Prospettive in Pediatria - Società Italiana di Pediatria

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Vol. 43 • N. 171
Luglio-Settembre 2013
INDICE numero 171 Luglio-Settembre 2013
agorà
Perché continuare a indignarsi
Andrea Biondi........................................................................................................................................................................................ 121
Gastroenterologia pediatrica (a cura di Salvatore Auricchio e Riccardo Troncone)
Presentazione
Diarree congenite: il ruolo della diagnosi molecolare
Roberto Berni Canani, Rossella Tomaiuolo, Vincenza Pezzella, Gianluca Terrin, Manuela Scorza, Giuseppe Castaldo.......................... 125
Nuovi farmaci per i disturbi della motilità intestinale
Eleonora Giannetti, Carlo Di Lorenzo, Annamaria Staiano..................................................................................................................... 133
Nuove strategie terapeutiche per le malattie infiammatorie intestinali
Salvatore Cucchiara, Laura Stronati...................................................................................................................................................... 140
Dismorfologia neonatale (a cura di Giovanni Corsello)
Presentazione
Il neonato con anomalie congenite multiple: inquadramento e nosologia
Giovanni Corsello, Mario Giuffrè, Maria Piccione................................................................................................................................... 149
Sindromi malformative con restrizione della crescita fetale
Luigi Memo, Angelo Selicorni................................................................................................................................................................ 158
Sindromi malformative con iperaccrescimento a evidenza neonatale
Alessandro Mussa, Giovanni Battista Ferrero........................................................................................................................................ 167
Frontiere (a cura di Andrea Biondi, Achille Iolascon, Luigi D. Notarangelo, Massimo Zeviani)
Il contributo della genetica alla comprensione delle basi eziopatogenetiche del diabete di tipo 1
Maristella Pitzalis, Magdalena Zoledziewska, Francesco Cucca........................................................................................................... 179
TAVOLA ROTONDA (a cura di Fabio Sereni)
Le specialità pediatriche oggi e domani
70° Congresso della Società Italiana di Pediatria (Bologna, 10 maggio 2013)...................................................................................... 186
In ricordo di Renzo Galanello
Achille Iolascon...................................................................................................................................................................................... 193
GIORNATE “GIOVANI” DI PEDIATRIA
Napoli, 9-10 gennaio 2014.................................................................................................................................................................194
Luglio-Settembre 2013 • Vol. 43 • N. 171 • Pp. 121-122
agorà
Perché continuare a indignarsi
Andrea Biondi
Non è piacevole vedersi rappresentati come un Paese in cui il dibattito scientifico viene affrontato con lo stesso spirito di parte che ci
divide nell’affrontare ogni aspetto del dibattito politico. In altri Paesi
le Autorità competenti e la comunità degli esperti godono di una
sufficiente autorevolezza, capace di “essere voce” a difesa degli
interessi dei pazienti quando gli argomenti riguardano i temi della
salute. In Italia ciò non è quanto si verifica, se dobbiamo amaramente constatare che, sul caso Stamina, la voce dell’informazione
è stata dominata “ad arte” da un approccio giornalistico che, tranne
poche ma significative eccezioni, tra cui vorrei citare i commenti di
Margherita de Bac e l’inserto del Corriere della Sera, di certo non ha
avuto il merito di far capire al pubblico i temi del dibattito.
Non è mia intenzione presentare un’ulteriore presa di posizione
in merito alle controversie sul caso Stamina, che hanno avuto il
recente epilogo (che conferma tutto il carattere paradossale della
storia) di vedere esclusi dalla lista delle possibili patologie su cui
il Ministero si è impegnato a programmare, gestire e finanziare
uno studio clinico, proprio quelle patologie (come le SMA) che
sono state oggetto iniziale della campagna mediatica (http://www.
change.org/it/petizioni/stamina-tra-speranze-illusioni-risposte-emancate-risposte).
Mi permetto di indicare i due principali motivi per cui ritengo personalmente necessario “continuare ad indignarsi” e che sono stati
i motivi che mi hanno sostenuto nell’aderire alle diverse prese di
posizione, insieme a colleghi medici e ricercatori.
L’esperienza professionale di diagnosi e cura di malattie a volte incurabili (siano esse congenite o acquisite) è un terreno difficile. Di
fronte alla prossima o remota possibilità di perdere il proprio figlio
è assolutamente legittima la ricerca di ogni possibile opzione che
possa dare qualche speranza possibile. Ci si deve far carico anche di
questo aspetto, con la consapevolezza che non è lecito però ritenere
possibile ogni trattamento, anche se con la presunzione della sua innocuità. Il termine “compassionevole” è un termine che sarebbe da
abolire, proprio perché fa riferimento ad un atteggiamento che può
far prevalere il bisogno di un trattamento alla sua ragionevolezza o
plausibilità biologica e clinica.
Le terapie cellulari, incluse quelle con cellule staminali, costituiscono una frontiera per la ricerca medica in tutto il mondo e una speranza per i pazienti. In questo settore sono stati fatti grandi progressi, ad esempio nel caso dei tumori. Anche nell’ambito della malattie
neurologiche sono reperibili ottimi studi sulla possibile efficacia
di cellule mesenchimali midollari in alcune malattie degenerative
(come la sclerosi multipla) o sullo stroke, accanto ad altre indicazioni
dubbie o negative. Una comunicazione seria deve indicare di che
cosa parliamo e non genericamente di cellule o cellule staminali e
della patologia a cui s’intende applicare la sperimentazione. È giusto indignarsi di fronte ad un elenco così diverso tra le malattie per
cui è stata data l’autorizzazione (da chi?) al trattamento presso gli
Ospedali Civili di Brescia.
Le terapie con cellule somatiche e/o geneticamente modificate sono
considerate “terapie avanzate” ai sensi della Normativa Europea.
Essendo considerate “farmaci”, la loro preparazione ricade in quella
prevista per qualsiasi prodotto o device in uso in terapia. Questa
scelta ha creato certamente standard molto elevati (produzione solo
in cell factories autorizzate secondo le norme di “Good Manufacturing Pactice (GMP)” da cui è difficile tornare indietro. Nella prima
lettura in Parlamento del Decreto Balduzzi, è stato fatto un tentativo
di derubricare l’uso delle cellule mesenchimali midollari all’ambito
di procedure trapiantologiche, che avrebbe di fatto “aperto” ad un
uso indiscriminato e senza alcun controllo. Almeno su questo punto
abbiamo evitato “in corner” di trovarci completamente al di fuori di
ogni standard europeo!
Una prima proposta. La possibilità di disegnare studi clinici per
malattie rare per le quali sono disponibili pochi pazienti è un limite
potenziale allo sviluppo di terapia innovative, anche quelle con le
cellule staminali. In contesti specifici si potrebbe ipotizzare una fase
preliminare (tipo “fase 0 o fase “early trial”) che dovrebbe essere valutata dalle autorità competenti ed essere in via preliminare opportunamente sganciata dall’iter autorizzativo della produzione GMP, il
quale ovviamente rimarrebbe pienamente obbligatorio e vincolante
solo una volta che si fosse conclusa favorevolmente la fase preliminare di approvazione del razionale medico-scientifico. Questo soluzione potrebbe evitare il ricorso a trattamenti individuali (approvati
dai CE a magari dall’AIFA) e ripetuti su più pazienti, ma al di fuori di
uno studio, formalmente approvato anche dai CE a magari dall’AIFA,
come nel caso dei pazienti con SMA, trattati presso l’IRCCS Burlo
Garofalo di Trieste.
Una seconda proposta. Siamo in attesa di aver informazioni sull’iter
dello studio clinico con l’utilizzo di cellule mesenchimali midollari, preparate con il Metodo Stamina previsto dal Decreto Balduzzi.
Finalmente è stato consegnato tale metodo all’Istituto Superiore di
Sanità (ISS) (almeno così si legge sugli organi di stampa, anche se
normalmente dovrebbe essere accessibile sulle riviste scientifiche!).
Ho sottoscritto in una lettera di recente inviata al Ministro della Salute che, pur ritenendo discutibile la scelta di finanziare lo studio, si
deve procedere a condurlo con assoluta trasparenza. “Non esiste
121
A. Biondi
infatti ragione di segretezza. La sperimentazione del ‘metodo Stamina’ è promossa e finanziata dallo Stato; è condotta allo scopo di
rendere noto al pubblico in che cosa consista e che effetti abbia un
‘metodo’ tenuto segreto, ma tuttavia incredibilmente praticato in
ospedali pubblici e presentato al pubblico con amplissima risonanza
come cura miracolosa…”
Un commento finale. Infine suona quanto meno preoccupante che
alcune Regioni italiane abbiano approvato risoluzioni che individua-
no strutture sanitarie dove sarà possibile ottenere le cure secondo
il metodo Stamina. In Sicilia ad esempio, il movimento dei malati
“Vite sospese”, ha accolto positivamente la decisione del Governo
regionale, sottolineando che “d’ora in poi in Sicilia i malati gravi, e
non, potranno curarsi con le cellule staminali del metodo Stamina”.
Ancora una volta sembra che la scienza, con i suoi metodi e il suo
rigore non sia percepita dalla parte degli interessi dei pazienti… Ma
forse ciò avviene solo in Italia!
Corrispondenza
Andrea Biondi, Dipartimento di Medicina clinica e prevenzione, Università degli Studi di Milano - Bicocca, Via Pergolesi 33, 20052 - Monza (MI), Italia.
Tel.: +39 039 2333661. Fax: +39 039 2332167. E-mail: [email protected]
122
Gastroenterologia pediatrica
La gastroenterologia pediatrica è nata in Europa negli anni ’60 del secolo scorso con lo studio delle intolleranze ad alimenti, in particolare
della celiachia e delle diarree da malassorbimento intestinale, per difetti di trasporto o di idrolisi di nutrienti. Si è poi sviluppata acquisendo
la diagnostica strumentale e le problematiche della gastroenterologia dell’adulto. In essa si è andata successivamente sempre più sviluppando la ricerca di base, coniugandosi molto bene le problematiche poste dallo studio e dalla cura del paziente con le nuove conoscenze e
tecniche di biologia cellulare e molecolare, immunologia, fisiologia, genetica. L’approccio “omico” (globale) allo studio di questi problemi, e
più recentemente l’integrazione dei risultati così ottenuti in un approccio di “biologia sistematica” (systems biology), è quello che sta dando
molte nuove conoscenze, che si riveleranno sicuramente utili per la cura del malato. Esempio dell’evoluzione delle nostre conoscenze nella diagnosi e cura delle diarree è rappresentato dall’articolo curato da Berni Canani
e collaboratori. Le diarree congenite sono un gruppo di enteropatie singolarmente rare, ma nel complesso discretamente diffuse, legate a
specifici difetti genetici. L’identificazione del gene-malattia ha determinato non solo una migliore comprensione dei meccanismi fisiopatologici alla base di queste condizioni, ma ha permesso anche di aumentare significativamente le potenzialità dell’analisi molecolare che, dove
disponibile, rappresenta oggi un’importante risorsa nell’approccio diagnostico.
L’impatto sulla pratica clinica delle conoscenze che derivano dalla ricerca di base nel campo della fisiologia è bene esemplificato dal contributo di Giannetti, Di Lorenzo e Staiano. I disordini della motilità in età pediatrica costituiscono un gruppo eterogeneo di condizioni che possono essere particolarmente difficili da riconoscere e gestire. Sebbene siano necessari ulteriori studi in età pediatrica, la migliore conoscenza
della fisiopatologia dei disordini della motilità gastrointestinale ha portato all’utilizzo di nuove promettenti opzioni terapeutiche. Molte di
queste hanno come bersaglio il sistema serotoninergico, altri dati suggeriscono il possibile utilizzo di amoxicillina/clavulanato come agente
procinetico, altri infine indicano nel baclofen uno dei farmaci più promettenti nel trattamento della malattia da reflusso gastroesofageo.
Esistono pochi altri esempi di altrettanto rapida traslazione di conoscenze di base nella terapia, come le malattie infiammatorie croniche
intestinali. Nuove molecole sono state identificate quali possibili target per terapie specifiche. La review offerta da Stronati e Cucchiara
illustra bene i drastici cambiamenti registratisi con l’introduzione di farmaci biologici nelle strategie terapeutiche delle malattie infiammatorie croniche intestinali. Per quanto riguarda l’interesse più strettamente pediatrico, vi sono evidenze che suggeriscono che una precoce
introduzione delle terapie biologiche è in grado di modificare la storia naturale della malattia. Un altro aspetto di rilievo è il recente sviluppo
di studi pediatrici controllati, prospettici e randomizzati che hanno portato a linee guida fino a poco tempo fa mutuate da trials condotti su
adulti. Le conoscenze di base si stanno oggi concentrando sull’identificazione dei momenti patogenetici più precoci. Attenzione è data a
difetti genetici e loro riflessi sull’handling della flora batterica (vedi i recenti lavori del gruppo di Blumberg su autofagia, stress del reticolo,
difetti dei sensori batterici e cellule del Paneth). È possibile predire che le opzioni terapeutiche del futuro più lontano avranno questi processi
come bersaglio.
Salvatore Auricchio e Riccardo Troncone
Università “Federico II”, Napoli
123
Luglio-Settembre 2013 • Vol. 43 • N. 171 • Pp. 125-132
Gastroenterologia pediatrica
Diarree congenite:
il ruolo della diagnosi molecolare
Roberto Berni Canani1,2, Rossella Tomaiuolo3,4, Vincenza Pezzella1, Gianluca Terrin5, Manuela Scorza3,4, Giuseppe Castaldo3,4
Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali – Sezione di Pediatria, Università degli Studi “Federico II”, Napoli
Laboratorio Europeo per lo Studio delle Malattie Indotte da Alimenti (ELFID), Napoli
3
CEINGE-Biotecnologie Avanzate scarl, Napoli
4
Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche, Università degli Studi “Federico II”, Napoli
5
Dipartimento Salute della Donna e Medicina Territoriale, Università La Sapienza, Roma
1
2
Riassunto
Le diarree congenite (CDD) sono un gruppo di enteropatie singolarmente rare, ma nel complesso discretamente diffuse, legate a specifici difetti genetici.
