la filosofia come scienza rigorosa

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Edmund Husserl
“LA FILOSOFIA COME SCIENZA RIGOROSA”
Un riassunto a cura di Alessandro Benigni
Parma, 2002
Sin dai suoi primi inizi la filosofia ha avanzato la pretesa di essere scienza rigorosa e,
precisamente, la scienza in grado di soddisfare le più elevate esigenze teoretiche e di rendere
possibile, in prospettiva etico-religiosa, una vita regolata da pure norme razionali. Questa
pretesa è stata fatta valere ora con maggiore ora con minore energia, senza essere però mai
completamente abbandonata, neppure nei tempi in cui gli interessi e le capacità per la pura
teoria minacciavano di venir me no o in cui le forze religiose soffocavano la libertà della
ricerca teoretica.
In nessuna epoca del suo sviluppo la filosofia è stata in grado di soddisfare la pretesa di
essere scienza rigorosa; neppure nell'epoca moderna che, pur nella molteplicità e
contrapposizione degli orientamenti filosofici, si sviluppa dal Rinascimento fino ad oggi in una
direzione essenzialmente unitaria. Certo, l'ethos dominante della filosofia moderna consiste
proprio in questo, che essa, invece di abbandonarsi ingenuamente all'impulso filosofico,
intende costituirsi come scienza rigorosa mediante la riflessione critica, attraverso ricerche
sempre più approfondite sul metodo. Ma l'unico frutto maturo di questi sforzi fu la fondazione
e la progressiva autonomia delle scienze rigorose della natura e dello spirito, nonché delle
nuove discipline puramente matematiche. La filosofia stessa, in quel senso particolare che
solo ora si viene a distinguere, continuava ad essere priva del carattere di scienza rigorosa. Già
il senso di questa distinzione rimaneva senza una determinazione scientificamente sicura.
Ancora oggi è controverso in quale relazione stia la filosofia con le scienze della natura e dello
spirito, se l'elemento specificamente filosofico del suo lavoro, riferito tuttavia essenzialmente
allo spirito e alla natura, richieda atteggiamenti di principio nuovi, con i quali siano dati scopi
e metodi di principio peculiari, se dunque l'elemento filosofico ci introduca per così dire in
una nuova dimensione, oppure se si dispieghi sullo stesso piano delle scienze empiriche della
natura e della vita dello spirito. Il che mostra come il senso autentico dei problemi filosofici
non sia mai stato scientificamente chiarito. Dunque la filosofia, nella sua intenzione storica la
più elevata e rigorosa di tutte le scienze, essa, che rappresenta l'aspirazione imperitura
dell'umanità alla conoscenza pura ed assoluta (e, cosa inseparabilmente unita a questa, al
puro e assoluto valutare e volere) è incapace di darsi la forma di vera scienza. La maestra per
vocazione dell'opera eterna dell'umanità non è in genere in grado di insegnare in maniera
oggettivamente valida. Kant amava dire che non si può imparare la filosofia, ma solo a
filosofare. Cos'è questa se non un'ammissione della non scientificità della filosofia? Fin dove
arriva la scienza, la vera scienza, si può insegnare ed imparare, e ciò ovunque nello stesso
senso. L'apprendimento scientifico non è mai l'accettazione passiva di una materia estranea
allo spirito, esso poggia sempre sulla spontaneità [Selbsttatigkeit], su di una riproduzione
interiore delle evidenze razionali [Vernuntteinsichten] ottenute da spiriti creatori, secondo
principi e conseguenze. La filosofia non si può imparare poiché non vi sono tali evidenze
oggettivamente comprese e fondate, vale a dire poiché mancano ancora problemi, metodi e
teorie concettualmente ben definiti e pienamente chiariti nel loro senso.
Non voglio dire che la filosofia sia una scienza imperfetta, dico semplicemente che non è
ancora una scienza, che essa come scienza non ha ancora avuto inizio, e valga qui quale
criterio un frammento qualsiasi, sia pure piccolo, di un contenuto dottrinale teoretico
oggettivamente fondato. Tutte le scienze sono imperfette, persino le tanto ammirate scienze
esatte. Da un lato esse sono incomplete a causa dell'orizzonte infinito di problemi aperti che
non daranno mai pace all'impulso conoscitivo; dall'altro esse presentano numerose lacune nel
loro contenuto dottrinale già formato, rivelando qua e là residui di oscurità o imperfezioni
nell'ordine sistematico delle dimostrazioni e delle teorie. Ma vi è comunque un contenuto
dottrinale che continuamente cresce e si ramifica in forme nuove. Nessuna persona
ragionevole metterà in dubbio la verità oggettiva o la probabilità oggettivamente fondata delle
stupefacenti teorie della matematica e delle scienze naturali. Nel complesso non vi è qui
spazio alcuno per “opinioni”, “intuizioni” e “punti di vista” privati. Nella misura in cui, tuttavia,
vi è in un ambito particolare qualcosa di analogo, la scienza in questione non è ancora
divenuta scienza, ma è in via di divenirlo, ed è così che in generale viene considerata
[…]
Una simile convinzione va espressa ancora una volta con decisione e onestà, e proprio in
queste pagine, agli esordi della rivista «Logos», che intende dare testimonianza di una
significativa svolta della filosofia e preparare il terreno al futuro “sistema” della filosofia.
Infatti, evidenziando con decisione la non scientificità di tutta la filosofia precedente, si
solleva subito la questione se la filosofia voglia ancora in futuro mantenere lo scopo di essere
scienza rigorosa, se essa possa e debba volerlo. Che cosa dovrà significare per noi la nuova
“svolta”? Forse l'abbandono dell'idea di una scienza rigorosa? E quale significato dovrà avere
per noi quel «sistema” che desideriamo e che ci deve illuminare come ideale nelle profondità
del nostro lavoro di ricerca?
[…]
Le “svolte” decisive per il progresso della filosofia sono quelle in cui la pretesa delle filosofie
precedenti di essere scienza rigorosa crolla sotto la critica del loro presunto procedere
scientifico ed è la volontà consapevole di riformare radicalmente la filosofia nel senso della
scienza rigorosa a guidare e determinare l'ordine dei lavori. Il pensiero concentra dapprima
tutta la sua energia nel tentativo di chiarire in maniera decisiva, attraverso una
considerazione sistematica, le condizioni della scienza rigorosa che la filosofia fino a quel
momento ingenuamente non aveva ancora scorto o frainteso, per poi tentare la costruzione di
un nuovo edificio dottrinale filosofico. Una simile consapevole volontà di scienza rigorosa
domina la svolta socratico-platonica della filosofia e, all'inizio dell'età moderna, le reazioni
scientifiche contro la scolastica, in particolare la svolta cartesiana. Il suo impulso si estende
alle grandi filosofie del XVII e XVIII secolo, si rinnova con forza più radicale nella Critica della
ragione di Kant e domina ancora la filosofia di Fichte. La ricerca è costantemente rivolta ai veri
inizi, alle formulazioni decisive dei problemi, al giusto metodo.
Solo nella filosofia romantica si assiste ad un mutamento. Sebbene anche Hegel insista
sull'assoluta validità del suo metodo e della sua dottrina, manca tuttavia al suo sistema quella
critica della ragione che prima fra tutte rende possibile la scientificità filosofica. In
connessione a ciò sta però il fatto che questa filosofia, come la filosofia romantica in genere, ha
avuto nel periodo successivo l'effetto sia di un indebolimento sia di una falsificazione
dell'impulso alla costituzione della rigorosa scienza filosofica.
