Stefan Arvidsson - Aryan Idols - Riassunto

Stefan Arvidsson, Aryan Idols. Indo-European
Mythology as Ideology and Science – Riassunto
Indi c e
INTRODUCTION (p. 3)
Dumézil and the Indo-European Ideology (p. 3)
Myth, Ideology and Science (p. 3)
Scope, Terminology, Organization (p. 3)
CHAPTER 1. FROM NOAH’S SONS TO THE ARYAN RACE: THE FOUNDATION IS LAID (p. 4)
Biblical Roots (p. 4)
Japhetites, Hamites and Indo-Europeans (p. 4)
Language and Origins (p. 5)
The Art of Classifying Religions (p. 6)
The Heavenly Father (p. 6)
Language, Race and Religions (p. 7)
Calcutta and Rome (p. 7)
From Language Family to Race (p. 7)
Aryan Brethren (p. 8)
New Methods, New Homelands (p. 8)
Conclusion (p. 9)
CHAPTER 2. A PLACE IN THE SUN: THE PARADIGM OF NATURE MYTHOLOGY (p. 10)
“Dawn Loves the Sun” (p. 10)
The Religion of Light (p. 10)
Friedrich Max Müller (p. 10)
Understanding Myths (p. 11)
Language and Mythology (p. 12)
Fire and Drink (p. 13)
Divine Nature (p. 13)
Anti-Semitism and Glorification of the Aryan (p. 13)
Aryans and Semites (p. 13)
The Human Being Comes of Age (p. 14)
Anti-Semitism (p. 15)
Jesus, Aryans and Avatars (p. 16)
Modernistic Ideals of Religion (p. 17)
Conclusion (p. 17)
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CHAPTER 3. PRIMITIVE ARYANS: RESEARCH NEAR THE BEGINNING OF THE NINETEENTH CENTURY
Europe’s Barbarians (p. 19)
The Fall of Nature Mythology (p. 19)
Aryan Religion as Primitive Religion (p. 20)
Germanic Preferences (p. 22)
Life and Festivals (p. 24)
An Aryan Loves Life (p. 24)
The Perfection of the Aryan Mysteries (p. 25)
Neotraditional Ideals of Religion (p. 26)
Jewish Scholars and Aryan Religion (p. 27)
Conclusion (p. 28)
CHAPTER 4. ORDER AND BARBARISM: ARYAN RELIGION IN THE THIRD REICH (P. 29)
The Piety of the Noble Farmer (p. 29)
Prelude (p. 29)
Race and Religion (p. 30)
Order (p. 31)
Patriarchy? (p. 32)
Continuity from the Nineteenth Century (p. 34)
Aryan Male Fellowships (p. 35)
Matriarchy? (p. 35)
Male Fellowships? (p. 37)
The Homeland of the Demonic (p. 41)
Myth, Order, and Irrationalism (p. 43)
Instead of a Conclusion (p. 45)
CHAPTER 5. HORSEMEN FROM THE EAST: ALTERNATIVES TO NAZI RESEARCH (p. 47)
Catholic Reaction (p. 47)
Power and Male Fellowships (p. 47)
Kings, Popes, and Leaders (p. 48)
From Primal Culture to Primal Indo-German (p. 49)
A Catholic Bastion (p. 50)
Herders and High Cultures (p. 50)
The Divine Nordic Race (p. 51)
Integration (p. 52)
Archaeology and Critique (p. 52)
From a Socialist Horizon (p. 52)
The Rise of the European Patriarchy (p. 52)
The Rise of European Agriculture (p. 53)
Indo-European or “Indo-European” (p. 53)
Conclusion (p. 54)
CONCLUSION (p. 55)
Summary (p. 55)
Classification and Historiography (p. 56)
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(p. 19)
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Introduction
D UM É ZI L A ND T H E I N D O -E UROP EA N I D E OL OGY
Georges Dumézil è stato uno dei pochi studiosi di indoeuropeistica a rendere questa
materia conosciuta anche ai non esperti. Gli studi sugli antichi Indoeuropei hanno
sempre affascinato coloro che pensavano di discendere da quei popoli. La tripartizione funzionale di Dumézil è stata spesso intravista come una legittimazione
dell’ideologia fascista degli anni trenta. Queste accuse sono soprattutto state formulate da Arnaldo Momigliano e Carlo Ginzburg (p. 2). Spesso la ricerca di una identità indoeuropea si contrappone allo svelamento di una alterità ritenuta disdicevole:
all’opposto dell’Indoeuropeo ci sarebbe infatti l’Ebreo (p. 4)
Aryan Idols cerca di comprendere come gli studi di indoeuropeistica abbiano fornito materiale a ideologie anche tra loro opposte (p. 4).
M Y T H , I D E OL OGY A ND S CI E N CE
Diversi studiosi (Léon Poliakov, Colin Renfrew, Bruce Lincoln, Jean-Pierre Vernant)
considerano gli studi di indoeuropeistica come privi di qualunque scientificità (p.
5). Gli studi di indoeuropeistica possono produrre “miti” per due ragioni: 1) il buio
che c’è intorno agli Indoeuropei, anche dal punto di vista dell’aspetto razziale, ha
scatenato molto la fantasia (pp. 7-8); 2) soltanto ricorrendo alla fantasia sarebbe
possibile rintracciare qualcosa sulla origine dei popoli indoeuropei (p. 8).
S COP E , T E R MI N OL OGY , O RGAN I ZAT I ON
Aryan Idols prende l’avvio dalle ipotesi di William Jones circa le affinità tra lingue
europee da una parte, sanscrito e iranico dall’altra (p. 10): «My ambition has been
to present and analyze the most influential scholars of the nineteenth and twentieth
centuries.» (p. 10).
Tre opere sono considerate fondamentali per questa ricerca (p. 10):
Maurice Olender, Les langues du paradis: Aryens et Sémites: un couple providentiel
(1989);
Bruce Lincoln, Theorizing Myth: Narrative, Ideology, and Scholarship (2000) e
vari articoli;
Léon Poliakov, Le Myth Aryen (1971).
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CHAPTER
1
From Noah’s Sons to the
Aryan Race: The
Foundation is Laid
B I B L I CA L R OOTS
Japh etites, Hamites and Indo-Europeans
La scoperta di un comune passato indoeuropeo alla fine del diciottesimo secolo e
per tutto il diciannovesimo secolo è stato sempre confrontato con le radici bibliche
della società occidentale; tali radici hanno influenzato anche il corso degli studi di
linguistica e di antropologia razziale (p. 13).
Ogni conoscenza comincia con una classificazione: la scelta dei criteri per questa
classificazione è fortemente compromessa con l’ideologia (p. 13).
Il primo tentativo di classificare i gruppi umani prende spunto dal racconto biblico. Dopo il diluvio sarebbero stati infatti i tre figli di Noè (Sem, Cam e Jafet) a
ripopolare la terra, originando le diverse razze. Tale divisione ne sottende un’altra,
che distingue i cristiani dai pagani. Questa situazione fu tipica del Medioevo ma
non cambiò nemmeno con l’Illuminismo (p. 14).
Discussione su A New System; or, Analysis of Ancient Mythology (1774) di Jacob
Bryant (1715-1804) (p. 14 e sgg.). È importante notare che qui si divide tra Sem,
quale origine del monoteismo, Cam, quale origine delle diverse religioni pagane, e
Jafet (p. 15). Bryant attribuiva ai Camiti, fra i quali includeva anche i Greci e i
Romani uno spirito “faustiano”, che li spingeva alla ricerca e alla esplorazione geografica (pp. 16-7).
Con August Ludwig von Schlözer (1735-1809) viene utilizzato il termine “lingue
semite” a proposito dell’ebraico, aramaico e arabo. Il termine verrà abbandonato
solo alla fine del ventesimo secolo, sostituito da lingue afroasiatiche (p. 17). Egli
tuttavia non riuscì a provare l’origine comune delle lingue relative a Jafet (p. 17). Ci
riuscì sir William Jones (1746-94) a Calcutta, il 2 febbraio 1786, quando nel corso
di una conferenza, dimostrò le somigliane tra il greco, il latino e il sanscrito (p. 17).
Il gruppo indoeuropeo comincia in lui a delinearsi, comprendendo Indiani, Persiani, Greci, Romani, Scandinavi, ecc. (p. 19). Il gruppo camita tende a estendersi
in tutta la terra, comprendendo Cinesi, Giapponesi, popoli americani, ecc. Gli rimane da definire il gruppo jafetico, che egli collega ai tatari (p. 19).
L’inclusione di Indiani, Greci e Romani nel gruppo semitico, fatta da Bryant e
da Jones, comincia a non essere più accettata dalla successiva generazione di studiosi
e le loro lingue vennero incluse nel gruppo jafetico (p. 19). Nel corso del diciannovesimo secolo i nomi di origine biblica vennero sempre più abbandonati (pp. 1920). Nel 1813 Thomas Young coniò il termine “indoeuropeo”, che poi divenne
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d’uso comune, soprattutto nella linguistica (p. 20).
Molti altri termini vennero usati come sinonimi di “indoeuropeo”, senza grande
successo; unica eccezione: il termine “ariano”, che divenne invece molto popolare
(p. 20). La parola viene usata per la prima volta da Abraham-Hjacinthe Anquetil
Duperron (1731-1806), il quale collegò il greco αριοι usato da Erodoto e Diodoro
per designare i Medi ad una auto-designazione in avestico (airyanƏm vaejah-) e al
toponimo Iran, ottenendo così “ariano” (fr. aryens, ted. Arier). Egli stava lavorando
a una traduzione dell’Avesta in francese. Quando l’opera uscì in Francia (1771) e in
traduzione tedesca dal francese (1776-83), il termine cominciò a circolare, probabilmente per la prima volta, in quei paesi. In inglese venne probabilmente usato per
la prima volta da Jones nella sua traduzione delle Leggi di Manu: «In this text, the
word arya means roughly “noble” and is a marker of high caste.» (p. 20).
A partire dal 1819 Friedrich Schlegel lo collega al tedesco Ehre (pp. 20-1). Per
tutto il diciannovesimo secolo e la prima metà del ventesimo il termine è ampiamente usato negli studi di indoeuropeistica (p. 21). Una ragione della sua popolarità
può dipendere dal fatto che esso era avvertito come un termine creato dal popolo
per definire se stesso e non come una creazione di studiosi. Già alla fine del diciannovesimo secolo venne usato con connotazione antisemita (p. 21). Il nazismo lo
considerò un cardine della sua ideologia. Nel dopoguerra venne completamente sostituito da “indoeuropeo” (con l’eccezione degli studiosi indiani), anche a causa
dell’importanza che gli studi di Georges Dumézil andarono prendendo (p. 22).
Langu age and Origins
A partire dalla Bibbia, le lingue del mondo possono essere divise in tre grandi famiglie. Tuttavia nella Bibbia si parla di una lingua originale, risalente ad Adamo. Sorge
così la domanda: qual era la lingua parlata da Adamo ed Eva nel paradiso, e che Dio
stesso insegnò loro? (pp. 22-3).
La ricerca di una lingua originaria si riflesse anche negli studi di indoeuropeistica.
In epoca romantica si considerarono spesso gli antichi Indiani come i progenitori di
tutti i popoli indoeuropei (pp. 23-4). Johann Gottfried Herder (1744-1803) fu il
primo a importare l’interesse per l’antica India (“Indomania”) in Germania (p. 24).
La rappresentazione fornita da Herder degli antichi Indiani è filtrata attraverso le
teorie di Rousseau e di Montesquieu, per cui essi appaiono come un popolo vivente
in piena armonia con la natura, colto e felice, dai costumi semplici e non artefatti
(p. 24). Il Romanticismo creerà la propria immagine degli antichi indiani servendosi
della Bhagavadgita e di alcune Upanishad; tale corrente avrà la prima formulazione
completa nella filosofia di Schopenhauer (p. 25). I romantici erano affascinati soprattutto dal panteismo indiano, che collegavano alla filosofia di Spinoza e di Jakob
Böhme (p. 25).
Il Romanticismo tedesco contribuì a collegare la linguistica alla indoeuropeistica
attraverso il nazionalismo. Herder vedeva nel linguaggio il tratto distintivo di un
popolo: uomini parlanti la stessa lingua dovevano far parte della stessa nazione, cosa
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che non era invece avvenuto con la Germania, mancante di unità nazionale e suddivisa in vari piccoli regni: alcuni protestanti, altri cattolici (p. 26). Gli studi di linguistica nel periodo romantico partivano dal presupposto che la presenza di similarità tra diverse lingue implicava una origine comune; tale origine era poi identificata
con uno stato di purezza assoluta, perduta nello svolgimento storico successivo (p.
27). Nel 1861-62 August Schleicher, influenzato dalle teorie di Darwin, stende il
primo schema relativo alle lingue indoeuropee: lo schema fornisce una rappresentazione delle diverse lingue a partire da una origine comune, mostra quindi le varie
lingue indoeuropee come risultato di un allontanamento e di un isolamento a partire da un punto di partenza comune (pp. 27-8).
The Art of Classifying Reli gions
L’opera di Schlegel Über die Sprache und Weisheit der Indier (1808) adotta un principio di poligenesi anziché di monogenesi per quanto riguarda la formazione delle
diverse lingue, poiché il fatto di poter stabilire delle relazioni tra alcune lingue non
implica la presenza di una lingua originaria, comune a tutte quante queste lingue
(p. 29).
Per Friedrich Max Müller l’unico mezzo per classificare le religioni è la lingua (p.
31). Egli distingue tre grandi gruppi linguistici: indoeuropeo, semitico, turanico. Il
terzo gruppo comprende sami, turco, cinese, e altre lingue euroasiatiche (p. 31).
The Heavenly Father
Negli studi linguistici del diciannovesimo secolo il tratto fondamentale era il significato originale della parola, perché solo trovando il significato originale di una parola si era raggiunta la verità di quella parola (p. 32). Analogamente, gli studi di
storia delle religioni cercavano di stabilire la forma originaria di un termine religioso,
in modo da afferrarne l’autentico significato. Si ritenne di aver raggiunto un punto
fermo in questi studi quando, ad opera di William Jones, si arrivò a stabilire il nome
del dio supremo proto-indoeuropeo (p. 32). Comparando il nome di un dio supremo indiano, geco, romano, William Jones giunse a una forma di tipo “dio padre”, compatibile a tutte e tre le lingue considerate (p. 33).
La scoperta di un dio supremo camitico (poiché Jones includeva gli indoeuropei
nel gruppo camitico) accanto a quello al dio della religione giudaico-cristiana suonava alquanto strana per l’epoca (p. 33). Un difensore di questa teoria fu Voltaire,
poiché dimostrava che la credenza in un dio supremo non dipendeva dalla chiesa
cattolica (p. 33-5). Per William Jones la scoperta non metteva in pericolo il resoconto biblico, anzi contribuiva a confermarlo (pp. 35-6).
Ferma restando l’origine, per quale motivo i Camiti divennero politeisti? Jones
dà diverse risposte. Tende ad ammirarli in quanto creatori di imperi (pp. 36-7).
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L A N GUA GE , R A CE , AN D R E L I GI ON
Calcutta and Rome
Molte strade hanno condotto dalla Bibbia al discorso sugli Indoeuropei, una riguardante i figli di Noè, l’altra riguardante la patria degli Indoeuropei (p. 37). Secondo
Kant la culla dell’umanità era il Tibet, mentre nel Romanticismo il paradiso terrestre
di cui parla la Bibbia venne fissato nell’Himalaya (p. 37). L’India e il Tibet (asse
indoeuropeo) hanno funzione alternative rispetto a Gerusalemme e Israele (asse semita) come asse del mondo (p. 38).
Schlegel rappresenta l’evoluzione di un sincretismo che collega cattolicesimo e
antiche religioni indiane nella prospettiva della unicità del messaggio divino (pp.
38-40). Dopo la pubblicazione di Über die Sprache und Weisheit der Indier Schlegel
diventa il promotore di una visione dell’Europa anti-illuminista e anti-napoleonica,
retta dalla Chiesa cattolica in un modo che avrebbe nelle Leggi di Manu il suo autentico modello, cioè una società rigidamente strutturata in caste. Questa visione è
condivisa da Novalis in Germania e in Francia da Chateaubriand, Joseph de Maistre,
Lamennais (pp. 40-1). Questa concezione romantica si ritrova ancora in Nietzsche,
Strindberg (Ciandala), Julius Evola e alimenta parte dell’ideologia nazista, come si
vedrà nel capitolo 5 (p. 41).
From Language Fami ly to Race
La possibilità di una razza indoeuropea è sempre stata ancorata a osservazioni linguistiche (p. 41). Durante il diciannovesimo secolo lo sviluppo dell’antropologia
razziale mise da parte la teoria biblica della monogenesi, cioè della nascita di tutte
le razze da una sola e cercò di stabilire con esattezza le differenze tra le varie razze,
assumendo come dato di fatto la nascita di più gruppi umani in diversi luoghi della
terra (pp. 41-2). Lo sviluppo dell’antropologia razziale con propri mezzi di classificazione dei vari tipi razziali, colore della pelle, forma del cranio, forma del naso,
ecc., la resero anche più indipendente dalle teorie linguistiche (p. 43). L’antropologia razziale diventa una scienza dove l’interno può essere desunto dai segni esterni
(p. 43).
Per un certo numero di studiosi, fra cui Gobineau, la razza ariana diventa un tipo
con tratti fisici ben precisi e comuni a tutti i gruppi (p. 43). In un primo tempo si
ha attrito tra linguisti e antropologi sulla questione indiana, ma quando la storia
dell’India viene affrontata su una base più attenta si scoprì che in India non tutte le
lingue ivi parlate derivano dal sanscrito. Le lingue del sud, definite dravidiche, avevano tutt’altra origine. Si fece così avanti l’ipotesi di uno strato autoctono, sottomesso, in una certa epoca, da invasori ariani (p. 45). Questa ipotesi legittimava la
presenza di due gruppi linguistici diversi e di altrettanti gruppi razziali sullo stesso
territorio. Il sistema delle caste venne quindi interpretato come l’unico modo per
mantenere pura la razza dei dominatori (p. 45). Accanto alle Leggi di Manu vennero
anche usati gli inni del Rigveda, che, secondo alcune interpretazioni, rappresenterebbero le lotte tra i conquistatori ariani e gli autoctoni non ariani, rappresentati
soprattutto come una popolazione “sena naso” e di tipo negroide. Tale impostazione
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fu comune al diciannovesimo e all’inizio del ventesimo secolo, anche se la pertinenza
degli antichi termini riguardanti i nemici degli ariani, soprattutto quelli relativi alla
forma del naso, venne contestata da certi studiosi (pp. 45-6).
Aryan Brethren
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo il conflitto tra filologi e antropologi
della razza si fece più acceso: la posizione dei filologi si indeboliva, mentre quella
degli avversari si rafforzava (p. 46). La questione era: che cosa costituisce un popolo,
un insieme comprendente lingua, cultura, religione o dei dati razziali? Max Müller
fu l’esponente di spicco di quanti ritenevano la cultura e non i dati fisici quale elemento fondamentale per l’unità di un popolo (p. 47). Il più accanito oppositore
delle teorie di Max Müller fu, durante gli anni cinquanta, l’antropologo Robert G.
Latham, che negava l’origine comune di Europei, che egli invece collegava al gruppo
giapetico, e Indiani, che egli assegnava al gruppo mongolo (p. 47). Per Max Müller
la razza ariana comprendeva due metà: quella europea, estroversa e conquistatrice,
quella indiana, introversa e meditativa; e a proposito degli Indiani egli parlò di
«Aryan brethren» (p. 48). L’affermazione del darwinismo, il quale insisteva sulla
lotta tra le varie razze per la sopravvivenza, trasformerà gli Indiani, verso la fine del
diciannovesimo secolo, sempre più da parenti ariani a Negri (p. 49). Il linguista
tedesco Franz Bopp dimostrò in Über das Conjugationssystem der Sanskrytsprache
(1816) che il sanscrito non è la lingua originale, bensì un ramo del gruppo indoeuropeo (p. 49).
La teoria di John Stevenson che vedeva nell’India il terreno di scontro fra due
razze, una indoeuropea e l’altra autoctona, ebbe grande successo e fu applicata anche
per altri paesi, ad esempio per la Grecia classica (pp. 49-50). Wilhelm von Humboldt fondò la sua teoria sulla civiltà e l’educazione (1809) su questi principi (p.
50). «For Humboldt, the Hellenes appeared to be nobility incarnated.» (p. 50). Grazie alle virtù dell’antica Grecia i Tedeschi avrebbero potuto superare il feudalesimo
evitando gli eccessi della Rivoluzione francese (p. 50).
Secondo Martin Bernal, Black Athena: The Afro-Asiatic Roots of Classical Civilization (1987), gli studi sulla Grecia classica durante il diciannovesimo secolo furono
influenzati da quelli che egli chiamava il “modello ariano”, cioè dal tentativo di
staccare gli Elleni dalle influenze asiatiche e africane (pp. 50-1). In questo studio
sono soprattutto le teorie del filologo tedesco Karl Otfried Müller (1797-1840) a
essere attaccate (p. 51). Ernst Curtius avanzerà l’ipotesi di uno strato indoeuropeo
sovrapposto a un precedente strato primitivo indoeuropeo per spiegare la questione
greca; ma la questione non venne risolta in nessun modo. La Grecia classica rimane
infatti un mistero all’interno del mondo indoeuropeo (pp. 51-2).
New Methods, New Homelands
La teoria che vedeva nell’India la terra originaria degli Indoeuropei perse sostenitori
lungo il diciannovesimo secolo, mentre altre terre e popoli si imponevano, prima di
tutti gli Iraniani. Tale ipotesi era avvalorata soprattutto da Anquetil-Duperron, Johnes e Herder (p. 52). Viktor Rydberg stabilì la terra originaria dei Proto-Indoeuropei
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(Fornarien) nei monti dell’Iran (p. 53).