Sono patologie cliniche complesse per la severità del quadro clinico e l’ampia varietà dei disordini potenzialmente compresi in diagnosi differenziale. Il
sintomo più frequente è una diarrea cronica ad esordio molto precoce, che spesso richiede il supporto della nutrizione parenterale. L’eziologia e la prognosi
di queste patologie sono molto variabili.
Sulla base dei dati raccolti negli ultimi anni, abbiamo proposto una classificazione delle CDD in quattro gruppi, tenendo conto della specifica eziologia e
del difetto genico:
• difetti di assorbimento e trasporto di nutrienti ed elettroliti;
• difetti di differenziazione e di polarizzazione degli enterociti;
• difetti di differenziazione delle cellule enteroendocrine;
• difetti della regolazione della risposta immunitaria a livello intestinale.
Grazie agli studi di linkage dell’intero genoma la nostra conoscenza dei geni responsabili delle CDD è in rapido aumento. In questo contesto, l’identificazione
dei geni-malattia costituisce un importante progresso nell’approccio al paziente in cui si sospetta una CDD non solo per le possibili ricadute diagnostiche/
terapeutiche, ma anche per la diagnosi prenatale per le coppie a rischio di CDD a fenotipo severo. Il presente articolo si concentra principalmente sulle
nuove conoscenze nel campo delle CDD e sui nuovi approcci diagnostici, sottolineando l’importanza del contributo dell’analisi molecolare.
Summary
Congenital diarrheal disorders (CDDs) are a group of rare and severe enteropathies related to a specific genetic defect. CDDs are challenging clinical
conditions because of the severity of clinical picture and the broad range of conditions in differential diagnosis. Infants with CDDs have chronic diarrhea,
frequently requiring parenteral nutrition support. Etiology and prognosis of CDDs are variable. We proposed a classification of CDDs into four groups, based
on the specific etiology and genetic defect:
• defects in absorption and transport of nutrients and electrolytes;
• disorders of enterocyte differentiation and polarization;
• defects of enteroendocrine cell differentiation;
• dysregulation of the intestinal immune response.
Our knowledge of the genes responsible for CDDs is rapidly increasing, thanks to linkage studies based on genome-wide analysis. In this context, the
identification of disease genes is a crucial step in the diagnostic and therapeutic approach to patient with suspected CDDs. The present paper focuses on
the recent advances made in understanding the pathophysiology of CDDs able to improve the diagnostic and therapeutic approach to these conditions.
Parole chiave: diarrea osmotica, diarrea secretiva, mutazioni, geni
Key words: linkage analysis, parenteral nutrition, osmotic diarrhea, secretory diarrhea
Metodologia della ricerca bibliografica effettuata
Introduzione
La ricerca degli articoli rilevanti sulle diarree congenite è stata effettuata attraverso la consultazione del database MEDLINE, utilizzando
come motore di ricerca PubMed e come parole chiave congenital
diarrheal disorders e diarrhea in early life. Per la stesura di questo
lavoro sono stati revisionati 33 articoli, alcuni dei quali sono stati
considerati di grande utilità per le ricadute cliniche delle informazioni riportate.
Le diarree congenite (congenital diarrheal disorders, CDD) sono un
gruppo di rare enteropatie ereditarie ad esordio prevalente nelle prime
settimane di vita (Berni Canani et al., 2010). Il quadro clinico è tipicamente caratterizzato da diarrea cronica severa ad esordio precoce, più
raramente la diarrea è parte di un quadro multiorgano più complesso.
Le CDD rappresentano delle condizioni difficili da gestire per la severità del quadro clinico, caratterizzato da elevato rischio di disidratazio-
125
R. Berni Canani, R. Tomaiuolo, V. Pezzella, G. Terrin, M. Scorza, G. Castaldo
ne, alterazioni dell’equilibrio acido-base sino all’exitus nei primi mesi
di vita (Berni Canani et al., 2005). Il loro tempestivo riconoscimento
è necessario per avviare una terapia mirata ad evitare gravi complicanze nel breve e lungo termine (Berni Canani et al., 2010). In altre
forme di CDD il quadro clinico è meno severo e la diagnosi può essere
ottenuta anche tardivamente. Questo articolo ha lo scopo di illustrare
le recenti acquisizioni nel campo della genetica e fisiopatologia delle
CDD che hanno contribuito a facilitare la disponibilità di nuovi approcci
diagnostici con l’ausilio dell’analisi molecolare.
Epidemiologia
Come si può desumere dalla tabella I le CDD sono patologie rare.
L’incidenza varia ampiamente tra le popolazioni. Alcune CDD sono
più frequenti in specifiche aree geografiche a causa dell’effetto fondatore e nei gruppi etnici dove sono consueti i matrimoni tra consanguinei (Berni Canani et al., 2005; Terrin et al., 2012). È probabile
che in futuro la maggior disponibilità dell’analisi molecolare porti ad
un aumento delle diagnosi di CDD.
Classificazione delle CDD
Quasi tutte le CDD sono trasmesse in maniera autosomica recessiva
e negli ultimi anni sono stati identificati i geni responsabili di molte
di questi condizioni (Terrin, et al., 2012). Oggi è chiaro che molte
mutazioni riguardano geni espressi a livello intestinale (Berni Canani
et al., 2010; Terrin, et al., 2012). Sulla base del meccanismo fisiopatologico (Fig. 1), abbiamo proposto una classificazione delle CDD in
4 gruppi (Berni Canani, et al., 2010):
• difetti di digestione, assorbimento e trasporto di nutrienti ed
elettroliti;
• difetti di differenziazione o di polarizzazione degli enterociti;
• difetti di differenziazione delle cellule enteroendocrine;
• difetti di regolazione della risposta immune intestinale.
Difetti di assorbimento e trasporto di nutrienti ed elettroliti
Si tratta del gruppo più numeroso di CDD. Il deficit congenito di
lattasi (LD) è dovuto a mutazioni nel gene LCT, codificante l’enzima
LPH (Lactase-phlorizin hydrolase activity) (Heyman et al., 2006), il
cui deficit determina incapacità nella digestione del lattosio e di tutti
gli alimenti che lo contengono. Il deficit congenito di saccarasiisomaltasi (SID) è dovuto a mutazioni nel gene codificante il complesso saccarasi-isomaltasi (SI) necessario per la degradazione del
saccarosio e dell’amido in monosaccaridi (Nichols et al., 2012). Un
vasto sottogruppo di CDD è causato da mutazioni in geni codificanti per i membri della superfamiglia dei trasportatori di soluti (SLC)
che, pur essendo strutturalmente collegati e originati da meccanismi di duplicazione di un gene comune, danno origine a quadri
clinici eterogenei. La cloridorrea congenita (CLD) è causata da
mutazioni nel gene SLC26A3, che codifica per il trasportatore Cl-/
HCO3- (DRA, down regulated in adenoma) espresso sulla membrana
apicale degli enterociti (Wedenoja et al., 2011). La patogenesi della
malattia deriva da una ridotta o assente attività dello scambiatore
Cl-/HCO3- a livello intestinale, con conseguente malassorbimento di
Cl- e diarrea. La diarrea congenita da perdita di sodio (CSD) è una
delle forme più rare di CDD ed è caratterizzata da grave diarrea con
aumentata perdita fecale di Na+, acidosi metabolica ed iponatremia
(Al Makadma et al., 2004). Finora è stato identificato solo il gene
della forma sindromica di tale malattia, che codifica per un inibitore
di una serina proteasi (SPINT2). Questa forma di CSD si associa ad
126
ipertelorismo, erosioni corneali, doppio rene, palatoschisi, anomalie
delle dita delle mani e dei piedi (Heinz-Erian et al., 2009). Quando
il trasportatore responsabile della malattia è espresso anche in altri
organi, si ha un coinvolgimento multiorgano. È questo il caso dell’intolleranza alle proteine con lisinuria (LPI), malattia sistemica rara,
dovuta ad anomalie nel metabolismo degli amminoacidi (Sebastio
et al., 2011). È causata da mutazioni nel gene SLC7A7 che codifica
per il trasportatore degli amminoacidi cationici y+LAT1, localizzato a
livello della membrana baso-laterale delle cellule epiteliali renali ed
intestinali. La carenza di amminoacidi quali lisina, arginina e ornitina
nel corso di una dieta ricca di proteine, si traduce in una disfunzione
del ciclo dell’urea, con iperammoniemia e conseguente alterazione
dello stato mentale. Anche la fibrosi cistica (FC) può presentarsi
con diarrea congenita, oltre al classico coinvolgimento polmonare,
ed esistono inoltre una serie di forme di malattia a fenotipo meno
severo, definite forme “atipiche“ di FC (Amato, et al., 2012). La malattia ha una genetica complessa: sinora sono state descritte circa
2000 mutazioni, di cui alcune più frequenti (Tomaiuolo et al., 2003).
Più di recente sono stati descritti grossi riarrangiamenti genici (Tomaiuolo et al., 2008) e mutazioni causative di malattia anche nelle
regioni non codificanti del gene (Giordano et al., 2013; Amato et al.,
2013), ma allo stato attuale è difficile identificare correlazioni tra
genotipo ed espressione clinica della malattia.
Difetti di differenziazione e di polarizzazione degli enterociti
Sono patologie rare ad esordio generalmente molto precoce caratterizzate da diarrea secretiva severa, necessità di nutrizione parenterale e prognosi generalmente infausta. La malattia da inclusione
dei microvilli (MID) ha un esordio prevalentemente neonatale, anche se sono stati descritti casi ad esordio più tardivo nel II-VI mese di
vita. Il quadro istologico è caratterizzato da severa atrofia dei villi ed
inclusioni microvillari a livello citoplasmatico (Müller et al., 2008). È
stato dimostrato che la malattia è secondaria ad alterazioni del complesso formato da Rab8, una proteina legante la guanosina trifosfato,
e la miosina Vb (MYO5B) che è coinvolto nel trasporto intracellulare
di proteine a livello apicale ed è fondamentale per la corretta polarizzazione degli enterociti (Ruemmele et al., 2007). L’enteropatia
a ciuffi, nota anche come displasia epiteliale intestinale (CTE)
è caratterizzata da un quadro istologico caratteristico con atrofia
della mucosa e accumuli di enterociti che danno immagini di “ciuffi”
(Berni Canani et al., 2005). È dovuta a mutazioni nel gene codificante per la molecola di adesione delle cellule epiteliali (EpCAM), la
cui funzione primaria è quella di mediare l’interazione cellula-cellula
(Sivagnanam et al., 2008): una sua ridotta attività causa alterazioni
a livello dei desmosomi.
Difetti di differenziazione delle cellule enteroendocrine
Questo sottogruppo di CDD comprende la anendocrinosi enterica
(DIAR4) e il deficit della pro-proteina convertasi di tipo 1 (PCD).
La DIAR4 è una rara forma caratterizzata da diarrea osmotica severa
secondaria ad insufficienza delle cellule enteroendocrine, con struttura dei villi conservata e assenza di infiltrato infiammatorio (Wang
et al., 2006). È causata da mutazioni nel gene NEUROG3 che codifica per la neurogenina 3, un fattore trascrizionale necessario per la
differenziazione a livello intestinale e pancreatico delle cellule endocrine. La PCD presenta quadri patologici diversi per gravità ed età di
insorgenza, caratterizzati da diarrea osmotica e poliendocrinopatia
variabile (Jackson et al., 2003). La malattia è dovuta a mutazioni
nel gene della pro-proteina convertasi 1 (PCSK1). Recenti evidenze
suggeriscono un coinvolgimento progressivo dell’apparato endocrino da diabete insipido e difetto di crescita nei primi anni di vita sino
Nome
Gene
OMIM
number
MGAM (Maltasiglucoamilasi)
SLC5A1
SLC2A5 (?)
SLC2A2
SLC39A4
SLC26A3
SLC7A7
SLC10A2
Deficit congenito di maltasiglucoamilasi (MGD)
Malassorbimento di glucosiogalattosio (GGM)
Malassorbimento di fruttosio
(FM)
Sindrome di Fanconi-Bickel
(FBS)
Acrodermatite enteropatica
(ADE)
Cloridorrea Congenita (CCD,
DIAR 1)
Intolleranze alle proteine con
lisinuria (LPI)
Malassorbimento di acidi biliari
primari (PBAM)
MTTP
Apo B
Abetalipoproteinemia (ALP)
Ipobetalipoproteinemia
familiare (HLP)
107730
157147
246600
167790
SPINK1
PNLIP
276000
602421
601295
603593
126650
607059
138160
138230
182380
154360
609845
603202
PRSS1
Proenteropeptidasi
Deficit congenito di lipasi
pancreatica (APL)
Pancreatite ereditaria (HP)
Deficit di enterochinasi
CFTR
SI (Sucrasiisomaltasi)
Deficit congenito di saccarasiisomaltasi (SID)
Fibrosi Cistica (CF)
LCT (Lattasi)
Deficit congenito di lattasi (LD)
26
17
13
4
5
25
27
6
11
21
12
10
15
48
17
Esoni
1) Difetti di digestione, assorbimento e trasporto di nutrienti ed elettroliti
Nome Corrente della Malattia
2p24.1
4q27
10q25.3
5q32
7q34
21q21
7q31.2
13q33.1
14q11.2
7q31.1
8q24.3
3q26.2
1p36.2
22q13.1
7q34
3q26.1
2q21.3
Posizione
Apolipoproteina B 100/48
Proteina microsomiale che trasferisce trigliceridi
Lipasi pancreatica
Inibitore della secrezione di tripsina pancreatica
Tripsinogeno cationico
Inibitore di serina-proteasi
CFTR
Trasportatore ileale di sali biliari dipendente da
sodio
Trasportatore basolaterale di
amminoacidi cationici
Scambiatore cloro/bicarbonato
Trasportatore Intestinale zinco-specifico
Trasportatore basolaterale di glucosio 2 (GLUT2)
Trasportatore glucosio/fruttosio (GLUT5)
Cotrasportatore intestinale Na/glucosio (SGLT1)
Attività maltasi-glucoamilasi
Sucrasi-isomaltasi
Lattasi-prolizina ad attività idrolasica
Proteina
Tabella I.