Riguardo a quest'ultima, la tendenza alla falsificazione, è noto che con il rafforzamento delle
scienze esatte l'hegelismo provocò delle reazioni in seguito alle quali il naturalismo del XVIII
secolo ottenne un grandissimo impulso e, con il suo scetticismo che abbandona ogni idealità
assoluta e Validità oggettiva, determinò in modo preponderante la Weltanschauung e la
filosofia contemporanea.
Dall'altro lato, nella direzione dell'indebolimento nella filosofia dell'impulso scientifico, la
filosofia hegeliana ebbe ripercussioni ulteriori a causa della sua dottrina secondo cui ogni
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filosofia ha una legittimità relativa alla sua epoca — una dottrina che a dire il vero aveva,
all'interno di quel sistema che pretendeva una validità assoluta, un senso del tutto differente
da quel senso storicistico con cui essa venne ripresa da generazioni, che con la fede nella
filosofia hegeliana avevano smarrito anche la fede in una filosofia assoluta in genere. Il
rovesciamento della filosofia metafisica della storia di Hegel in uno storicismo scettico ha ora
determinato essenzialmente la comparsa della nuova “filosofia della Weltanschauung”, che
proprio ai giorni nostri sembra diffondersi così rapidamente e che del resto, con la sua
polemica per lo più antinaturalistica e talora persino antistoricistica, non vuole essere affatto
scettica. Ma poiché essa non si mostra più dominata, per lo meno nelle sue intenzioni e nei
suoi procedimenti, da quella radicale volontà di dottrina scientifica che ha caratterizzato gran
parte della filosofia moderna fino a Kant, era ad essa che si riferiva in particolare modo il
discorso sull'indebolimento dell'impulso scientifico della filosofia.
Le considerazioni che seguono poggiano sulla convinzione che i più elevati interessi della
cultura umana richiedano la formazione di una filosofia rigorosamente scientifica; che, di
conseguenza, se una svolta filosofica deve avere legittimità nel nostro tempo, è necessario che
essa sia in ogni caso animata dall'intenzione di una rifondazione della filosofia nel senso di
una scienza rigorosa. Questa intenzione non è affatto estranea al nostro tempo. Essa è ben
viva proprio all'interno del naturalismo dominante. Sin dall'inizio esso persegue con decisione
l'idea di una riforma rigorosamente scientifica della filosofia, credendo anche in ogni tempo,
nelle sue forme più antiche come in quelle moderne, di averla già realizzata. Ma, in linea di
principio, tutto ciò si compie in una forma che è fondamentalmente errata da un punto di vista
teoretico e che costituisce da un punto di vista pratico un crescente pericolo per la nostra
cultura. E oggi di grande importanza sottoporre ad una critica radicale la filosofia
naturalistica. In particolare, più che di una critica negativa che si limiti a confutarne le
conseguenze, vi è la necessità di una critica positiva dei principi e dei metodi. Solo
quest'ultima è in grado di mantenere intatta quella fiducia nella possibilità di una filosofia
scientifica, che è minacciata dalla conoscenza delle assurde conseguenze del naturalismo
edificato sulla base di una rigorosa scienza empirica. Ad una tale critica positiva sono rivolte le
considerazioni della prima parte di questo saggio.
In riferimento poi alla notevole svolta del nostro tempo, essa muove certo in una direzione
essenzialmente antinaturalistica—e in ciò sta la sua legittimità—, ma sotto l'influsso dello
storicismo sembra volersi allontanare dalle linee della filosofia scientifica e sfociare in una
mera filosofia della Weltanschauung. La seconda parte del nostro saggio è dedicata alla
discussione di principio della differenza sussistente tra queste due filosofie e alla valutazione
della loro rispettiva legittimità.
FILOSOFIA NATURALISTICA
Il naturalismo è un fenomeno conseguente alla scoperta della natura, della natura cioè
intesa come unità dell'essere spazio-temporale regolato da leggi naturali esatte. Con la
progressiva realizzazione di questa idea attraverso scienze naturali sempre nuove, che
fondano un gran numero di conoscenze rigorose, si diffonde sempre di più il naturalismo. In
modo del tutto simile si è sviluppato più tardi lo storicismo, quale conseguenza della
«scoperta della storia” e della fondazione di scienze dello spirito sempre nuove. In accordo
con le consuete concezioni dominanti, lo specialista delle scienze della natura tende a cogliere
tutto come natura, mentre lo specialista delle scienze dello spirito tutto come spirito, come
formazione storica, fraintendendo così ciò che non può essere inteso in questo modo. Pertanto
il naturalista— rivolgendoci a lui ora in particolare—non vede null'altro che natura ed
anzitutto natura fisica. Tutto ciò che è, o è di per se stesso fisico, appartiene cioè alla
connessione unitaria della natura fisica, oppure è psichico, ma allora esso non è altro che mera
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variabile dipendente dal fisico, nel migliore dei casi un «fatto concomitante parallelo”
secondario. Ogni essente è di natura psicofisica, vale a dire è determinato in modo univoco da
una rigida legalità. Non vi è per noi alcuna modificazione essenziale in questa concezione se,
nel senso del positivismo (sia che esso si riferisca ad un Kant interpretato naturalisticamente,
sia che esso rinnovi e sviluppi Hume in maniera coerente), la natura fisica viene risolta
sensisticamente in complessi di sensazioni, in colori, suoni, impressioni tattili ecc., e nello
stesso modo però anche il cosiddetto psichico viene risolto in complessi complementari delle
stesse “sensazioni” o di altre ancora.
Ciò che caratterizza ogni forma di estremo e conseguente naturalismo, dal materialismo
comune fino alle più recenti forme di monismo sensistico e di energetismo, è da un lato la
naturalizzazione della coscienza, incluse tutte le datità di coscienza intenzionali-immanenti, e
dall'altro la naturalizzazione delle idee e con ciò di ogni ideale e norma assoluti.
In riferimento a quest'ultimo aspetto il naturalismo, senza accorgersene, nega se stesso. Se
prendiamo la logica formale quale indice esemplare di ogni idealità, è noto come i principi
logico-formali, le cosiddette leggi del pensiero, siano interpretati dal naturalismo come leggi
naturali del pensiero. Che ciò comporti quel genere di assurdità che caratterizza ogni teoria
scettica in senso pregnante, è già stato mostrato in modo dettagliato in altro luogo.
[…] Il naturalista insegna, predica, moraleggia e riforma. Ma egli nega ciò che ogni predica,
ogni istanza in quanto tale presuppone in base al proprio senso. Solo che egli non predica
come l'antico scetticismo expressis verbis, sostenendo che l'unica cosa ragionevole sia negare
la ragione—tanto la ragione teoretica quanto quella assiologica e pratica. Anzi egli
respingerebbe una simile affermazione. L'assurdità non gli è evidente, ma rimane a lui stesso
nascosta poiché ha naturalizzato la ragione.
Sotto questo aspetto la controversia è in sostanza decisa, possa anche crescere
ulteriormente l'onda del positivismo e del pragmatismo che lo supera in relativismo. A dire il
vero, proprio in questa circostanza si rivela la scarsa efficacia pratica delle argomentazioni
basate sulle conseguenze. I pregiudizi accecano e chi vede soltanto fatti di esperienza e
concede validità intrinseca solo alla scienza che poggia sull'esperienza, non si sentirà molto
turbato da conseguenze assurde che nell'esperienza non possono dimostrarsi contraddittorie
rispetto ai fatti della natura. Le accantonerà come “scolastica”.