Fra il 1820 e il 1880 si impose la teoria che vedeva la terra d’origine nei territori
iranici dell’Asia centrale, soprattutto a seguito delle ricerche di J.G. Rohde (p. 53).
Anche la zona dello Hindu Kush venne indicata come terra d’origine e la teoria ebbe
sostenitori fino al ventesimo secolo (p. 53, nota 109).
Un’altra terra ritenuta quella d’origine degli Indoeuropei fu il Caucaso, poiché
lì, secondo la Bibbia, si fermò l’arca di Noè. A favore del Caucaso furono importanti
le ricerche di Johann Friedrich Blumenbach. A partire da lui, il termine “caucasico”
divenne sinonimo di “razza bianca” (p. 53-4).
Nel 1820 Julius von Klaproth (1783-1835) cercò di delimitare la terra d’origine
in base alle parole comuni indicanti la flora e la fauna (p. 54). Il metodo fu seguito
e ampliato dallo svizzero Adolphe Pictet (1199-1875), che tra il 1859 e il 1863
pubblicò Les origines indo-européennes (pp. 54-5).
Secondo alcuni ricercatori, Jacob Grimm e Adalbert Kuhn fra gli altri, i protoindoeuropei erano allevatori di bestiame, mentre per altri essi erano essenzialmente
agricoltori: Max Müller sostiene che il significato originario di *ar(y)o- fosse quello
di “proprietario di terre”, “contadino” (pp. 55-6).
Otto Schrader utilizzò la teoria delle due razze (fondo preindoeuropeo su cui si
appoggia un gruppo indoeuropeo, usata per spiegare parte della composizione
dell’India) per spiegare la preistoria dell’Europa (pp. 56-7).
Vedere gli Indoeuropei come agricoltori aveva un profondo significato ideologico
nel diciannovesimo secolo: gli indoeuropei erano infatti i pacifici agricoltori, amici
della terra e creatori di una grande civiltà, sempre in lotta con vicini barbari e nomadi. Questa teoria suonava anche come una giustificazione del colonialismo (pp.
58-60).
Conc lusion
La storia biblica dei figli di Noè (Sem, Cam e Japhet) viene usata in un primo tempo
per spiegare la differenza delle razze umane e applicata al modello indoeuropeo (p.
60).
Con la formazione scientifica della linguistica comparata l’adattamento biblico
perse sempre più importanza (pp. 60-1).
La ricostruzione della linguistica venne supportata, e anche sfidata, dall’antropologia razziale, che creò la propria immagine fisica degli Indoeuropei (p. 61).
Si ha così un contrasto tra chi privilegiava l’approccio culturale nello studio degli
Indoeuropei e chi invece privilegiava quello fisico. Il capitolo 2 sarà dedicato all’approccio culturale e umanistico, tipico del diciannovesimo secolo, mentre i capitoli
3 e 4 affronteranno quello fisico (p. 62).
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CHAPTER
2
A Place in the Sun: The
Paradigm of Nature
Mythology
“D AWN L OV ES TH E S UN ”
All’apice del colonialismo non c’era interesse nel mettere in evidenza le somiglianze
tra i popoli; il dato rilevante era che solo un gruppo umano aveva il diritto di sfruttare e dominare gli altri (p. 63).
Che tipo di religione e di mitologia era adatta a questi eroi culturali? Una delle
risposte fa capo alle teorie che interpretano gli Indoeuropei come agricoltori. Questa
teoria ricevette la forma finale nelle opere di Max Müller (p. 63).
The Religi on of Ligh t
Secondo Schlegel (Über die Sprache und Weisheit der Indier) gli antichi Indiani vedevano il mondo come un campo dove le potenze del bene e della luce combattevano contro quelle del male e del buio (p. 64). Nell’antica religione della luce il
divino rivela se stesso attraverso la luce del sole e il fuoco (p. 64). Tuttavia Schlegel,
nella sua interpretazione, sembra confondere le credenze zoroastriane (la lotta tra
Ohrmuzd e Ahriman) con quelle vediche (p. 64). Nel libro citato Schlegel interpreta
lo zoroastrismo come una anticipazione del Vecchio e del Nuovo Testamento (pp.
64-5). La teoria venne ripresa da Karl Otfried Müller a proposito della figura di
Apollo e da Franz Joseph Mone per gli dei germanici (p. 65).
Il dualismo iranico fu molto importante nella costruzione di una religione protoindoeuropea, soprattutto nella seconda metà del diciannovesimo secolo, quando
molti ricercatori situarono la terra d’origine nell’Iran (p. 65). Adolphe Pictet insiste
sul fatto che solo gli Iraniani hanno preservato l’originale monoteismo, mentre gli
altri popoli Indoeuropei sono caduti nel politeismo (p. 66). Zarathustra è qui la
figura di colui che salva il monoteismo (p. 66).
Secondo questi quattro autori (Schlegel, K.O. Müller, Mone, Pictet) la religione
indoeuropea era semipanteistica, monoteista e dualistica, il tutto collegato da una
mitologia a sfondo naturale. Lo studioso che maggiormente contribuì a creare questo paradigma fu Max Müller (p. 66).
Friedrich Max Müller
Il filologo e storico delle religioni anglo-tedesco Friedrich Max Müller può ben personificare gli studi del diciannovesimo secolo sugli Indoeuropei (p. 66). Le sue conferenze sul tema attiravano fino a 1500 ascoltatori (p. 66). Egli fu introdotto
all’amore per l’antica India dal padre, “who was a famous romantic poet» (p. 67).
La sua fama è soprattutto legata ai cinquanta volumi della serie The Sacred Books of
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the East (1879-94). A venticinque anni si trasferì a Oxford, dove rimase fino alla
morte. Fece parte di un circolo di studiosi che condivideva l’ammirazione per la
filosofia e la scienza tedesca e per l’autore inglese Thomas Carlyle (p. 68). Egli era
un figlio della teologia liberale che emerse durante il diciannovesimo secolo e che
prendeva le distanze sia dalla ortodossia più antica che dal razionalismo ateo (p. 69).
Per Max Müller il concetto di Dio era essenzialmente naturale per tutti gli uomini: eppure perché le religioni si presentano con una varietà così grande? (pp. 6970). Questa domanda è ciò che lo spinse nei suoi studi sulla mitologia degli Indoeuropei, perché tutte le religioni del mondo formavano ai suoi occhi un unico quadro
(p. 70). Così, nella forma ricostruita *Dyḗus ph2tḗr del dio indoeuropeo egli vedeva,
non solo il nome Jupiter latino, ma anche il “Padre nostro” della preghiera cristiana
(p. 70). La storia delle religioni aveva per lui questo scopo: trovare le tracce dell’esperienza originale dell’infinito tra i popoli più antichi e primitivi (p. 70). Ciononostante egli, come studioso, non conferiva alla religione cristiana un posto privilegiato
tra le religioni del mondo, tanto che alcuni teologi cristiani consideravano blasfemi
e intollerabili i suoi studi (pp. 70-1). Secondo le sue convinzioni, lo studio comparato delle religioni doveva servire a ridare alla religione quel posto che l’Illuminismo
le aveva tolto (p. 71).
Understanding Myths
L’obiettivo di Max Müller era quello di mostrare il principio razionale presente in
tutte le religioni, e questo fine era stimolato anche dall’interesse che egli aveva per
la filosofia di Hegel (pp. 71-2). «“Where the Greeks saw barbarians, we see brethren
[...]”» (p. 72) scrive Max Müller in “Essay on Comparative Mythology”. Tutti i particolari apparentemente assurdi o blasfemi dei miti nascondono, secondo il suo pensiero, una perfetta razionalità, Max Müller era infatti saldamente poggiato sulla
mentalità cristiana borghese (p. 73).
Sorprende notare la sua scarsa simpatia nei confronti dei miti. Nel diciannovesimo secolo si aveva una vasta collezione di miti. Il Romanticismo, per reazione
verso l’Illuminismo, ne aveva ampliato la conoscenza, includendo popoli molto lontani, come amerindiani e cinesi, ma anche le mitologie e le leggende eroiche di antichi popoli europei. Nel 1778 erano usciti i Volkslieder di Herder, che univa i miti
alla cultura contadina e alla narrazione popolare (p. 73).
Il pensiero sui miti durante il diciannovesimo secolo può essere riassunta in quattro categorie principali (pp. 73-5):
1. Prospettiva cristiana, tradizionale e razionalistica. I miti sono menzogne. Tutto
ciò che precede la Bibbia è falsità pagana. Gli Illuministi del diciottesimo secolo
usarono questa chiave di lettura dei miti contro il cristianesimo: anche la Bibbia è
un insieme di miti, cioè di favole.
2. Prospettiva naturalistica. I miti sono spiegazioni di fatti naturali. Questa teoria
comparve in forma sistematica in The Natural History of Religion (1757) di David
Hume e fu sviluppata da Charles Dupuis in Origine de tous les cultes ou la Religion
universelle (1795).
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3. Prospettiva nazionalistica. I miti sono l’espressione dell’anima del popolo. Questa prospettiva è soprattutto basata sul pensiero di Herder. I miti, le leggende e i
racconti popolari hanno, secondo Herder, una impronta nazionale o razziale che fu
formata quando l’anima del popolo incontrò quel dato ambiente naturale. F.A. Wolf
rese questa prospettiva più credibile quando in Prolegomena ad Homerum (1795)
sostenne la tesi che l’Iliade e l’Odissea erano il risultato di una compilazione di canti
diversi.
4. Prospettiva simbolica. I miti sono saggezza velata. Le teorie di Bryant e Jones
rappresentano una prima comparsa di questa ipotesi. Una rivelazione divina verrebbe espressa in termini facilmente comprensibili. L’approccio consiste nell’intendere correttamente il tessuto allegori co rappresentato dal mito stesso, andando oltre il racconto e ripristinando il significato autentico.
Langu age and Mytholog y
Max Müller non sviluppò nessuna delle quattro prospettive indicate, perché ne sviluppò una propria. Allo scopo di spiegare le origini dei miti egli fondò la disciplina
della mitologia comparata, che usava gli strumenti linguistici e filologici per collegare
diversi miti (p. 76).
Secondo Max Müller un fenomeno naturale risvegliò il sentimento religioso dei
popoli antichi più di tutti gli altri: la luce, il corso del sole nel cielo, la lotta tra
giorno e notte (p. 76).
Egli definisce anche quattro periodi nello sviluppo del linguaggio, della religione
e della mitologia: periodo rhematic, dialettico, mitopoietico e nazionale (p. 77).
Questi quattro periodi evolvono l’uno nell’altro, dal più semplice (fase agglutinante
del linguaggio, con poche parole e ordine primitivo) al più complesso. Tipica di
questa fase antica è la mitologia ariana. La forma più complessa di mitologia solare
la troviamo nei Rigveda (pp. 77-8).
La fase mitopoietica indica invece uno sviluppo parzialmente involutivo del semplice dato iniziato (presente nella fase rhematic), Si assiste ora alla creazione di racconti mitici e alla proliferazione di parole attorno a un oggetto, mentre prima una
parola indica una sola cosa (pp. 79-81). Il nucleo di questo argomento è che i miti
sorgono da connessioni casuali tra parole diverse e dal vuoto che si apre tra parole e
cose (p. 81). La mitologia sorge quando la poesia ha più importanza della filosofia
(p. 81). Tipico del periodo mitopoietico è anche la credenza nei fantasmi, il culto
degli antenati, l’aumento del numero degli dei, ecc. (p. 82). I popoli indoeuropei
furono molto coinvolti nella fase mitopoietica, a differenza dei popoli semiti, che
mantennero una concezione del sacro più pura (p. 82).
Nella fase nazionale si ha invece la formazione delle varie mitologie nazionali
indoeuropee (greca, germanica, ecc.) (p. 82). Durante la lunga separazione dei due
rami indoeuropei, indiani ed europei, la religione indiana degenerò a causa di elementi turanici, mentre quella dei popoli europei fu rafforzata dal cristianesimo (p.
82). Secondo Max Müller la colonizzazione inglese dell’India poteva servire a riportare l’India nella giusta direzione indoeuropea, abbandonando la svolta turanica (pp.
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82-3). Si rivela qui la fede protestante di Max Müller, che lo porta a vedere lo svolgimento della religione attraverso fasi precise: da un inizio edenico, un declino (durante il Medioevo) e una Riforma in grado di ripristinare l’unità indoeuropea sotto
il cristianesimo (p. 84).
Fire and Drink
Max Müller non fu il solo a studiare la mitologia indoeuropea alla luce della linguistica. Un altro grande esempio a lui contemporaneo fu Adalbert Kuhn (1812-81)
con Die Herabkunft des Feuer und des Göttertrunks (1859), secondo alcuni il vero
fondatore degli studi sulla mitologia indoeuropea (p. 84 e nota 65). Kuhn osserva
qui che due fatti sono fondamentali: l’abilità nel produrre il fuoco e l’abilità nel
preparare una speciale bevanda (pp. 84-5).
Il fatto che il lampo portava il fuoco dal cielo alla terra portò gli Indoeuropei a
pensare che il fuoco dipendesse da un furto (p. 85). Parallelo a questa tipologia di
miti (come il fuoco celeste fu portato sulla terra) ce n’è un’altra, che spiega come la
bevanda di immortalità fu ugualmente portata sulla terra: fuoco e bevanda dell’immortalità avevano la stessa origine celeste (p. 85-6). Il libro di Kuhn stabilisce uno
schema: gli dei sono dalla parte degli ariani, mentre i demoni sono i nemici di entrambi (pp. 86-7).
Divine Natu re
Perché le interpretazioni in chiave naturalistica della mitologia suscitarono tanto
entusiasmo nel diciannovesimo secolo? È da considerare che questo entusiasmo non
proveniva solo dagli esperti (p. 87). Il ruolo determinante è però giocato dalla valutazione positiva conferita all’adorazione della natura tipica degli antichi popoli
ariani (p. 88).
A N T I -S E M I TI SM A ND G L OR I FI CAT I ON OF TH E A RY AN
Aryans and Semites
Si è già accennato al fatto che l’antropologia razziale cercava di parlare degli Indoeuropei e degli Ariani indipendentemente dalla linguistica. È soprattutto in Francia,
quando le idee di Herder, Schlegel e di altri romantici vengono importate intorno
al 1820 e al 1830 da intellettuali francesi reazionari, che lo scontro diventa aspro (p.
91). Questo avvenne soprattutto per protesta contro le riforme volute dal “re borghese” Luigi Filippo X (1830-48), tese a modernizzare e liberalizzare la società francese (p. 91). L’ala reazionaria che si opponeva a Luigi Filippo voleva un ritorno
all’Ancien Régime. In questo periodo il discorso sugli Indoeuropei acquista pure
una connotazione antisemita: l’Ariano viene rappresentato come il moderno libero
individuo, mentre il Semita diventa il fautore della tradizione giudaico-cristiana tesa
a soffocare l’individuo (p. 91). In questa sede la tradizione giudaico cristiana appare
qualcosa di straniero all’Europa, mentre la vera tradizione europea è quella che fa
capo agli Indoeuropei; questo avvenne soprattutto per opera di Edgar Quinet
(1803-75), Jules Michelet (1798-1874), Ernest Renan (1823-92) (pp. 91-2).
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Si ripresenta quanto già accaduto un secolo prima con Voltaire: l’uso di un materiale scientifico relativo agli antichi Indoeuropei per contrastare il potere della
Chiesa cattolica (p. 92). In Génie des religions (1842) Quinet cercò di “mobilitare
Ariani e Greci contro la mentalità semita e oppressiva della chiesa” (p. 92). Negli
scritti di Quinet e di Michelet gli Indoeuropei e la loro religione apparivano superiori a tutte le altre (p. 42). Dopo il 1830 Michelet negò radicalmente l’importanza
dell’eredità guidaico-cristiana per l’Europa (p. 92).
In Histoire générale et système comparé des langues sémitiques (1858) Ernest Renan
ricostruisce la mentalità semita (comune a Ebrei e Arabi) insistendo sulle qualità
negative: i Semiti non hanno senso per l’epica, la mitologia, la rappresentazione
pittorica e la scultura. Hanno un forte senso per la lirica soggettiva, per la soggettività e il possesso. La loro creazione sociale più tipica è la vita del Beduino, rappresentata dalla tenda e dalle mandrie. Il monoteismo che li contraddistingue li porta
a diventare fanatici, a differenza del politeismo degli Indoeuropei. Il Dio semita è
rappresentato come infantile, collerico, capriccioso, tirannico (pp. 94-6). In questo
studio sul pensiero semita Renan segue Indische Alterthumskunde (1847-58) di Christian Lassen (pp. 93-4).
The Human Being Comes of Age
Il libro di Michelet Bible de l’humanité (1864) si basa sulla stessa dicotomia tra
Ariani e Semiti già presente nelle opere di Lassen e di Renan (p. 96). Michelet rappresenta gli Ebrei in modo estremamente negativo (pp. 96-7). Ma egli tende a includere insieme agli Ebrei anche altri popoli del vicino Oriente, come i siriani fenici.
Tipico degli Ebrei sarebbe il capovolgimento del rapporto notte giorno: durante la
schiavitù gli Ebrei presero ad apprezzare di più la notte (periodo in cui erano liberi)
sul giorno (periodo in cui erano schiavi); gli Ariani sono invece il popolo del giorno
(pp. 97-8). Quest’ultima considerazione compare anche in Carl Gustav Carus, il
quale definiva gli europei «people of day»: «Carus even claimed that there was a
connection between the blond hair of the Europeans and the sun, as well as between
their blue eyes and the sky.» (p. 98).
Per Michelet la Rivoluzione francese segna il trionfo di quegli ideali di fratellanza
e umanità che facevano parte della tradizione indoeuropea (p. 98). Il cristianesimo
è visto come un culto di natura orientale simile a quelli di Iside, Dioniso, Mitra, che
penetrarono a Roma con le guerre fenice. Tutte queste divinità impedivano il giusto
sviluppo della personalità umana, facendo ricorso all’intervento divino (pp. 98-9).
Lo scontro fra Oriente ed Europa era lo scontro fra fiducia in un Messia che miracolosamente risolveva ogni cosa e fiducia nelle proprie capacità umane (p. 99). La
risposta romana alla orientalizzazione dei costumi è ravvisabile nella filosofia storica
(p. 99).
Un altro testo che utilizza la stessa dicotomia tra Semiti e Indoeuropei è Das
Mutterrecht (1861) di Johann Jakob Bachofen (p. 99). Il matriarcato visto da Bachofen sarebbe di origine asiatica o africana; ha il fulcro nel culto della luna e della
terra, enfatizza il culto dei morti anziché rituali gioiosi e ha uno spirito materialistico
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(p. 100). In Grecia la permanenza di questi culti indicavano lo strato pre-indoeuropeo, spesso chiamato “pelasgico” (p. 100). “Pelasgico” è anche usato per indicare la
popolazione preindoeuropea dell’Italia (p. 100). Con il trionfo del patriarcato la
religione pelasgica sopravvisse solo nella forma sotterranea di culti misterici; l’irruzione del patriarcato è visto come un passaggio dalla natura alla cultura, dalla materia allo spirito, dal confinamento allo sviluppo, dalle leggi inconsce all’individualismo (pp. 100-1).
Anti-Semitism
Bachofen, Michelet e Renan contribuirono a creare una visione negativa
dell’Oriente, riassumibile nella formula di “altro” dell’Europa, secondo l’analisi
svolta in Orientalism (1978) di Edward W. Said (p. 102).
I rapporti tra discorso orientalista, indoeuropeo e antisemita sono complessi. Se
da un lato India e Persia sono paesi orientali e quindi soggetti, per l’Europeo, ad una
connotazione negativa, gli studi di indoeuropeistica li ha visti come i più antichi
parenti degli Indoeuropei (p. 102). Per l’indoeuropeistica l’uomo Orientale e
l’Ebreo sono ben distinti fra loro (p. 102). Tuttavia i suoi risultati potevano essere
utilizzati tanto da chi voleva conciliare l’Europa con l’eredità giudaico-cristiana
quanto da chi la criticava (p. 103).
Un primo aspetto dell’antisemitismo nell’indoeuropeistica è presente nella contrapposizione tra popolo stanziale (indoeuropei) e popolo nomade (Semiti), presente già in Max Müller (pp. 103-4). L’Ebreo viene così visto come l’Ebreo Errante
della leggenda, nemico del cristianesimo; come un popolo senza radici e avido di
ricchezze (p. 104). Gli Ebrei vennero spesso associati a industrializzazione, capitalismo, modernizzazione, pacifismo, socialismo, secondo la Chiesa cattolica gli ebrei
promuovevano il materialismo e l’ateismo, la mancanza di legami alla terra diventò
la causa della mancanza di sentimenti e del senso per la bellezza (p. 104). Il tema
degli Indoeuropei era accettato e utilizzato tanto dai conservatori quanto dai progressisti. Generalmente per i conservatori il progresso era qualcosa di ebraico, mentre per i progressisti il conservatorismo era di natura ebraica. Per i conservatori
l’Ariano era l’agricoltore fedele alla tradizione, mentre l’Ebreo colui che stravolgeva
il mondo conosciuto introducendovi la modernità; per i progressisti l’Ariano era il
portatore della civiltà di fronte all’indolenza dell’Ebreo (p. 105).
Bisogna tuttavia distinguere tra antiebraismo e antisemitismo. Nel primo caso
un Ebreo che si converte al cristianesimo cessa di essere Ebreo (p. 105). Secondo
Stig Wikander (“Den ariska romantiken”, manoscritto cit. a p. 91, nota 74) si può
parlare di due fasi distinte di “romanticismo ariano”: nella prima il termine “razza”
è sinonimo di popolo e l’accento è posto sui valori culturali; questa fase è tipica
dell’inizio del diciannovesimo secolo. Intorno alla metà del diciannovesimo secolo
si ha invece un “naturalismo ariano”, basato sulla unità razziale, mentre le questioni
linguistiche, religiose e culturali passano in secondo piano (pp. 105-6). In base a
questa distinzione si potrebbe parlare di antiebraismo e di romanticismo ariano a
proposito della prima fase, quella culturale e di antisemitismo e di naturalismo
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ariano per la seconda (p. 106).