Classificazione, gene coinvolto (e proteina corrispondente) e cenni epidemiologici delle Diarree Congenite (CDD)
Autosomica co-dominante
segue
AR, circa 100 casi descritti; più alta la frequenza tra Ashkenazi
AR, casi con mutazioni composte in diversi geni; le mutazioni di
SPINK1 possono provocare la pancreatite tropicale
AR
AR, 1:2.500
AR
AR, circa 1:60.000 in Finlandia e Giappone; rara in altri gruppi
etnici
AR, sporadica; frequente in alcune etnie
AR, 1:500.000
AR, rara
AR
AR, poche centinaia di casi descritti
Pochi casi descritti
AR, 1:5.000; più alta incidenza in Groenlandia, Alaska e Canada
AR, 1:60.000 in Finlandia; più bassa in altri gruppi etnici
Trasmissione e incidenza
Diarree congenite: il ruolo della diagnosi molecolare
127
128
Gene
ATP8B1
DGAT1
Colestasi intraepatica
progressiva familiare (Malattia
di Byler, PFIC 1)
Mutazioni della diacilgliceroloacetiltransferasi (DGAT1)
PCSK1
NEUROG3
162150
604882
185535
606540
Sconosciuto
Sconosciuto
Enteropatia autoimmune
associata a colite
AIRE
Sconosciuto
FOXP3
Enteropatia autoimmune
associata ad immunodeficienza
Sindrome polighiandolare
autoimmune tipo 1 (APS1) o
APECED
Sindrome IPEX-like
Disfunzione immunitaria,
poliendocrinopatia, X-linked
(IPEX)
607358
304790
4) Difetti di modulazione della risposta immunitaria intestinale
Deficit di Proproteina
convertasi 1/3 (PCD)
Anendocrinosi enterica (DIAR 4)
3) Difetti nella differenziazione di cellule enteroendocrine
TTC37 SKIV2L
EpCAM
Enteropatia congenita a ciuffi
(DIAR 5)
Diarrea Sindromica
MYO5B
Atrofia congenita dei microvilli
(malattia da accumulo dei
microvilli) (DIAR 2)
2) Difetti nella differenziazione e polarizzazione degli enterociti
604900
211600
607444
SBDS
Sindrome di ShwachmanDiamond (SDS)
OMIM
number
605124
Nome
SPINT2 (solo nella
forma sindromica)
Diarrea Congenita da perdita di
Sodio (CSD, DIAR 3)
Nome Corrente della Malattia
continua Tabella I.
14
11
2
45
9
40
Esoni
21p22.3
Xp11.23-q13.3
5q15-q21
10q21.3
5q15
2p21
18q21.1
8q24.3
18q21.31
19q13.2
Posizione
Fattore di regolazione autoimmunitario
Fattore di trascrizione
Enzima per elaborazione della proinsulina di tipo I
Fattore di trascrizione basico elica-doppia-elica
Proteina con 20 tetratricopeptidi
Molecole di adesione di cellule epiteliali
Miosina B
Enzima della fase finale della sintesi dei
triacilgliceroli
Trasportatore di acidi biliari
Sconosciuta
Inibitore dell’attivatore del fattore di crescita degli
epatociti (HGF)
Proteina
AR; AD (1 famiglia)
Non X-linked
X linked, molto rara
AR
AR; pochi casi descritti
AR, 1:400.000
AR; 1:50-100.000; più alta tra gli Arabi
AR; rara; più alta la frequenza tra Navajo
AR
AR
AR
Trasmissione e incidenza
R. Berni Canani, R. Tomaiuolo, V. Pezzella, G. Terrin, M. Scorza, G. Castaldo
Diarree congenite: il ruolo della diagnosi molecolare
Difetti digestione, assorbimento e trasporto
di nutrienti ed elettroliti
Difetti differenziazione e
polarizzazione degli enterociti
Difetti differenziazione delle cellule
enteroendocrine
Difetti modulazione della risposta
immunitaria intestinale
Figura 1.
Principali meccanismi fisiopatologici delle diarree congenite (CDD).
a ipogonadismo primario e insufficienza surrenalica ed ipotiroidismo
nelle epoche successive (Martin et al., 2013).
Difetti di regolazione della risposta immune intestinale
Fa parte di questo gruppo la sindrome IPEX (disregolazione del sistema immune con poliendocrinopatia ed enteropatia, legata all’X)
caratterizzata da diarrea severa, dermatite ittiosiforme, diabete mellito insulino-resistente ad esordio precoce, tiroidite, anemia emolitica, diversi fenomeni autoimmuni e infezioni gravi (Levy-Lahad et
al., 2001). Il gene-malattia FOXP3 (forkhead box P3) codifica per una
proteina legante il DNA espressa nelle cellule T CD4+/CD25+ (CostaCarvalho, et al., 2008). Esiste una sindrome correlata all’IPEX, di
cui condivide i sintomi tipici, ma non è associata a mutazione in
FOXP3. In uno di questi pazienti è stata descritta una mutazione
recessiva nel recettore α dell’interleuchina-2 (CD25)(Caudy et al.,
2007).
Approccio diagnostico integrato
L’approccio diagnostico alle CDD è un processo a più tappe, che prevede l’integrazione di dati anamnestici, clinici, strumentali e di laboratorio. Da un punto di vista clinico, una storia familiare positiva per
diarrea cronica ad esordio precoce, polidramnios e/o evidenza ecografica di anse intestinali dilatate sono elementi altamente suggestivi di CDD. Bisogna tener presente che durante le prime settimane
di vita infezioni e allergie alimentari sono cause frequenti di diarrea
cronica (Passariello et al., 2010). Tali condizioni, insieme alle malformazioni del tratto gastrointestinale, devono essere sempre preliminarmente escluse (Berni Canani et al., 2005; 2010). A questo punto
il passo successivo nel processo diagnostico è l’identificazione del
meccanismo fisiopatologico (osmotico o secretivo) che sottende la
diarrea, attraverso la misurazione degli elettroliti fecali (Na+ e K+)
(Fig. 2). Nella diarrea osmotica le sostanze luminali non assorbite
sono responsabili del richiamo di fluidi nel lume intestinale, pertanto
la diarrea migliora in modo significativo durante il digiuno; in quella secretiva i fluidi sono attivamente secreti nel lume intestinale e
la diarrea persiste anche durante il digiuno. È importante misurare
sempre la concentrazione del Cl- nelle feci per escludere la CLD,
caratterizzata da un basso gap ionico e da una intensa perdita di
Cl- fecale (>90 mmol/L) (Wedenoja, et al., 2010). In seguito, grazie al
risultato di specifici esami di laboratorio e alla risposta ad eventuali
diete di eliminazioni distinte per ogni tipo di patologia, il percorso
diagnostico potrà avvalersi dell’analisi molecolare, oggi disponibile
per la maggioranza dei casi (Fig. 2).
Diagnosi molecolare
I geni responsabili delle CDD non sono particolarmente estesi,
dunque l’utilizzo di tecniche di scanning genomico, come quella del sequenziamento diretto dell’intero gene, consente l’analisi
molecolare del gene-malattia. Negli ultimi anni l’identificazione
dei geni-malattia responsabili di molte delle forme di CDD ha
notevolmente semplificato l’iter diagnostico, permettendo di ricercare mutazioni nel gene-malattia analizzando il DNA ottenuto
dai leucociti del sangue periferico. Come si evince dalla tabella I,
attualmente sono pochi i casi in cui non è possibile effettuare la
diagnosi molecolare. Sia la diagnosi di portatore che la diagnosi
prenatale possono essere effettuate utilizzando l’analisi di linkage,
anche quando la mutazione non è nota (Elce et al., 2009). L’analisi
delle mutazioni nei geni responsabili di CDD può aiutare a predire
il fenotipo della malattia: le mutazioni nonsenso, che causano la
sintesi di una proteina non funzionante, danno luogo in genere a
malattie più gravi rispetto alle mutazioni missense, che causano il
129
R. Berni Canani, R. Tomaiuolo, V. Pezzella, G. Terrin, M. Scorza, G. Castaldo
Figura 2.
Schema riassuntivo del moderno approccio diagnostico per le principali forme di diarrea congenita (CDD), che si basa sull’integrazione di dati
clinici e laboratoristici.
cambio di un singolo amminoacido spesso in regioni della proteina poco critiche dal punto di vista funzionale. Tuttavia, una chiara
correlazione genotipo-fenotipo non è sempre facile da dimostrare.
Inoltre, in alcune forme di CDD come la CLD è stato suggerito il
ruolo di geni modificatori del fenotipo, ereditati indipendentemente
dal gene-malattia (Salvatore et al., 2002).
Recenti acquisizioni
La studio delle CDD ha ottenuto risultati interessanti nell’ultimo
anno con l’osservazione di due nuove entità. Una rara mutazione
nel gene DGAT1, uno dei due enzimi che catalizza la sintesi dei
trigliceridi (Haas et al., 2012), è stata identificata in due fratelli appartenenti ad una famiglia di Ebrei Ashkenazi. La perdita di
funzione in omozigosi è associata a CDD e la mutazione consiste
in una delezione dell’esone 8 ed un allele nullo. Come il deficit di
DGAT1 determini diarrea non è chiaro, ma si ipotizza che l’accumulo di substrati lipidici, come diacilgliceroli o acil CoA, nel lume
intestinale risulti tossico per gli enterociti. Da un punto di vista clinico, entrambi i pazienti presentarono pochi giorni dopo la nascita
130
vomito, dolori addominali, diarrea acquosa non muco-ematica, con
una frequenza evacuativa pari ad 8-10 scariche, sviluppo di acidosi metabolica e disidratazione, enteropatia protido-disperdente,
con valori di α1-antitripsina fecale tra 8 e 20 mg/g di feci ed ipoalbuminemia. In entrambi i casi si è resa necessaria la nutrizione
parenterale ed infusioni di albumina.
La seconda nuova condizione riguarda una forma di CDD di tipo
secretivo secondaria ad una mutazione eterozigote missenso
(c.2519G → T) nel gene GUCY2C (Fiskerstrand et al., 2012). La
mutazione coinvolge il sito catalitico e probabilmente altera l’attività guanilato-ciclasica del recettore della guanilina. La guanilina
è un peptide secretivo endogeno in grado di attivare la guanilato
ciclasi e aumentare i livelli intracellulari di cGMP. L’esposizione del
recettore mutante alla guanilina determina un eccessivo aumento
della produzione di cGMP, a sua volta in grado di provocare iperattivazione del CFTR e secrezione attiva di fluidi da parte degli
enterociti. La mutazione è stata identificata studiando 32 membri
di una famiglia norvegese con caratteristiche cliniche suggestive:
diarrea secretiva, meteorismo, distensione e dolori addominali, disidratazione, acidosi metabolica e squilibri elettrolitici.
Anche nel caso della diarrea sindromica recentemente si sono
Diarree congenite: il ruolo della diagnosi molecolare
resi disponibili nuovi dati utili per la diagnosi di questa temibile
condizione (Fabre et al., 2012). La diarrea sindromica/sindrome
trico-epato-enterica (SD/THE) è una rara e severa forma di CDD.
Recentemente è stato dimostrato che l’eziologia è da ricercare in
un difetto in TTC37 o nella RNA elicasi SKIV2L, due geni che codificano per co-fattori del complesso SKI putativo umano, deputato al
controllo della qualità dell’mRNA. Nove segni clinici caratterizzano
la forma classica, di cui 5 ricorrono in più dei 2/3 dei pazienti: diarrea severa ad esordio nel primo mese di vita, di solito associata a
scarsa crescita e alla necessità di nutrizione parenterale, dismorfismi facciali, caratterizzati da fronte prominente, radice nasale
larga ed ipertelorismo, anomalie dei capelli descritti come lana e
facilmente rimovibili, anomalie immunitarie per difetto a carico di
immunoglobuline o della produzione di anticorpi, scarsa crescita
intrauterina, anomalie cutanee, come macchie caffè-latte o xerosi
cutanea, epatopatie, difetti cardiaci e anomalie del palato. Durante
il decorso clinico, la maggior parte dei bambini richiede nutrizione
parenterale e spesso la supplementazione di immunoglobuline. La
prognosi dipende strettamente dalla gestione e dalla presenza di
complicanze legate alla nutrizione parenterale o alle infezioni. La
diagnosi SD/THE che sino al recente passato era essenzialmente
clinica, può adesso essere confermata dal sequenziamento diretto
di TTC37 e SKIV2L.
Conclusioni
Le recenti acquisizioni nella comprensione di genetica e fisiopatologia delle CDD hanno determinato significativi progressi nell’approccio
diagnostico e terapeutico di queste condizioni. L’analisi molecolare ha
cambiato lo scenario diagnostico nelle CDD ed ha consentito una riduzione del ricorso a procedure diagnostiche invasive e costose. Tuttavia,
bisogna porre in risalto alcuni punti critici: i. l’analisi molecolare è basata
su procedure di scanning genomico (Castaldo et al., 2010) tra cui la
ricerca di estese delezioni geniche (Tomaiuolo et al., 2008); ii. il risultato
negativo dell’analisi molecolare non esclude la malattia, poiché le mutazioni possono coinvolgere regioni non codificanti o regolatorie; tuttavia,
anche se la mutazione non è nota, sia la diagnosi di portatore che la
diagnosi prenatale (Tomaiuolo et al., 2013) possono essere effettuate
utilizzando l’analisi di linkage (Elce et al., 2009); iii. alcune CDD sono
molto rare, per cui è necessario la disponibilità di laboratori attrezzati
anche per l’analisi molecolari di tali malattie. È possibile ipotizzare che
un uso sempre più diffuso dell’analisi molecolare consenta di dimostrare una diversa prevalenza delle CDD. Tuttavia, la diagnostica molecolare
non significa solo identificare o escludere mutazioni del gene; in alcuni
casi, gli approcci di secondo livello, compresi gli studi funzionali in vitro,
potrebbero essere utili nel definire l’effetto di una mutazione e confermare la patogenicità di una nuova variante.