L'argomentazione basata sulle conseguenze sortisce però facilmente un effetto contrario
alle sue intenzioni anche nell'altra direzione, cioè per coloro che sono sensibili alla sua forza
dimostrativa. Poiché il naturalismo, che voleva costruire la filosofia sul fondamento della
scienza rigorosa e come scienza rigorosa, appare completamente screditato, sembra ora
screditato anche il suo stesso scopo metodico, e ciò tanto più che anche qui si è diffusa l'idea
che si possa pensare la scienza rigorosa solo nei termini della scienza positiva e la filosofia
scientifica solo come fondata su tale scienza. Anche questo è però soltanto un pregiudizio e
sarebbe un errore fondamentale voler deviare per questa ragione dalla via della scienza
rigorosa. Proprio nell'energia con la quale il naturalismo cerca di realizzare il principio della
rigorosa scientificità in tutte le sfere della natura e dello spirito, nella teoria come nella prassi,
e con la quale tenta di risolvere scientificamente—a suo dire in modo “scientifico naturale
esatto”—i problemi filosofici dell'essere e del valore, risiede il suo merito e al tempo stesso
gran parte della sua forza attuale. Forse non vi è nell'intera vita moderna un'idea il cui
progresso sia più potente e più irresistibile dell'idea di scienza. Nulla ostacolerà la sua marcia
trionfale. In riferimento ai suoi scopi legittimi essa è infatti onnicomprensiva. Pensata nella
sua perfezione ideale essa sarebbe la ragione stessa, che non potrebbe più tollerare accanto o
oltre sé nessuna altra autorità. Al dominio della scienza rigorosa appartengono pertanto
anche tutti gli ideali teoretici, assiologici e pratici, che il naturalismo al tempo stesso falsifica,
travisandoli in senso empiristico.
Tuttavia le convinzioni generali hanno poco valore se non vengono giustificate, così come le
speranze che si nutrono nei riguardi di una scienza, se non si è in grado di scorgere le vie che
permettono la realizzazione dei suoi scopi. Se dunque l'idea di una filosofia come scienza
rigorosa dei problemi menzionati e di tutti quelli ad essi essenzialmente affini non deve
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rimanere priva di forza, dobbiamo allora avere davanti agli occhi chiare possibilità di
realizzarla e, mediante la chiarificazione dei problemi e l'approfondimento del loro puro
senso, ci si devono imporre in tutta evidenza quei metodi che sono adeguati a tali problemi in
quanto richiesti dalla loro propria essenza. Questo è ciò che deve essere fatto per ottenere così
insieme e allo stesso tempo la viva e attiva fiducia nella scienza e il suo effettivo inizio. Sotto
questo aspetto la confutazione del naturalismo basata sulle sue conseguenze, per il resto utile
e anzi indispensabile, ha per noi ben poca utilità. Del tutto diverso è se noi sottoponiamo i suoi
fondamenti, i suoi metodi e i suoi risultati ad una critica necessariamente positiva e comunque
rivolta ai principi. Poiché la critica distingue e chiarifica, poiché costringe a penetrare nel
senso autentico dei motivi filosofici, che per lo più vengono formulati come problemi in modo
così vago e ambiguo, essa è in grado di destare le rappresentazioni degli scopi e delle vie
migliori e di favorire in maniera positiva il nostro progetto. A tale proposito prendiamo in
esame in modo più dettagliato il carattere già precedentemente evidenziato della filosofia da
noi combattuta, vale a dire la naturalizzazione della coscienza. In seguito emergeranno da sé
le più profonde connessioni con le conseguenze scettiche accennate e allo stesso modo diverrà
interamente comprensibile l'ampiezza in cui è intesa e deve essere giustificata la nostra
seconda obiezione concernente la naturalizzazione delle idee.
Naturalmente nelle nostre analisi critiche non ci riferiamo alle riflessioni piuttosto comuni
dello scienziato della natura che fa filosofia, ma ci occupiamo della filosofia dotta, che si
presenta con i requisiti di una vera scienza, in particolare però, di un metodo e di una
disciplina, per mezzo dei quali essa crede di aver raggiunto in modo definitivo il rango di una
scienza esatta. Essa è talmente sicura di ciò da guardare con disprezzo ogni altra maniera di
filosofare, che starebbe al suo filosofare scientifico esatto così come la confusa filosofia della
natura del Rinascimento alla giovane e vigorosa meccanica esatta di un Galilei, o come
l'alchimia alla chimica di un Lavoisier. Se ci chiediamo ora quale sia la filosofia esatta, sia pure
solo parzialmente costruita, quale sia l'analogon della meccanica esatta, veniamo allora
ricondotti alla psicologia psicofisica e più precisamente alla psicologia sperimentale, cui
certamente nessuno potrà negare il rango di una scienza rigorosa. Essa sarebbe quella
psicologia scientifica esatta così a lungo ricercata ed ora finalmente realizzata. La logica e la
teoria della conoscenza, l'estetica, l’etica e la pedagogia avrebbero finalmente ottenuto grazie
ad essa il loro fondamento scientifico ed anzi esse starebbero già per trasformarsi in discipline
sperimentali. Inoltre la psicologia rigorosa costituirebbe evidentemente il fondamento di tutte
le scienze dello spirito, nonché della metafisica. In riferimento a quest'ultima essa non
sarebbe, a dire il vero, il fondamento privilegiato, in quanto anche la scienza fisica della natura
parteciperebbe in eguale misura alla fondazione di questa universale dottrina della realtà.
A tutto ciò obiettiamo: in primo luogo deve essere compreso in maniera evidente—e una
breve riflessione potrebbe mostrarlo—che la psicologia in genere, in quanto scienza di fatti,
non è in grado di fornire i fondamenti per quelle discipline filosofiche che hanno a che fare con
i principi puri di ogni istanza normativa, dunque con i principi della pura logica, della pura
assiologia e della pratica. Possiamo esimerci da un'esposizione più dettagliata che ci
ricondurrebbe evidentemente alle assurdità scettiche già discusse. In riferimento però alla
teoria della conoscenza, che noi separiamo dalla pura logica, intesa come pura mathesis
universalis (che in quanto tale non ha nulla a che fare con il conoscere), sono molte le
obiezioni che possono essere sollevate contro lo psicologismo e il fisicismo gnoseologici, e ne
dobbiamo accennare alcune.
Ogni scienza naturale è nei suoi punti di partenza ingenua. Per essa la natura che intende
ricercare c'è semplicemente. È ovvio, le cose ci sono, sono nello spazio infinito in quanto in
quiete, in moto, mutevoli, e in quanto cose temporali nel tempo infinito. Noi le percepiamo e le
descriviamo in semplici giudizi d'esperienza. Compito della scienza naturale è conoscere
queste ovvie datità in modo oggettivamente valido e rigorosamente scientifico. Qualcosa di
simile vale per la natura intesa nel senso più ampio, psicofisico, vale a dire per quelle scienze
che la indagano, in particolare la psicologia. Lo psichico non è un mondo a sé, esso è dato come
io o come vissuto dell'io [Icherlebnis] (in un senso del resto molto diverso), e ciò si mostra
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connesso nell’esperienza a certe cose fisiche, dette corpi [Leiber]. Anche questa è un'ovvia
predatità. Il compito della psicologia è ora quello di indagare scientificamente lo psichico
all'interno della connessione naturale psicofisica in cui è dato in maniera ovvia, e
determinarlo in modo oggettivamente valido, scoprendo quelle legalità che regolano il suo
formarsi e trasformarsi, il suo apparire e venir meno.
[…]
Risulta pertanto evidente quanto segue: se vi dovessero essere argomenti decisivi in grado
di dimostrare che la scienza fisica della natura non può mai essere filosofia in senso specifico,
né mai e poi mai può servire alla filosofia quale fondamento, e che solo in virtù di una filosofia
che la preceda essa può ottenere valore filosofico ai fini della metafisica, allora tutti questi
argomenti dovrebbero trovare senz'altro applicazione alla psicologia. Ora tali argomenti non
mancano in nessun modo.