Una forza motrice del romanticismo ariano era l’anticlericalismo (come dimostrano le opere di Michelet e Quinet): l’attacco all’eredita giudaica è fatta da un
punto di vista anticlericale, siamo quindi in presenza di antiebraismo, non di antisemitismo. In questa linea si può inserire anche Max Müller (p. 106). Il naturalismo
ariano si presenta invece come un movimento razzista, antisemita e favorevole al
colonialismo. Come opera rappresentativa di questa fase si può indicare Griechische
Geschichte di Ernst Curtius, che insiste sulle differenze tra Greci e Fenici, anche da
un punto di vista razziale. Per Wikander l’esponente primo di questa fase era invece
Renan, influenzato dal Saggio di Gobineau (p. 106).
Per concludere si può affermare che molti attacchi al giudaismo e al cristianesimo
da parte di studi che chiamavano in causa gli Indoeuropei furono fatti in nome
dell’universalismo e del liberalismo (p. 108).
Jesus, Ar yans and Avatars
Le differenze stabilite da Lassen e Renan tra Ariani e Semiti furono accettate da una
intera generazione di studiosi, come dimostra il libro di Leon Poliakov Le Mythe
Aryen (1971) e quello di Maurice Olender Les langues du paradis (1992). La persistenza di queste teorie anche dopo la fine del nazismo dimostra che si tratta di qualcosa che va oltre la storia delle religioni (pp. 109-10). Lo studio dell’antica epica
indoeuropea (Mahabharata, Ramayana, Iliade, Odissea, Shah-Name, Niebelungenlied, Beowulf, saghe islandesi) aumentò e i principali eroi di quei testi vennero interpretati come eroi solari in lotta contro le potenze dell’oscurità (p. 110).
Michelet, Quinet e Renan diedero molta importanza alla presenza degli avatar
nell’epica indiana. Gli avatar, dove il dio si trasformava in essere umano, si contrapponevano ai profeti semiti, dove il dio si manifesta attraverso il profeta. La funzione
dei profeti e degli avatar è simile nella funzione, poiché entrambi rendono chiare
grandi trasformazioni manifestando la volontà divina. La rivelazione profetica è
estranea ai popoli indoeuropei e tipica per i Semiti. Il profeta è un ricettacolo passivo
della volontà divina, l’avatar mostra il dio che combatte a fianco degli uomini per
una giusta causa. Questo dimostra che per gli indoeuropei la natura comprendeva il
divino, mentre per i Semiti il divino e la natura sono due piani rigidamente separati
(p. 111). Analogamente, gli dei indoeuropei avevano un qualcosa di concreto e di
vicino agli uomini; il dio semita era invece inaccessibile, lontano e astratto, senza
niente di umano. Quest’ultima caratterizzazione è soprattutto accentuata in Lectures
on the Religion of the Semites (1889) dell’orientalista William Robertson Smith (pp.
111-3).
A questo sorge un nuovo dibattito: non poteva essere interpretato come avatar
anche la figura di Gesù, dio incarnato? In ambiente indoeuropeistico ci si cominciò
a interrogare anche sul cristianesimo: doveva essere mantenuto in quanto tradizione
europea o rigettato in quanto tradizione semita? (p. 113). Fondamentale in questo
dibattito è il libro di Renan Vie de Jésus (1863), difeso dai teologi liberali, attaccato
dai teologi conservatori come una profanazione di Gesù (p. 113). In questo libro
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Renan separa fortemente Gesù dalla tradizione ebraica, insiste sul fatto che Gesù fu
allevato in Galilea, terra fertile, molto bella, piena di animali amici dell’uomo, completamente diversa dal deserto del popolo semita. Così Gesù cercò di realizzare il
Regno dei Cieli in terra, mentre dio perse i caratteri violenti e inaccessibili del dio
semita per diventare un padre amoroso. Il cristianesimo di Gesù è soprattutto una
lotta contro la tradizione ebraica (pp. 113-5). A questo punto l’Europa poté creare
il cristianesimo, recidendo i legami con la razza semita. La continuazione del giudaismo semitico non è il cristianesimo ma l’Islam dei Beduini. Il cristianesimo diventa così la religione ariana per eccellenza (p. 115). Liberare il cristianesimo dalle
origini semite fu soprattutto merito di Roma, il diritto romano abbatté completamente la teocrazia semita (p. 116).
Nel diciannovesimo ci furono altre teorie che cercarono di conciliare il cristianesimo con l’antichità indoeuropea, soprattutto con la tradizione iranica. In alcuni
casi queste teorie avevano radici dichiaratamente antisemite, come la Religionsgeschichtliche Schule ispirata da Paul de Lagarde. Analogo fine antisemita avevano i
tentativi di fine secolo di fare di Gesù un ariano puro, teoria che fu apprezzata dal
nazismo per non inimicarsi la chiesa cattolica (pp. 116-7). «The picture of Jesus as
a blue-eyed and blond Aryan has lived on for a long time, especially in popular
culture.» (p. 116).
Modernistic Ideals of Religion
Ora si cerca di inserire l’interesse per gli Ariani del diciannovesimo secolo in un
contesto più vasto (p. 118).
Per quanto riguarda gli studiosi francesi, c’è da considerare l’importanza avuta
dalla Rivoluzione del 1789. Nonostante la sua forte impronta laica, essa aveva cercato di trovare un surrogato della religione. La Francia del diciannovesimo secolo
era dominata dalla fede nel progresso scientifico. Per Renan gli Indoeuropei forniscono un modello di moderno uomo europeo, non forniscono però quella religione
che è indispensabile per unire saldamente una società. Ecco allora che Renan considera la figura di Gesù come una depurazione dei tratti semiti inconciliabili con la
mentalità della moderna Europa e salva ciò che nel cristianesimo semita vi era invece
di più conforme (pp. 118-21).
Una tematica la si ritrova anche in Max Müller, mentre i teologi protestanti liberali mostrano lo stesso interesse per una religione tollerante, individualistica, perfettamente adattata ai tempi moderni. Il mondo indoeuropeo appariva. tanto agli studiosi francesi quanto a quelli inglesi, come una preistoria di ciò che si potrebbe
definire “religione modernista”, da loro sognata (p. 121).
Conc lusion
Quello che collegava gli studi di indoeuropeistica, al di fuori dei dati specialistici,
era che gli Indoeuropei e i Protoindoeuropei percepivano Dio nella natura oppure
che certi fenomeni naturali erano simboli di Dio. Il divino poteva anche manifestarsi
attraverso eroi e avatar. Lungo tutta la loro storia gli Indoeuropei hanno combattuto
contro popoli nomadi e barbari, allo scopo di portare la luce dell’umanità e della
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ragione. Un tipo particolare di nemici erano i Semiti, soprattutto gli Ebrei, per certi
aspetti simili agli Indoeuropei, per altri completamente estranei. Negli studi di Max
Müller e di Renan la tradizione indoeuropea prende l’aspetto della borghesia liberale
in lotta contro il retaggio del feudalesimo (pp. 121-2).
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19
CHAPTER
3
Primitive Aryans:
Research near the
Beginning of the
Nineteenth Century
E UROP E ’ S B AR B AR IA NS
Quanto esposto nel capitolo precedente ha mostrato la presenza di un paradigma
riguardante l’indoeuropeistica, che aveva le sue radici nel Romanticismo dell’inizio
del diciannovesimo secolo. Durante l’ultimo quarto del diciannovesimo secolo il
paradigma della mitologia della natura aveva cominciato a indebolirsi, mentre un
altro movimento aveva iniziato il suo corso. Il suo declino fu determinato anche da
eventi politici che scossero la fede in quell’idealismo e in quell’umanismo borghese
che lo avevano determinato. In questo periodo il maggior evento politico fu la Comune di Parigi del 1871, che risvegliò l’attenzione delle classi alte e medie sul movimento socialista. L’unificazione della Germania, avvenuta nello stesso anno, fu un
altro fatto molto importante. Il nazionalismo cominciò a cambiare segno, abbandonando quel tono popolare che aveva avuto nel primo Romanticismo, per diventare
qualcosa di contrario alla massa dei lavoratori. Si formarono anche nuove scienze, il
folklore, l’antropologia, l’etnologia, l’archeologia, tutte scienze che consideravano i
piccoli fatti della vita quotidiana. Gli Indoeuropei non vennero più osservati negli
aspetti più alti e astratti della vita (creazioni epiche, religione, ecc.) quanto negli
aspetti concreti e fisici. Quando questi aspetti vengono messi in primo piano si può
parlare, con Stig Wikander, di naturalismo ariano. Esso si sviluppò tra il 1870 e il
1920, parallelamente al declino del romanticismo ariano. Dove il romanticismo
ariano continuò, specialmente nel wagnerismo, l’umanismo e il liberalismo della
scuola della mitologia della natura furono rimpiazzati da vitalismo, nazionalismo e
misticismo (pp. 124-5).
The Fall of Nature Myth olog y
Nei due secoli di esistenza dell’indoeuropeistica c’è sempre stata una lotta tra filologi
e linguisti da una parte e antropologi e archeologi dall’altra; quindi tra lo studio
delle funzioni più alte dell’uomo (come il linguaggio) e lo studio della sua quotidianità. L’antropologia razziale appartiene al secondo gruppo (p. 125).
La seconda metà del diciannovesimo secolo è dominato dall’evoluzionismo e
dalla fede nel progresso. Un risultato lo si vede nelle teorie di Darwin. Il primo ad
applicare l’evoluzionismo nella storia delle religioni fu l’antropologo Edward Burnett Tylor (1832-1917) in Primitive Culture: Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Language (1871). Tutte le religioni si evolvono da uno
stadio animistico ad un politeismo, per giungere poi al monoteismo. Il massimo
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della perfezione è rappresentato dal cristianesimo (p. 126). Le teorie di Tylor furono
sviluppate soprattutto da Robert Ranulph Marett (1860-1943) e Andrew Lang
(1844-1912), critici entrambi nei confronti della mitologia naturale di Max Müller
e anche di certe teorie di Tylor. La fase primitiva non venne più vista come prerazionale, ma come già segnata dalla ragione; il concetto stesso di mitologia indoeuropea poteva essere messo in discussione a causa della somiglianza tra miti di popoli
fra loro diversi; le religioni dei popoli non civilizzati rappresentavano così uno stadio
dello sviluppo che gli Europei avevano superato, e le informazioni sui popoli non
civilizzati contemporanei potevano servire a comprendere l’antichità indoeuropea
(pp. 126-7). Il dato fondamentale si sposta quindi nella certezza umanistica della
lotta tra barbarie e civiltà (pp. 128-9).
Max Müller rigettava soprattutto le teorie secondo cui l’antichità fosse segnata,
in ambito religioso, dalla presenza dei “feticci” e insisteva che il modo migliore per
comprendere la religione dell’antichità era studiare i testi vedici con la loro adorazione della luce e il lato positivo della natura (p. 129). Malgrado la difesa di Max
Müller delle sue teorie, queste vennero sempre più abbandonate e nel ventesimo
secolo non ebbero più alcun seguito (pp. 130-1).
Aryan Reli gion as Primitive Religi on
Per quanto l’antropologia evoluzionistica abbia segnato la fine della mitologia della
natura, non costituiva però un pericolo per l’indoeuropeistica. Infatti alcuni studiosi
cercarono di formare una nuova teoria della religione indoeuropea utilizzando i risultati dell’evoluzionismo. In questo progetto furono fortemente aiutati dai folkloristi, abituati a considerare un materiale “basso” (p. 131).
Dai primi anni del diciannovesimo secolo ci fu una scuola di folkloristi che collegava natura e mitologia. Essa era fondamentalmente legata al nazionalismo e i
fondatori ne furono i fratelli Wilhelm (1786-1859) e Jacob Grimm (1785-1863).
Dapprima essi raccolsero un alto numero di racconti popolari presso i contadini per
ricreare una forte cultura tedesca in grado di liberarla da predominio delle culture
straniere. Successivamente si cercò di dimostrare che esisteva una importante mitologia tedesca in grado di competere con la tradizione classica e con quella giudaicocristiana (p. 131). Tale antica mitologia non doveva essere confusa con quella nordica, come invece aveva fatto Herder (pp. 131-2).
Ma come essere sicuri che i racconti popolari fossero frammenti di una tradizione
tedesca anziché una reinvenzione di racconti ebraici o latini? È per risolvere questo
dilemma che Jacob Grimm si rivolse alla linguistica e alla mitologia comparata indogermanica (p. 132). La sua opera più importante è Deutsche Mythologie (1835),
qui “deutsche” non significa “tedesco” bensì “germanico”. Pochi libri furono tanto
stimolanti nei confronti degli studi di indogermanistica quanto questo (p. 132).
Grimm concludeva che tutte le fiabe tedesche avevano il loro prototipo in India (pp.
132-4). Secondo Grimm l’antica religione (indo-)germanica era monoteistica con
elementi panteistici. la mitologia si raccoglieva intorno alla lotta tra il bene e il male.
Al cattolicesimo va imputato il fatto di aver distrutto lo strato germanico più antico
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di queste credenze. La Riforma protestante, essendo tedesca, rappresentò un terreno
più propizio per un ritorno alla religione pre-cattolica (p. 134). Grimm puntualizza
il fatto che il cristianesimo era una religione venuta dall’estero, che ridusse il popolo
tedesco in una condizione di sudditanza nei confronti di Roma, e lo privò del diritto
di godere delle gioie della sua terra (p. 134).
Le idee dei Grimm ebbero una grande risonanza. In Inghilterra molti folkloristi
cercarono di interpretare i racconti popolari inglesi come sopravvivenze del culto
ariano della natura. Fra questi: Charlotte Sophia Burne, George Webbe Dasent,
John Francis Campbell of Islay, Douglas Hyde, Abram Smythe Palmer (p. 135).
Le teorie sul folklore dei fratelli Grimm furono parte del romanticismo ariano,
in cui l’etimologia linguista era riconosciuta come la base per la ricostruzione di una
mitologia indoeuropea (p. 135).
Negli anni 1870 e 1880 una nuova scuola di pensiero si impose: la Junggrammatik, o scuola di grammatica di Lipsia, che esigeva prove linguistiche più solide per la
comparazione. La filologia applicata agli studi di storia della religione venne così a
perdere di credibilità, mentre ottenne autonomia il folklore indoeuropeo, che fu
libero di muovere verso l’antropologia (p. 135). Wilhelm Mannhardt (1831-1880)
fu colui che poté collegare una disciplina del folklore basata sulla etimologia e la
linguistica ad una basata sull’evoluzionismo. Cominciò la sua carriera come seguace
delle teorie dei Grimm, di Müller e di Kuhn, per spostarsi nei primi anni del 1860
verso una più “bassa” mitologia, che riguardava non tanto dèi quanto spiriti e demoni, rintracciabili nelle superstizioni, feste popolari e riti primitivi (p. 136). Al
centro di questa più bassa mitologia si trovava l’adorazione dei “demoni della fertilità”, che venivano placati con offerte allo scopo di produrre un buon raccolto. Queste teorie furono esposte nelle opere Die Korndämonen (1867) e Wald- und Feldkulte
(1875-7). Secondo le teorie di Mannhardt il culto della fertilità era all’origine della
religione indogermanica e il culto relativo a un dio unico si presentò successivamente (p. 136).
Verso la fine del diciannovesimo secolo le teorie di Mannhardt ottennero un notevole seguito e la religione indoeuropea venne classificata come animistica (pp.
136-7). Al posto della battaglia tra la luce e il buio, venne qui in primo piano
l’aspetto irrazionale e selvaggio del mondo, che consisteva in riti della fertilità, dei
della tempesta, culti degli antenati, credenze nelle streghe, trucchi magici (p. 137).
Per gli studiosi era molto importante determinare a che punto dell’evoluzione i
Protoindoeuropei potessero essere sistemati, ovvero quanto fossero primitivi e
quanto sviluppati (p. 137).
In Indogermanische Mythen Elard Hugo Meyer stabilì tre livelli di credenze: stadio
animistico con credenza nelle anime dei morti (Seelenglaube); credenza negli spiriti
della natura (Geistesglaube); credenza negli dei (Götterglaube). L’epoca che precede
la separazione degli Indoeuropei è fissata al secondo stadio; il terzo stadio è quello
che vede le varie comunità di popoli Indoeuropei già fra loro separate (p. 137).
L’accento tende qui a spostarsi sulle differenze tra i vari popoli indoeuropei piuttosto
che sul tentativo di ricostruzione di una precedente forma comune (p. 138).
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Due importanti studiosi di questo periodo furono Otto Schrader (1855-191) e
James Frazer (1854-1941). Otto Schrader, nell’articolo “Aryan Religion” della Encyclopedia of Religion and Ethics (1908-26), la massima enciclopedia di storia della
religione, presenta la religione indoeuropea come ben lontana da uno stadio evoluto,
come per esempio comparirà negli studi di Dumézil (p. 139).
The Golden Bough (1890) di James Frazer costituisce il più influente testo di storia delle religioni pubblicato nelle prime decadi del ventesimo secolo. Secondo le
ricerche di Jonathan Z. Smith (conversazioni e un manoscritto citati da Arvidsson)
Frazer aveva inizialmente tentato di ricostruire la preistoria della religione ariana,
l’accumulo di materiale proveniente da popoli non indoeuropei lo condusse poi a
rendere valevole lo studio per tutte le religioni. Frazer tendeva anche a separare il
materiale indoeuropeo da quello semita, per cui fu spesso accusato di antisemitismo
(pp. 140-1).
Germanic Preferences
Dalla scoperta di Jones del 1786 della famiglia linguistica indoeuropea le preferenze
per la ricostruzione di una religione proto-indoeuropea andarono all’India e all’Iran.
Questo principio di base cambio allorché il folklore divenne più influente. Siccome
questi studi si svilupparono soprattutto nella Germania del 1871, l’interesse si spostò sempre più dagli indiani e iranici verso i germani (p. 141). Dalla nobile ed esotica
Asia si passò così alla rustica e natia Europa (p. 142).
Questa teoria comparve per la prima volta nell’Introduzione a una edizione della
Germania di Tacito scritta da Robert G. Latham, che abbiamo già visto critico nei
confronti di Max Müller circa la comunanza tra Indiani ed Europei (cfr. paragrafo
“Aryan Brethren”). L’avversità di Latham nei confronti dell’“Indomania” lo spinse
a riposizionare radicalmente la patria degli Indoeuropei, scegliendo una località vicina all’odierna Lituania. A deporre a favore di questa scelta c’era, fra altre cose, la
somiglianza di alcuni tratti arcaici del lituano col sanscrito, fatto che F. de Saussure
confermò successivamente. A favore di questa ipotesi c’era anche una constatazione
pratica: era più facile immaginare che un popolo indo-iranico abbia emigrato
dall’Europa, piuttosto che molti popoli abbiano trovato la loro patria fuori dall’Asia
(p. 142).
L’ipotesi di Latham fu accettata e sviluppata da Lazarus Geiger in Zur Entwicklungsgeschichte der Menschheit (1871) e da J.G. Cuno in Forschung im Gebiete der
alten Völkerkunde (1871). Agli inizi del ventesimo secolo l’ipotesi della patria asiatica
degli Indoeuropei non aveva quasi più seguito tra gli studiosi. Questa ipotesi si accordava sia col nazionalismo tedesco dell’epoca della guerra franco-prussiana e della
unificazione della Germania, sia col materiale folkloristico germanico. Ebbe anche
importanza lo sviluppo dell’antropologia razziale, e in accordo con essa l’Europa
diventava la patria della razza bianca, degli Ariani (p. 142).
In Die Arier (1878) Theodor Pösche determinò le caratteristiche razziali degli
ariani che prevede carnagione chiara, capelli biondi e occhi azzurri e che la terra
d’origine doveva essere dove queste caratteristiche son ancora dominanti. La zona
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d’origine fu così situata in un’area che comprendeva l’Ucraina e la Scandinavia,
mentre “razza nordica” divenne sinonimo di “ariano” (pp. 142-3).
La prima autentica dimostrazione del carattere autoctono dei germani fu opera
dell’archeologo Gustaf Kossina (1858-1931) in “Die indogermanische Frage archäologisch beantowrtet” (1902). Kossina era un esponente della scuola storico-culturale, la quale sosteneva che una “cultura”, cioè un insieme inequivocabile di artefatti archeologici, era il segno di una unità etnica. Le differenze culturali che invece
si riscontravano in siti archeologici diversi indicavano la presenza di tribù o razze
diverse (p. 143). Grazie a questa teoria Kossina pensava di risolvere la questione della
terra natale degli Ariani. Questo consisteva nell’ipotesi che quando era impossibile
distinguere una precisa cultura germanica da ciò che lo circondava, allora quello era
un segno della presenza della cultura protoindoeuropea. Alla fine del secolo il dibattito all’interno dell’indoeuropeistica tende a stabilire una Herrenkultur. Kossina indicò la terra natale degli Indoeuropei nello Schleswig-Holstein. (p. 143). Da lì gli
indogermanici emigrarono per civilizzare il mondo. Ma in Grecia, Roma, India la
razza finì per contaminarsi. Solo nel Nord Europa essa rimase pura (p. 144).
L’archeologia europea si collega al nazionalismo e offre un aiuto contro la teoria
della lotta di classe, dimostrando l’unione compatta di un gruppo etnico in una
nazione (p. 144).