Box di orientamento
Cosa si sapeva prima
Le diarree congenite sono un gruppo di enteropatie rare ad esordio generalmente molto precoce per lo più ereditate attraverso un meccanismo autosomico recessivo. I bambini con questi disturbi hanno spesso una diarrea cronica di gravità tale da richiedere nutrizione parenterale.
Cosa sappiamo adesso
Lo studio delle CDD ha permesso l’identificazione del gene-malattia nella maggior parte dei casi. Questi geni sono espressi prevalentemente a livello
intestinale. La ridotta o assente attività di questi geni causa alterazioni a carico di diverse funzioni della mucosa intestinale. L’identificazione del genemalattia ha determinato non solo una migliore comprensione dei meccanismi fisiopatolgici alla base di queste condizioni, ma ha permesso di aumentare significativamente le potenzialità dell’analisi molecolare che, dove disponibile, rappresenta un’importante risorsa nell’approccio diagnostico.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Comprendere a pieno la funzione dei geni-malattia consente di aprire nuove prospettive diagnostiche e terapeutiche per le CDD. In tal modo si potrà ricorrere sempre meno a procedure diagnostiche invasive e intervenire in maniera sempre più repentina ed efficace con specifici programmi terapeutici.
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* Gli autori di questo studio riportano nuovi dati clinici e molecolari di una vasta
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Corrispondenza
Roberto Berni Canani, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali – Sezione di Pediatria, Laboratorio Europeo per lo Studio delle Malattie Indotte
da Alimenti (ELFID), Università degli Studi “Federico II”, Via Sergio Pansini, 5 – 80131 Napoli. Tel.: +39 081 7462680/3266. Fax: +39 081 5451278.
E-mail: [email protected]
132
Luglio-Settembre 2013 • Vol. 43 • N. 171 • Pp. 133-139
Gastroenterologia pediatrica
Nuovi farmaci per i disturbi
della motilità intestinale
Eleonora Giannetti1, Carlo Di Lorenzo2, Annamaria Staiano1
1
2
Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali-Sezione di Pediatria, Università degli Studi “Federico II”, Napoli
Division of Pediatric Gastroenterology, Hepatology, and Nutrition, Nationwide Children’s Hospital, Columbus, OH
Riassunto
I disordini della motilità intestinale in età pediatrica costituiscono un gruppo eterogeneo di condizioni che provocano carenze nutrizionali e di elettroliti,
vomito cronico e ricorrente, incontinenza fecale, dolore cronico e ricorrente, stipsi e/o diarrea, riduzione di indipendenza nella vita quotidiana e ridotta
mobilità. Negli ultimi anni sono stati compiuti progressi notevoli nel trattamento di tali disordini ed attualmente è disponibile una serie di nuove opzioni
terapeutiche. Gli agenti serotoninergici hanno potenzialmente beneficio nel trattamento della gastroparesi e della pseudo-ostruzione cronica intestinale. La
prucalopride è un agonista selettivo del recettore serotoninergico 5HT4, ad alta affinità, in grado di aumentare la motilità ed il transito intestinale. Gli inibitori
della colinesterasi, aumentando la disponibilità di acetilcolina nella parete intestinale, provocano un miglioramento dei sintomi nella stipsi cronica severa e
nella pseudo-ostruzione. L’eccessiva crescita batterica è una frequente complicanza dei disturbi di motilità severi e può portare ad un’infiammazione della
mucosa intestinale e provocare distensione delle anse intestinali, fattori che possono ulteriormente incidere negativamente sulla motilità gastrointestinale.
Diversi regimi antibiotici sono stati raccomandati in queste condizioni per la loro azione antibatterica e per un loro effetto sulla motilità gastrointestinale.
Il baclofen recentemente è stato considerato come uno dei farmaci più promettenti nel trattamento della malattia da reflusso gastroesofageo. La tossina
botulinica agisce sulla giunzione neuromuscolare, bloccando il rilascio di acetilcolina dai nervi colinergici ed è stata utilizzata con successo, sia negli adulti
che nei bambini, per il trattamento di condizioni associate ad ipertono e spasticità dei muscoli scheletrici e lisci, acalasia esofagea, spasmo cricofaringeo
e acalasia anale.
Summary
Childhood gastrointestinal motility disorders represent a heterogeneous group of conditions determining nutritional and electrolytes deficiencies, chronic/
recurrent vomiting, fecal incontinence, chronic/recurrent pain, constipation and/or diarrhea, reduction in daily life independence and reduced mobility.
During the last few years progress in medical research has led to the availability of several new therapeutic options. Serotoninergic agents are potentially
beneficial in the treatment of gastroparesis and intestinal pseudo-obstruction. Prucalopride is a selective high-affinity 5-HT4 receptor agonist which increases intestinal motility and accelerates transit. Cholinesterase inhibitors, that increase acetylcholine availability in the intestinal wall, have been shown
to improve symptoms in severe chronic constipation and pseudo-obstruction. Small bowel bacterial proliferation is often associated with motility disorders
and bacterial overgrowth may lead to mucosal inflammation and intestinal distension, factors that further decrease gastrointestinal motility. Different antibiotic regimens have been recommended as adjuvant treatment in these conditions for their effect on the overgrowth and a direct effect on motility. Baclofen
has recently emerged as one of the most promising drugs in the treatment of gastro-esophageal reflux disease. Botulinum toxin acts on the neuromuscular
junction, inhibiting acetylcholine release from cholinergic nerves and has been successfully used both in adults and children for the treatment of conditions
associated with hypertonicity of skeletal and smooth muscles, esophageal achalasia, cricopharyngeal spasm and anal achalasia.
Parole chiave: Disturbi della motilità gastrointestinale, Malattia da Reflusso gastroesofageo, Pseudo-ostruzione cronica intestinale, Malattia di Hirschsprung
Keywords: Gastrointestinal motility disorders, Gastroesophageal reflux disease, Chronic intestinal pseudoobstruction, Hirschsprung’sdisease
Metodologia della ricerca bibliografica effettuata
La ricerca di articoli rilevanti sul trattamento dei disordini della motilità
in età pediatrica è stata effettuata sulla banca bibliografica Medline,
utilizzando come motore di ricerca Pubmed e come parola chiave gastrointestinal motility disorders AND treatment, ed ha prodotto 7976
referenze. Le citazioni sono state utilizzate in base alla rilevanza per il
tema trattato, utilizzando articoli in lingua inglese. La descrizione delle
strategie terapeutiche utilizzate nel trattamento dei disordini della motilità in età pediatrica si basa su prove fornite da studi clinici controllati
randomizzati e revisioni sistematiche della letteratura. Sono stati ritenuti utili 45 lavori e ne sono stati utilizzati 38.
Introduzione
I disordini della motilità intestinale in età pediatrica costituiscono un
gruppo eterogeneo di condizioni che possono essere particolarmente
difficili da riconoscere e gestire (Tab. I). Nel normale apparato digerente, il cibo progredisce attraverso l’intero sistema mediante contrazioni peristaltiche dell’intestino. La peristalsi è controllata dal sistema
nervoso centrale e dal sistema nervoso enterico, il “piccolo cervello”
dell’intestino. Queste contrazioni peristaltiche variano per tutta la lunghezza del tratto digerente, costituito da quattro aree principali, tutte
separate l’una dall’altra da sfinteri: esofago, stomaco, piccolo intestino
e colon. I disordini della motilità intestinale possono interessare una o
più di una di queste quattro aree. I disordini della motilità esofagea e
gastrointestinale possono provocare carenze nutrizionali e di elettroliti, riduzione di indipendenza nella vita quotidiana e ridotta mobilità. I
sintomi correlati ai disordini della motilità intestinale sono tipicamente
cronici e hanno un impatto significativo sulla qualità di vita. La sintomatologia tipica è rappresentata in tabella II.
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E. Giannetti, C. Di Lorenzo, A.Staiano
Tabella I.
Classificazione anatomica dei disordini della motilità
Organo
Disordine della Motilità
Esofago
Acalasia
Spasmo esofageo diffuso
Malattia da reflusso gastroesofageo
Stomaco
Gastroparesi
Dumping syndrome
Intestino tenue
Pseudo-ostruzione cronica intestinale
Colon
Malattia di Hirschsprung
La malattia da reflusso gastroesofageo (MRGE) è considerata un disturbo della motilità intestinale, in quanto è dovuta al malfunzionamento dello sfintere esofageo inferiore. Occorre sottolineare che la
diagnosi di reflusso gastroesofageo (RGE) in età pediatrica è spesso
esclusivamente clinica, basata su segni e sintomi suggestivi di RGE.
Si parla, invece, di malattia da RGE (MRGE) quando il reflusso del
contenuto gastrico è causa di sintomi fastidiosi e/o di complicanze
tali da avere un impatto sulla qualità di vita del paziente. Secondo
le recenti linee guida NASPGHAN/ESPGHAN pubblicate nel 2009, è
importante distinguere tra RGE ed MRGE in quanto i bambini con
MRGE necessitano di ulteriore valutazione e trattamento medico/
chirurgico, mentre quelli con semplice reflusso fisiologico sono candidati solo a raccomandazioni di tipo conservativo (Vandenplas et
al., 2009).
Gli inibitori di pompa protonica (IPP) approvati in America nei bambini di età superiore ad 1 anno per indicazioni quali MRGE sintomatica
ed esofagite erosiva, sono omeprazolo, lansoprazolo, esomeprazolo;
l’utilizzo del rabeprazolo è approvato nei bambini di età superiore a
12 anni. Negli ultimi anni si è assistito ad un aumento significativo
Tabella II.
Principali segni e sintomi dei disordini della motilità
Nausea
Vomito cronico e ricorrente
Pirosi retrosternale
Disfagia
Odinofagia
Raucedine
Tosse
Dolore toracico
Occlusione esofagea da bolo alimentare
Perdita di peso
Sazietà precoce
Rigurgito
Disidratazione
Dolore addominale cronico e ricorrente
Distensione addominale
dell’utilizzo di IPP in neonati e bambini. Per esempio, Barron (Barron
et al., 2007) ha registrato un aumento dell’uso di IPP nei bambini di
4 volte tra il 2000 e il 2003, senza alcuna prova che suggerisca un
cambiamento nell’incidenza della MRGE in età pediatrica. In concomitanza con tale dato si è avuto anche un aumento di studi, pubblicati di recente, che sollevano dubbi circa l’efficacia degli IPP nei
neonati e che evidenziano possibili problemi di sicurezza associati
al loro uso cronico in bambini e adulti.
Una particolare attenzione va rivolta alla malnutrizione e alle disfunzioni dell’apparato gastrointestinale dei bambini con danno neurologico. In realtà, in questi bambini, i problemi legati alla difficoltà di
assunzione del cibo (deglutizione), dell’esofagite (reflusso gastroesofageo), dello svuotamento gastrico, della stipsi, costituiscono
altrettante aggravanti della disabilità motoria o neuromotoria che
caratterizza questa categoria di bambini. Disordini della deglutizione
sono presenti nel 40% di essi, vomito ricorrente nel 15%, RGE nel
75%, stipsi cronica nel 65%. La MRGE è comune in tali bambini
ma spesso la terapia medica non risolve il problema ed è necessario ricorrere alla terapia chirurgica. Solitamente la sintomatologia
persiste, nonostante la terapia con IPP, anche se un piccolo studio
prospettico ha documentato una riduzione del vomito nei bambini
con problemi neurologici trattati con IPP (Cheung et al., 2001). La
somministrazione di baclofen ha mostrato una riduzione della frequenza del vomito e del numero totale di reflussi acidi nei bambini
con problemi neurologici con MRGE (Kawai et al., 2004).
Le terapie mediche dei disordini della motilità intestinale sono limitate e talvolta sono necessari interventi chirurgici che possono alleviare alcuni sintomi, ma predisporre i pazienti ad altre co-morbidità.
La terapia dei bambini con disturbi della motilità intestinale si basa
su un approccio multidisciplinare, che si concentra sull’ottimizzazione della nutrizione, sul miglioramento dell’attività motoria gastrointestinale e sulla riduzione della disabilità psicosociale.
Negli ultimi anni sono stati compiuti progressi notevoli ed attualmente è disponibile una serie di nuove opzioni terapeutiche. Molte di
queste hanno come bersaglio il sistema serotoninergico, che è stato
dimostrato avere un ruolo critico nella patofisiologia intestinale. Nel
novembre 2011 la Food and Drug Administration (FDA) ha pubblicato un documento sulla sicurezza degli agenti serotoninergici. Due
agonisti dei recettori 5HT4 sono stati ritirati dal commercio negli
Stati Uniti a causa di aritmie cardiache (cisapride) ed eventi ischemici cardiovascolari (tegaserod). Il legame ai recettori off-target (non
5HT4) è stato implicato come causa di eventi avversi cardiovascolari. Più recenti e più selettivi agonisti del recettore 5HT4 sono in corso
di valutazione in Europa e negli USA.
I farmaci che agiscono sulla motilità gastrointestinale possono essere classificati in tre gruppi: 1) agenti che stimolano le contrazioni della muscolatura liscia, definiti agenti procinetici; 2) agenti che
inibiscono le contrazioni; agenti che ritardano la normale peristalsi,
definiti come farmaci antimotilità (oppiacei o agonisti dei recettori
degli oppiacei); agenti che riducono un eccessivo aumento del tono
della muscolatura liscia, definiti come antispastici (anticolinergici,
rilassanti diretti della muscolatura liscia e bloccanti dei canali del
calcio); 3) agenti che agiscono promuovendo l’evacuazione, quali i
lassativi. In tabella III sono classificati i farmaci in base al meccanismo d’azione e alla loro indicazione.
Stipsi
Incontinenza fecale
Tenesmo
Diarrea
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Antagonisti dei recettori dopaminergici
Gli antagonisti dei recettori dopaminergici comprendono il domperidone e la metoclopramide.
Nuovi farmaci per i disturbi della motilità intestinale
Tabella III.