E’ sufficiente ricordare soltanto l'ingenuità con cui, secondo quanto detto sopra, la scienza
della natura assume la natura come data, un'ingenuità che in essa è per così dire immortale e
che si rinnova ad esempio in ogni passo del suo procedere, quando essa ricorre alla pura e
semplice esperienza—e, in fin dei conti, ogni metodo delle scienze empiriche riconduce
proprio all'esperienza.
[…]
Come possa l'esperienza, intesa come coscienza, dare o incontrare un oggetto; come
possano delle esperienze giustificarsi o correggersi reciprocamente mediante altre esperienze
e non soltanto invalidarsi o rafforzarsi soggettivamente; come può un gioco della coscienza
logico-esperienziale significare un che di oggettivamente valido, di valido cioè per cose essenti
in sé e per sé; perché per così dire le regole del gioco della coscienza non sono irrilevanti per
le cose; in che modo la scienza della natura deve divenire in tutto e per tutto comprensibile,
nella misura in cui essa pretende di porre e conoscere in ogni suo passo una natura in sé
essente —in sé essente cioè di contro al flusso soggettivo della coscienza: tutto ciò diviene un
enigma, appena la riflessione vi si rivolge seriamente. La teoria della conoscenza è, come è
noto, quella disciplina che si propone di rispondere a tali questioni e che finora, nonostante
tutti gli sforzi intellettuali che i maggiori studiosi vi hanno dedicato, non ha dato risposte
chiare, univoche e scientificamente decisive.
Basta soltanto attenersi con rigorosa coerenza al livello di questa problematica (una
coerenza che, a dire il vero, è mancata in tutte le precedenti teorie della conoscenza) per
comprendere in maniera evidente l’assurdità di una teoria della conoscenza basata sulle
scienze naturali, e dunque anche di ogni teoria della conoscenza psicologica. Se, generalmente
parlando, certi enigmi sono di principio immanenti alla scienza della natura, è evidente allora
che le loro soluzioni, nelle premesse come nei risultati, le sono di principio trascendenti.
Attendersi dalla stessa scienza della natura la soluzione di ognuno dei problemi che la
riguardano in quanto tale—che dunque la riguardano da cima a fondo, dall'inizio alla fine—
oppure anche soltanto ritenere che essa possa offrire una qualche premessa per la soluzione
di questo genere di problemi, significa muoversi all'interno di un circolo vizioso. Diviene
evidente anche che ogni supposizione tanto scientifica quanto prescientifica della natura
debba rimanere di principio esclusa da una teoria della conoscenza che intenda mantenere il
suo senso univoco, così come tutti quegli enunciati che implicano posizioni esistenziali tetiche
di cosalità dotate di spazio, tempo e causalità ecc. Ciò riguarda chiaramente anche tutte le
posizioni esistenziali concernenti l'esistenza dei ricercatori, delle loro facoltà psichiche e
simili.
Inoltre: se la teoria della conoscenza intende esaminare i problemi inerenti alla relazione
tra coscienza ed essere, essa può avere davanti agli occhi l'essere soltanto come correlatum di
coscienza, come un che di coscienzialmente “inteso” [Gemeintes], vale a dire come un che di
percepito, ricordato, atteso, immaginativamente rappresentato, fantasticato, identificato,
distinto, creduto, supposto, valutato ecc.
Si comprende allora che la ricerca deve mirare ad una conoscenza scientifica dell'essenza
della coscienza, a ciò che la coscienza stessa “è” in base alla sua essenza in tutte le sue forme
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distinguibili e, nello stesso tempo però, a ciò che essa “significa”, nonché ai differenti modi in
cui, in conformità all'essenza di queste forme, essa intende—ora in modo chiaro ora in modo
oscuro, presentando o presentificando, in modo signitivo o immaginativo, schietto o mediato
dal pensiero, in questo o quel modo attenzionale e così in innumerevoli altre forme—un che di
oggettuale, “mostrando” eventualmente il suo essere “valido” e “reale”.
Ogni tipo d'oggetto, che deve diventare oggetto di un discorso razionale, di una conoscenza
prescientifica e poi scientifica, deve manifestarsi nella conoscenza, dunque nella coscienza
stessa e deve, in conformità al senso di ogni conoscenza, lasciarsi portare a datità. Tutti i tipi
di coscienza, così come si ordinano per così dire teleologicamente sotto il titolo di conoscenza
e, inoltre, si raggruppano secondo le diverse categorie d'oggetto—in quanto gruppi di funzioni
conoscitive ad esse specificamente corrispondenti—devono potere essere studiati nella loro
connessione d'essenza e nel riferimento alle forme di coscienza di datità che sono loro
proprie. Così deve essere inteso il senso della questione concernente la legittimità, che deve
essere posta per ogni atto di conoscenza, e deve potersi del tutto chiarire l'essenza di ogni
dimostrazione fondata di legittimità e della fondabilità ideale o validità, e ciò per ogni grado di
conoscenza, in special modo per la conoscenza scientifica.
Che cosa significhi che l'oggettualità sia e si mostri nella conoscenza come essente ed
essente così, deve risultare evidente, e pertanto del tutto comprensibile, puramente dalla
coscienza stessa. E a tal fine è necessario lo studio dell'intera coscienza, poiché essa entra
nelle possibili funzioni conoscitive secondo tutte le sue forme. Ma, nella misura in cui ogni
coscienza è “coscienza di”, lo studio dell'essenza della coscienza include anche quello del
significato e dell'oggettualità della coscienza in quanto tali. Studiare un qualsiasi tipo di
oggettualità nella sua essenza generale (uno studio questo che può perseguire interessi
distanti dalla teoria della conoscenza e dall'analisi della coscienza) significa analizzarne i modi
di datità e dispiegarne appieno il contenuto essenziale nel relativo processo di
«chiarificazione». Anche se qui l'atteggiamento non è quello rivolto ai modi di coscienza e
all'analisi della loro essenza, tuttavia il metodo della chiarificazione è tale che non si può fare a
meno della riflessione sui modi dell'essere inteso e dell'essere dato [Gemeintheits- und
Gegebenheitsweise]. Ma, d'altro canto, la chiarificazione di tutti i tipi fondamentali di
oggettualità è in ogni caso indispensabile per l'analisi dell'essenza della coscienza, e di
conseguenza in essa inclusa; ciò però vale solo in un'analisi gnoseologica, che veda il proprio
compito nella ricerca della correlazione. Pertanto comprendiamo tutti questi studi, per quanto
debbano essere relativamente separati, sotto il titolo di fenomenologici.
Ci imbattiamo così in una scienza—della cui enorme estensione i contemporanei non hanno
ancora alcuna idea—che è sì scienza della coscienza, sebbene non psicologia, vale a dire in una
fenomenologia della coscienza di contro ad una scienza naturale della coscienza. Ma poiché
non si tratterà qui soltanto di un casuale equivoco, ci si dovrà già aspettare che fenomenologia
e psicologia debbano stare in un'intima relazione, avendo entrambe a che fare con la
coscienza, sia pure in modi differenti, in un “atteggiamento” differente; cosa che potremmo
esprimere dicendo che la psicologia ha a che fare con la “coscienza empirica”, con la coscienza
colta nell'atteggiamento empirico, intesa come qualcosa che esiste nella connessione della
natura; di contro, la fenomenologia tratta della “pura” coscienza, vale a dire della coscienza
colta nell'atteggiamento fenomenologico.
