni). Ma se Dio può essere compreso almeno in un certo grado, allora la sua bontà, (a cui non possiamo rinunciare) non deve escludere l’esistenza del male, ed il male c’è in quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e nonostante ciò nel mondo c’è il male. Nella tradizione mistica ebraica esiste la dottrina dello Tzimtzum, che significa contrazione, autolimitazione, per fare spazio al mondo. Senza questo ritrarsi in se stesso nessuna realtà diversa sarebbe stata possibile. Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare: ora tocca all’uomo dare. E l’uomo può dare, se nei sentieri della sua vita si cura che non accada, o non accada troppo sovente, e non per colpa sua, che Dio abbia a pentirsi di aver concesso il divenire del mondo. (Il concetto di Dio dopo Auschwitz pag.38). Questo è solo un balbettio di fronte al mistero di Dio, ed è tale anche ogni risposta alla domanda di Giobbe. La mia risposta è comunque opposta a quella di Giobbe. Mentre essa si richiama alla potenza di dio creatore, la mia si richiama alla sua rinuncia alla potenza, e l’una e l’altra intendono lodare Dio. Non possiamo sapere se questa risposta è vera; poiché di nessuna possiamo saperlo. 11