Classificazione farmaci in base al meccanimo d’azione ed all’indicazione terapeutica
Gruppo di farmaci
Farmaco
Meccanismo d’azione
Indicazione
Antagonisti recettori
dopaminergici
domperidone
antagonista recettore D2
RGE, gastroparesi, dispepsia funzionale,
nausea, vomito
metoclopramide
antagonista recettore D2: stimola rilascio
di acetilcolina
Agonisti della motilina
eritromicina
agonista della motilina
gastroparesi
Colinergici
neostigmina
inibitore sintetico, reversibile,
dell’acetilcolinesterasi
pseudo-ostruzione, stipsi cronica severa
piridostigmina
inibitore a lunga durata d’azione
dell’acetilcolinesterasi
pseudo-ostruzione
tegaserod
agonista parziale recettore 5HT4
gastroparesi, pseudo-ostruzione cronica
prucalopride
agonista selettivo del recettore
serotoninergico 5HT4, ad alta affinità
stipsi cronica
velusetrag
agonista selettivo del recettore 5HT4
stipsi cronica
ondansetron
antagonista selettivo del recettore 5HT3
nausea, vomito
ciproeptadina
antagonista recettori serotonina, recettori
dell’istamina e recettori muscarinici
dispepsia funzionale, dolore addominale
Altri procinetici
octeotride
analogo della somatostatina
pseudo-ostruzione cronica intestinale
Antibiotici
amoxicillina/acido clavulanico
antimicrobico/procinetico
pseudo-ostruzione cronica intestinale
tossina botulinica
blocco del rilascio di acetilcolina dai nervi
colinergici presinaptici
acalasia esofagea, acalasia anale
baclofen
agonista selettivo del recettore GABA-B
MRGE
lubiprostone
attivazione CIC-2
stipsi cronica
linaclotide
agonista della guanilatociclasi-C
Serotoninergici
Lassativi
Domperidone
Il domperidone è un antagonista del recettore periferico della dopamina-2 (D2) utilizzato nella terapia del RGE, della gastroparesi, della dispepsia funzionale, della nausea e del vomito. I recettori D2 sono presenti sia nel sistema nervoso centrale (SNC) che periferico; tuttavia il
domperidone attraversa in piccole quantità la barriera ematoencefalica
(BEE) agendo quindi principalmente sui recettori periferici. A livello gastrointestinale la stimolazione dei recettori D2 provoca inibizione della
motilità gastrica; pertanto gli antagonisti di tali recettori riducono sintomi quali gonfiore, sazietà precoce, nausea e vomito, accelerando lo
svuotamento gastrico, incrementando le contrazioni antroduodenali e
promuovendo la motilità esofagea (Reddymasu et al., 2007). Il domperidone esercita anche effetto antiemetico sulla zona trigger dei chemorecettori, non protetta dalla BEE. Uno degli effetti avversi di tale farmaco è
l’iperprolattinemia ed è per tale motivo che è stato utilizzato off-label per
incrementare la produzione di latte nelle madri di neonati pretermine. La
sicurezza ed efficacia in età pediatrica non sono state adeguatamente
stabilite. Uno studio condotto in età pediatrica ha mostrato una significativa riduzione della nausea e del vomito utilizzando il domperidone,
confrontato con placebo e metoclopramide, ma tale studio aveva una
durata di sole 24 ore (Van Eygen et al., 1979). Due revisioni sistematiche sul trattamento della MRGE in età pediatrica non raccomandano
l’utilizzo di domperidone in questa popolazione di pazienti a causa di
mancanza di dati conclusivi che dimostrino la sua efficacia (Tighe et al.,
2009; Pritchard et al., 2005).
Metoclopramide
La metoclopramide è anch’esso un farmaco antagonista del recettore D2 che agisce a livello dell’esofago, stomaco e duodeno,
stimolando il rilascio di acetilcolina da parte dei neuroni efferenti
mioenterici colinergici (Djeddi et al., 2008). Le sue proprietà antiemetiche sono dovute al suo effetto sui recettori D2 del SNC a livello
della zona trigger dei chemocettori. Tale capacità di oltrepassare la
BEE è responsabile anche delle reazioni acute extrapiramidali e della
discinesia tardiva correlata all’utilizzo a lungo termine o ad elevati
dosaggi. La metoclopramide è utilizzata per il trattamento del RGE,
della nausea indotta da chemioterapia, di nausea e vomito postoperatori e della gastroparesi. Sebbene causi un aumento del tono
dello sfintere esofageo inferore, le evidenze per il suo utilizzo nella
terapia del RGE in età pediatrica sono controverse in quanto alcuni
studi non mostrano un significativo miglioramento dei sintomi e dei
parametri pH-metrici rispetto al placebo (Brock-Utne et al., 1982;
Chicella et al., 2005). L’utilizzo cumulativo per più di 12 settimane
incrementa il rischio di discinesia tardiva, effetto irreversibile. I sintomi extrapiramidali sono più comuni nelle prime 24-48 ore dall’inizio della terapia ed i bambini hanno un rischio più elevato di sviluppare tale evento, soprattutto se trattati in modo cronico e con dosi
elevate. Nel 2009, la Food and Drug Administration negli Stati Uniti
ha reso obbligatorio che la vendita del farmaco sia associata ad un
Box Warning, che rappresenta un avvertimento ai pazienti di possibili seri effetti collaterali legati all’assunzione della metoclopramide. In
Italia l’uso di metoclopramide è controindicato nei bambini e ragazzi
al di sotto dei 16 anni di età. Tale controindicazione è stata stabilita
nel marzo 2004 dopo una revisione del rapporto beneficio/rischio a
seguito di uno studio multicentrico coordinato dall’Istituto Superiore
di Sanità. Dallo studio è emerso un aumento del rischio pari a 3 per
tutti i problemi neurologici e pari a 73 per i sintomi extrapiramidali nei
bambini in seguito a somministrazione di metoclopramide (AIFA, 2004).
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E. Giannetti, C. Di Lorenzo, A.Staiano
Agonisti della motilina
Eritromicina
L’eritromicina è un macrolide e agisce anche come agonista della
motilina; il suo principale utilizzo è nel trattamento della gastroparesi. La motilina è un ormone secreto dalle cellule enterocromaffini
del piccolo intestino. I recettori della motilina si trovano soprattutto
nel muscolo liscio e nei neuroni colinergici dell’antro gastrico e del
duodeno prossimale. L’eritromicina può essere somministrata sia
per via orale che endovenosa con un dosaggio pediatrico di 3-5
mg/kg/dose. A seconda della dose di eritromicina viene elicitato
un differente pattern motorio. Basse dosi (1-3 mg/kg e.v.) stimolano i recettori neuronali della motilina determinando un aumento
dei complessi motori migranti (MMCs) di fase 3. Una dose maggiore del farmaco stimola i recettori della motilina del muscolo liscio
determinando delle contrazioni prolungate nell’antro e migliorando
la coordinazione antroduodenale (Tack et al., 1992). Gli effetti collaterali comunemente riportati includono nausea, vomito e dolore
addominale. Sono stati riportati casi di associazione di eritromicina
con aritmie cardiache severe ed un prolungamento dell’intervallo
QTc. L’eritromicina si deve utilizzare con cautela nei lattanti a causa
dell’incremento del rischio di stenosi ipertrofica del piloro quando
utilizzata nelle prime due settimane di vita e per un trattamento che
dura per oltre 14 giorni.
Farmaci colinergici
I disturbi della motilità del colon, come la stipsi cronica severa e la
pseudo-ostruzione, restano difficili da trattare. La fisiopatologia di
queste condizioni non è del tutto chiara, ma diversi studi suggeriscono che una carenza di innervazione colinergica ed uno squilibrio nella regolazione autonomica della funzione motoria del colon
possono essere dei fattori che contribuiscono allo sviluppo di tali
disordini. Pertanto, aumentando la disponibilità di acetilcolina nella
parete intestinale con un inibitore della colinesterasi, si può ottenere
un miglioramento dei sintomi.
Neostigmina
La neostigmina è un inibitore sintetico, reversibile, dell’acetilcolinesterasi. Si utilizza nel trattamento della miastenia gravis e per
revertire gli effetti dei rilassanti muscolari non depolarizzanti. È anche utilizzata per il trattamento di pazienti con pseudo-ostruzione
colonica acuta, conosciuta come Sindrome di Ogilvie. Il suo utilizzo
come agente che promuove la motilità non è stato ancora studiato
in età pediatrica. In un gruppo di 10 pazienti pediatrici con patologie ematologiche maligne con pseudo-ostruzione colonica acuta, 8
hanno risposto ad una terapia con neostigmina (Kim et al., 2007).
Piridostigmina
La piridostigmina è un inibitore a lunga durata d’azione dell’acetilcolinesterasi. In uno studio del 2008 è stato dimostrato che la piridostigmina non migliora i sintomi in un gruppo di pazienti con stipsi
cronica severa, mentre risolve la sintomatologia legata alla pseudoostruzione intestinale cronica (O’Dea et al., 2010).
Agenti serotinergici
Gli agenti serotoninergici (5HT) hanno potenzialmente beneficio nel
trattamento della gastroparesi e della pseudo-ostruzione cronica
intestinale.
136
Tegaserod
Il tegaserod è un agonista parziale del recettore 5HT4 che non ha
affinità per i recettori 5HT3. Tale molecola innesca il riflesso peristaltico mediante attivazione del recettore 5HT4. Nel marzo del 2007 è
stata interrotta la vendita del farmaco a causa di un aumento del
rischio di gravi eventi cardiovascolari associati con il suo utilizzo.
Prucalopride
La prucalopride è un agonista selettivo del recettore serotoninergico
5HT4, ad alta affinità, almeno 150 volte superiore rispetto ad altri
recettori, con potenti effetti enterocinetici: aumenta la motilità ed accelera il transito intestinale (Briejer et al., 1995). Tale farmaco differisce dagli altri agonisti serotoninergici, quali cisapride e tegaserod,
poiché interagisce solo minimamente con uno o più altri recettori
quali 5HT3, 5HT1B e human ether-a-go-go-related gene (hERG). Gli
effetti avversi cardiaci osservati con cisapride e tegaserod non sono
stati riportati in soggetti esposti alla prucalopride. La valutazione
della prucalopride in volontari sani ha mostrato un accelerato transito orocecale, colonico e tempo di transito totale gastrointestinale
(Emmanuel et al., 1998). Il trattamento nei pazienti con stipsi cronica
ha mostrato lo stesso miglioramento del tempo di transito ed un
significativo aumento delle evacuazioni, diminuizione della consistenza delle feci e dell’urgenza di defecare e innalzamento della
qualità di vita, rispetto al placebo. Nell’unico studio pubblicato in età
pediatrica, il trattamento per 8 settimane di bambini con stipsi ha
portato ad una normalizzazione della frequenza delle evacuazioni e
ad una riduzione dell’incontinenza fecale (Winter et al., 2013). Non
sono stati riportati significativi incrementi dell’intervallo QTc ed i più
comuni effetti avversi sono dolore addominale, distensione addominale, diarrea, e nausea. La prucalopride è stata approvata in Europa
e in Canada per l’utilizzo in donne con stipsi cronica che non rispondono ad altri lassativi.
Velusetrag
Il velusetrag è un agonista altamente selettivo del recettore 5HT4.
In uno studio doppio cieco placebo-controllato di fase 2 in volontari
sani e pazienti con stipsi cronica il velusetrag causava un significativo incremento dello svuotamento gastrico dopo 6 giorni consecutivi
di terapia con dosi di 15, 30 e 50 mg, mentre il transito del piccolo
intestino aumentava significativamente dopo una dose singola di 30
e 50 mg (Manini et al., 2010). Nausea, diarrea e cefalea erano gli
eventi avversi più comuni, dose correlati. Il velusetrag non è ancora
disponibile in commercio in alcuna nazione.
Ondansetron
L’ondansetron è un antagonista selettivo del recettore 5-idrossitriptamina (3) (5HT3), introdotto nella pratica clinica come un antiemetico per la terapia della nausea e vomito indotti da chemioterapia,
radioterapia ed anestesia. Ha un profilo di sicurezza ed efficacia
maggiori rispetto ad altri gruppi di antiemetici. Recenti studi hanno
indagato anche la sua possibile applicazione nel trattamento di altre
malattie, tra cui i disturbi della motilità gastrointestinale (Ye et al.,
2001). Pazienti con disturbi della motilità gastrointestinale hanno
infatti mostrato un miglioramento dei sintomi se trattati con ondansetron. In contrasto con antiemetici convenzionali, l’ondansetron è
generalmente ben tollerato, con una minore incidenza di sedazione
e rari case reports di reazioni extrapiramidali (Wilde e Markham,
1996). In età pediatrica l’ondansetron ha dimostrato una buona efficacia nella prevenzione della nausea e del vomito acuti in bambini
trattati con chemioterapia e/o radioterapia con un profilo di tollerabilità più favorevole ed un’efficacia superiore nella profilassi antieme-
Nuovi farmaci per i disturbi della motilità intestinale
tica in bambini sottoposti ad intervento chirurgico rispetto al placebo
ed alla metoclopramide (Culy et al., 2001).
il suo meccanismo di azione specifico ed il gruppo di pazienti con
maggiore probabilità di trarre beneficio dal suo utilizzo.
Ciproeptadina
La ciproeptadina, inizialmente utilizzato come farmaco antiallergico, è un noto antagonista dei recettori della serotonina, dei recettori
dell’istamina H1, e dei recettori muscarinici e sembra avere un effetto sull’accomodazione gastrica. In un recente studio, gli autori hanno
riportato la sicurezza e l’efficacia della ciproeptadina nel trattamento
dei bambini con dispepsia funzionale e altri sintomi gastrointestinali
oltre al dolore addominale (Rodriguez et al., 2013).