Se ciò è corretto, risulterebbe allora, ferma restando la verità che la psicologia è e può
essere tanto poco filosofia quanto la scienza fisica della natura, che essa tuttavia dovrebbe per
ragioni essenziali—vale a dire per il tramite della fenomenologia—essere più vicina alla
filosofia e restare nel suo destino legata ad essa il più intimamente possibile. Si potrebbe
infine prevedere che ogni teoria della conoscenza psicologistica deve la sua esistenza al fatto
che, non comprendendo il senso autentico della problematica propria della teoria della
conoscenza, soggiace ad una confusione presumibilmente facile tra coscienza pura e coscienza
empirica o, il che è lo stesso, al fatto che essa “naturalizza” la pura coscienza.
[…]
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Si deve considerare che tutto ciò che è psichico, colto in quella piena concezione in cui deve
costituire il primo oggetto di ricerca tanto della psicologia quanto della fenomenologia, ha il
carattere di una più o meno complessa “coscienza di”; che questa “coscienza di” possiede una
ricchezza sconcertante di forme differenti; che tutte le espressioni che all'inizio della ricerca
potrebbero servire all'autocomprensione e alla descrizione oggettiva, sono fluttuanti e
plurivoche; e che di conseguenza il primo inizio non può che consistere, come è ovvio, nel
chiarimento delle equivocazioni più grossolane, che appaiono a prima vista evidenti. Una
fissazione definitiva del linguaggio scientifico presuppone l'analisi completa dei fenomeni—
una meta questa ancora molto lontana—e fintantoché essa non è realizzata, il progresso della
ricerca, visto dall'esterno, si muove in misura considerevole nella forma di dimostrazioni di
sempre nuove plurivocità, divenute solo ora evidenti, in riferimento in particolare a concetti
che si presumevano già fissati nelle ricerche precedenti. Ciò è chiaramente inevitabile, poiché
radicato nella natura delle cose. In base a questo criterio devono essere valutate la profondità
della comprensione e il tono sprezzante con cui i difensori di professione dell'esattezza e della
scientificità della psicologia parlano di analisi “meramente verbali”, “grammaticali” e
“scolastiche”.
Nell'epoca in cui viva era la reazione contro la scolastica, la parola d'ordine era: basta con le
vuote analisi verbali! Dobbiamo interrogare le cose stesse. Torniamo all'esperienza,
all'intuizione, che so le possono dare un senso e una legittimità razionale alle nostre parole.
Perfetto! Ma cosa sono poi le cose, e a quale tipo d'esperienza dobbiamo ritornare nella
psicologia? Le cose sono forse gli enunciati con i quali i soggetti in questione nell'esperimento
rispondono alle nostre domande? E l'interpretazione delle loro risposte è l'“esperienza” dello
psichico? Gli stessi sperimentalisti diranno che questa è un'esperienza soltanto secondaria;
l'esperienza primaria sarebbe quella dei soggetti stessi dell'esperimento e, dal lato degli
psicologi che procedono all'esperimento e all'interpretazione, le loro proprie e precedenti
autopercezioni, che per buoni motivi non sarebbero né potrebbero essere introspezioni. Gli
sperimentalisti, in qualità di critici per eccellenza dell'introspezione e— come essi dicono—
della psicologia da tavolino esclusivamente fondata sull'introspezione, sono non poco
orgogliosi di avere elaborato il metodo sperimentale in modo tale che esso utilizzi l'esperienza
diretta solo nella forma di “esperienze casuali, inattese, non intenzionalmente provocate”,
escludendo del tutto la disprezzata introspezione. Se in un certo senso vi è qui indubbiamente
qualcosa di buono, nonostante le forti esagerazioni, mi sembra però necessario evidenziare un
errore di principio di questa psicologia: vale a dire che essa pone sullo stesso piano tanto
l'analisi compiuta nella comprensione empatica [einfuhlende Verstandnis] delle esperienze
dell'altro, nonché l'analisi basata sui propri vissuti a loro tempo inosservati, quanto l'analisi
dell'esperienza (sia pure indiretta) della scienza fisica della natura, e in tal modo crede di fatto
di essere scienza d'esperienza dello psichico in un senso di principio identico a quello in cui la
scienza fisica della natura è scienza d'esperienza del fisico. Essa perde di vista il carattere
specifico proprio di certe analisi della coscienza, che devono essere già compiute affinché le
esperienze ingenue (siano o meno osservative, abbiano luogo nell'ambito del presente di
coscienza attuale oppure in quello del ricordo o dell'empatia) possano divenire esperienze in
un senso scientifico.
Gli psicologi ritengono di dovere tutta la loro conoscenza psicologica all'esperienza, dunque
a quei ricordi ingenui o a quelle empatie nei ricordi che, in virtù dell'espediente metodico
dell'esperimento, devono diventare la base di inferenze sperimentali. Tuttavia la descrizione
delle ingenue datità d'esperienza e l'analisi immanente che procede di pari passo con essa,
nonché la loro prensione concettuale, sono ottenute mediante un insieme di concetti il cui
valore scientifico è decisivo per tutti i successivi passi metodici. Questi concetti rimangono,
come è evidente, data la natura complessiva del metodo e della problematica sperimentale,
costantemente intatti nel prosieguo ulteriore della ricerca ed entrano di conseguenza nei
risultati finali, dunque anche in quei giudizi d'esperienza che si pretendono scientifici. D'altra
parte il loro valore scientifico non può essere dato fin dall'inizio e non può neanche derivare
dalle esperienze, sia pure frequenti, del soggetto in questione nell'esperimento e di colui che
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compie l'esperimento, né può essere ottenuto logicamente grazie ad una qualche
constatazione empirica.
Ed è qui che interviene l'analisi fenomenologica d'essenza che, per quanto possa suonare
strano e sgradito allo psicologo naturalista, non è né può essere in alcun modo un'analisi
empirica.
Sin dai tempi di Locke e ancora oggi viene confusa la convinzione desunta dalla genesi della
coscienza empirica (convinzione che dunque già presuppone la psicologia), che ogni
rappresentazione concettuale “derivi” da esperienze precedenti, con la convinzione del tutto
diversa, secondo la quale ogni concetto trarrebbe dall'esperienza il fondamento della
legittimità di un suo possibile uso, come ad esempio nel caso dei giudizi descrittivi. Ciò
significa che solo considerando ciò che è dato realmente nelle percezioni e nei ricordi possono
essere trovati i fondamenti della legittimità della validità di un concetto, della sua essenzialità
o inessenzialità e, in seguito, della sua valida applicabilità ad un presunto caso particolare.
Nella descrizione noi facciamo uso di parole come percezione, ricordo, rappresentazione di
fantasia, enunciato ecc. Quale ricchezza di componenti immanenti rivela una sola di queste
parole, componenti che attribuiamo a quanto viene descritto “apprendendolo” [auffassend],
senza che l'analisi le abbia trovate in esso. È sufficiente usare queste parole in quel senso
comune, vago, del tutto caotico, che esse hanno assunto, non si sa come, nella storia” della
coscienza? E se anche lo sapessimo, in che cosa questa storia potrebbe esserci utile e quale
cambiamento apporterebbe al fatto che i vaghi concetti sono proprio vaghi e, per questo loro
carattere, evidentemente non scientifici? Finché non ne abbiamo di migliori, possiamo farne
uso, confidando di ottenere tramite essi le distinzioni approssimative adeguate agli scopi
pratici della vita. Ma può avere pretesa di “esattezza” una psicologia che lascia senza
definizione scientifica ed elaborazione metodica quei concetti che determinano gli oggetti
della sua ricerca? Naturalmente non più di quanta ne avrebbe una fisica che si accontentasse
dei concetti comuni di peso, calore e massa ecc. La psicologia moderna non vuole essere più
scienza dell'“anima”, ma dei “fenomeni psichici”. Se questa è la sua intenzione, essa deve allora
essere in grado di descrivere e determinare questi fenomeni in maniera concettualmente
rigorosa. Essa deve avere fatto propri, attraverso un lavoro metodico, i necessari concetti
rigorosi. Ora dove è compiuto nella psicologia “esatta” un simile lavoro metodico? Lo
cercheremmo inutilmente nella vasta letteratura.