La tradizione germanica fu molto interessata nella ricostruzione della cultura protoindoeuropea. Come veniva visto il barbaro germanico? La fonte prima di informazioni era Germania (98 d.C.) di Tacito. In quest’opera i Germani sono presentati
come l’esatto opposto dei Romani: selvaggi ma incontaminati. Dal diciottesimo al
ventesimo secolo gli storici ripeterono spesso questa osservazione di Tacito: i Germani erano barbari, mentre i Romani (e i Francesi, loro discendenti) erano prigionieri in un eccesso di cultura. Questo dato portò una difficoltà all’interno di come
si volevano presentare gli antichi Germani: se si metteva in risalto l’aspetto barbaro
e non contaminato, rischiavano di passare per feroci; se si metteva in risalto la presenza di una antica cultura germanica, sembravano imitatori di altre culture. I nazionalisti tedeschi si inserirono in questa ottica insistendo sulla unicità dei Germani
e soprattutto sul fatto che la cultura non poteva essere trasportata: così, mentre era
possibile per chiunque assimilare la cultura francese e diventare francese, per i Tedeschi la questione era diventare ancora più germanici (pp. 144-5).
Secondo lo storico Mike Rowlands l’immagine del barbaro cambiò radicalmente
nel periodo 1870-95. La vecchia visione umanistica risalente al Rinascimento, che
faceva dei barbari i distruttori della cultura classica e i protagonisti di un lungo periodo di invasioni, appunto le “invasioni barbariche”, mutò in Europa alla volta di
una figura degna di rispetto. Questo avvenne non solo in Germania ma anche in
Francia. Prima della Rivoluzione la classe alta francese aveva onorato i Franchi, di
origine germanica, ma la Rivoluzione rivalutò i Galli di origine celtica. Vercingetorige che combatte contro i Romani ebbe in Francia la stessa funzione nazionalistica
svolta da Arminio in Germania. Anche qui i Galli furono rappresentati come barbari
amanti della libertà, disinibiti, buoni, all’opposto dei Romani (pp. 145-6).
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La lotta tra Germania e Francia alla fine del diciannovesimo secolo riguardò anche la ricerca dei propri antenati e gli Indoeuropei divennero armi nel conflitto tra
nazioni europee (p. 146). C.A. Piétrement dichiarò che gli Indoeuropei avevano
capelli neri e occhi marroni ed erano brachicefali, più celti che germani (p. 146).
Henri Hubert (1872-1927) combatté la visione che faceva dei Germani i diretti
discendenti degli Indoeuropei, affermando che i Germani erano una popolazione
autoctona preindoeuropea, indoeuropeizzata a seguito di una immigrazione. Per lui
i Celti erano i progenitori dei Francesi (p. 148).
L I FE A N D F E S TI VA LS
An Aryan Loves Life
La trasformazione del discorso indoeuropeo, da una forma di umanesimo liberale
ad un “primitivismo” nazionale e razzista fu stimolata da una tradizione non propriamente scientifica. La tradizione è collegata ai nomi di Schopenhauer (17881869), Wagner (1813-83), Nietzsche (1844-1900). Ciò che separa gli studi di questi
autori da altre opere contemporanee è che la verità di una riflessione è subordinata
alla vita e che la vita è assunta come qualcosa di irrazionale, mentre la ragione è vista
come subordinata al processo irrazionale della vita (p. 149).
Nel Mondo come volontà e rappresentazione (1818) il mondo è rappresentato come
qualcosa privo di senso, soggetto ad una forza cieca. Schopenhauer mise in contrasto
l’idealismo e il pessimismo indiano con il realismo e l’ottimismo ebraico. Nel cristianesimo bisognava rigettare la componente ebraica, e accettare quella rappresentata dall’insegnamento di Gesù, basato sul pessimismo e il ricorso agli avatar di origine indiana (p. 149). Fra gli oppositori della teoria di Schopenhauer relativa alla
religione semita come religione dell’ottimismo ci furono Heinrich Heine, Jules Michelet, Joseph-Arthur de Gobineau, Paul de Lagarde (p. 150).
In Nietzsche il testo fondamentale della affermazione della vita da pare degli Indiani diventò, come per altri autori reazionari, Le leggi di Manu. La lettura di Nietzsche di questo testo è in chiave social-darwinista e faustiano-individualistica (pp.
150-2). Arrivò infine a prospettare un misto tra una religione della natura e un
umanesimo estetico, dove gli individui apprezzano l’esistenza terrena. Il cristianesimo è per lui “la religione anti-ariana per eccellenza”. (p. 152). Questo aspetto del
pensiero di Nietzsche può essere definito vitalismo e si oppone radicalmente all’umanesimo, rifiutandone gli ideali e apprezzando gli aspetti intensi e tragici della vita
(pp. 152-3).
Wagner, che voleva rinnovare la razza tedesca attraverso le sue opere, divenne
tanto influente nel campo degli Indoeuropei quanto Schopenhauer e Nietzsche. I
libretti dell’Anello e delle altre sue opere tarde sono composti in un misto di romanticismo rivoluzionario e di pessimismo schopenhaueriano, misticismo cristiano, leggende medioevali e miti germanici. Egli ebbe anche un ruolo molto importante
nell’antisemitismo. Suo genero Houston Stewart Chamberlain (1855-1927) è l’autore del libro Die Grundlagen des Neunzehnten Jahrhunderts (1899), uno dei testi
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più influenti per la visione nazista della storia delle religioni, nonostante egli fosse
inesperto per quanto riguardava gli Indoeuropei sul piano filologico, folkloristico e
archeologico (p. 153). Chamberlain tendeva a privilegiare ciò che poteva essere sentito come esperienza di vita, secondo una tecnica che verrà spesso usata dagli studiosi
nazisti (pp. 153-155). Il tema principale dei Grundlagen è una religiosità colorata di
razzismo e un antisemitismo apocalittico. Ebrei e Tedeschi si combattono a morte.
Per lui gli Ebrei erano spinti da uno spirito distruttivo derivato dal fatto che erano
un incrocio tra Beduini semiti e popoli di grado più alto, quali Ittiti, Siriani, Amoriti
ariani (p. 155).
The Perfec tion of the Ar yan Mysteries
Il periodo esaminato in questo capitolo fu un periodo di gloria per il discorso razzista
sugli Ariani e sugli Indoeuropei. Studiosi nel campo dell’indoeuropeistica proliferarono nel campo della preistoria, dell’archeologia e del folklore. Fu però un periodo
di declino per le ricerche che puntavano esclusivamente sulla storia delle religioni
(p. 156).
Un libro molto importante per riassumere questo periodo è Arische Religion
(1914-16) di Leopold von Scrhroeder (1851-1920), ammiratore di Wagner e amico
di Chamberlain (p. 157). L’opera era prevista in tre volumi, ma il terzo non fu completato. Ciascun volume doveva affrontare un aspetto degli Indoeuropei, volendo
egli trattare tre aspetti degli studi: antropologia evoluzionista, filologia indoeuropea,
monoteismo originario (pp. 157-8). Secondo lui la visione di Wagner del mito tramandava qualcosa dell’antica religione ariana. Questo era soprattutto valevole per
Lohengrin e Parsifal, il cui materiale poteva provenire da antiche celebrazioni rituali,
aventi per oggetto il culto della natura, del sole, della luna, del tuono, della pioggia,
del fuoco e della bevanda sacra. Questo aspetto è soprattutto trattato da von Schroeder nel suo libro del 1908 Mysterium und Mimus im Rigveda (p. 158).
Un analogo tentativo viene fatto nel 1871 da Nietzsche con Die Geburt der Tragödie aus dem Geist der Musik. In quest’opera Nietzsche divide tra apollineo e dionisiaco: l’apollineo comprende la perfezione formale nella rappresentazione estetica,
e riguarda le arti figurative e la poesia, il dionisiaco comprende lo scatenamento
irrazionale, la perdita di qualsiasi controllo e la rinuncia ad ogni forma: è questo
scatenamento che la musica fa esperire (p. 159).
In Mysterium und Mimus im Rigveda von Schroeder discute sulla connessione tra
rituali vedici e dramma. Mettendo a confronto Samaveda, la versione cantata del
Rigveda (la controparte del canto corale ditirambico nella tragedia attica) e la poesia
eddica, egli cerca di ricostruire “un mistero dalla preistoria ariana”. Nel libro prova
anche a trovare le corrispondenze vediche con i misteri greci di Eleusi, realizzando
per l’India vedica lo stesso tipo di analisi adoperato da Nietzsche per il mondo greco
(p. 159).
Il primo volume di Arische Religion mette in rilievo che nello stadio più antico
della religione ariana non c’è soltanto animismo ma anche una forma di monotei-
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smo etico (p. 160). Dalla originale forma di monoteismo i popoli indoeuropei svilupparono due altre forme, una che accentuava l’aspetto morale del dio, l’altra che
accentuava quello guerriero (pp. 160-1). I diversi dei indoeuropei potrebbero poi
essere raggruppati, secondo von Schroeder, in una triade – di evidente influenza
wagneriana – riguardante vita, amore, morte. Questa triade copriva la totalità della
vita, riguardando credenza in un dio supremo, adorazione della natura, culto
dell’anima. Molte altre religioni presentano questa triade, ma non così equilibrata.
Gli Ebrei avrebbero abbandonato gli ultimi due aspetti, per celebrare solo il culto
del Dio supremo. Nonostante l’assenza di qualunque forma di antisemitismo, von
Schroeder vedeva negli Ariani il popolo destinato a portare la cultura e la bellezza
nel mondo (pp. 161-2).
Neotraditi onal Ideals of Religi on
Per quanto alla base di molte teorie sugli indoeuropei ci fosse la volontà di riformare
la religione del presente (così in Max Müller, Renan, Wagner, Chamberlain, von
Schroeder), c’era tuttavia una differenza di base tra gli studiosi francesi e quelli tedeschi facenti capo a Wagner e questa differenza diventa chiara ricorrendo ai termini
di religione modernista e religione neotradizonale (pp. 162-3).
Il neotradizionalismo differisce dal modernismo per i suoi fini: i neotradizionalisti vogliono rinnovare una tradizione religiosa come controparte del processo di
modernizzazione segnata da materialismo, decadenza morale e mancanza di bellezza; i modernisti apprezzavano invece il progresso ed erano i rappresentanti di una
borghesia vittoriosa (p. 163). Müller e Renan sono i rappresentanti principali del
modernismo, come von Schroeder lo è del neotradizionalismo (p. 163). Per Müller
la religione indoeuropea era la base della borghesia moderna; per von Schroeder tale
religione consisteva in una forma vitalistica che l’estetica di Wagner aveva incarnato
perfettamente (pp. 163-4). Il modernismo si richiamava al liberalismo, il neotradizionalismo a una ideologia che faceva appello alla “comunità” (p. 164, tabella 6).
Le teorie di von Schroeder possono anche essere viste nei vari gruppi di tipo
völkische, che cercavano di rivitalizzare alcuni aspetti del paganesimo, come la celebrazione della notte di Valpurga, i falò di mezza estate. Essi erano però antisemiti
perché in opposizione al disprezzo ebraico nei confronti del corpo, della vita e della
natura (p. 164). L’obiettivo finale era quello di dare nuova vita al popolo tedesco
riconsegnandolo ai suoi vecchi culti depurati dall’intervento ebraico (pp. 164-5).
Tra i pensatori più importanti per il rinnovamento della religione, von Schroeder
ricorda Chamberlain, Lev Tolstoj, Paul Deussen, Rudolf Eucken, Adolf Harnack (p.
165).
Due testi di Jane Ellen Harrison (1850-1928), Prolegomena to the Study of Greek
Religion (1903) e Themis: A Study of the Social Origins of the Greek Religion (1912)
riassumono le teorie del periodo, combinando tesi di von Schroeder al vitalismo
nietzscheano e all’evoluzionismo. Ci sono due tipi fondamentali di rituali: ctonici,
lo stadio più antico, legato alla civiltà pelasgica, e olimpici, cronologicamente più
recenti (pp. 165-6). Lo stadio olimpico viene qui visto come un modo per soffocare
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i naturali spiriti vitali (p. 166).
Jewish Scholars and Ar yan Reli gion
In Francia, alla fine del secolo diciannovesimo, la mitologia della natura di Max
Müller era rappresentata da studiosi importanti quali Albert Réville (1826-1906),
Michel Bréal (1832-1915) e Salomon Reinach (1858-1932). Per questi tre studiosi
la ricerca nel campo della storia delle religioni si collegava alla creazione di una religione e di una cultura modernistica. Per Reinach il lavoro riguardava la riforma del
giudaismo tradizionale, ormai sulla via dell’assimilazione, per cui tutto ciò che riguardava la tradizione (rituali, abiti cerimoniali, ecc.) era privo di reale importanza.
Secondo il suo pensiero tutte le religioni erano una nella loro più profonda essenza
(p. 168).
Stando alla ricerca di Ivan Strenski, Durkheim and the Jews of France (1997), le
teorie di Reinach influenzarono quelle di Émile Durkheim (1858-1917) e Marcel
Mauss (1872-1950), pure loro di origini ebraiche (p. 169).
I durkheimiani erano conosciuti come moderni studiosi coscienziosi, dotati di
convinzioni liberali di sinistra. Eppure non accettavano la nozione modernistica di
religione tipica di Reinach. Secondo Strenski questo dipendeva anche dal fatto che
tale atteggiamento poteva facilmente confluire nell’antisemitismo (p. 169).
Ignaz Goldziher (1850-1921), studioso ungherese di origine ebraica, in Der Mythos bei den Hebräern und seine geschichtliche Entwicklung: Untersuchungen zur Mythologie und Religionswissenschaft (1876) cerca di dimostrare che gli Ebrei erano potenti creatori di miti, combattendo la teoria che vedeva solo negli Ariani i creatori
di una mitologia (pp. 169-70). L’intento era quello di presentare gli Ebrei come
facilmente assimilabili nel mondo indoeuropeo (p. 170).
I durkeimiani, all’opposto, sminuivano l’importanza della mitologia nella religione a favore dell’importanza dei rituali. Soprattutto Mauss era stato discepolo di
Sylvain Lévi (1863-1935), un ebreo francese che aveva cercato di interpretare l’antica religione vedica dal punto di vita dei rituali anziché da quello della mitologia.
Attraverso questo cambiamento di direzione – da mito, linguaggio e filosofia a rito,
culto e comunità – Lévi fu una delle fonti di ispirazioni per Mysterium und Mimus
im Rigveda di von Schroeder, dove il ritualismo di Lévi veniva combinato con le idee
wagneriane e nietzscheane circa il significato culturale del dramma e della festa (p.
170). Strenski sottolinea che la storia delle religioni dell’India costituivano un mezzo
simbolico per parlare della storia di Israele e del giudaismo (p. 171).
La difesa del ritualismo di Lévi permetteva ai durkheimiani di vincere un’altra
battaglia, quella relativa alla creazione di una sociologia della religione, cosa possibile
anche grazie alla tradizione francese portata avanti da Comte, Michelet, Renan, sulle
relazioni tra religione e fattori sociali. La sociologia della religione era infatti l’opposto della mitologia naturale di Max Müller. I simboli e i segni della religione non
riguardavano i fenomeni naturali, bensì le relazioni umane (p. 171).
Si può tracciare una linea che comprende i durkheimiani, Malinowski e Mircea
Eliade, il più importante studioso neotradizionalista del ventesimo secolo (p. 172).
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Il germanista ebreo Sigmund Feist (1865-1943) cercò di disgregare il discorso
sugli Indoeuropei, che riteneva privo di basi. Diminuiva l’importanza dei Germani
nella preistoria europea e dava più importanza ai Celti. Era ugualmente scettico sui
risultati dell’antropologia razziale e considerava gli Indoeuropei come una razza mista. Per questi motivi, e per il fatto di essere ebreo, fu ampiamente criticato dagli
studiosi nazisti (p. 173).
Sarebbe interessante esaminare le teorie di Claude Lévi-Strauss e di Jacques Derrida alla luce del discorso indoeuropeo. La teoria di Lévi-Strauss sulla universalità
del mito potrebbe essere una reazione alla tesi di Ernest Renan, secondo la quale
solo gli Indoeuropei sarebbero stati in grado di creare una vasta mitologia. L’enfasi
di Derrida sulla precedenza della retorica e dell’etica sul pensiero puro, inteso come
logos, potrebbe essere una reminiscenza della diversa costituzione psicologica che,
secondo Renan, era alla base della differenza tra Semiti e Ariani. Nel saggio “La
mitologia bianca. La metafora nel testo filosofico” (Margini della filosofia), Derrida
scrive che l’uomo bianco ha elevato la propria mitologia, intesa come mitologia indoeuropea, a logos (p. 174 e nota 116).
L’Indoeuropeistica ha ora un leggero arresto e bisognerà aspettare fino al periodo
intorno al 1930 perché riacquisti vitalità.
Conc lusion
Secondo la mitologia della natura gli Indoeuropei erano un popolo di alto livello
culturale, con uno spiccato senso per l’arte e il pensiero (p. 175). Questa visione era
un ottimo modello per coloro che pensavano di ricreare il mondo facendone un
luogo di libertà e giustizia (pp. 175-6).
Nel periodo compreso tra il 1870 e il 1920 la mitologia della natura venne a
perdere la sua posizione. Le critiche giunsero da molte direzioni: antropologia, folklore, modello evoluzionistico. E tutte insieme imposero un modello adattabile a
tutti i “popoli primitivi”, nel quale anche i Protoindoeuropei e gli antichi Indoeuropei erano inclusi (p. 176).
Contemporaneamente sorse una corrente di studiosi che collegavano gli Indoeuropei ai Germani e al Nord Europa. La religione venne vista come un rafforzamento
della comunità.
Il periodo 1880-1920 è invece segnato da un aumento del conflitto sociale e da
un accentuamento del nazionalismo, che portò (soprattutto in Germania e in Francia) a vedere negli Indoeuropei i propri antenati come barbari non rovinati dalla
cultura (pp. 176-7).
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CHAPTER
4
Order and Barbarism:
Aryan Religion in the
Third Reich
T H E P I E T Y OF T H E N OB L E F AR M ER
Il periodo che va dal 1930 al 1945 vide la seconda fioritura degli studi sugli Indoeuropei. In questo periodo furono create molte opere importanti sulla cultura e la religione degli Indoeuropei e cattedre universitarie vennero dedicate a questi studi. È
anche il periodo in cui questo interesse nei confronti degli Indoeuropei coincise con
la volontà di distruggere ciò che veniva inteso come “non-ariano” (p. 178).
Nel nazismo ci furono due rami principali di studi riguardanti gli Indoeuropei:
uno teso a mettere in rilievo la religione ariana come religione dell’ordine, molto
simile a una continuazione della mitologia della natura, fondata sulla battaglia tra
la luce e il buio; l’altro ramo ruotante intorno alle “leghe maschili” e ai loro culti
estatici, questa tradizione si rifaceva parzialmente agli evoluzionisti e agli studi sul
folklore (p. 179).
Prelude
Nelle prime decadi del ventesimo secolo lo scambio tra gruppi neopagani, società
wagneriane, grandi partiti della Germania e folkloristi era a Vienna molto intenso
(p. 179).
C’erano tre scuole di folkloristi in competizione: la prima, di tendenza cattolica,
sarà discussa nel prossimo capitolo. Le altre due sono invece importanti per il tema
del presente capitolo. Una comprendeva colleghi e studenti di Leopold von Schroeder e includeva studiosi come Georg Hüsing, Edmund Mudrak, Karl von Spieß,
Wolfgang Schultz. Il loro scopo era provare l’esistenza di un legame tra la Germania
contemporanea e le culture preistoriche dei Germani e degli Indogermani. Attraverso lo studio di miti, racconti e leggende essi cercavano di identificare ciò che era
autoctono e distinguerlo da ciò che era straniero (p. 180).
L’altra scuola aveva principalmente lo stesso intento e i suoi componenti (fra i
quali Lily Weiser, Otto Höfler, Richard Wolfram, Gilbert Thratnigg) erano stati
fortemente influenzati dall’opera di von Schroeder. Tuttavia il loro reale maestro era
l’antagonista di von Schroeder all’Università di Vienna, il germanista Rudolf Much
(1862-1936). La differenza tra le due scuole era che, mentre la prima studiava i miti
e altre forme di letteratura orale, la seconda enfatizzava lo studio dei rituali e dei
culti. In questo campo essi furono fortemente influenzati da Mysterium und Mimus
im Rigveda di von Schroeder. La differenza ruotava quindi intorno al campo “leggende mitiche” da una parte e “culto estatico” dall’altra (p. 180).
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Dopo l’Anschluß, la scuola mitologica venne collegata al Dipartimento dell’Istruzione nazista, diretto da Alfred Rosenberg. Lo scopo principale del Dipartimento
era quello di studiare l’antica cultura ariana e di evidenziarne le lotte contro gli influssi stranieri (pp. 180-1).
La scuola ritualistica venne invece collegata al progetto Ahnenerbe, diretto da
Heinrich Himmler e in competizione con Rosenberg. Il suo campo era la ricerca
della geografia, della mentalità e delle gesta degli Indogermani del Nord (pp. 1812).
I folkloristi di Vienna vennero così reclutati in due campi rivali e ciascuna scuola
sviluppò una propria teoria di religione indoeuropea. Semplificando si potrebbe dire
che i ritualisti alla Ahnenerbe lavorarono soprattutto sulle “leghe maschili”, mentre
i mitologi su qualcosa che può essere chiamato “l’ideologia dell’ordine” (pp. 1823).