Tossina botulinica A (Botox)
La tossina botulinica A è comunemente utilizzata in procedure cosmetiche, ma è anche adoperata per il trattamento dello strabismo,
del blefarospasmo, della spasticità muscolare, della distonia cervicale e dell’iperidrosi. La tossina botulinica A è uno dei sei sierotipi
di neurotossina botulinica prodotta da batteri anaerobi Clostridium
Botulinum. L’iniezione di tossina botulinica viene effettuata per migliorare il transito attraverso gli sfinteri. La tossina botulinica è una
potente neurotossina batterica che agisce sulla giunzione neuromuscolare, bloccando il rilascio di acetilcolina dai nervi colinergici presinaptici e causando temporanea denervazione chimica. La tossina
botulinica è stata utilizzata con successo off-label, sia negli adulti
che nei bambini, per il trattamento di condizioni associate con ipertono e spasticità dei muscoli scheletrici e lisci, acalasia esofagea,
spasmo cricofaringeo e acalasia anale.
L’iniezione di tossina botulinica nel piloro sembra accelerare lo
svuotamento gastrico, e uno studio retrospettivo in 47 bambini con
gastroparesi ha riportato un suo beneficio in 30 pazienti (Rodriguez
et al., 2012). In uno studio condotto in un singolo centro durante il
follow-up post-operatorio in pazienti adulti trattati per acalasia esofagea, il trattamento con iniezione di Botox ha mostrato un successo
iniziale del 70%; tuttavia l’effetto sembra durare 6-12 mesi, dopodiché è richiesta una nuova iniezione (Pehlivanov e Pasricha, 2006).
In due studi condotti in età pediatrica il trattamento con iniezione
di tossina botulinica per ostruzione anale ha determinato un esito
variabile (Koivusalo et al., 2009; Chumpitazi et al., 2009): il 31-53%
dei pazienti ha presentato una buona risposta a lungo termine ed il
62-89% ha presentato un iniziale significativo miglioramento dopo
una singola iniezione. Le complicanze includevano dolore a seguito
dell’iniezione ed incontinenza fecale. L’iniezione di tossina botulinica
è stata anche utilizzata nel trattamento delle fissurazioni anali croniche. In uno studio condotto su 13 bambini a cui è stata praticata
iniezione di Botox a livello dello sfintere anale esterno, 11 di essi
hanno riportato una risoluzione dei sintomi dopo una settimana di
terapia, in assenza di eventi avversi (Husberg et al., 2009).
Altri agenti procinetici
Octreotride
L’octreotide è un tetradecapeptide analogo della somatostatina long
acting utilizzato in numerosi processi patologici che includono il
sanguinamento gastrointestinale, le pancreatiti, la diarrea secretiva, l’ipoglicemia e la dismotilità gastrointestinale. La somatostatina
causa inibizione dell’attività gastrica e stimola i complessi migranti
di fase 3 del piccolo intestino, iniziando dal duodeno. Tale molecola è stata studiata in pazienti adulti con scleroderma e pseudoostruzione; l’octreotride sottocutanea incrementa la frequenza dei
complessi migranti in questo gruppo di pazienti. Dopo 3 settimane di
terapia tali pazienti presentano una riduzione della crescita batterica
misurata mediante il breath test all’idrogeno, con una riduzione di
gonfiore, nausea, vomito e dolore addominale (Soudah et al., 1991).
Un case report descrive una bambina di 12 anni con pseudo-ostruzione cronica idiopatica trattata con successo con dosi giornaliere
sottocute di octreotride (Dalgic et al., 2005).
Amoxicillina/acido clavulanico
Sempre più spesso la proliferazione batterica viene riconosciuta nei
pazienti con disturbi della motilità. L’eccessiva crescita batterica può
portare ad un’infiammazione della mucosa intestinale e provocare
distensione del lume, fattori che possono ulteriormente incidere negativamente sulla motilità gastrointestinale. Nonostante la mancanza di dati clinici controllati in bambini con pseudo-ostruzione cronica
intestinale, sono stati raccomandati alcuni regimi antibiotici come
trattamento adiuvante in questa condizione.
L’amoxicillina/acido clavulanico (A/C) è un agente antimicrobico
ampiamente utilizzato in pediatria. L’acido clavulanico, un inibitore
della β-lattamasi, potenzia l’attività dell’amoxicillina. L’A/C possiede come effetto indesiderato la comparsa di diarrea, più frequentemente della sola amoxicillina. Il meccanismo alla base di questi
effetti indesiderati non è ben compreso. È stato dimostrato che A/C
aumenta la motilità del piccolo intestino in individui sani (Caron et
al., 1991) ed è stato utilizzato nel trattamento della proliferazione
batterica in pazienti con diarrea cronica (Attar et al., 1999). In uno
studio condotto da Gomez et al (Gomez et al., 2012) si segnala per
la prima volta il possibile beneficio dell’A/C, somministrato per via
enterale, sulla motilità gastrointestinale in età pediatrica. È stato dimostrato il verificarsi di MMC duodenali nei primi 10 minuti dopo la
sua somministrazione nella maggior parte dei pazienti in studio. Le
caratteristiche dei MMC duodenali innescati da A/C erano simili a
quelli generati durante il digiuno. Questa risposta era evidente quando la somministrazione avveniva prima di un pasto, mentre risultava meno prevedibile quando il farmaco veniva somministrato dopo
il pasto. Questi dati suggeriscono il possibile utilizzo di A/C come
agente procinetico. Ulteriori studi sono necessari per comprendere
Baclofen
La patogenesi della MRGE è multifattoriale, ma il fattore principale è
rappresentato da un’incompetenza dello sfintere esofageo inferiore
(LES). In particolare, i rilassamenti transitori del LES (TLESR) sono
responsabili della maggior parte degli episodi di reflusso e negli ultimi anni sono diventati un potenziale interessante bersaglio per approcci terapeutici per la MRGE. Il baclofen è un agonista selettivo del
recettore acido gamma-aminobutirrico B (GABA-B) con un’efficacia
ben consolidata nel trattamento della spasticità e recentemente è
stato considerato come uno dei farmaci più promettenti nel trattamento della MRGE. Studi in volontari adulti sani e in pazienti con
MRGE (compresi bambini), hanno dimostrato che il baclofen riduce
la frequenza di TLESR e di episodi di reflusso gastroesofageo ed
aumenta la pressione basale del LES. In volontari sani adulti, una
singola dose orale di baclofen diminuisce significativamente l’incidenza di TLESR fino al 64% e aumenta la pressione basale del LES
fino al 40% (Lidums et al., 2000). Questo effetto è stato confermato
in pazienti adulti con MRGE, nei quali una singola dose di 40 mg inibisce fino al 40% dei casi di TLESR. È stato dimostrato, inoltre, che il
baclofen riduce l’insorgenza di episodi di reflusso acido e diminuisce
l’esposizione acida in adulti con MRGE dopo la somministrazione di
una singola dose di 40 mg (Cange et al., 2002) o multiple dosi di
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E. Giannetti, C. Di Lorenzo, A.Staiano
10-20 mg, tre o quattro volte al giorno (Ciccaglione e Marzio, 2003).
Nei pazienti pediatrici con MRGE una singola dose di baclofen da
0,5 mg/kg provoca un’inibizione di TLESR (Omari et al., 2006) e la
somministrazione di 0,7 mg/kg di baclofen una volta al giorno per
una settimana riduce gli episodi di reflusso acido del 39% dei casi
(Kawai et al., 2004).
Lassativi
Lubiprostone
Il lubiprostone è un prostone che agisce localmente sul tratto gastrointestinale mediante l’attivazione dei canali del Cloro di tipo 2
(CIC-2). È stato approvato per l’utilizzo in pazienti adulti con stipsi
cronica idiopatica e nelle donne con età superiore ai 18 anni con
sindrome del colon irritabile con predominanza di stipsi (S-SCI).
L’attivazione dei canali del cloro incrementa la concentrazione di
cloro e la secrezione di fluido intestinale, provocando un aumentato
passaggio di feci senza causare cambiamenti significativi dei livelli
sierici degli elettroliti. Il lubiprostone riduce lo svuotamento gastrico
mentre accelera il transito intestinale in adulti volontari sani (Camilleri et al., 2006). Attualmente sono in corso studi non pubblicati
per l’utilizzo di lubiprostone in età pediatrica. Il lubiprostone ha un
assorbimento sistemico minimo. I più comuni effetti indesiderati riportati comprendono nausea, diarrea e mal di testa. Non sono stati
riportati effetti teratogeni.
Linaclotide
La linaclotide (MD-1100) è un agonista della guanilatociclasi-C. L’attivazione della guanilatociclasi-C provoca attivazione del regolatore
della conduzione transmembrana della fibrosi cistica causando se-
crezione di cloro e bicarbonato nel lume intestinale. L’ipersensibilità
viscerale è soppressa dall’azione del cGMP sulle fibre afferenti del
dolore nella sottomucosa riducendo la reattività nervosa. Una dose
compresa tra 75 e 600 mcg migliora le caratteristiche intestinali in
donne con più di 18 anni affette da S-SCI (Johnston et al., 2010).
Studi con la linaclotide in pazienti adulti con stipsi cronica hanno
dimostrato un miglioramento della frequenza evacuativa, della consistenza delle feci e della qualità di vita. Questo farmaco è approvato
negli USA per la terapia della stipsi cronica e la S-SCI in pazienti
adulti, ma il suo utilizzo è controindicato in pazienti al di sotto dei
16 anni.
Conclusioni
Con l’aumento della conoscenza della fisiopatologia dei disordini
della motilità intestinale, la sfida continuerà ad essere la mancanza
di farmaci specifici per il trattamento di tali patologie. Certamente i
farmaci che hanno come bersaglio il sistema serotoninergico hanno potenziale beneficio nel trattamento della gastroparesi e della
pseudo-ostruzione cronica intestinale. Alcuni dati preliminari suggeriscono il possibile utilizzo di amoxicillina/clavulanato come agente
procinetico. Il baclofen recentemente è stato considerato come uno
dei farmaci più promettenti nel trattamento della MRGE. Gli inibitori della colinesterasi provocano un miglioramento dei sintomi nella
stipsi cronica severa e nella pseudo-ostruzione. La terapia farmacologica attualmente disponibile è molto limitata, e nuovi farmaci
sono certamente necessari. I continui progressi nelle conoscenze
dei meccanismi di base del sistema nervoso enterico, quali l’individuazione di nuovi recettori, consentiranno di individuare nuove
molecole per migliorare il trattamento e la prognosi dei bambini con
disturbi della motilità intestinale.
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
I disordini della motilità in età pediatrica costituiscono un gruppo eterogeneo di condizioni che possono essere particolarmente difficili da riconoscere
e gestire. I sintomi sono tipicamente cronici ed hanno un impatto significativo sulla qualità di vita. Le terapie mediche sono limitate e talvolta sono
necessari interventi chirurgici che possono alleviare alcuni sintomi, ma predisporre i pazienti ad altre co-morbidità.
Cosa sappiamo adesso
Negli ultimi anni sono stati compiuti progressi notevoli ed attualmente sono disponibili una serie di nuove opzioni terapeutiche. Molte di queste hanno
come bersaglio il sistema serotoninergico, che è stato dimostrato avere un ruolo critico nella fisiopatologia intestinale. Alcuni dati suggeriscono il possibile utilizzo di amoxicillina/clavulanato come agente procinetico. Il baclofen recentemente è stato considerato come uno dei farmaci più promettenti nel
trattamento della MRGE. Gli inibitori della colinesterasi, aumentando la disponibilità di acetilcolina nella parete intestinale, provocano un miglioramento
dei sintomi nella stipsi cronica severa e nella pseudo-ostruzione.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Sebbene siano necessari ulteriori studi in età pediatrica, la migliore conoscenza della fisiopatologia dei disordini della motilità gastrointestinale ha
portato all’utilizzo di nuove promettenti opzioni terapeutiche.
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Corrispondenza
Annamaria Staiano, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Università degli Studi “Federico II”, Napoli. E-mail: [email protected]
139
Luglio-Settembre 2013 • Vol. 43 • N. 171 • Pp. 140-145
Gastroenterologia pediatrica
Nuove strategie terapeutiche per le malattie
infiammatorie intestinali
Salvatore Cucchiara, Laura Stronati*
Dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, Unità di Gastroenterologia e Epatologia Pediatrica, Sapienza,
Università di Roma
*ENEA (Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie, l’Energia e lo Sviluppo Economico Sostenibile), Unità di Radiobiologia e Salute dell’Uomo, Roma
Riassunto
Le malattie infiammatorie intestinali (IBD, da inflammatory bowel disease) comprendono la malattia di Crohn (MC) e la colite ulcerosa (CU), e sono caratterizzate da andamento cronico recidivante, elevata morbidità e mediocre qualità di vita. I pazienti pediatrici con IBD sono maggiormente a rischio per
alcune variabili, quali ritardo di crescita, malnutrizione e impatto emozionale. Recentemente l’obiettivo del trattamento delle IBD ha subito un’evoluzione
con la guarigione della mucosa (mucosal healing) e la remissione completa (deep remission), considerati target principali. Questo si è reso possibile grazie
all’avvento di nuovi agenti, i farmaci biologici, in grado di modificare il corso di queste malattie, bloccando la cascata infiammatoria alla base delle IBD. Tradizionalmente utilizzati nei soggetti refrattari alle terapie convenzionali, i farmaci biologici sono sempre più spesso impiegati nelle prime fasi della malattia,
che più comunemente riguardano l’età pediatrica, al fine di interrompere precocemente il processo infiammatorio.
Fino a pochi anni fa i programmi terapeutici delle IBD pediatriche erano mutuati dai trials degli adulti, mentre gli studi pediatrici erano spesso retrospettivi e
non controllati. Recentemente sono state pubblicate in pediatria sia linee guida che trials controllati, prospettici e randomizzati. L’obiettivo di questa review
è descrivere le più recenti acquisizioni in tema di trattamento farmacologico delle IBD pediatriche.
Summary
Inflammatory bowel disease (IBD) includes two classical entities, Crohn’s disease and ulcerative colitis, characterized by a chronic relapsing course causing
heavy morbidity and impairment of quality of life. Children with IBD are vulnerable in terms of growth failure, malnutrition and emotional impact. Recently,
the aims of therapy of IBD have moved from symptomatic control to the achievement of mucosal healing and deep remission. This has been possible with
the advent of disease-modifying drugs, able to interrupt the inflammatory cascade underlying IBD, such as the biological agents. The latter are usually
administered in subjects refractory to conventional therapies. However, there is a growing view that they could be used in the initial phases of the disease,
that typically involves the pediatric age, in order to shutdown deeply the inflammatory process.