La questione di come l'esperienza naturale, “confusa”, possa divenire esperienza scientifica
e si possa giungere alla determinazione di giudizi d'esperienza oggettivamente validi,
rappresenta la questione metodologica cardinale di ogni scienza empirica. Non è necessario
che essa sia posta e risolta in abstracto ed in ogni caso nella sfera pura della filosofia:
storicamente essa trova la sua risposta nella pratica, vale a dire nel fatto che i geniali pioneri
della scienza empirica colgono in concreto e intuitivamente il senso del metodo empirico
necessario e, seguendolo scrupolosamente, realizzano in una sfera accessibile d'esperienza
una parte di determinazioni oggettivamente valide d'esperienza, dando così inizio alla scienza.
Essi non devono i motivi del loro procedere ad una qualche rivelazione, ma
all'approfondimento del senso delle esperienze stesse, più precisamente, del senso
dell'“essere” in esse dato. Infatti, sebbene sia «dato», esso è dato nella “vaga” esperienza
soltanto in modo “confuso”; da qui necessariamente la questione di come esso sia
effettivamente, di come debba essere determinato in modo oggettivamente valido; di come,
vale a dire, per mezzo di quali esperienze migliori e in quale modo migliorabili, per mezzo di
quali metodi. Per la conoscenza della natura esterna il passo decisivo dall'esperienza ingenua
a quella scientifica, dai vaghi concetti comuni ai concetti scientifici, fu compiuto in tutta
chiarezza, come è noto, soltanto da Galilei. Riguardo alla conoscenza dello psichico, della sfera
della coscienza, noi abbiamo sì la psicologia “sperimentale-esatta”, che si ritiene il
corrispondente perfettamente legittimo della scienza esatta della natura; e tuttavia, per
quanto poco ne sia consapevole, essa si trova ancora in sostanza in un'epoca pregalileiana.
[…]
9
Ciò che ha costantemente confuso la psicologia empirica fin dai suoi inizi nel XVIII secolo, è
dunque l'illusione di un metodo scientifico-naturale sul modello del metodo della fisica e della
chimica. Vi è la sicura convinzione che il metodo di tutte le scienze empiriche sia, considerato
nella sua universalità di principio, uno solo ed identico, lo stesso pertanto nella psicologia
come nelle scienze della natura fisica. Se la metafisica ha per lungo tempo sofferto della falsa
imitazione ora del metodo della geometria ora di quello della fisica, la stessa situazione si
ripete ora per la psicologia. È significativo il fatto che i padri della psicologia sperimentale
esatta siano stati fisiologi e fisici. Il vero metodo segue dalla natura delle cose da studiare non
dai nostri pregiudizi e modelli precostituiti. Dalla vaga soggettività propria delle cose nella
loro ingenua manifestazione sensibile, la scienza naturale ricava le cose oggettive dotate di
proprietà oggettive esatte. Così, si dice, la psicologia deve portare ad una determinazione
oggettivamente valida ciò che è psicologicamente vago nell'ingenua apprensione, e ciò è opera
del metodo oggettivo, che ovviamente è lo stesso del metodo sperimentale confermato
brillantemente nella scienza naturale da innumerevoli successi.
Tuttavia il modo in cui le datità dell'esperienza giungono ad una determinazione oggettiva,
il senso che di volta in volta hanno “oggettività” e «determinazione dell'oggettività” e la
funzione che può poi assumere il metodo sperimentale, tutto ciò dipende dal senso proprio
delle datità e, più precisamente, da quel senso che conferisce loro, in base alla propria essenza,
la relativa coscienza d'esperienza (considerata come un'intenzione volta precisamente a
quell'essente e a nessun altro). Seguire il modello delle scienze naturali significa quasi
inevitabilmente reificare la coscienza, col che cadiamo nell'assurdità da cui scaturisce
continuamente la tendenza ad assurde formulazioni di problemi e a false direzioni di ricerca.
[…]
Di principio l'essere corporeo è esperibile soltanto in una molteplicità di esperienze dirette,
quindi di percezioni, come un che di individualmente identico. Pertanto, se pensiamo le
percezioni ripartite in diversi “soggetti”, esso può essere esperito da molti soggetti come un
che di individualmente identico ed essere descritto come ciò che è intersoggettivamente lo
stesso. Noi tutti abbiamo davanti agli occhi le stesse cosalità (cose, processi ecc.) e possiamo
determinarle nella loro “natura”. Ma la loro “natura” significa che esse, presentandosi
nell'esperienza in “apparizioni soggettive” molteplicemente mutevoli, sono qui tuttavia come
unità temporali di proprietà perduranti o mutevoli, e sono qui in quanto intrecciate nel nesso,
che tutte le connette, dell'unico mondo corporeo dotato di un unico spazio e di un unico
tempo. Esse sono ciò che sono solo in questa unità; solo nella relazione causale o nella
connessione reciproca esse ottengono la propria identità individuale (sostanza) e la ottengono
in quanto sostrati di «proprietà reali». Tutte le proprietà reali delle cose sono causali. Ogni
essere corporeo sottostà a leggi di possibili mutamenti, e queste leggi riguardano l'identico, la
cosa, non per sé, bensì la cosa presa nel nesso unitario, effettivo e possibile dell'unica natura.
Ogni cosa ha la sua natura (come l'insieme di ciò che essa è: l'identico) in virtù del fatto che è il
punto d'unità di nessi causali all'interno dell'unica natura totale.
Le proprietà reali (delle cose reali, corporee) designano le possibilità di trasformazione di
un identico predeterminate da leggi causali; un identico che dunque è determinabile, in
riferimento a ciò che esso è, solo grazie al ricorso a queste leggi. Le cosalità sono però date
come unità dell'esperienza immediata, come unità di molteplici apparizioni sensibili. Le
invarianze, le trasformazioni e le relazioni di dipendenza ad esse connesse, che sono coglibili
sensibilmente, costituiscono il filo conduttore della conoscenza e fungono per essa, per così
dire, quale “vago” medio, in cui si rappresenta la natura vera, oggettiva, fisicamente-esatta e
attraverso cui il pensiero (in quanto pensiero delle scienze d'esperienza) giunge a
determinare e costruire il vero. Tutto ciò non è qualcosa che si possa attribuire alle cose
dell'esperienza e all'esperienza delle cose, ma appartiene inseparabilmente alla loro essenza,
in modo tale che ogni ricerca intuitiva e coerente di ciò che la cosa in verità è—la cosa, che
nell'esperienza appare sempre come un qualcosa, come un essente, come un che di
determinato e determinabile, appare però, nel mutare delle sue apparizioni e delle loro
circostanze, costantemente come un che di diverso—porta necessariamente a nessi causali,
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giungendo alla determinazione delle corrispondenti proprietà oggettive in quanto conformi a
legge.
[…]
Lo psichico non è certo esperito come qualcosa che appare; è un Erlebnis, intuito nella
riflessione, che si manifesta come sé mediante se stesso, in un flusso assoluto, come ora e già
“svanente” [abklingend], sprofondando costantemente, in modo visibile, in un passato. Lo
psichico può anche essere un che di ricordato e di conseguenza un che di esperito in una certa
maniera modificata, e in ciò che è “ricordato” giace un “essere-stato-percepito”; inoltre può
essere un che di “ripetutamente” ricordato, in ricordi che sono uniti in una coscienza, che è a
sua volta coscienza di questi ricordi come di un che di ricordato o di ancora trattenuto
[Festgehaltenes]. In questa connessione e solamente in essa, in quanto l'identico di tali
“ripetizioni”, ciò che è a priori psichico può essere “esperito” ed identificato come essente.