Race and Religi on
Tanto Frömmigkeit nordischer Artung di Günther quanto Indogermanisches Bekenntnis di Walther Wüst usano molti neologismi e antiche parole tedesche, spesso con
un significato teologico. Il fine è quello di evitare il più possibili parole derivanti da
lingue straniere. Così Hans F.K. Günther parla di Frömmigkeit e non di Religiosität,
e Wüst usa Bekenntnis anziché Religion, poiché tanto Religiosität quanto Religion derivano dalla lingua latina. Il loro stile può essere definito come “Jargon” nel senso
usato da Adorno, cioè come un gergo che veicola messaggi nascosti che solo gli iniziati possono comprendere. Esempio di questa tecnica è il richiamo alla antica religiosità dei fattori tedeschi nel libro di Wüst. Altra caratteristica, che appare chiaramente nel testo di Günther, è che le fonti della spiritualità nordico ariana non comprende solo testi antichi, ma anche autori della cultura moderna, come Shakespeare,
Winckelmann, Hölderlin. Günther giustifica questo fatto precisando che non abbiamo alcuna certezza sul fatto che i tempi preistorici siano esenti da presenze di
elementi di razza straniera. Lo studio della psicologia razziale permette di comprendere ciò che ad una certa razza è possibile o non è possibile pensare e immaginare
(p. 184). Questo comporta il fatto che Günther possa escludere dagli studi sugli
Indoeuropei ciò che è in contrasto con la teoria nazista sullo stesso tema e che possa
ritenere come autenticamente indoeuropeo aspetti della cultura moderna, quali ad
esempio Goethe, poiché la razza indoeuropea e la sua espressione esiste indipendentemente dalla storia (pp. 184-5).
È infatti caratteristica tipica delle ricerche naziste la nozione di spirito indoeuropeo come eterno (pp. 185-6). L’identità tedesca, secondo Wüst, è immutabile e non
è qualcosa che si forma attraverso la storia; a determinare questa caratteristica è la
razza. La razza è anche la più grande componente della religione. La religione, secondo Wüst, è la fede in un che qualcosa regola il mondo, tenendo insieme i componenti in vita e quelli morti di una razza e legando entrambi al luogo natale (p.
187).
Wüst credeva che i Protoindoeuropei avessero una credenza monoteistica in un
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“padre celeste”, un originario monoteismo indogermanico. Il padre celeste è una
personificazione dell’anima della razza indogermanica e, secondo la mitologia indogermanica, egli ha contratto un divino matrimonio con la terra. Il risultato di questo
hieros gamos fu la nascita degli antenati degli Indogermani. Attraverso questa parentela, le relazioni tra gli Indogermani e gli dei sono rispettose e amichevoli. In accordo
con Wüst, Günter scrive in Frömmigkeit nordischer Artung che gli Indogermani onorano i loro dei senza avvilire se stessi, contrariamente ai Semiti, che si vedono come
gli umili servi di dei terribili. Così gli Indoeuropei non pregano inginocchiandosi,
ma stando in piedi e protendendo le mani verso il cielo (p. 187). La figura 19 a p.
188 mostra dei Semiti che pregano inginocchiati nel deserto. La didascalia dice:
«Compare to Fidus’s “Prayer to the light” (1884 or 1924) on the jacket of this book,
where the naked and proud Aryan welcomes the power of the world.».
Secondo gli studiosi nazisti la religione indogermanica aveva solo funzioni terrene. Günter descrive la religione indogermanica come creatrice di “anime sane”.
Contrariamente alle razze del Vicino Oriente gli Indogermani sono “bambini del
mondo” e non odiano né la terra né il corpo (p. 188). La vita è per loro tutto ciò
che esiste, infatti la speculazione sulla vita dopo la morte hanno per loro scarsa importanza (pp. 188-9).
Questa “ideologia dell’ordine” continua temi antiebraici e dell’umanesimo anticristiano del diciannovesimo secolo. Più sfumato è l’atteggiamento verso il cristianesimo. Spesso si evitava l’attacco frontale per non inimicarsi la chiesa, ma alcuni
esponenti nazisti erano apertamente anticristiani e propensi al paganesimo. Il neopaganesimo bollava spesso le religioni semitiche come contrarie a tutto ciò che è
umano (p. 189).
Altra differenza tra le religioni semitiche e indogermaniche era che queste ultime
non prevedevano la figura di un salvatore. Secondo Günther figure come lo zoroastriano Saošant e il nordico Balder sarebbero il risultato di una influenza dell’anima
razziale orientale o di zone desertiche (Wüstenländischen). Nemmeno necessitavano
gli Indogermani di preti come mediatore tra loro e gli dei. Essendo la terra una cosa
buona di per sé, gli Indogermani non avevano alcun bisogno di una Chiesa che
provasse l’esistenza del divino in un mondo decaduto. La religiosità ariana si esprime
nel “regno della terra”, in contrasto al regno dei cieli dei Semiti (p. 189).
Sempre secondo Günter nella religione indogermanica l’individuo è spinto a raggiungere il proprio equilibrio su modello degli eroi della sua antica letteratura. Tale
religione non è adatta a tutti i popoli della terra, poiché essa è collegata alla razza e
la razza alla forma del cranio (pp. 189-90).
Order
Wüst insiste sul fatto che la parola Arya- avesse in origine il significato di “aratore”,
“nobile fattore” e solo successivamente fosse diventato il nome di un popolo (p.
190). Questa precisazione, così come la vicinanza tra uomini e dei, l’assenza di una
classe sacerdotale, il panteismo, l’affermazione della vita nei suoi aspetti fisici, furono ripresi dagli studiosi nazisti dalla mitologia della natura del diciannovesimo
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secolo (p. 191).
Nel discorso per l’apertura della Pflegstätte für Germanenkund nel 1936 Wüst
precisò che gli antenati dei Tedeschi erano fattori che vivevano in uno spiazzo arabile
circondato da foreste, non in città snervanti e demoralizzanti («Das war ihre Welt,
nicht die Stadt mit ihrem entnervenden und entsittlichenden Einfluß.», p. 191).
«The idea of the ancestors as farmers was an important component of the National Socialist ideology.» (p. 191). Fu soprattutto Richard Walther Darré (18951953) a sviluppare questo aspetto. In opere quali Das Bauerntum als Lebensquell der
nordischen Rasse (1929) e Nevadel aus Blut und Boden (1930) Darré presentò gli
Indogermani come fattori aristocratici di razza pura, stabilmente radicati nella propria terra, caratteristiche su cui insisterà anche Wüst. L’ordine indorgermanico della
vita è così radicato nel sangue e nella terra con il compito di mantenere e rafforzare
le forze dell’esistenza (p. 192).
Secondo Wüst c’è una enorme differenza tra la visione del mondo nordico germanica e la visione del mondo astratta, artificiale e decadente che esisteva nella culturale urbana giudiziaria del Mediterraneo e del vicino Oriente. Secondo Wüst e
Günther solo gli Indogermani avevano capito che il mondo è soggetto a un ordine
che comprendeva legalità, moralità e significato (p. 192). Diverse parole indoeuropee identificavano questo legame: vedico rita, avestico aša, greco kosmos e moīra,
latino ratio, germanico ørlög e Midgård, che Günther traduceva con Heil, Recht,
Ordnung. Era ciò che il gruppo riceveva in eredità dai suoi antenati e che aveva il
compito di consegnare ai propri successori. Da qui l’importanza dell’igiene razziale
(pp. 192-3).
Nel periodo nazista si tendeva ad apprezzare Sparta come modello di antica comunità aristocratica e guerriera: così facevano Rosenberg, Günther e Darré. Hitler
approvava Sparta, ma non aveva simpatia per l’India negroide e per i barbari germanici (p. 193).
Patriarchy?
Il governo di questi nobili fattori era pensato essere di tipo patriarcale. Gli studiosi
non avevano sino ad allora fornito una risposta definitiva per quanto riguardava i
Protoindoeuropei, cioè se la società fosse di tipo patriarcale o matriarcale. Bachofen
lasciava aperta tanto una soluzione quanto l’altra. Lo storico del diritto Henry Summer Maine (1822-88) pubblica nel 1861 Ancient Law, dove stabilisce che tutta l’antica società indoeuropea fosse di tipo patriarcale (pp. 194-5).
Tre anni dopo viene pubblicato La cité antique (1864) dello storico conservatore
francese Numa Denis Fustel de Coulanges (1830-89). Attraverso studi dei testi vedici e particolarmente delle Leggi di Manu, Fustel de Coulanges concludeva che la
religione indoeuropea consistesse nella deificazione degli antenati. Il culto degli antenati era legato al focolare della famiglia e al clan, e in alcuni casi esso stesso veniva
personificato e deificato (come nel caso di Agni). L’idea sottostante a questo culto
era che gli antenati continuavano a vivere tanto a lungo quanto il fuoco della fami-
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glia bruciava. (p. 195). In Vesta (1943) Otto Huth, esperto Ahnenerbe della religione indoeuropea, cercò di usare gli strumenti della filologia e del folklore per analizzare e seguire le connessioni tra i fuochi di maggio e l’antico culto del focolare in
cui gli antenati continuavano a vivere dopo la morte (p. 195, nota 57). Il culto
dell’antenato era fisicamente legato alle tombe, che marcavano il diritto della famiglia ai terreni agricoli. Il culto dei morti era la radice dell’identità della famiglia,
della religione e del diritto alla proprietà della terra. Soprattutto l’ultimo punto era
importante, da quando Maine, basandosi, tra le altre fonti, sulla Germania di Tacito,
aveva affermato che presso i Protoindoeuropei vigesse una forma di comunismo primitivo. Per Fustel de Coulanges la proprietà privata era invece cosa del tutto originale e naturale e la sua stessa storiografia aveva lo scopo, fra le altre cose, di proteggere l’antico ordine contro le richieste che i liberali e i socialisti facevano al Secondo
Impero (p. 195).
Tra la metà del diciannovesimo secolo e la metà del ventesimo il dibattito intorno
alle relazioni tra i sessi in epoca preistorica, regole matrimoniali, rapimenti di donne,
vita sessuale, promiscuità, sistemi di parentela, diritti di successione e forme di proprietà, fu intenso. Da un lato c’erano studiosi conservatori, come Maine e Fustel de
Coulanges, dall’altro c’erano studiosi progressisti come Bachofen, l’evoluzionista
John McLennan, l’orientalista William Robertson Smith (p. 195).
Fra i progressisti c’era anche l’americano Lewis Henry Morgan (1818-81), che
intorno al 1870 formulò un modello di evoluzione della famiglia in quattro stadi:
“famiglia collettiva” (dove fratelli e sorelle si sposavano tra loro), “famiglia barbara”
(dove i legami di sangue sono importanti nel matrimonio ma non nella vita sessuale), “famiglia patriarcale” (caratterizzata dalla poliginia) e “famiglia civilizzata”
(matrimonio di coppie con diritto di eredità per i figli). Questo sviluppo era collegato a diverse razze umane, cosicché le forme precivilizzate erano collegate alle razze
“Melanesiana”, “Turanica”, “Ganowan”, mentre le forme civilizzate riguardavano la
razza “Uralica”, “Semitica” e “Ariana”. Secondo Morgan la razza ariana era la più
civilizzata nell’area della vita privata (pp. 195-6).
Nell’insieme il dibattito tra conservatori e progressisti riflette l’ansietà della borghesia al potere verso gli ideali rivoluzionari. Nessuno dei due schieramenti mise in
discussione i valori di base della famiglia e ciascuno riteneva il patriarcato, il matrimonio monogamo e la proprietà privata appartenere allo stadio più alto della civiltà.
L’eccezione importante è Friedrich Engels, che difese le teorie di Bachofen e Morgan
in Der Ursprung der Familie, des Privateigenthums und des Staats (1884). La sostanza
era se queste forme fossero sempre esistite e dovessero essere conservate oppure fossero il risultato di uno sforzo continuo per vivere in un modo civilizzato (p. 196).
Verso la fine del secolo gli studiosi si chiesero quali termini di parentela potevano
essere coerentemente ricostruiti. C’erano dei termini che indicassero certi tipi di
strutture di proprietà e di rituali matrimoniali? I più importanti filologi dell’epoca,
Otto Schrader e Hermann Hirt (1865-1936), presentarono prove che indicavano
come la società protoindoeuropea fosse di tipo patriarcale. Secondo Schrader era
evidente che fosse la donna ad abbandonare la propria casa per entrare in quella del
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marito. Il padre esercitava un potere assoluto sulla famiglia e alla sua morte il potere
passava al figlio maggiore o allo zio. La posizione della donna era sempre di sottomissione. Il gruppo familiare diretto dai figli e dagli zii costituiva un clan e più clan
uniti costituivano una tribù, guidata da un re. Nessuna superiore unità di tipo nazionale era presente e l’unità sociale fondamentale rimaneva il clan esogamo. Il collante ideologico che univa il clan era il culto degli antenati comuni (pp. 196-7).
A differenza di Schrader, che tendeva a criticare l’impostazione autoritaria, Hirt
aveva un atteggiamento più neutrale. Questo permise ai ricercatori nazisti di adattare Hirt ai loro scopi. Non tutto però, degli studi di Hirt, si adattava alla ideologia
nazista. Hirt insisteva su una fase originaria in cui gli Indoeuropei erano un esempio
di democrazia, senza differenze tra i componenti del gruppo. Solo con le espansioni
in territori stranieri si ebbe la costituzione di una aristocrazia guerriera (pp. 197-8).
A suscitare l’ammirazione dei ricercatori nazisti era la teoria di Hirt secondo cui la
società protoindoeuropea non consisteva soltanto di un agglomerato di clan e tribù,
ma che ci fosse una superiore unità “nazionale” e che i Protoindoeuropei costituissero “un popolo”. Tipico di questo popolo era il culto della natura e il dio nazionale,
*Dyḗus ph2tḗr, era associato alla natura. Wüst poteva così presentare Hirt come un
predecessore della sua teoria sul dio *Dyḗus ph2tḗr come «incarnazione di una coscienza determinata in modo razziale» (p. 198).
Continuity from the Nineteenth Century
In termini di ideologia c’è una chiara connessione tra le “ideologia dell’ordine” tra
le due guerre e la mitologia della natura del diciannovesimo secolo. In entrambi i
casi gli Indoeuropei erano visti come una razza civilizzatrice e come l’incarnazione
della bellezza, del diritto e del bene (p. 198). Questa teoria è pienamente presente
nel Mein Kampf di Hitler (pp. 198-9).
La mitologia della natura del diciannovesimo secolo aveva usato gli Indoeuropei
come arma nella lotta contro le strutture aristocratiche, i valori medioevali e il conservatorismo della religiosità semita. Essi erano modernisti e gli Indoeuropei erano
gli idoli dei modernisti. Quando la classe borghese, alla fine del diciannovesimo
secolo, diventò una classe media egemonica, la modernizzazione fu vista in modo
scettico. La Comune di Parigi prima e la Rivoluzione d’Ottobre dopo convinsero
molti elementi della borghesia a credere che lo sviluppo dovesse essere fermato, o
forzato in una nuova direzione. Sotto la minaccia del radicalismo molti borghesi
divennero conservatori, nostalgici, nazionalistici e fattori romantici. Questo avvenne anche tra gli accademici e lo strato colto della classe media. La modernizzazione cessò di essere vista come desiderabile e come un passo per raggiungere l’autentica cultura, ma piuttosto come una via verso il caos e la barbarie. L’immagine
degli Indoeuropei come eroi culturali cambiò da una visione modernista a una neotradizionalista (p. 199).
Tuttavia questo neotradizionalismo borghese non divenne eccessivamente potente negli studi nazisti. Una ideologia barbaro-fila, “dionisiaca”, ma nondimeno
neotradizionalista, che era per molte ragioni l’opposto della “ideologia dell’ordine”,
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fiorì soprattutto all’interno della SS. Nel capitolo precedente si è visto come i ricercatori influenzati dall’evoluzionismo avessero presentato gli Indoeuropei come un
popolo primitivo simile ad altri. In queste teorie c’era un rifiuto della idealizzazione,
nondimeno fu l’immagine che spianò la strada alla nuova, barbaro-fila immagine
ideale. Forse per i promotori di questa immagine il “ritorno alle forze barbariche”,
piuttosto che l’ordine e la stabilità, era ciò di cui si aveva bisogno per combattere la
modernizzazione (p. 199). Solo così il modernismo sarebbe stato sconfitto e un
nuovo stile di vita avrebbe potuto nascere. In opposizione alla Rivoluzione bolscevica, si trattava allora di una rivoluzione nel senso etimologico del termine (dal lat.
re-volvere, ritornare), cioè di un ritorno. Giustamente lo studioso dell’Ahnenerbe
Jacob Wilhelm Hauer scrisse che per gli Indoeuropei preistorici “il rivoluzionario
conservatore” era l’uomo ideale (pp. 199-200).
A RY AN M A L E F E L L OWSH I PS
Matriarchy?
I neotradizionalisti, antiborghesi e barbaro-fili, volevano scrivere le loro proprie storie. Un primo approccio fu quello di provare a sloggiare la dottrina dell’eterno patriarcato ariano e ricavare dalle fonti storiche forme alternative di potere (p. 200).
Ci si poteva chiedere se, nonostante le ricerche di Fustel de Coulanges, Schrader,
Hirt, che indicavano il patriarcato come la forma sociale più antica di organizzazione
indoeuropea, non ci fosse stato uno stadio di matriarcato, come indicavano le ricerche di Bachofen. Nonostante la storia comparativa del diritto non fornisse alcun
supporto a questa teoria, non potevano le ipotesi essere provate con l’evidenza
dell’esistenza di un culto della Madre Terra? Se gli Indoeuropei erano fattori, cosa
su cui tutte le teorie antropologiche dell’epoca erano d’accordo, allora essi dovevano
avere avuto un culto per la terra che donava loro i suoi prodotti (pp. 200-1).
Nella Deutsche Mythologie Jacob Grimm aveva trovato tracce di una Madre Terra
indoeuropea, ma l’opera che creò l’interesse su una dea indoeuropea della Madre
Terra fu Mutter Erde: Ein Versuch über Volksreligion (1905) di Albrecht Dieterich
(1866-1908). L’intento di Dieterich era quello di indicare “l’idea primordiale” in
grado di fornire una risposta alla domanda dell’inizio e della fine della vita. L’ipotesi
della Madre Terra era in grado di fornire una risposta adeguata (p. 201).
Secondo Dieterich il culto della Madre Terra, che era rappresentato dalle dee
Gaia e Demetra nella mitologia greca, è direttamente collegato alla presenza
dell’agricoltura (p. 201). Questo comporta una simbologia che ruota attorno alla
fertilità: l’aratro è il pene, la terra la vagina. la pioggia lo sperma (pp. 201-2).
Il culto popolare si trasformò poi in culto misterico, come quello di Demetra a
Eleusi, Nei misteri l’esperienza agraria di rinascita della natura fu trasformata nella
teoria della migrazione delle anime. Il culto di Demetra fu però contaminato da altri
tipi di religioni, di origine asiatica, come il culto di Dioniso o della “Grande Madre”,
Rhea o Kybele, che rappresentano versioni pervertite del culto della Madre Terra
(pp. 202-3). Il culto della Grande Madre implica riti osceni, ma non facilmente
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distinguibili da quelli della Madre Terra. Dieterich collega questo capovolgimento
della religione della madre al matriarcato, benché egli sia dubbioso sull’autentica
natura del culto della Madre Terra. Quello che è certo, secondo Dieterich, è che il
culto della Grande Madre viene dall’Asia, mentre la Madre Terra è occidentale – in
questo Dieterich segue dei pregiudizi sull’Oriente derivanti da Bachofen e Michelet
(p. 203).
In Mutter Erde c’è lo stesso clima intellettuale di fine secolo che si ritrova nelle
opere di von Schroeder e di Jane Ellen Harrison. Soprattutto le somiglianze con i
Prolegomena to the Study of Greek Religion (1903) di Harrison sono particolarmente
suggestivi: in entrambi i casi un modello evoluzionista è combinato e modificato
con modelli vitalistici della rinascita. Anche l’intento di Dieterich, come quello di
von Schroeder e di Harrison, consisteva nel guarire l’umanità dalle ferite della modernità (p. 203). La sua opera suscitò la curiosità di autori e intellettuali che erano
convinti che lo stadio successivo a quello della Madre Terra non aveva segnato alcun
miglioramento. Lo stadio successivo era quello rappresentato dal dio celeste, che,
secondo le parole di Dieterich, era stato formato dalla “forza religiosa dell’Oriente
semitico” ed era una estensione del rigido monoteismo virile del giudaismo che nel
suo nucleo negava il matrimonio e la maternità (pp. 203-4).
La cultura antimodernista accettò le teorie di Dieterich e del suo predecessore
Bachofen, ma accordò l’idea di un matriarcato agricolo con quelle di un romanticismo contadino e anticristiano. Essi volevano un ritorno al grembo materno, alla
morte, agli antenati; da una mentalità cosmopolita volevano tornare alle fonti profonde del popolo; dal giorno della coscienza all’eccesso spirituale della notte. Si
formò così, al volgere del secolo, una cultura che intendeva rinnovare e far rinascere
la Madre, intesa come terra che garantiva il processo della vita. Tra questi vanno
ricordati Alfred Bäumler, successivamente braccio destro di Rosenberg, e Ludwig
Klages. Il tono radical-bohémienne di questo gruppo eterogeneo divenne evidente
nella interpretazione di Nietzsche fornita da Klages. Il Nietzsche di Klages non è
colui che predicava la costante autodisciplina dell’individuo e della volontà di potenza, Klages non apprezzava il sentimento faustiano di trasformazione e superamento. Il Nietzsche di Klages era il Nietzsche che predicava l’ubriacatura pagana di
Dioniso, l’apostasia della coscienza (p. 204).
Nella Mutter Erde di Dieterich, Klages e altri poterono leggere sul culto orgiastico
del demonico (dal greco daimon, “coloro che causano”) e dei falli sacri, dei culti
della fertilità e della opposizione da parte del Cristianesimo verso qualsiasi culto di
tipo fallico, fino alla demonizzazione cristiana del fallo (pp. 204-5).
Il selvaggio Dioniso con il suo seguito di satiri e sileni itifallici divenne una figura
che poteva essere usata contro il razionalismo liberale, la colpa cristiana, lo squallore
dell’era industriale che avanzava e l’inautenticità moderna al volgere del secolo. (pp.