Until few years ago most therapeutic programs in pediatric IBD were borrowed from adult trials, while pediatric studies were often retrospective and
uncontrolled. Recently, guidelines on the therapeutic management and controlled, prospective, randomized trials regarding children with IBD have been
published. In this review the current knowledge in treatment options for children with IBD is reported, and the pediatric features in terms of effectiveness
and safety are highlighted.
Parole chiave: malattia infiammatoria intestinale, malattia di Crohn, colite ulcerosa, terapia biologica
Key words: inflammatory bowel disease, Crohn’s disease, ulcerative colitis, biological therapy
Metodologia della ricerca bibliografica effettuata
La ricerca è stata condotta su PubMed utilizzando i termini inflammatory bowel disease e therapy, entrambi singolarmente e in combinazione. Ulteriori filtri utilizzati per restringere il campo sono stati
Ages, Child: birth-18 years. Sono stati valutati tutti gli articoli originali, le review, gli editoriali e la loro bibliografia. In particolare, sono
stati recuperati 4713 articoli, di cui 1953 ritenuti utili e 455 utilizzati.
Non sono state utilizzate delle restrizioni linguistiche. La ricerca della letteratura è stata condotta nel mese di aprile 2013.
Introduzione
Le malattie infiammatorie croniche intestinali (IBD da inflammatory
bowel disease) comprendono due entità classiche, la colite ulcerosa
(CU) e la malattia di Crohn (MC), caratterizzate da andamento cro-
140
nico e recidivante, con un impatto sulla qualità di vita e sul sistema
sanitario (Abraham et al., 2012). Dati epidemiologici recenti indicano
un’incidenza più elevata nei paesi occidentali, che si attesta in età
pediatrica attorno agli 8-10 casi/100.000/anno (Molodecky et al.,
2012). Circa il 25% dei casi di IBD sono diagnosticati in bambini e
adolescenti (Malaty HM et al., 2010). I bambini con IBD, generalmente, tendono ad avere una malattia più severa e con più rapida
evoluzione rispetto agli adulti. La CU pediatrica spesso si presenta
come una pancolite (70-90% dei casi) e la localizzazione esclusivamente colonica della MC è più comune nei bambini rispetto agli
adolescenti, nei quali prevale la malattia ileale tipica degli adulti
(Levine et al., 2013). Dati epidemiologici forniti dal registro Francese “EPIMAD” (Registre des Maladies Inflammatoires Chroniques
du Tube Digestif) hanno mostrato nei bambini una prevalenza di MC
complicata (stenosante e/o fistolizzante) del 30% alla diagnosi e del
59% al follow-up (Gower-Rousseau et al., 2009).
Nuove strategie terapeutiche per le malattie infiammatorie intestinali
Figura 1.
Elenco dei tradizionali e recenti obiettivi nella terapia delle malattie infiammatorie intestinali pediatriche.
Figura 2.
Schematica rappresentazione dell’approccio terapeutico step-up e topdown delle malattie infiammatorie intestinali.
Gli obiettivi delle terapie tradizionali delle IBD pediatriche sono finalizzati ad indurre e mantenere la remissione, promuovere la crescita,
migliorare la qualità di vita e ridurre al minimo l’uso di farmaci e le
complicanze di malattia (Griffiths, 2004). L’avvento di nuovi farmaci
in grado di modificare il corso delle IBD, ha posto la guarigione della mucosa (mucosal healing, MH) come obiettivo cruciale (De Cruz
et al., 2013) (Fig. 1). Recentemente, il concetto di “remissione profonda”, comprendente la guarigione della mucosa e la remissione
clinica e biologica, è stato introdotto come misura dell’efficacia del
trattamento (Zallot e Peyrin-Biroulet, 2013), con l’obiettivo di prevenire a breve e medio termine il danno intestinale e la chirurgia, e a
lungo termine la morbidità.
Fino a pochi anni fa l’evidenza di efficacia dei farmaci e gli algoritmi terapeutici per le IBD pediatriche erano mutuati dagli studi sugli
adulti, da non molto sono invece disponibili consensus statements e
linee guida, oltre a trials clinici controllati, esclusivamente pediatrici.
L’obiettivo di questa review è di fornire una panoramica sulle ultime
acquisizioni nel campo del management terapeutico delle IBD pediatriche, enfatizzandone le peculiarità sia in termini di efficacia che
di sicurezza ed evidenziando le aree di interesse per future ricerche.
nistrate per 8-12 settimane come nutrizione esclusiva, in assenza
di terapie farmacologiche, si sono dimostrate in grado di indurre
remissione clinica e dell’infiammazione in circa il 75%-80% dei pazienti trattati (Grogan, 2012). Nonostante sia comunemente noto che
gli steroidi e la terapia nutrizionale esclusiva non si differenziano
per il rate di risposta e di remissione clinica (Alhagamhmad, 2012),
uno studio del nostro gruppo ha mostrato che la terapia nutrizionale esclusiva a base di formula polimerica è nettamente superiore
agli steroidi nell’indurre remissione endoscopia e istologica (Borrelli,
2006). La nutrizione enterale parziale (50% di calorie come formula
speciale e 50% come dieta libera) di lunga durata sembra anche
molto utile nel mantenere la remissione clinica in pazienti con MC,
con gradi di remissione a 1 anno intorno al 75% (Levine, 2013). L’identificazione di marcatori genetici, laboratoristici o clinici in grado
di far prevedere il decorso della malattia e quindi applicare terapie
mirate al paziente rappresenta oggi una sfida importante per la ricerca sulle IBD. In particolare, alcuni gruppi nord-americani hanno
documentato una stretta relazione tra aumentata immuno-reattività
verso specifici antigeni batterici (anti-OmpC, anti-flagellina, Anti-I2,
ASCA) e fenotipo di malattia particolarmente aggressivo (es. malattia penetrante o stenosante per la MC, o con necessità di colectomia
per la CU) (Dubinsky, 2008; Elkadri, 2013).
Terapie convenzionali
La gestione dei pazienti pediatrici con IBD per lo più si basa sulle cosiddette terapie convenzionali – corticosteroidi (CS), 5-aminosalicilati (5-ASA), immunomodulanti (IM) e terapia nutrizionale. Quest’approccio, che prevede un iniziale utilizzo dei farmaci con un profilo
di sicurezza maggiore, ma una minore efficacia (mesalazina, sulfasalazina), fino ad arrivare a quelli con un’efficacia maggiore, ma un
maggiore rischio di effetti collaterali (CS, IM, biologici, chirurgia), è
definito step-up e ha il vantaggio di limitare l’utilizzo di farmaci più
aggressivi, maggiormente tossici, solo ai pazienti che ne richiedono
strettamente l’uso (Hanauer, 2009) (Fig. 2). D’altro canto, le terapie
convenzionali non alterano il corso della malattia, ad esempio non
riducono le probabilità di complicanze e la necessità di chirurgia;
pertanto si avverte la necessità di ricorrere, nei soggetti con decorso
di malattia grave, ad un approccio “aggressivo” più precoce (Ruemmele, 2010).
Nell’ambito delle terapie convenzionali un ruolo interessante ha la
terapia nutrizionale nella MC, con la somministrazione di formule
alimentari polimeriche, semi-elementari (a base di idrolizzati) e elementari (a base di miscele di aminoacidi). Queste formule, sommi-
Farmaci biologici e malattia di Crohn
Le principali novità in campo terapeutico per il trattamento delle IBD
riguardano i farmaci biologici, introdotti nella pratica clinica pediatrica dalla fine del secolo scorso. L’uso in età pediatrica dell’Infliximab
(IFX), un anticorpo monoclonale chimerico diretto contro il TNF-α, è
stato approvato nel 2006 (Hyams et al., 2007) a seguito dei risultati
dello studio REACH che dimostrava una percentuale di risposta e di
remissione nei pazienti trattati con IFX 5mg/Kg a 0, 2 e 6 settimane,
rispettivamente del 63,5% e del 55,8% a un anno. Altri studi non
controllati pediatrici hanno confermato l’efficacia dell’IFX nell’ottenere e mantenere la remissione a un anno, oltre ad una maggiore
efficacia nell’ottenimento del guarigione mucosale (MH, da mucosal
healing) rispetto agli IM (Hyams et al., 2009; Assa et al., 2012).
L’adalimumab (ADA), è un anticorpo monoclonale anti-TNF-α umanizzato. Inizialmente considerato la terapia biologica di seconda linea nei pazienti non responsivi all’IFX, è ora comunemente utilizzato
come prima scelta nella MC pediatrica (Viola et al., 2009; Rosh et al.,
2009; Hyams et al., 2012). Uno studio ha riportato una percentuale
141
S. Cucchiara, L. Stronati
di remissione del 41% a un anno (Russell et al., 2011). Un trial clinico randomizzato in doppio cieco, mirato a valutare l’efficacia e la
sicurezza dell’ADA, ha dimostrato che questo farmaco può indurre la
remissione con una percentuale di risposta del 38,7% e 33,3% a 26
e 52 settimane, rispettivamente (Hyams et al., 2012). Inoltre, è stato
dimostrato che i pazienti naïve all’IFX ottengono maggiormente la
remissione rispetto a pazienti precedentemente esposti (Hyams et
al., 2012).
È attualmente disponibile un terzo anti-TNFα per il trattamento della
MC, il Certolizumab pegol, di cui non sono però disponibili dati pediatrici.
Il Natalizumab (NTZ) è un anticorpo monoclonale umanizzato IgG4
diretto contro la sub-unità alfa4 dell’integrina, una molecola di adesione. Hyams e colleghi, autori dell’unico trial sul NTZ, hanno valutato la sicurezza e l’efficacia di questo farmaco a 0, 4 e 8 settimane
in adolescenti con MC moderata-severa, ottenendo percentuali di
risposta e di remissione rispettivamente del 55% e 29% (Hyams
et al., 2007). Lo studio fu condotto precedentemente ai primi casi
di leucoencefalopatia multifocale riportati negli adulti; questo grave
evento avverso costituisce la principale riserva all’utilizzo di questa
terapia su larga scala.
La tabella I elenca i trials prospettici sull’efficacia dei biologici nella
MC pediatrica.
La comparsa dei biologici nell’armamentario terapeutico per le IBD
ha generato grandi aspettative riguardo la loro capacità di modificare la storia naturale di queste malattie, sebbene i dati a conferma
di questa ipotesi siano ancora scarsi. Dai dati provenienti da trials
effettuati sull’adulto e da studi pediatrici non controllati (Kugathasan
et al., 2000; Kim et al., 2011), che suggeriscono una migliore rispo-
sta dei biologici nei pazienti con storia di malattia breve, è emerso
un nuovo schema terapeutico, definito top-down, secondo il quale
terapie più aggressive, quali quelle basate su biologici e IM, vengono
utilizzate come terapie di prima linea. Tuttavia l’efficacia di questo
approccio nel modificare il corso della malattia necessita di ulteriori
conferme.
Studi con follow-up più prolungati in bambini affetti da IBD in terapia con biologici stanno pertanto diventando di cruciale importanza
per la valutazione dell’efficacia e della sicurezza a lungo termine di
tali farmaci. In particolare, per quanto concerne la safety, le problematiche principali riguardano le infezioni opportunistiche e il rischio
tumorale.
Le infezioni opportunistiche sono il rischio principale delle terapie
immunosoppressive in generale: la letteratura pediatrica in proposito, per quanto riguarda le IBD pediatriche, è piuttosto scarsa.
(Veereman-Wauters et al., 2012; De Greef et al., 2012). Dati relativi allo studio REACH hanno dimostrato che la maggior parte delle
infezioni che insorgono in bambini con IBD in terapia con IFX è di
entità lieve, con solo il 5,7% dei casi di infezioni severe richiedenti
ricovero ospedaliero (Hyams et al., 2007). Nel successivo studio di
follow-up a 36 mesi dei medesimi pazienti, gli eventi avversi più frequentemente riscontrati erano le infezioni della alte vie respiratorie
con 10% di infezioni severe (Hyams et al., 2011). Infezioni segnalate
meno frequentemente sono quelle da Herpes Zoster, Epstein Barr
virus, Istoplasma e Listeria Monocytogenes.
Dati più consistenti derivano dal registro TREAT che ha valutato la
sicurezza a lungo termine di pazienti adulti affetti da IBD. Tale registro ha dimostrato che IFX non è un fattore predittivo indipendente
per infezioni severe (Liechtenstein et al., 2012).
Tabella I.
Trials prospettici sull’uso dei farmaci biologici nella malattia di Crohn pediatrica.
Trial
N
Valutazione dell’efficacia
Risultati
Trattamento
Risposta
Remissione
Hyams et al., 2007
(REACH trial)
112
PCDAI a 10 e 54 sett.
IFX 5 mg/kg a 0,2 and 6 sett. seguito da
randomizzazione a ogni 8 sett. o ogni
12 sett.
IM (requisito per entrare nello studio)
Ogni 8 sett. 65,5%
Ogni 12 sett. 33,3%
Ogni 8 sett. 55,8%
Ogni 12 sett. 23,5%
Hyams et al., 2009
202
PGA a 1, 2 e 3 anni di
FU in pz che avessero
almeno 1 anno di FU dopo
l’induzione
Terapia di mantenimento con IFX,
episodica ed episodica convertita al
mantenimento
IM permesso
1 anno 64%
2 anni 70%
3 anni 83%
1 anno 26%
2 anni 44%
3 anni 33%
Viola et al., 2009
23
PCDAI a 2, 4, 12, 24 e 48
settimane
Induzione con ADA peso≥40 kg: 160 mg
seguiti da 80 mg dopo 2 sett.;
Mantenimento: 80 mg ogni altra
settimana quindi 40 mg ogni altra sett.
Induzione peso≤40 kg: 80 mg seguiti da
40 mg dopo 2 sett.
Mantenimento: 40 mg ogni altra sett.