Tutto ciò che è psichico, ed è così esperito, si ordina poi, come possiamo dire con evidenza, in
una connessione comprensiva, in un'unità “monodica” della coscienza, un'unità che in sé non
ha nulla a che fare con la natura, lo spazio, il tempo, la causalità e la sostanzialità, ma che al
contrario possiede “forme” proprie del tutto uniche. È un flusso di fenomeni da entrambi i lati
illimitato, attraversato da una linea intenzionale che costituisce in qualche misura l'indice
dell’unità onnipervasiva, dalla linea cioè del “tempo” immanente senza inizio e fine, di un
tempo che nessun cronometro può misurare.
Seguendo nella visione immanente il flusso dei fenomeni, noi passiamo da fenomeno a
fenomeno (ognuno un'unità colta nel flusso nonché nel fluire), e mai ad altro che fenomeni.
Solo se la visione immanente e l'esperienza cosale giungono a sintesi, il fenomeno intuito e la
cosa esperita entrano in relazione tra loro. Grazie alla mediazione dell'esperienza della cosa e
di una tale esperienza di relazione, si ha al tempo stesso l'empatia come una specie di visione
indiretta dello psichico, caratterizzata in sé come visione che penetra in una seconda
connessione monadica.
In che misura è ora possibile in questa sfera qualcosa come una ricerca razionale, qualcosa
come degli enunciati validi? In che misura sono possibili anche solo enunciati simili a quelli
che costituivano le nostre precedenti descrizioni assai approssimative (che passavano sotto
silenzio intere dimensioni)? Ora è chiaro che la ricerca avrà qui pieno significato solo se si
attiene puramente al senso delle “esperienze” che si danno come esperienze dello «psichico”,
e se assume e cerca di determinare lo “psichico” proprio così come esso, questo così intuito,
richiede di essere assunto e determinato—se dunque si evitano anzitutto assurde
naturalizzazioni.
Si devono prendere i fenomeni così come essi si danno, vale a dire come quel fluente avere
coscienza, intendere e manifestarsi, che essi sono, come questo avere coscienza in primo
piano o nello sfondo, come questo aver coscienza di un che di presente o pre-presente
[Vorgegenwartiges], di fantasticato, di signitivo o di raffigurato, di intuito o di vuotamente
rappresentato ecc. Pertanto si devono prendere i fenomeni come un qualcosa che si forma e si
modifica in questo o in quel modo, nel mutare di questo o quell'atteggiamento, di questo o
quel modo attenzionale. Tutto ciò porta il titolo di “coscienza di», “ha” un «significato” ed
“intende” un oche di oggettuale», il quale—si chiami da un certo punto di vista “finzione» o
«realtà”—può essere descritto come un che di “immanentemente oggettuale”, «inteso in
quanto tale”, ed inteso in questo o quel modo dell'intendere.
E’ assolutamente evidente che qui si possono compiere delle ricerche, formulare degli
enunciati e degli enunciati evidenti, adeguandosi al senso di questa sfera d'«esperienza».
[…]
Tutti gli enunciati che descrivono i fenomeni mediante concetti diretti, lo fanno, nella
misura in cui sono validi, mediante concetti d'essenza, dunque mediante significati concettuali
che devono potersi riscattare in una visione d'essenza [Wesenschauung] .
La visione d'essenza non offre difficoltà o segreti “mistici” maggiori della percezione. Se
portiamo intuitivamente a piena chiarezza, a piena datità, il “colore”, ciò che è dato è allora
11
un'“essenza”, e se ora allo stesso modo in una pura intuizione, volgendo lo sguardo da
percezione a percezione, portiamo a datità ciò che è «percezione», la percezione in sé — vale a
dire quest'identico di ogni qualsiasi singolarità percettiva fluente — abbiamo allora colto
intuitivamente l'essenza percezione.
Fin dove arriva l'intuizione, l'avere coscienza intuitivo, giunge anche la possibilità della
corrispondente “ideazione” (come ero solito dire nelle Ricerche logiche) o della «visione
d'essenza». Nella misura in cui l'intuizione è un'intuizione pura, che non include alcuna
cointenzione transiente, l'essenza intuita è un che di adeguatamente intuito, un che di
assolutamente dato. Il dominio della pura intuizione abbraccia dunque anche l'intera sfera che
lo psicologo fa propria quale sfera dei “fenomeni psichici”, nella misura in cui egli li prende
puramente per se stessi, nella pura immanenza. Va da sé, per chiunque non abbia pregiudizi,
che le “essenze” colte nella visione d'essenza possano essere fissate in concetti stabili, per lo
meno in misura considerevole, rendendo così possibili enunciati stabili e nel loro genere
oggettivamente e assolutamente validi. Le più piccole differenze di colore, le sfumature ultime,
possono sfuggire alla fissazione, ma la differenza tra «colore» e «suono» è così sicura, che non
vi è al mondo nulla di ancor più sicuro. Queste essenze, che possono essere distinte e fissate in
maniera assoluta, non sono soltanto quelle dei “contenuti” sensibili e delle apparizioni “cose
visive”, fantasmi ecc.), ma anche quelle di tutto ciò che è psichico in senso pregnante, di tutti
gli “atti” e gli stati dell'io, che corrispondono a ciò che è noto, ad esempio, con il nome di
percezione, fantasia, ricordo, giudizio, sentimento, volontà, con tutte le loro innumerevoli
forme particolari. Restano qui escluse le «sfumature» ultime, che appartengono a quanto di
indeterminabile vi è nel «flusso», mentre al tempo stesso la tipica descrivibile del fluire ha a
sua volta le sue «idee» che, colte e determinate intuitivamente, rendono possibile l'assoluta
conoscenza. Ogni termine della psicologia, come percezione o volontà, designa un dominio
estremamente vasto di “analisi di coscienza”, vale a dire di ricerche d'essenza. Si tratta qui di
un ambito di un'ampiezza tale da potersi paragonare, sotto quest'aspetto, solo alla scienza
della natura, per quanto strano ciò possa suonare.
Ha però ora un significato decisivo sapere che la visione d'essenza non è affatto
«esperienza» nel senso della percezione, del ricordo o di atti simili, e nemmeno una
generalizzazione empirica, che includa nel proprio senso la posizione esistenziale dell'esserci
individuale delle singolarità dell'esperienza. L'intuizione coglie l'essenza come essere
d'essenza [Wesenssein] e non pone in alcun modo un’esistenza [Dasein]. Pertanto la
conoscenza d'essenza non è conoscenza matter-of fact, in quanto non implica il minimo
contenuto affermativo in riferimento ad una esistenza individuale (ad esempio, naturale).
[…]
Ogni giudizio che porta ad espressione adeguata in concetti fissi adeguatamente formati ciò
che risiede nell'essenza, il modo in cui essenze di un certo genere o di una certa specie
particolare si connettono con certe altre, il modo in cui, ad esempio, si uniscono tra loro
«intuizione» e «vuota intenzione» [leere Meinung], «fantasia» e «percezione», «concetto» e
«intuizione» ecc., e sulla base di questa o quella componente essenziale sono necessariamente
«unificabili», accordandosi per così dire tra loro come «intenzione» [Intention] e
«riempimento» [Erfullung], oppure al contrario sono non unificabili, fondando così una
«coscienza di elusione» [BewuBtsein der Enttauschung] ecc.: ogni giudizio di questo tipo è una
conoscenza assoluta, valida in generale e, in quanto giudizio d'essenza, di un genere tale che
sarebbe un controsenso volerlo giustificare, confermare o contraddire mediante l'esperienza.