205-6). La serietà di questo nuovo paganesimo è dimostrato dai tentativi fatti da
alcuni per convincere la sorella di Nietzsche a tentare di curare la follia del fratello
con le danze orgiastiche dei coribanti (p. 206).
Non sembrano esserci studi specifici per dimostrare che la Madre Terra sia stata
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una divinità indoeuropea (pp. 206-7). Si può però ricordare Hermann Wirth (18851981), che nel 1928 pubblicò Aufgang der Menschheit. In quest’opera Wirth riferisce
come un antico popolo ariano sia vissuto in Atlantide sotto il culto di un dio solare,
ma seguendo un ordine legale di tipo matriarcale. Quando Atlantide sprofondò, gli
Ariani fuggirono verso nord. Rintracciando la loro cultura (iscrizioni runiche e altre
immagini preistoriche), Wirth sperava di poter resuscitare la “razza nordica” e la sua
religione originale. Tali eccentriche teorie furono appena accettate nel 1935 dallo
SS-Ahnenerbe, ma dopo pochi anni le sue teorie dovettero lasciare il passo ad altre
meno fantastiche. Avendo adesso raggiunto il potere, i nazisti potevano fare a meno
di questi sogni sul matriarcato, incuranti dell’aspetto conservatore e razziale. Che la
teoria di un matriarcato protoindoeuropeo non sia mai stata accettata non significa
che la teoria patriarcale abbia goduto di un incontrastato seguito. I folkloristi viennesi che furono reclutati nell’Ahnenerbe, “i ritualisti”, di cui adesso si tratterà, vennero a rappresentare una terza “sociogonia” (p. 207).
Male Fellowshi ps?
Nel 1902 l’antropologo Heinrich Schurtz pubblica Altersklassen und Männerbünde:
Eine Darstellung der Grundformen der Gesellschaft, in cui egli attacca l’opera di Bachofen. Secondo Schurtz è impensabile che le donne abbiano mai governato una società, a causa della loro mancanza di istinti sociali. Le donne, egli sostiene, sono
guidate soltanto dalla volontà di riprodurre se stesse e solo poche donne “anormali
o patologiche” si interessano alle questioni sociali (p. 207). Mentre la donna è legata
alla famiglia che ha creato, l’uomo tende a formare legami associativi più ampi. Basandosi su ricerche etnografiche, egli affermò che si trovano sempre leghe maschili
(Männerbünde) alla base della società (pp. 207-8). Queste leghe maschili erano costituite da un gruppo di giovani iniziati che vivevano insieme in speciali dimore, che
difendevano la tribù in caso di guerra e “onoravano” le ragazze non sposate della
tribù con giochi sessuali. Queste leghe maschili avevano i loro culti, dove i partecipanti incarnavano le anime dei guerrieri morti con balli con armi, maschere e pitture
facciali (p. 208).
La teoria delle leghe maschili ottenne vasta risonanza in quanto controparte al
matriarcato proposto da Bachofen e venne collegata al mondo degli Indoeuropei
abbastanza velocemente. Il primo a scorgere questa possibilità sembra essere stato
Leopold von Schroeder. In una appendice a Mysterium und Mimus im Rigveda
(1908), egli collega alle leghe maschili di Schurtz alcuni costumi di popoli indoeuropei, come le danze delle armi dei Maruti, le danze delle spade germaniche, le danze
dei Salii romani, dei cureti e dei coribanti della Grecia e della Frigia. Tutti elementi
che, se osservati comparativamente, ci portano alla conclusione che i giovani dell’antichità ariana eseguivano simili danze con armi, nelle quali i danzatori rappresentavano gli spiriti di guerrieri morti. Questi spiriti erano comunque già considerati dei
demoni di natura fallica, in grado di apportare fertilità e buon raccolto (p. 208).
I modelli di iniziazione delle leghe maschili (vita / morte simbolica / rinascita)
erano isomorfi alle variazioni stagionali nel corso dell’anno e i membri delle leghe
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maschili erano quindi presentati in abbigliamento mitico come demoni della vegetazione. Il risultato è qualcosa che ingloba gli dei indoeuropei della tempesta e del
vento, pratiche magiche per ottenere la fertilità, licenza sessuale, riti di iniziazione,
ferocia, teatro rituale, culto degli antenati. Mysterium und Mimus im Rigveda divenne una delle fonti di ispirazione più importanti per i folkloristi di Vienna reclutati nell’Ahnenerbe, e i suoi ricercatori furono perciò noti come ricercati delle leghe
maschili (p. 209).
Nel 1927 Lily Weiser (successivamente Weiser-Aall) discusse la tesi “Altgermanische Jünglingsweihe und Männerbünde”, nella quale ella cercava di provare l’esistenza di Männerbünde anche nella Germania preistorica. Il tema della “armata dei
morti” (Totenheer), “caccia di Odino” o “esercito furioso” (wütende Heer da confrontare col tedesco Wut, Wotan) aveva una posizione rilevante nella sua dissertazione. Queste testimonianze erano state interpretate nel diciannovesimo secolo
come racconti allegorici sugli dei del vento e della tempesta. Weiser-Aall scelse invece di rappresentarle dal punto di vista del rituale, cioè come manifestazioni di
cerimonie propiziatorie della fertilità da parte di leghe maschili (p. 209).
Ricerche simili furono sviluppate da Richard Wolfram (1901-95), più tardi
uomo di punta della SS-Ahnenerbe in Austria. Il suo contributo principale fu Schwertztanz und Männerbund (1936), che spostò l’interesse dei ritualisti verso lo studio delle leghe maschili (p. 209).
L’opera più discussa dai ritualisti fu Kultische Geheimbünde der Germanen (1934)
dello studioso Ahnenerbe Otto Höfler (1901-87). L’opera era prevista in tre volumi,
ma solo uno fu portato a termine. Höfler segue la Weiser-Aall nel dimostrare i limiti
della interpretazione soltanto in chiave allegorica fornita dalla scuola mitologica
della natura per alcuni racconti o temi. Se la “caccia di Odino” è un’allegoria della
tempesta, si chiede Höfler, perché essa compare sempre durante le feste, principalmente a Natale? semplicemente perché le leggende dell’esercito furioso non sono
soltanto allegorie della natura, ma soprattutto riflessioni di antichi culti di società
segrete. In queste società germaniche, il cui rappresentante mitico era Odino, il capo
dell’armata dei morti, non c’erano donne, bambini, servi, deboli e vigliacchi, ma
solo “i migliori”. In origine i migliori si formavano in associazioni molto potenti. È
caratteristica delle leghe maschili mettere alla prova la forza e il coraggio nelle cerimonie di inizializzazione e nello sviluppo della vita nella comunità. Esse infatti aumentavano e stabilizzavano virtù maschili come il coraggio, il cameratismo, l’ambizione e la dura disciplina. Attraverso l’iniziazione l’uomo riceve una vita più autentica e potente di quella precedente, quando egli era in amicizia con persone non
iniziate. La sua morte fisica gli sembra ora irrilevante, poiché egli è parte del popolo
e tutt’uno con i guerrieri morti e tutt’uno con il suo dio. Questa pre-dualistica religione di morte era ritualmente eseguita quando i giovani guerrieri indossavano maschere dei loro predecessori morti: lo spirito degli antenati possedeva allora i giovani
guerrieri, che venivano trasformati in demoni (pp. 209-10).
Il culto germanico della trasformazione in demoni prevedeva una estasi del terrore che veniva messo a buon uso nel principale obiettivo delle leghe maschili: la
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lotta contro le forze distruttive. I racconti della caccia selvaggia, secondo Höfler,
rivelano che il nemico della gioventù germanica era un demone femminile con seni
mostruosi sollevato dal suolo. Questo demone femminile non deve essere interpretato come un simbolo della forza della vegetazione. Il fatto che sia presentato come
malevolo depone contro una interpretazione della mitologia della natura. Se il rinnovamento della natura fosse stata la meta dei riti magici delle leghe maschili, i
cacciatori avrebbero dimostrato piacere nel seguire il demone femminile. Invece il
carattere estatico dei cacciatori non ha niente di sessuale, piuttosto dimostra un piacere per la battaglia. La descrizione di questa caccia dimostra che i guerrieri tedeschi
combattevano contro streghe reali. Come i guerrieri, queste streghe erano connesse
a speciali società, ma queste società di streghe era tutto fuorché di tipo “eroicoestatiche”. Durante l’incontro rituale delle streghe, il sabba, le donne si dedicano a
dissolutezze sfrenate e a oscenità ciniche (pp. 210-1).
Höfler basa la sua raffigurazione del sabba delle streghe su The Witch-Cult in
Western Europe (1921) della frazeriana Margaret Murray. In quest’opera le testimonianze dei verbali dell’Inquisizione vengono interpretati in chiave “ritualistica”, vale
a dire come riflessi di riti della fertilità. Appare così la descrizione di culti celebrati
da donne e da un uomo avvolto in pelle di capra nel folto delle foreste. La religione
“dianica” delle streghe appare essere una versione popolare del culto orgiastico ed
erotico della “Grande Madre”, che Dieterich denigrava come beffa della elevata religione della Madre Terra (p. 211).
Weiser-Aall aveva interpretato i resoconti della caccia di Odino come narrazioni
di rituali della fertilità. Höfler, pur non contestando il fatto che per i Tedeschi la
lotta contro le streghe potesse stimolare la fertilità, insiste sul fatto che la fertilità
magica non era il fine principale dei riti delle leghe maschili. La fertilità poteva essere
un attributo delle leghe maschili, non la sua origine. È quindi sbagliato immaginare
che la religione degli antenati dei Tedeschi fosse focalizzata intorno ad interessi materiali. Höfler differenzia fortemente il modo di vita delle leghe maschili e quello dei
fattori. I partecipanti alle leghe maschili diventano “uno” con i loro antenati morti,
per cui il sogno di una vita dopo la morte cambiava: «Un padre morente trova conforto nel fatto che egli sopravvivrà attraverso il figlio, un guerriero caduto ha la credenza che sopravvivrà attraverso la sua gente.» (p. 212). Combattendo fianco a
fianco i guerrieri diventavano più vicini ai loro commilitoni che ai membri delle
loro famiglie (p. 212).
Le teorie di Höfler andavano contro la nozione borghese regnante che vedeva la
società germanica antica consistere solamente in fattori che vivevano in clan in piccole fattorie. Un rappresentante di questa posizione borghese era il germanista Bernhard Kummer, che apparteneva al movimento nordico di Hans F.K. Günther ed
era un membro della SA, mentre Höfler apparteneva alla SS (p. 212 e nota 121).
Alla luce dello stile di vita agrario germanico, Kummer interpretò tutti gli dei
germanici come dei della fertilità e sosteneva che i fattori tedeschi e il loro culto non
fosse né bellicoso né estatico (pp. 212-3). Kummer diventò il principale bersaglio di
Höfler. Secondo Höfler, Schurtz aveva mostrato in Altersklassen und Männerbünde
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che nelle società umane regnava sempre una tensione di base tra potere sovrano e
leghe maschili. Höfler pensava che questa “tensione di base” fosse molto forte
nell’antica società germanica. Le teorie di Kummer erano troppo limitate, rifiutando
esse di riconoscere che leghe maschili e culti estatici di Odino esistevano nei tempi
preistorici. Nell’insieme Kummer aveva giudicato male l’intera mentalità e storia
tedesca, etichettando come decadente e non nordico qualunque cosa non fosse collegata ai fattori. In Midgårds Untergang (1927) ebbe persino il coraggio di mettere
in dubbio le origini nordiche di Odino. Höfler accusa Kummer di aver restituito
l’immagine di un mondo idilliaco di pace, ricchezza, benessere, privo di tragedia.
Höfler collegava il culto di Wotan alla tragedia dionisiaca: seguendo questa traccia
si passa da un piccolo cerchio di parenti a un potere di tipo statale e storico; inoltre,
sempre secondo Höfler, il dato più importante della religione germanica risiedeva
nel fatto che un dio tragico-demonico fosse anche un dio della guerra di tipo statale
(p. 213).
Il nucleo del pensiero di Höfler è che il culto della morte da parte delle leghe
maschili fosse il centro dinamico della cultura germanica: il collegamento al morto
creava legami che generavano solidarietà, il culto della morte è così l’anima della
cultura (p. 213). Andare al di fuori di sé, come avveniva nell’estasi, non era per
Höfler una fuga nel caos, ma una fonte dell’energia dello stato, dell’ordine (pp. 2134). Per quanto riguarda i popoli germanici, Höfler sembra pensare che il dio
dell’estasi sia il dio più importante, mentre presso altri popoli indoeuropei il dio
dell’estasi era soggetto a un dio più potente ed equilibratore (Dioniso nei confronti
di Zeus per i Greci, Rudra nei confronti di Dyaús per gli Indiani). In Mythes et dieux
des Germains (1939), Dumézil ragionava in un modo simile: presso i Germani il
posto del dio supremo protoindoeuropeo era stato occupato da un furioso dio della
guerra. Infatti Dumézil sosteneva che l’intero panteon germanico avesse subito uno
slittamento verso il militarismo. A seconda della nazionalità, l’eccezionale, spaventosa ferocia germanica poteva essere vista come una cosa positiva (Höfler) o negativa
(Dumézil) (p. 214).
Von Schroeder ha investigato sull’esistenza di una lega maschile protoindoeuropea nei testi vedici. Weiser-Aall, Wolfram e Höfler tentarono di provare l’esistenza
di leghe maschili nelle aree germaniche. Altri studiosi tentarono di fare la stessa cosa
per altri popoli indoeuropei. Tra i classicisti si va da “Die Grundlage des spartanischen Leben” (1912) di Martin P. Nilsson, passando attraverso Couroï et Courètes
(1939) di Henry Jeanmaire, fino a Der Struktur des voretruskischen Römerstaat
(1974) di Franz Altheim. Per quanto riguarda il mondo classico, gli studiosi analizzarono l’educazioni dei giovani spartani e la loro lascivia, le rappresentazioni di sileni
e di satiri, fino ai racconti sui lupi mannari e sui Lupercali di Roma, dove giovani
correvano seminudi schiaffeggiando le donne che incontravano. Tra gli studi comparativi sulle leghe maschili indoeuropee ne sono esempi Zalmoxis (1938) e “Notes
on the Calusari” (1973) di Mircea Eliade, Le problème des Centaures (1929) e Horace
et Curiaces (1942) di Georges Dumézil (p. 214).
La più importante fra queste opere fu la dissertazione dello storico delle religioni
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svedese Stig Wikander (1908-85) Der arische Männerbund (1938). Egli aveva partecipato al seminario di Höfler e aveva deciso di scrivere una tesi per dimostrare
l’esistenza di leghe maschili nell’antico Iran. Gli studiosi dell’Ahnenerbe Walther
Wüst e J.W. Hauer avevano lo stesso proposito, però Wikander fu il primo a presentare evidenze. Attraverso l’analisi filologica di fonti dell’antico Iran e dell’India,
Wikander, un simpatizzante del fascismo che, su suggerimento di Wüst, provò a
pubblicare una seconda edizione di Der arische Männerbund per i tipi dell’Ahnenerbe, fu abile a presentare la prova indicante che leghe maschili Indo-Iraniane
oppure “ariane” erano esistite. Specialmente il sanscrito marya e l’avestico mairyō
furono decisivi e Wikander interpretò entrambe le parole come il termine usato per
definire il componente della lega maschile. Queste “leghe maschili ariane” avevano
una cultura consistente nell’onorare la morte in feste orgiastiche sacrificali legate a
organizzazioni guerriere, e un apprezzamento verso gli aspetti bui e demoniaci della
vita. In Der arische Männerbund Wikander identifica anche gli dei delle leghe maschili indoiraniche: in India era lo scuro Rudra e il dio del tuono Indra; in Iran, il
dio del vento e della morte Vayu. In Iran questo “popolo” o “religione turanica” fu
poi schiacciata dallo zoroastrismo, una religione sacerdotale riformata. Fra le altre
cose, l’avversione dello zoroastrismo per le leghe maschili era dovuto al fatto che “i
loro componenti appartenevano alla grande società della morte attraverso l’iniziazione” (p. 216), inaccettabile per lo zoroastrismo, che vedeva nella morte una creazione del diavolo. Secondo Wikander la lotta a favore e contro le leghe maschili ha
costituito la storia religiosa indo-iranica. In Iran ha determinato la costituzione dello
stato dei Parti e infine il trionfo dell’Islam sciita (pp. 216-7, nota 135).
Si può dire che la descrizione di Wikander delle “leghe maschili ariane” sia costruita per molti motivi sulle teorie di Höfler (p. 217).
The Homeland of the Demonic
Gli studiosi delle leghe maschili non difendevano l’immagine umanistico-borghese
degli Indoeuropei come popolo di alta cultura, ma rivalutavano invece l’immagine
degli evoluzionisti, che facevano degli Indoeuropei un popolo primitivo. Questo
comportava il confronto con tre grandi problemi: il primo riguardava la certezza
degli evoluzionisti che i popoli primitivi avessero una religione limitata a interessi
materiali, quali la fertilità e la salute. Gli studiosi nazisti disprezzavano questa visione, accentuando l’estasi e la lotta piuttosto che la sessualità e la rinascita (p. 217).
Il secondo era che per gli evoluzionisti il concetto di razza non aveva grande rilievo. Per gli evoluzionisti la natura del popolo era determinata dall’ambiente e non
da caratteristiche ereditate per razza. I ricercatori si opponevano soprattutto al ricorso di elementi sciamanici per spiegare certi tratti culturali indoeuropei, come era
accaduto con Nyberg per Zarathustra e con Dag Strömbeck per Odino (pp. 2179).
Il terzo problema riguarda il contrasto tra primitivizzazione degli indoeuropei e
ideologia dell’ordine. L’impostazione barbaro-fila dei ricercatori delle leghe maschili
comportava che gli antenati fossero visti come un popolo che viveva in condizioni
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relativamente primitive, prima che la cultura facesse dimenticare gli ideali superiori
(p. 219). Questo punto di vista contrastava fortemente con quello che vedeva negli
Indoeuropei i portatori della cultura a livello mondiale (pp. 219-220). Fu soprattutto Harald Spehr, nel saggio “Waren di Germaen ‘Ekstatiker’?” ad attaccare il tipo
di ricerche promosso da Kultische Geheimbünde der Germanen (1934) di Höfler, in
Wotan und germanischer Schicksalglaube (1935) di Martin Ninck e in Germanischer
Schicksalsglaube (1934) di Hans Neumann. Egli accentuava soprattutto l’aspetto
concreto e realistico dei Germani, e collegandosi a Günther di Frömmigkeit nordischer Artung ribadiva che i Germani, lungi dall’avere culti orgiastici, erano di carattere equilibrato e temperante. I culti orgiastici erano invece tipici del Medio Oriente
(p. 220).
Al volgere del secolo gli studiosi si erano interessanti ai grandi dei apollinei del
Nord, Tor e Balder e la teoria promossa da Kummer e Günther, riguardante la non
germanicità di Odino, aveva ottenuto una grande diffusione: «the cult of the dark,
one-eyed sorcerer Odin was a sign of foreign influence from the Near East, the Mediterranean, or the Celtic area, and a sign of cultural decadence» (p. 220). Il culto
di Odino, secondo Günther, era di tipo barbarico ed estraneo ai nobili fattori patriarcali indo-germani (pp. 220-1). Ma nel clima irrazionalistico e vitalistico tra le
due guerre, il fascino di Odino crebbe. Per Höfler, Nink e Neumann, rappresentava
la più autentica espressione della natura dell’antica società germanica, delle leghe
maschili e del loro culto estatico-demonico. Secondo Ninck la tesi della non-germanicità di Odino equivaleva ad «alto tradimento». L’irritazione di Höfler nei confronti di Kummer dipendeva dal fatto che i fattori descritti da Kummer erano del
tutto incapaci di creare stati e quindi una storia (p. 221).
Anche Wikander, in Der arische Männerbund, insisteva sulla necessità di rompere
con il vecchio modo di intendere gli Indoeuropei, che disconoscevano l’aspetto buio
e spaventoso delle tradizioni religiose, relegandole allo strato pre-ariano. Wikander
trova una idealizzazione degli ariani in diversi studiosi: lo storico delle religioni Torgny Segerstedt, di tendenze liberali, che collega dèi vedici tendenti al demonico,
quali Rudra, Varuna, Pusan e i Marut a popolazioni autoctone; in Ernst Arbman,
autore di Rudra (1922) e in due storici delle religioni di tendenze fasciste come Hermann Lommell e Mircea Eliade (p. 221).
Walter Otto, in Dionysos: Mythus und Kult (1933) infrange la tradizione di vedere
in Dioniso un dio straniero proveniente dall’Asia o dalla Tracia. Il libro è fortemente
influenzato dal vitalismo e dall’irrazionalismo di Nietzsche (p. 222).
Per Höfler e Wikander era impensabile che gli Indoeuropei, così come erano stati
ricostruiti dalla mitologia della natura e dagli ideologi dell’ordine, avessero potuto
conquistare la maggior parte dell’Eurasia. Per poterlo fare, essi avevano bisogno di
una forza barbarica originaria, simile a quella dei Germani durante la Grande Migrazione. In Der arische Männerbund Wikander riconosce nei Marut lo stesso
aspetto guerriero che le leghe maschili delle tribù ariane avevano manifestato per lo
più durante le epoche di migrazione e conquista. Solo attraverso uno spirito guerriero gli Indoeuropei potevano realizzare le loro conquiste e questo spirito guerriero
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nasceva dalle leghe maschili della cultura protoindoeuropea. Höfler e Wikander presentavano così gli Indoeuropei come un popolo guerriero (p. 222).
Myth, Order, and Irrationalism
Gli studiosi ritualisti adottavano una prospettiva di tipo sociologico. Per Höfler l’approccio sociologico divenne molto utile quando lo applicò al panteon antico nordico. Nella società germanica, secondo Höfler, era impossibile conciliare il modo di
vita del fattore con quello del guerriero. Egli sosteneva che il culto della fertilità dei
fattori e il culto estatico delle leghe maschili erano collegati in una fase antica, e ne
vedeva la prova nella battaglia tra dèi Asi e dèi Vani ricordata nella Völuspa. Tale
interpretazione venne soprattutto sviluppata da Georges Dumézil (p. 223).
Wikander, amico di Dumézil, definì questo metodo “un modo di guardare sociologico” in Der arische Männerbund. In linea con questa prospettiva, Rudra, da
dio primitivo pre-ariano, divenne un dio primitivo del popolo: da una interpretazione di tipo etnico, Wikander passava ad una di tipo sociologico (pp. 223-4).
In confronto ai ritualisti, gli ideologi dell’ordine avevano un modo più “ottocentesco” di interpretare i miti. In Indogermanisches Bekenntnis Wüst interpreta un racconto della mitologia indogermanica in cui il padre celeste genera un figlio solare il
quale, una volta cresciuto, discende tra gli esseri umani e li aiuta a combattere le
forze mostruose dell’oscurità. Secondo Wüst questo eroe, nella mitologia indiana
chiamato Trita Āptya che, sotto la protezione del dio Indra, uccide il mostro a tre
teste Viśvarūpa, divenne un modello per il popolo e successivamente «il mito originario di tutta la religione indogermanica» (p. 224). Wüst segue qui l’interpretazione
dei mitologi della natura con l’aggiunta di vederli come un riflesso del conflitto tra
razze della luce e razze del buio e come una allegoria morale. Dal mito originale
dell’eroe del sole Wüst deriva l’opposizione etica tra bene e male. Per tutti i popoli
indoeuropei il sole è il bene più alto e, di conseguenza, i miti che trattano la vittoria
del sole sono l’origine della visione del mondo e della vita degli Indoeuropei (p.
224). Max Müller aveva già sostenuto, su basi etimologiche, che il concetto indiano
indicante l’ordine divino, rta, in origine denotasse il corso del sole (pp. 224-5).
Gli ideologi dell’ordine avevano abbracciato la teoria nazionalistica del mito (cfr.
cap. 2, par. “Understanding Myths”) e utilizzavano anche i risultati della Völkerpsykologie, dottrina elaborata tra le due guerre da Adolf Bastian e Wilhelm Wundt, oltre
che dell’antropologia razziale. Attraverso queste due discipline (Völkerpsykologie e
antropologia razziale) l’influsso dell’ambiente sulle persone, e quindi sui miti, divenne irrilevante. È notevole che Rosenberg e il suo Istituto studiassero la “psicologia ereditaria”, Erbpsykologie (pp. 225-6).
Il grande interesse per i miti nel periodo tra le due guerre era avvalorata dal desiderio di trovare qualcosa di solido in un mondo che stava cambiando fortemente.
Questo qualcosa poteva essere identificato con nozioni romantiche quali l’anima del
popolo, la terra, il sangue. Attraverso Der Mythus des 20. Jahrhunderts (1930) Alfred
Rosenberg voleva contribuire a rinnovare i miti e a curare il senso di sradicamento
e di alienazione dei Tedeschi. Il mito, egli spiegava concisamente, è una «immagine
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dell’ordine» (p. 226).
La persona che ha fatto di più per l’idea che il mito è il genere dove l’eterno
penetra nel transitorio è lo storico delle religioni rumeno americano Mircea Eliade
(1907-1986). Per Eliade, che negli Trenta e Quaranta era un simpatizzante del fascismo rumeno, i miti erano racconti che davano la struttura di cui il popolo aveva
bisogno per una vita completa (p. 226). L’opposizione che guida le opere di Eliade,
quella tra le idee di Platone, il mito e l’ordine cosmico da una parte e la storiografia
e i cambiamenti storici dall’altra, è stata spesso interpretata come l’opposizione tra
Ariani ed Ebrei. Per Eliade la storiografia biblica è la dimostrazione della caduta dal
mondo originario delle idee. Die Grundlagen des 19. Jahrhunderts di H.S. Chamberlain anticipa questa posizione, facendo degli Ebrei i distruttori del mito a favore
della storia e degli Indoeuropei i cultori del mito (p. 227).
L’opera di Chamberlain avvia un percorso che culmina durante le due guerre e
riguarda l’aspetto misterioso del mito. Più precisamente, tale opera nega che i miti
abbiano a che fare con la ragione (logos) ed è quindi impossibile comprendere che
cosa sia in essi nascosto (p. 227). Questa posizione sarà pienamente condivisa da
Rosenberg, mentre J.W. Hauer contrapponeva questo modo di vedere indoeuropeo
(il mito non manifesta una verità assoluta, ma solo il modo di essere della razza che
lo ha creato) al fanatismo dei Semiti, che pensavano di essere in possesso della verità
assoluta. È da notare questa interpretazione tollerante e pluralistica dei miti da parte
di studiosi nazisti (p. 128 e nota 172).
Tanto gli studiosi delle leghe maschili quanto i mitologi dell’ordine condividevano la visione dei miti come qualcosa di misterioso. Höfler difendeva il suo approccio ritualistico ai miti (intesi come riflesso di un culto reale) attaccando le basi
delle ricerche antiche con l’ausilio di una filosofia antirazionalistica. Per lui i miti
non dovevano essere ridotti ad una visione materialistica della vita, dove tutto ruotava attorno al raccolto e alla sessualità, ma nemmeno a una visione astratta di essi,
per cui se un mito parla di una caccia alla strega può trattarsi veramente di una
caccia alla strega (pp. 228-9).
La visione antirazionalistica tra le due guerre proveniva da Nietzsche, Bergson,
William James. Höfler si rifaceva soprattutto a Ludwig Klages. La cui filosofia ruotava attorno a un dualismo: uno stadio primario cosmico e paradisiaco, simile a un
sogno collettivo, entro cui succedette l’irruzione dello spirito razionale, con il risultato di renderla insipida e vuota. Così Klages dà più valore al “simbolo” che punta
verso l’aspetto eterno a discapito del “concetto”, che riguarda solo gli oggetti morti
(pp. 230-1).
Per Höfler questa differenza diventa la differenza tra un punto di vista concreto
e un punto di vista astratto. Dal suo punto di vista la vera ideologia era quella che
presentava i suoi messaggi “simbolicamente”, cioè in modo “grafico, concreto” – la
sua ideologia ideale era quindi più mistica che concettuale, più ariana che ebraica
(p. 231).
Si ricordano ora brevemente altre opere che influenzarono lo studio sugli Indoeuropei dal punto di vista dell’irrazionalismo e del vitalismo nietzscheano:
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Innanzitutto il teologo Rudolf Otto con il classico Das Heilige. In Gottheit und
Gottheiten der Arier (1932) assegna un grande spazio a Rudra, che interpreta come
un dio pre-ariano con radici a Mohenjo-Daro e come l’esperienza di qualcosa di
terrificante (p. 231).
È poi la volta dello studioso Ahnenerbe Jacob Wilhelm Hauer, capo della Deutsche Glaubensbewegung, la più grande organizzazione neopagana della Germania
degli anni Trenta. In Die Religionen: Ihr Werden, ihr Sinn, ihre Wahrheit (1923), un
lavoro che influenzò fortemente Weiser-Aall e Höfler, insegnò che l’essenza della
religione era l’estasi. In Glaubengeschichte der Indogermanen (1937) presentò il misticismo indiano dell’unità (atman = brahman) come indoeuropeo e accettò parzialmente Rudra-Shiva come genuina divinità indoeuropea (p. 231). Tanto le teorie di
Otto quanto quelle di Hauer tentarono di presentare la religione indoeuropea come
un genere di misticismo con più (Otto) o meno (Hauer) aspetti cristiani (p. 232).
Bisogna infine ricordare Carl Gustav Jung, il cui pensiero, collegato alla psicoanalisi e allo studio del folklore su basi psicologiche, mostra molte somiglianze col
misticismo della sua epoca. Jung era soprattutto interessato alle differenze psicologiche tra Ebrei e Tedeschi. Nell’articolo “Wotan”, utilizzando il libro su Wotan di
Martin Ninck, sostenne che Odino era la più vera espressione dell’anima del popolo
germanico-tedesco e che il drammatico uso dei simboli neopagani fatti dai nazisti
fosse una naturale e salutare risposta a un migliaio d’anni di oppressione semiticocristiana (p. 232).
Instead of a Conclusion
C’è ora da chiarire le relazioni dei ricercatori delle leghe maschili con gli ideologi
dell’ordine, rappresentanti dell’ideologia ufficiale nazista. Le ricerche sulle leghe maschili mettevano in discussione gli ideali borghesi. Per molti accademici nati intorno
al 1900, il liberalismo, l’umanesimo e l’idealismo del secolo precedente sembravano
del tutto privi di valore. La prima guerra mondiale aveva dimostrato che nessun
aspetto culturale poteva addomesticare l’istinto feroce dell’uomo. Il dadaismo,
l’espressionismo e il surrealismo erano correnti artistiche che mostravano in quale
maniera l’uomo potesse sottrarsi alla gabbia del modernismo. L’interesse degli storici delle religioni verso l’estasi, la possessione, la morte iniziatica, riti popolari e altri
rituali dal forte carattere emotivo era un prodotto dello stesso sentimento antiborghese (p. 232).
L’interesse per le leghe maschili era giustificato dall’indebolimento che ormai si
avvertiva verso l’Europa. Alla fine del diciannovesimo secolo molte associazioni vennero fondate (di canto, di cacciatori, di astemi). Esse erano formate da uomini e
quindi sarebbe stato inutile chiamarle “leghe maschili”, ma solo quando il movimento femminile cominciò a prendere terreno, la parola Männerbund divenne del
tutto significativa e attrattiva (p. 233).
Vengono presi in esame anche i conflitti generazionali: Les rites de passages di
Arnold van Gennep è del 1909. Nel 1901 Karl Fischer fondò il movimento giovanile
dei Wandervögel. Hans Blüher ne divenne il più ardente propagandista. Secondo il
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suo pensiero, il movimento doveva arrivare a creare il nuovo stato del futuro. Di
tendenze antiborghesi, Blüher ne riconosceva la piena realizzazione nelle formazioni
gerarchiche e militari (p. 233).
Secondo Blüher, le leghe maschili erano in grado di collegare un movimento giovanile alla formazione di un nuovo stato (pp. 233-4). Anche Carl Schmitt, Ernst
Jünger e Alfred Bäumler (in Männerbund und Wissenschaft del 1934) sostenevano
che senza le leghe maschili dei guerrieri nessuno stato avrebbe potuto essere costituito (p. 234).
Dopo la fine della prima guerra mondiale diversi tipi di Männerbünde vennero
costituite, vere formazioni paramilitari e reazionarie che costituirono la base delle
successive Sturmabteilung (SA) e SS (p. 234). Si trattava di corpi costituiti di volontari, la cui ideologia di battaglia fu ben delineata da Ernst Jünger e che concorse a
formare l’ideologia del nazismo (p. 235). Gli studiosi delle leghe maschili interpretavano la lotta degli Indoeuropei contro altri popoli e razze come una comunione
in cui gli dei e gli antenati erano uniti con i vivi (p. 236).
L’ideologia nazista oscillava tra due poli. Uno che difendeva l’ordine, la proprietà
privata, la santità della famiglia, l’autorità del patriarca e le tradizioni borghesi: per
questi borghesi neotradizionalisti il nemico consisteva di social democratici, anarchici, suffragette e comunisti. L’altro polo era rappresentato da una falange antiborghese che voleva ricreare integralmente la società. I nemici di questa falange non
erano solo i modernisti di sinistra, ma anche gli aristocratici conservatori tradizionalisti e i neotradizionalisti ultraborghesi (p. 236).
La conquista del potere da parte dei nazisti fece vincere gli ideologi dell’ordine,
Rosenberg soprattutto, e condannò come inadeguate le teorie di Höfler. La conquista del potere aveva bisogno di ordine e non di esperimenti che avrebbero portato al
caos (pp. 237-8).
Il Terzo Reich finì nel 1945. Dopo quella data qualunque ricerca sugli “Ariani”
diventò sospetta. A Norimberga il capo amministrativo della SS-Ahnenerbe Wolfram Sievers fu condannato a morte e giustiziato come responsabile per esperimenti
medici su prigionieri in campi di concentramento. Walther Wüst, capo delle ricerche scientifico-culturali all’interno dell’istituto, ricevette una punizione molto
blanda, poiché le ricerche da lui condotte comprendevano solo una legittimazione
e non una attuazione. Fu destituito come professore ma venne accettato di nuovo
all’università dopo qualche anno. I suoi colleghi SS, Richard Wolfram, Otto Höfler
e Franz Altheim ricevettero lo stesso trattamento: furono destituiti dalle loro cariche
ma dopo pochi anni ritornarono ad essere ricercatori rispettati, e Altheim ottenne
fama mondiale. Essi poterono continuare a insegnare sugli Indoeuropei, i Germani
e la mentalità classica e a guidare studenti di dottorato; furono invitati a conferenze,
e speciali pubblicazioni furono loro dedicate (p. 238).
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CHAPTER
5
Horsemen from the East:
Alternatives to Nazi
Research
C AT H OL I C R E A CT I ON
Gli studiosi tedeschi che non potevano o non volevano accettare il modo di intendere gli Indoeuropei degli studiosi del Terzo Reich dovevano cambiare occupazione
o lasciare il paese. Sigmund Feist e Julius Pokorny erano due importanti indoeuropeisti che furono obbligati a lasciare. Le reazioni ideologiche alla standardizzazione,
allo sciovinismo e al razzismo delle ricerche naziste prese molte forme (p. 239).
In questo capitolo si analizzano due teorie che, almeno parzialmente, vennero
formate in opposizione a quelle dei nazisti (Wüst, Günther, Hauer): quelle di padre
Wilhelm Schmidt e di padre Wilhelm Koppers sulle culture primitive, e quelle di
Georges Dumézil sulla mitologia indoeuropea. Durante il dopoguerra queste due
teorie dominarono completamente le ricerche sulla cultura e la religione indoeuropea, nonostante esse partissero da una atmosfera che non differiva molto da quella
dei nazisti. Il capitolo inizia con una discussione sul fascismo e il cattolicesimo reazionario (p. 239).
Power and Male Fellowshi ps
Nel periodo compreso tra il 1880 e il 1930 gli storici e antropologi francesi avevano
cercato di rifiutare le ricerche tedesche. Henry Hubert, per esempio, aveva cercato
di convincere i suoi lettori che i Celti erano il più importante popolo culturale
dell’Europa e che i Tedeschi erano una razza bastarda. Per un uomo di sinistra come
Hubert i Celti (Galli) apparivano come i veri fondatori popolari di quello che poi
divenne la civiltà francese. La predilezione di Hubert per i Celti rinviava alla interpretazione progressista da parte di Michelet della storia francese, che egli aveva sviluppato in chiara opposizione alla vecchia storiografia, nella quale i Franchi germanici, come antenati dell’aristocrazia, erano raffigurati come l’anima di Francia. C’era
comunque un altro popolo che poteva essere elevato ad autentico antenato dei francesi: i romani (p. 239). Essi avevano dato alla Francia la loro lingua, la loro religione
e molti aspetti delle loro tradizioni (pp. 239-40). Durante il periodo fra le due guerre
i fascisti italiani avevano preso a idealizzare l’Impero Romano, ma Roma aveva i suoi
ammiratori anche nella Destra francese. Fustel De Coulanges aveva cercato di sostituire l’immagine illuministica della Roma repubblicana con quella, idealizzata, di
un periodo più antico, quando i patrizi detenevano il potere e la proprietà privata
era ancora sacra. I membri di Action française, una organizzazione fascista francese
sorta dall’affare Dreyfus, studiavano i testi di Fustel De Coulanges e intendevano
proteggere la monarchia e la chiesa cattolica romana. La Chiesa, nelle loro intenzioni
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e secondo un argomento di derivazione neotradizionalista, non aveva tanto la funzione di salvare le anime quanto di tenere insieme la nazione. Action française fu
infine condannata dal Vaticano, ma movimenti simili, ispirati al cattolicesimo neotradizionalista, sorsero in Austria attraverso il Partito Socialista Cristiano di Karl
Lueger, in Spagna attraverso la Falange e in Italia con il movimento di Gabriele
d’Annunzio, rimpiazzato gradualmente dal più anticlericale Partito Fascista (p.
240).
Durante il 1920 e il 1930 Dumézil supportò Action française e scrisse per i suoi
giornali. Fu sempre in questo periodo che egli cominciò a sviluppare le sue teorie
sulla mitologia indoeuropea. È possibile che le teorie di Dumézil avessero la funzione di offrire legittimità storica a un movimento fascista? (pp. 240-1).
Dumézil era inizialmente influenzato dagli evoluzionisti, in particolare da Frazer.
In uno dei primi libri Le problème des Centaures (1929), collega elementi indoeuropei (Gandharva, centauri) a gruppi di personaggi che compaiono in feste di tipo
carnevalesco (p. 241). Dumézil si mise poi a studiare le prime due funzioni (sacerdotale e guerriera), mentre la terza funzione, legata alla produzione dei beni di sussistenza, sembrava interessarlo poco (p. 241).
In Mitra-Varuna (1940) egli rintraccia un dualismo all’interno della prima funzione, quella della sovranità: un aspetto puramente legale, rappresentato da Mitra,
e un aspetto più ambiguo, magico, oscuro e inquietante, rappresentato da Varuna.
Secondo Dumézil proprio questo dualismo all’interno della prima funzione era ciò
che distingueva gli Indoeuropei da altri popoli (p. 242).
In alcuni casi Dumézil riconobbe lo stesso dualismo anche all’interno delle altre
due funzioni (p. 242), mentre una discussione a parte merita quello che egli stesso
definiva «le problème du roi». In quale funzione dovevano essere compresi i re?
Qualche volta il re era collegato all’aspetto magico della prima funzione, altre volte
alla funzione guerriera, come capo dei guerrieri e altre volte lo vedeva come transfunzionale, cioè inglobato nell’intera società (pp. 242-3).
Questa confusione è dovuta a molti fattori. Dopo il 1940 l’interesse di Dumézil
per gli Indoeuropei ebbe un arresto. La questione riguardava la legittimità del potere. Per questo bisogna confrontare le teorie di Dumézil con quelle di due altri
studiosi: Stig Wikander e Geo Widengren (p. 243).
Per Wikander (Der arische Männerbund) le leghe maschili possono condurre
all’ordine e alla giustizia (pp. 243-4). Per Widengren il pericolo delle leghe maschili
è che degenerino in gruppi legati al culto della morte, come il Ku Klux Klan e la SS
(p. 244). In entrambi i casi le leghe maschili sono mostrate come viventi ai margini
della società e questo sembra riflettersi nella teoria della sovranità elaborata da Dumézil (pp. 244-5).
Kings, Popes, and Leaders
Il doppio aspetto della sovranità non riguarda solo le leghe maschili, ma anche
l’aspetto teologico della politica (p. 246). Nel periodo fra le due guerre c’era molto
interesse sulle doti sovrannaturali del re e su come la sua divinità fosse stata creata
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ritualmente: tutti temi trattati da Frazer in The Golden Bough (I ed. 1900). Due libri
possono essere ricordati: Les rois thaumaturges (1924) di Marc Bloch e Kingship
(1927) di Arthur Maurice Hocart (p. 246).
Nel primo libro di Dumézil dedicato alla sovranità, Ouranós-Varuna (1934), i
motivi frazeriani sono dominanti: re, uccisione e mutilazioni di dei-re, cerimonie di
consacrazione. L’idea, che tiene insieme tutti i membri di una nazione può derivare
da De Maistre (p. 247 e nota 17). Nel libro successivo, Flamen-Brahman (1935),
egli discute sui sacerdoti come sostituti del re. Anche questo libro è influenzato da
Frazer. Dumézil non ha ancora completamente elaborato la sua tesi sul doppio
aspetto della sovranità. Essa compare solo nel terzo libro dedicato alla sovranità:
Mitra-Varuna (1940), influenzato da Der arische Weltkönig und Heiland (1923)
dell’indoeuropeista tedesco Hermann Güntert (pp. 247-8).
Güntert interpretava i nomi dei due dei come “coloro che legano”. In Mitra vedeva il dio-uomo salvatore e la presenza di questa figura era autenticamente ariana,
priva di qualsiasi influsso semita (pp. 248-9). Dumézil accetta le ipotesi di Güntert
ma è più interessato all’aspetto sociale della religione. Anziché insistere sulla funzione di salvatore di Mitra, insiste su quello di coesione del gruppo. In questo egli è
in linea con l’idea neotradizionalista di Action française (p. 249).
Le teorie di Dumézil ebbero molto seguito all’interno del circolo Le collège de
sociologie (1937-39), soprattutto ad opera di Roger Caillois, che era anche amico
di Dumézil, e di Georges Bataille. In Mythes et dieux des Germains (1939) Dumézil
tenderà a vedere nella preponderanza della seconda funzione un tradimento da parte
dei Germani dell’eredità indoeuropea. Cenni alla tripartizione funzionale e al dualismo della sovranità si trovano anche in Rivolta contro il mondo moderno (1934) di
Julius Evola. Tutto questo fa pensare che Dumézil abbia cercato di comprendere
come il potere dovesse essere costituito e ripartito studiando la storia e la mitologia
degli Indoeuropei (pp. 249-51, e note 32 e 3).
L’aspetto più importante dell’apporto di Dumézil all’indoeuropeistica sta nel
metodo strutturalista da lui sviluppato. Questo gli permette di abbandonare il piano
etimologico per passare al confronto tra le funzioni di un dio all’interno un panteon.