Esso fissa una “relation of ideas”, un a priori in quel senso autentico che Hume aveva certo
davanti agli occhi, ma che doveva sfuggirgli a causa della sua confusione positivistica tra
essenza e “idea”—quest'ultima intesa in opposizione a “impression”.
[…]
La pura fenomenologia in quanto scienza, nella misura in cui è pura e non fa alcun uso della
posizione esistenziale della natura, può essere soltanto ricerca d'essenza e non ricerca
d'esistenza.
[…]
12
Non c'è più bisogno ora, specie dopo tutte le considerazioni svolte, di aggiungere altro per
comprendere in modo chiaro e nelle sue ragioni più profonde quanto è già stato prima
esposto: ogni conoscenza psicologica, nel senso corrente del termine, presuppone la
conoscenza d'essenza dello psichico e sarebbe il colmo dell'assurdità sperare di poter
studiare, mediante esperimenti psicofisici e mediante quelle involontarie percezioni o
esperienze interne, l'essenza del ricordo, del giudizio, della volontà e simili, per ottenere in
questo modo i concetti rigorosi in grado di conferire alla designazione dello psichico compiuta
negli enunciati psicofisici, e a questi stessi, il solo valore scientifico possibile.
L'errore fondamentale della psicologia moderna, che le impedisce di essere psicologia in
senso vero e pienamente scientifico, è di non avere ancora conosciuto né elaborato questo
metodo fenomenologico. Pregiudizi storici l'hanno trattenuta dall'utilizzare gli indizi di un tale
metodo che sono presenti in ogni analisi chiarificante dei concetti. A ciò è connesso il fatto che
i maggiori psicologi non hanno compreso gli inizi già presenti della fenomenologia, ed anzi
hanno spesso considerato la ricerca d'essenza, compiuta nell'atteggiamento puramente
intuitivo, come una substrazione metafisico-scolastica. Ma ciò che è colto e descritto
nell'atteggiamento intuitivo, può essere compreso e confermato soltanto in questo
atteggiamento.
[…]
Seguendo il nostro piano passiamo ora alla critica dello storicismo e alla discussione della
filosofia della Weltanschauung.
STORICISMO E FILOSOFIA DELLA “WELTANSCHAUUNG”
Lo storicismo prende posizione nella sfera dei fatti concernenti la vita empirica dello spirito
e, nella misura in cui pone quest'ultima in maniera assoluta, senza però naturalizzarla (il
senso specifico di natura rimane in particolare estraneo al pensiero storico ed in ogni caso
non lo influenza in generale in maniera determinante), sorge un relativismo che rivela la sua
stretta parentela con lo psicologismo naturalistico e che ricade in analoghe difficoltà scettiche.
Qui ci interessa soltanto il carattere peculiare della scepsi storicistica, con cui vogliamo
familiarizzare più da vicino.
Ogni formazione spirituale—l'espressione va intesa nel senso più ampio possibile, tale da
poter comprendere ogni genere di unità sociale, sino a quella dello stesso individuo, e dunque
anche qualsiasi formazione culturale—possiede la sua struttura interna, la sua tipica [Typik],
la sua straordinaria ricchezza di forme esterne ed interne, che nel corso della vita stessa dello
spirito crescono e si trasformano, rivelando nel genere stesso di trasformazione differenze
strutturali e tipiche. Nel mondo intuitivo esterno la struttura e la tipica del divenire organico
ci offrono precise analogie. […] Tutto ciò che appare fisso è una corrente di sviluppo. Se grazie
all'intuizione interna ci caliamo nell’unità della vita dello spirito, possiamo allora risentire le
motivazioni che in essa operano e così «comprendere» [verstehen] anche l'essenza e lo
sviluppo della rispettiva forma dello spirito, nella sua dipendenza dai motivi spirituali di unità
e di sviluppo.
[…]
Certo, Weltanschauung e filosofia della Weltanschauung sono formazioni culturali che
appaiono e scompaiono nel corso dello sviluppo dell'umanità, dove il loro contenuto spirituale
è motivato in modo determinato dalle relazioni storiche date. Lo stesso vale però anche per le
scienze rigorose. Esse sono per questo prive di validità oggettiva? Questo potrà forse
sostenerlo uno storicista estremo, rifacendosi al mutamento delle conoscenze scientifiche ed
osservando che ciò che oggi vale come teoria dimostrata, domani viene riconosciuto come
privo di valore e che quelle che per alcuni sono leggi sicure, per altri sono mere ipotesi e per
altri ancora vaghe supposizioni. […]. Di fronte a questo continuo mutare delle conoscenze
scientifiche, non avremmo perciò effettivamente alcun diritto di parlare di scienze non solo
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come formazioni culturali, ma anche come unità di validità oggettive? È facile vedere che lo
storicismo, portato fino alle sue ultime conseguenze, conduce all'estremo soggettivismo
scettico. Le idee verità, teoria, scienza perderebbero, come tutte le idee, la loro validità
assoluta. Che un'idea è valida significherebbe che essa è una formazione fattuale dello spirito
che è ritenuta valida e che determina il pensiero in questa fatticità del valere. Non vi sarebbe
validità pura e semplice o “in sé”, la quale è ciò che è anche se nessuno può realizzarla ed
anche se nessuna umanità potesse mai nella storia realizzarla. Quindi neanche il principio di
contraddizione e l'intera logica, che pur nei nostri giorni è in pieno sviluppo, avrebbero una
simile validità. Potrebbe essere che alla fine i principi logici di non contraddizione si
trasformino nel loro contrario. Di conseguenza non avrebbero in sé alcuna validità nemmeno
tutte le proposizioni ora espresse, nonché le stesse possibilità che abbiamo considerato e
preteso come valide. Non è necessario procedere qui oltre e ripetere le considerazioni già
svolte in altro luogo [Husserl fa qui riferimento al I volume delle “Ricerche logiche”].
[…]
Se pertanto considero lo storicismo come un fraintendimento gnoseologico, che in virtù
delle sue assurde conseguenze dovrebbe essere respinto così risolutamente come il
naturalismo, vorrei tuttavia sottolineare esplicitamente che riconosco pienamente l'immenso
valore che ha la storia, intesa nel senso più ampio, per il filosofo. La scoperta dello spirito
collettivo ha per lui la stessa importanza della scoperta della natura. Anzi, l'approfondimento
della vita universale dello spirito offre al filosofo un materiale di ricerca più originario e, per
questo, più fondamentale di quello offerto dall’approfondimento della natura. Infatti il
dominio della fenomenologia, considerata come una dottrina d'essenza-, si estende dallo
spirito individuale direttamente all'intero campo dello spirito universale, e se Dilthey ha fatto
valere in un modo così incisivo la tesi che non è la psicologia psicofisica che può servire come
“fondamento delle scienze dello spirito”, io aggiungerei allora che è solo e unicamente la
dottrina fenomenologica d'essenza che può fondare una filosofia dello spirito.
[…]
Convertire in forme razionali univoche i presentimenti di un senso profondo, questo è il
processo essenziale della nuova costituzione delle scienze rigorose. Anche le scienze esatte
hanno avuto i loro lunghi periodi in cui regnava la profondità ed oso sperare che, come le
scienze nelle lotte del Rinascimento, così anche la filosofia in quelle attuali si solleverà dallo
stadio della profondità a quello della chiarezza scientifica. Ma per questo vi è solo bisogno
dell'assoluta certezza nella determinazione dello scopo e della grande volontà che,
consapevolmente rivolta ad esso, impegna tutte le energie scientifiche disponibili.[…] La
nostra epoca non vuole credere che alle “realtà”. Ora, la sua più forte realtà è la scienza ed è
perciò la scienza filosofica ciò di cui la nostra epoca ha maggiormente bisogno.
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