Per stabilire l’equivalenza tra due dei non bisogna più rivolgersi alla etimologia dei
rispettivi nomi, ma vedere se i legami di un dio con altri dei all’interno di un sistema
mitico sono congruenti con quelli che, in un’altra mitologia, un certo dio detiene
con altri dei. Negli indoeuropeisti è presente la certezza dell’esistenza di ciò che si
intende con il termine “indoeuropeo”, che è ben diverso da termini quali
“l’Oriente”, “atomo”, “paleolitico”, è una certezza quasi di tipo platonico che distingue questo termini da altri creati per facilitare il lavoro degli studiosi (pp. 2513).
From Primal Culture to Primal Indo-German
Oltre a Dumézil altri studiosi gettarono le basi per le ricerche sugli Indoeuropei nel
dopoguerra. Fra questi i principali sono padre Wilhelm Schmidt (1868-1954) e pa-
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dre Wilhelm Koppers (1886-1961), anch’essi, come Dumézil, legati in modo complesso alle ricerche sugli Indoeuropei compiuti nel Terzo Reich (p. 253).
Il lavoro più importante di questa corrente è l’antologia Die Indogermanen- und
Germanenfrage: Neue Wege zur ihrer Lösung (1936), che intendeva opporsi a una
antologia pubblicata qualche mese prima e ideologicamente legata al nazismo, Germanen und Indogermanen: Volkstum, Sprache, Kultur (pp. 253-4).
Questa scuola cattolica di ricercatori prende le mosse dalle ricerche di Victor
Hehn (1813-90) e di Otto Schrader (1855-1919), che tendevano a ridurre la consuetudine di ricorrere a dati linguistici ai fini di trarre conclusioni (pp. 255-7). Wilhelm Schmidt, che ne fu il principale artefice, la definì “dottrina del circolo culturale” e venne sviluppata nel campo dell’antropologia storico-culturale. Schmidt e si
suoi allievi cercavano di definire diversi circoli culturali e di studiarne l’origine, la
diffusione e il contesto (p. 257). Tipico della fase più antica della cultura era anche
un monoteismo originario (pp. 257-8).
La storia universale si sarebbe sviluppata attraverso circoli culturali: quello matriarcale legato all’agricoltura, quello totemico dei cacciatori, quello dei pastori
dell’Asia Centrale (pp. 258-9). Gli antichi Indogermani appartenevano a quest’ultima cultura. Essi praticavano soprattutto l’allevamento dei cavalli, sia come cibo,
sia come mezzo di trasporto. Da qui sorge l’importanza del cavallo nella mitologia,
le figure dei Dioscuri (Castore e Polluce, Asvin), i sacrifici del cavallo (asvamedha).
Secondo Koppers gli Indo-germani avrebbero adottato la loro cultura dai popoli
altaici (p. 259).
I popoli semiti appartenevano al cerchio culturale altaico. Loro caratteristica era
quella di avere preservato nella Bibbia la credenza nell’antico Dio delle origini. Con
la decadenza della cultura si ha l’insorgenza del politeismo, della magia e dell’animismo (pp. 258-9).
A Catholic Basti on
Schmidt e Koppers interpretano gli Indoeuropei come nomadi bellicosi. Tale teoria
nasce anche dalla loro volontà di opporsi alla interpretazione fornita dai nazisti (pp.
260-1). Dal punto di vista ideologico, Schmidt non era molto lontano dai nazisti,
avendo anche lui tendenze antisemite (secondo lui gli Ebrei erano colpevoli di aver
crocifisso il Messia e di aver favorito, tramite la Massoneria, il materialismo, il socialismo e il capitalismo) e volendo opporsi al bolscevismo. Koppers, di cui non
esistono molti studi biografici, fu sempre suo stretto collaboratore a partire dal 1913
(p. 263).
Herders and High Cu ltures
Die Indogermanen- und Germanenfrage fu finanziato dal regime austriaco fascista di
Schluschnigg. L’intenzione del libro era stabilire chi fossero gli Indogermani, i Germani e i Tedeschi. Come potevano Schmidt e Koppers, che difendevano una Austria
libera con legami nel Vaticano, pensare di indebolire il nazismo grazie agli Indoeuropei? (p. 264).
Innanzitutto la posizione degli Indoeuropei viene ridotta nell’insieme della storia
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globale; essi infatti sono solo un gruppo di pastori tra tutti quelli dell’Asia Centrale.
Per quanto venisse accettata la Bibbia come rivelazione divina, il monoteismo diventava nella teoria di Schmidt e Koppers un qualcosa di ereditato dalle culture
originarie e non una rivelazione fatta esclusivamente agli Ebrei (p. 264). Ma la religione degli Indogermani era in realtà falsa e proveniente da elementi del precedente
stadio matriarcale, come, secondo Koppers, dimostrerebbe il culto del cavallo, di
provenienza turca e mongola e altri fattori, quali le società segrete, i culti della fertilità, gli dei del tuono – di provenienza dal Vicino Oriente – e i sacrifici di animali
(p. 265). Die Indogermanen- und Germanenfrage intendeva soprattutto negare l’esistenza di una cultura Indogermanica originaria, essendo essa, fin dagli stadi più antichi, il risultato di una combinazione multiculturale. L’immagine dei protoindoeuropei viene qui mischiata con le ricerche di Bachofen e Dieterich sulla Madre Terra
(p. 266). Si nota una ambivalenza in questa posizione: da un lato gli Indogermani
avrebbero conservato il monoteismo delle alte culture iniziali, dall’altro avrebbero
contaminato il monoteismo con elementi meridionali (p. 268). Finché gli Indogermani restarono legati alla pastorizia erano adoratori del vero dio del cielo, quando
la loro cultura si mischiò con quelle degli adoratori del sole del cerchio culturale
totemico, allora si credettero essi stessi dei e superuomini e subirono una disumanizzazione. È qui evidente una critica alle teorie naziste e al loro simbolo della svastica (pp. 271-2).
Per Schmidt il nazismo è l’apice delle ideologie sorte con la fine della cultura
medioevale, tutte volte a cancellare il sovrannaturale e a fare dell’uomo stesso un dio
(p. 273).
The Divine Nordic Rac e
Se in un primo tempo Schmidt e Koppers poterono condividere l’ideologia nazista,
con l’andare del tempo essi capirono che questa ideologia poteva ritorcersi contro i
valori cristiani. Schmidt era soprattutto ostile al nazismo, che separava fortemente
dagli altri movimenti fascisti, proprio a causa dei valori pagani e anti cristiani che
esso voleva far rinascere (p. 273). In Rassen und Völker in Vorgeschichte und Geschichte
des Abenlandes (1946-49) Schmidt scrive che Hitler era favorevole al cristianesimo
perché ne riconosceva la forza di tenere insieme il popolo, Günther e Rosenberg lo
disprezzavano e nella loro arroganza avevano elevata la razza nordica al rango di un
dio. Proprio il concetto di razza era inammissibile per il sacerdote, che invece mirava
a unire tutti i popoli sotto la stessa fede (p. 274). Alla luce di queste considerazioni,
Schmidt venne ad attenuare il suo antisemitismo del 1936 (p. 275).
Schmidt combatteva soprattutto il principio della superiorità della razza nordica,
fatta coincidere dal nazismo con l’insieme della razza Indogermanica, coincidenza
operata soprattutto da Günther (p. 275).
Per quanto riguarda i territori germanici Schmidt suppone uno strato di agricoltori, legato al culto della Dea Madre, come nella mitologia nordica dimostrano gli
dei Vani. A questo si aggiunge successivamente l’arrivo di un gruppo indogermanico, legati al culto degli dei Asi con a capo il dio del cielo Tyr. Infine una nuova
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ondata indogermanica introduce il culto estatico del dio Odino, vicino allo sciamanesimo. Il culto di Odino, secondo Schmidt, non rappresenta la forma più alta e
originale di religiosità nordica, ma quella più bassa e ricca di elementi stranieri (p.
279).
Integration
È utile confrontare la distinzione che padre Schmidt fa tra gli Indogermani del sud,
pacifici pastori brachicefali, e gli Indogermani del nord, avventurosi guerrieri dolicocefali con quella che Dumézil vedeva tra categorie quali “il lento”, “il regolato”,
“il benevolente” da una parte e “il furioso”, “il totalitario” e “lo scuro” dall’altro. È
la distinzione tra Mitra e Tyr (i contadini e i preti di Schmidt) e Varuna e Odino, (i
guerrieri e i maghi). Entrambi avevano riconosciuto nella Germania della loro epoca
quegli aspetti che i loro studi li avevano portati a trovare negli antichi Indoeuropei
e avevano cercato di trovare un posto per le antiche forme di potere del papa e del
re (p. 282).
A RCH A E OL OGY A ND C R I T IQUE
From a Sociali st Horizon
Fra gli autori che contribuirono a Indogermanen- und Germanenfrage di Koppers
c’era anche l’archeologo Gordon Childe (1892-1957), i cui studi, insieme a quelli
di Schmidt e Koppers determinò l’approccio del dopoguerra alla cultura dei Protoindoeuropei. Di tendenze socialiste, Gordon Childe aveva tutto l’interesse a opporsi alla interpretazione nazista degli Indoeuropei (pp. 282-3).
L’interesse di Childe sugli Indoeuropei risaliva al 1926, data della pubblicazione
del suo The Aryans: A Study of Indo-European Origins, considerato per lungo tempo
il testo di riferimento nel mondo anglosassone (p. 283). Childe stabilisce la dimora
originaria degli Indoeuropei nell’area delle steppe della Russia meridionale, nell’area
archeologica definita kurgan, dei tumuli funerari. Essi erano allevatori di cavali e
altro bestiame e patriarcali. Sarebbero giunti in Europa nel secondo millennio, dove
trovarono una cultura di tipo megalitico, la cui origine era in Egitto (p. 285). Inizia
così, con l’arrivo degli Indoeuropei, l’identità europea. La nuova cultura si stabilisce
in una zona che va dall’attuale Francia alla Gran Bretagna. La Scandinavia e il nord
Europa ebbero uno sviluppo diverso, perché la cultura autoctona era molto più saldamente presente (pp. 285-6). L’approccio di Childe agli Indoeuropei ricorda
quello del liberalismo del diciannovesimo secolo: egli li vedeva dotati di un umanesimo progressista, che si rivelava soprattutto nel linguaggio (p. 286).
L’interesse del socialista Gordon Childe nei confronti degli Indoeuropei fu un
fatto insolito. In tutti i paesi socialisti, infatti, lo studio della cultura indoeuropea
non era considerato un argomento scientifico (pp. 287-8).
The Rise of the European Patriarchy
A sviluppare le teorie di Gordon Childe sull’origine degli Indoeuropei nelle steppe
della Russia meridionale fu l’archeologa lituano-americana Marija Gimbutas (1921-
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94). A livello archeologico, ella riconosce in Europa la presenza di una cultura definita “Old Europe”, caratterizzata da popolazioni pacifiche, dedite all’agricoltura, sedentarie e ugualitarie, probabilmente matrilineari con il culto della Dea Creatrice.
Tale culto venne in seguito rimpiazzato dalle divinità maschili degli Indoeuropei,
per cui, dopo circa il 2500 a.C., si ha una fusione delle due culture (p. 289).
La cultura dell’Europa Antica descritta da Marija Gimbutas è molto simile alla
religione della Madre Terra descritta da Bachofen, Dieterich, Harrison (p. 290).
Gimbutas accettava la tripartizione di Dumézil, ma considerava le dee più importanti di quanto non avesse fatto Dumézil, vedendole come transfunzionali (p.
291). Come Schmidt e Koppers, ella tende a vedere gli Indoeuropei parenti dei pastori semiti (p. 291).
Le sue teorie sulle dee dell’Europa Antica hanno avuto seguito presso il neopaganesimo femminista, in lotta contro il patriarcato indoeuropeo e semita (p. 292).
È da notare che mentre nel diciannovesimo si tendeva a contrapporre i libertari
Indoeuropei agli oppressivi Semiti, come ad esempio faceva Max Müller, in queste
teorie di Gimbutas tanto gli Indoeuropei quanto i Semiti sono visti come i portatori
di una cultura oppressiva e negatrice della vita autentica. A differenza di quanto
proposto da molti indoeuropeisti, ella vede la vera eredità europea nella cultura
dell’Europa Antica, cioè preindoeuropea (p. 292). La sua ostilità nei confronti degli
Indoeuropei potrebbe essere stata provocata dal fatto che gli invasori della Lituania
erano slavi sovietici; a livello simbolico: guerrieri a cavallo provenienti dall’est (p.
293).
The Rise of European Agricu lture
Le teorie di Marija Gimbutas non furono molto considerate dagli studiosi, ad eccezione di Colin Renfrew, che ne discute metodi e conclusioni in Archaeology and
Language (1987), cercando pure di risolvere le divergenze tra archeologia e linguistica a proposito degli Indoeuropei (pp. 294-5).
Lo strutturalista russo Nikolaj Trubetskoj (1890-1938) esclude la possibilità di
una famiglia linguistica indoeuropea. È possibile che il suo tentativo di annullare il
discorso sugli Indoeuropei fosse una reazione all’imperialismo europeo e romanoteutonico (p. 297).
Tipico di Renfrew è negare le migrazioni a proposito degli Indoeuropei per una
teoria che prevede l’integrazione di culture che vivono in zone confinanti (p. 298).
La teoria di Renfrew è stata criticata dall’indologo Shaldon Pollock come adatta
all’epoca della Comunità europea, dove pacifici fattori abitano fianco a fianco in
interazione, minimizzando le differenze etniche e nazionali (p. 300).
Indo-European or “Ind o-European”
Con Bruce Lincoln gli studi sulla mitologia indoeuropea prendono una direzione
completamente diversa. Egli studia i miti come narrazioni intese a ratificare principalmente delle ingiustizie sociali, dei limiti e delle gerarchie. La differenza rispetto
a Dumézil è rilevante: il mito non riflette delle circostanze sociali, bensì ratifica delle
ingiustizie (p. 303).
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Bruce Lincoln ha anche attaccato a più riprese Dumézil, accusandolo di essersi
lasciato influenzare negli studi dalle sue simpatie di destra (pp. 304-6 e nota 198).
A partire da Theorizing Myth: Narrative, Ideology, and Scholarship (2000) Bruce
Lincoln sceglie di definire i miti precedentemente classificati come indoeuropei
come “indoeuropei” (tra virgolette), per segnalare l’inutilità di una tale classificazione (p. 306).
Conc lusion
Gli studi di indoeuropeistica nel dopoguerra possono essere così sintetizzati (pp.
307-8):
1) Teoria della tripartizione funzionale di Georges Dumézil.
2) Teoria di Schmidt e Koppers. Gli Indoeuropei vengono visti in un modo ambiguo: le caratteristiche bellicose della razza nordica vengono temperate da un pacifismo di carattere meridionale.
Entrambe queste teorie possono essere classificate di destra e legate a ideologie
conservatrici.
3) Teoria di Marija Gimbutas. Volta a demonizzare gli Indoeuropei e a rivalutare
la religione dell’“Europa Antica” ruotante attorno alla Grande madre.
4) Studi di Bruce Lincoln, che a partire dal 1980 prendono di mira Dumézil,
Roger Pearson e Jean Haudry, accusati di essersi lasciati trasportare da ideologie di
destra, e che successivamente procedono a un sistematico rovesciamento di tutti gli
idoli ariani
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Conclusion
S UM M A RY
Si può affermare che gli studi sugli Indoeuropei hanno radici bibliche. Le narrazioni
sui tre figli di Noè hanno funzionato nell’antichità, nel medioevo e nei tempi moderni come linee guida per la classificazione del genere umano (p. 309).
La popolazione dell’Europa fu convenzionalmente vista come discendente dal
figlio più giovane, Jafet, con l’eccezione di Jacob Bryant e di William Jones, che la
collegarono alla famiglia di Cam. In tutti i casi questi antenati vennero visti come
avventurosi e culturalmente creativi, anche se deviarono dal monoteismo d’origine
(p. 309).
Friedrich Max Müller divideva ancora i linguaggi e le religioni dell’umanità in
semite, ariane e turaniche, mentre Wilhelm Schmidt parlava ancora di Semiti, Indogermani e popoli Altaici come custodi del monoteismo e del patriarcato delle
origini (pp. 309-10). Per questi ricercatori di fede cristiana, gli Indoeuropei sembravano così preservare l’autentico cristianesimo (p. 310).
Da un punto di vista più radicale, Ernest Renan contrappose Indoeuropei e Semiti. Nella sua visione gli Indoeuropei erano dotati di molte qualità, mentre i Semiti
ne erano del tutto sprovvisti. Tuttavia non si può parlare di un vero antisemitismo a
sfondo razzista e l’ideologia guida è sempre il liberalismo borghese. Ma il discorso
sugli Indoeuropei serviva anche a giustificare l’imperialismo, come ad esempio sembravano fare i testi vedici, e gli Indoeuropei erano visti come eroi culturali portatori
del progresso presso popolazioni selvagge (pp. 310-1).
Dalla triade di partenza il discorso si sposta su una dualità: gli Indoeuropei di
carnagione chiara, biondi e dagli occhi azzurri e le popolazioni sottomesse di carnagione scura (p. 311).
Negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo gli Indoeuropei vennero accostati alle popolazioni che l’etnologia definiva “primitive” e si cominciò a parlare di
totemismo, animismo e culto degli antenati; tutte corrispondenze che l’archeologia
e lo studio del folklore poteva confermare. Sorse così la teoria che gli Indoeuropei
originari non erano i civilizzati Indiani o Greci, ma i barbari Germani. La dimora
originaria degli Indoeuropei passò così dall’India al Nord Europa. Nel passaggio tra
i due secoli, il discorso sugli Indoeuropei ebbe una pausa (pp. 311-2).
In parallelo alle critiche degli evoluzionisti, sorse una nuova scuola che intendeva
privilegiare la “vita”, l’“intensità” e la “volontà”. Houston Stuart Chamberlain si
muove in questa direzione. Nei Semiti vede poi un grezzo materialismo. Leopold
von Schroeder tentò invece di combinare le teorie della mitologia della natura con
quelle degli evoluzionisti e dei filosofi della vita. Lo scontro tra Indoeuropei e Semiti
si accentua (p. 313).
Accanto agli studi degli Indoeuropei dal punto di vista linguistico e culturale
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c’era un’altra scuola che li considerava dal punto di vista dei caratteri razziali: l’antropologia razziale. Con il nazismo sorsero due correnti principali di studi di indoeuropeistica, in Aryan Idols definite “ideologia dell’ordine” e “ideologia dei barbari”. La prima era centrata sulla capacità degli Indoeuropei di dare ordine al mondo
e alla vita; la seconda sulla attitudine verso la battaglia e la possessione, unica forza
in grado di spezzare la gabbia ferrea della modernità, di origine semita (pp. 313-4).
In opposizione alle teorie naziste sorgono quelle di padre Schmidt e di padre
Koppers, e di Georges Dumézil. Le prime sono basate sulla commistione delle doti
bellicose del tipo indoeuropeo con un tipo razziale diverso e più pacifico. Dumézil
tende invece a sottomettere il valore militare degli Indoeuropei alla sovranità magica
e legale (pp. 314-5).
L’immagine degli Indoeuropei come bellicosi cavalieri provenienti dall’est europeo è riproposta da Marija Gimbutas ma senza alcuna ammirazione nei loro confronti: essi sarebbero infatti i responsabili della distruzione della cultura dell’“Europa
antica” di tipo “pelasgico” (p. 315).
Nonostante i tentativi di Colin Renfrew di offrire una immagine diversa degli
Indoeuropei, pacifici fattori ugualitari, le teorie di Marija Gimbutas e di Dumézil
continuano a formare la base degli studi sugli Indoeuropei (p. 315).
A partire dagli anni Ottanta del Novecento è emerso un gruppo di opere che
affronta la mitologia degli Indoeuropei e la storia dei suoi studiosi (p. 315).
C L A S S I FI CAT I ON A ND H IS TOR I OGRA PH Y
Si è notato che il discorso sugli Indoeuropei ha spesso contrapposto Indoeuropei e
Semiti, bisogna però precisare che nel diciannovesimo secolo tale contrapposizione
è raramente apertamente razzista, essendo legata al liberalismo (p. 317).
Colpisce poi il fatto che gli Indoeuropei siano sempre presentati come la metà di
un insieme di cui l’altra metà è rappresentata dai loro avversari: Semiti, diverse popolazioni sottomesse. Gli studi sugli Indoeuropei riflettono poi le grandi trasformazioni che l’Europa ha attraversato durante il diciannovesimo e il ventesimo secolo.
Ogni immagine degli Indoeuropei riflette questi cambiamenti sociali (pp. 317-8).
Se la classificazione è inevitabile per gli studi scientifici, questa crea dei problemi
che di volta in volta devono essere presi in considerazione. Accettare i nomi che i
popoli danno di se stessi non è sempre vantaggioso. Nell’indoeuropeistica si è sempre accettata la definizione di arya, che certi popoli davano di se stessi nei testi vedici
e di dasyu per i loro nemici e i modi in essi si vedevano e vedevano gli altri, si ha così
l’immagine dei biondi ariani e degli scuri dasyu (p. 322).
La storiografia dovrebbe indicare le scelte fatte e cercare di comprendere il motivo
di quelle scelte anziché di altre ugualmente possibili. Tuttavia il mito, come notava
Barthes, è fatto apposta per trasformare la storia in evento naturale, col risultato di
nasconderla. Così, se il mito trasforma la storia in destino, la storiografia – nella
migliore delle ipotesi – rivela che il destino è il risultato delle scelte fatte (pp. 3223).
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Stefan Arvidsson, Aryan Idols. Indo-European Mythology as Ideology and Science, The University of
Chicago Press, Chicago and London 2006 (Originally published as Ariska idoler: Den indoeuropeiska
mytologin som ideologi och vetenskap, Brutus Östling Bokförlag Symposion, 2000).
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