IM permesso
2 sett. 87%
4 sett. 88%
12 sett. 70%
24 sett. 86%
48 sett. 91%
2 sett. 36,3%
4 sett. 60,8%
12 sett. 30,5%
24 sett. 50%
48 sett. 65,2%
Hyams et al., 2012
(IMAGINE trial)
188
PCDAI a 26 e 52 + CDAI
a 26 e 52 sett. in pazienti
≥13 anni
Induzione con ADA peso≥40 kg: 160 mg
seguiti da 80 mg dopo 2 sett.;
Mantenimento: 40 mg ogni altra
settimana quindi 20 mg ogni altra sett.
Induzione peso≤40 kg: 80 mg seguiti da
40 mg dopo 2 sett.
Mantenimento: 20 mg ogni altra sett. o
10 mg
IM permesso
Sett. 26:
Dose alta 59,1%
Dose bassa 48,4%
Sett. 26:
Dose alta 38,7%
Dose bassa 28,4%
Sett. 52:
Dose alta 41,9%
Dose bassa 28,4%
Sett. 52:
Dose alta 33,3%
Dose bassa 23,2%
IFX: infliximab; ADA: adalimumab; PCDAI: Pediatric Crohn’s Disease Activity Index; PGA: Physician Global Assessment; sett: settimana; IM: immunomodulanti
142
Nuove strategie terapeutiche per le malattie infiammatorie intestinali
Tabella II.
Principali eventi avversi relativi alla terapia biologica con anti-TNF-α.
Eventi avversi
Infezioni
Comuni: infezioni delle alte vie respiratorie ed infezioni delle vie urinarie
Rare: sepsi, istoplasmosi, infezione o riattivazione da HSV TBC, infezione o riattivazione di EBV
Formazione di anticorpi
Anticorpi anti infliximab, anticorpi anti adalimumab
Reazioni all’infusione
Comune: reazione nel sito di iniezione (ADA)
Rare: Anafilassi, ipersensibilità ritardata
Autoimmunità
Comune: positività di ANA e anti DNA a doppia catena
Rara: sindrome simil-lupus
Manifestazioni cutanee
Dermatite psoriasiforme
Tumori
Rare: Linfoma, linfoma epatosplenico T cellulare, melanoma
Sistema nervoso
Comune: parestesie
Rara: Sindrome di Guillan-Barrè
Alterazioni della funzionalità epatica
Rare: aumento delle transaminasi, epatite, colecistite
Alterazioni cardiache
Comune: tachycardia durante l’infusione (IFX)
Rara: Insufficienza cardiaca
Per quanto riguarda il rischio tumorale, la descrizione di una rara
forma di linfoma, il linfoma epatosplenico a cellule T, in pazienti giovani adulti di sesso maschile in terapia con tiopurine associate a IFX
o a ADA, ha ulteriormente accresciuto la preoccupazione legata alla
sicurezza della terapia biologica nelle IBD (Cucchiara et al., 2009;
Mackey et al., 2009). Il numero di casi segnalati resta attualmente
limitato e riguarda sempre pazienti in terapia combinata (IFX o ADA
con una tiopurina), ponendo dubbi sull’effettivo ruolo causale della
terapia biologica. In seguito a tali segnalazioni i gastroenterologi pediatrici hanno modificato la propria attitudine terapeutica utilizzando
la terapia combinata per periodi meno prolungati ed in pazienti selezionati, tendendo a prediligere la monoterapia.
Nella tabella II sono indicati effetti collaterali più segnalati relativi sia
ad IFX che ad ADA.
Concludendo, le terapie biologiche sono attualmente di uso comune
nella MC pediatrica e sembrano in grado di ottenere e mantenere
la remissione nel breve-medio periodo. Non sono disponibili chiare
e definitive indicazioni in favore di un approccio top-down, ma in
caso di una malattia complicata fin dall’esordio, questo sembra lo
schema terapeutico più promettente nell’ambiziosa prospettiva di
modificare la storia naturale della malattia.
Biologici e colite ulcerosa
Secondo le recenti linee guida congiunte ECCO ed ESPGHAN sulla
gestione della CU pediatrica, il candidato all’IFX è il bambino con una
malattia persistentemente attiva, non controllata o dipendente dai
CS, nonostante una terapia concomitante con IM, e per il quale sia
prospettata una colectomia, oltre ai pazienti con colite severa acuta
(acute severe colitis, ASC) che necessitano di una terapia di seconda
linea (Turner et al., 2012). La Figura 3 riporta in forma schematica
l’algoritmo di trattamento del bambino con CU acuta severa, come
emerso dalle recenti linee guida sulla CU di ESPGHAN e ECCO (Turner et al., 2012).
Una consensus sulla CU dell’adulto, non responsiva alle terapie convenzionali, ha rivelato come l’IFX sia efficace nell’indurre la remissione clinica, promuovere il MH e ridurre il rischio di chirurgia (Reinisch et al., 2012). ACT1 e ACT2 sono stati i primi studi controllati
randomizzati in doppio cieco che hanno valutato l’efficacia dell’IFX
rispetto al placebo nell’induzione e nel mantenimento della remissione negli adulti con CU ad attività moderata-severa (Rutgeerts et
al., 2005). Nello studio ACT1, le percentuali di risposta per l’IFX a 5
mg/kg, a 10mg/kg e placebo sono state rispettivamente del 69%,
61% e 37% a 8 settimane e del 45%, 44% e 20% a 54 settimane. È
stata calcolata inoltre una riduzione del rischio di colectomia del 7%
rispetto al placebo a 54 settimane.
Un recente studio multicentrico randomizzato ha valutato in maniera prospettica l’efficacia e la sicurezza dell’IFX nei bambini con CU
moderata severa, rispetto alla terapia con CS e IM. A 8 settimane, il
73,3% dei pazienti mostrava una risposta clinica e il 40% era in remissione clinica; un miglioramento dei sintomi era visibile già dalla
seconda settimana (Hyams et al., 2012).
In un precedente studio osservazionale multicentrico effettuato dal
Pediatric Inflammatory Bowel Disease Collaborative Research Group
Registry 52 bambini con CU attiva (di cui l’87% con pancolite), 63%
steroido-resistenti e 35% steroido-dipendenti, hanno ricevuto IFX ad
una distanza media dalla diagnosi di 8 mesi (Hyams et al., 2010).
Le terapie concomitanti all’introduzione dell’IFX erano i CS (87%), le
tiopurine (63%), 5-ASA (51%). I risultati hanno mostrato una malattia inattiva, senza necessità di ricorso ai CS, nel 38% e nel 21% dei
casi a 12 e a 24 mesi di follow-up rispettivamente, mentre il 61% ha
evitato la colectomia a 24 mesi.
Un dato interessante emerso da un recente sondaggio presso i gastroenterologi pediatri sul dosaggio dell’IFX nel trattamento della CU
ha evidenziato come l’attitudine a somministrare dosi elevate di IFX
(10 mg/kg) è più comune di quanto si potesse pensare, sia presso gli
ospedali che le istituzioni accademiche (Nattiv et al., 2012).
Nuovi orizzonti e prospettive
Nonostante i recenti progressi nella conoscenza dei meccani-smi patogenetici alla base delle IBD e la maggiore disponibilità di nuovi farmaci
diretti contro specifiche molecole responsabili dell’infiammazione intestinale (Fig. 4), si è ancora lontani dal di-sporre di una cura definitiva
sia per la MC che per la CU. Data la complessità della patogenesi delle
IBD, non tutte le molecole biologiche sviluppate hanno dimostrato una
loro reale efficacia nell’uomo.
Nell’ambito dei nuovi farmaci, l’asse IL23/Th17 è oggi considerato
143
S. Cucchiara, L. Stronati
Figura 3.
Schema dell’algoritmo diagnostico della colite ulcerosa acuta severa del bambino (linee guida ESPGHAN e ECCO).
Figura 4.
Meccanismi patogenetici delle malattie infiammatorie intestinali e principali tappe della cascata infiammatoria come target per terapia biologica.
144
Nuove strategie terapeutiche per le malattie infiammatorie intestinali
un target biologico particolarmente interessante, in quanto i suoi
componenti sono risultati determinanti nello sviluppo del processo
infiammatorio. Ad esempio, l’ustekinumab, un anticorpo monoclonale umano diretto contro la subunità p40, comune sia alla IL23
che IL12, si è dimostrato efficace nell’indurre e mantenere la remissione negli adulti con MC moderata-severa (Sandborn et al., 2012).
Il secukinumab invece, un anticorpo anti-IL17, è risultato inefficace
nel trattamento della MC dell’adulto moderata-severa, presentando
anche molteplici eventi avversi (Hueber et al., 2012)
Tra gli agenti biologici più promettenti, il tofacitinib, un inibitore delle
chinasi Janus 1, 2 e 3 è stato impiegato con successo nella CU
attiva (Sandborn et al., 2012), mentre il golimumab, un nuovo antiTNFα umanizzato, ha dimostrato la sua efficacia nei pazienti con MC
e CU moderata severa (Sandborn et al., 2012). Il vedolizumab, un
anticorpo monoclonale intestino-specifico diretto contro l’integrina
α4β7, una molecola di adesione che regola il traffico leucocitario,
ha dimostrato una marcata efficacia nell’indurre la risposta clinica e
il MH nella CU attiva, non responsiva a precedenti terapie con antiTNFα (Feagan et al., 2012).
Nell’ambito delle nuove cure per le IBD, sono inoltre da segnalare
le terapie basate sulle cellule staminali che stanno facendo il loro
ingresso nell’arena terapeutica per il trattamento di queste malattie
(Dalal et al., 2012).
Alla luce del ruolo che il microbiota intestinale svolge nei meccanismi di malattia, interagendo con geni dell’immunità innata della
mucosa intestinale (in minore misura dell’immunità adattiva), la
caratterizzazione molecolare del microbiota e la sua modificazione
con probiotici o antibiotici (Loh et al., 2012) sono oggetto di ricerche cliniche o di base. Il trapianto di microbiota fecale, attualmente
impiegato con successo in condizioni di infezione intestinale con
disbiosi (ad esempio nell’infezione da Clostridium difficile antibiotico-resistente) può diventare un interessante campo di applicazione
nelle IBD (Aroniadis et al., 2013).
In conclusione, va ricordato che, oltre alla remissione clinica, attualmente costituiscono obiettivi primari delle terapie anche il MH e
la remissione profonda, che è il risultato di misure oggettive dell’infiammazione in atto (ottenute tramite endoscopia, markers o imaging). Inoltre esiste una sempre più forte convinzione che le terapie
debbano essere personalizzate ed adattate alle specifiche condizioni del paziente. In futuro, i soggetti con IBD dovranno essere analizzati sotto il profilo genetico, sierologico, endoscopico, di imaging e,
auspicabilmente, anche dello scenario citochinico che li caratterizza,
in modo da prevedere il decorso della malattia e applicare terapie
mirate. Per esempio, un paziente che si presenti con una malattia colonica estesa documentata endoscopicamente, arresto della
crescita e coinvolgimento perianale potrà essere sottoposto ad una
strategia top-down, con l’utilizzo combinato di biologici e IM. Questo
in accordo con la visione immunologica per cui le IBD comprendono
fasi precoci e fasi tardive, caratterizzate da differenti meccanismi
fisiopatologici, e che un terapia “aggressiva” nelle prime fasi di
malattia potrebbe interrompere il processo patologico e prevenirne
l’evoluzione verso una cronicizzazione.
Box di orientamento
Gli obiettivi tradizionali del trattamento delle malattie infiammatorie croniche intestinali (IBD) sono il controllo dei sintomi e l’incremento della qualità
di vita.
Recentemente gli obiettivi terapeutici delle IBD hanno virato verso il raggiungimento della guarigione mucosale e della remissione profonda.
L’introduzione di farmaci biologici, in grado di cambiare il corso delle malattie, ha modificato drasticamente la strategia terapeutica delle IBD.
Vi sono forti evidenze a supporto di una precoce introduzione delle terapie biologiche per interrompere drasticamente la cascata infiammatoria alla
base delle IBD.
Il progresso nella conoscenza dei meccanismi patogenetici delle IBD ha condotto all’identificazione di nuove molecole quali possibili target per terapie
specifiche.
Un’importante sfida è rappresentata dall’identificazione dei migliori candidati a terapie cosiddette “aggressive” (solitamente con la combinazione di
biologici e immunomodulatori), con l’impiego di markers sierologici, genetici e immunologici, predittivi di un decorso complicato.
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** L’articolo riporta stimolanti riflessioni su alcuni aspetti clinici, epidemiologici e
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** L’articolo presenta una serie di riflessioni sui nuovi target terapeutici delle IBD.
Corrispondenza
Salvatore Cucchiara, Dipartimento Universitario di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, SAPIENZA, Università di Roma, UOC di Gastroenterologia e Epatologia
Pediatrica, Policlinico Universitario Umberto I, Viale Regina Elena, 324 - 00161 Roma. Tel.: +39 06 49979326/4. Fax: +39 06 49979325/06 62277415.
146
Dismorfologia neonatale
L’identificazione prenatale o neonatale di anomalie congenite o segni dismorfici è un elemento di grande valore per la diagnosi precoce di
malattie genetiche, che interferiscono con la qualità dello sviluppo e della crescita del prodotto del concepimento. La genetica clinica è una
disciplina fortemente integrata con la medicina prenatale e neonatale, proprio perché in queste fasi devono concentrarsi gli sforzi in vista
di una diagnosi etiologica, oggi sempre più spesso confermata da alterazioni citogenetiche e molecolare. Numerosi quadri clinici sono stati
identificati grazie all’applicazione di indagini di ibridazione genomica o delle nuove metodiche di analisi del DNA ed è necessario che tutto
ciò entri a far parte a pieno titolo del bagaglio culturale dei pediatri e in particolare dei neonatologi, specialisti che per primi si trovano a
dover delineare un fenotipo e sospettare la possibile presenza di una patologia su base genetica.
Fra i segni clinici associati alle anomalie congenite fetali e neonatali, le alterazioni dell’accrescimento intrauterino sono quelle che più frequentemente si riscontrano in presenza di alterazioni genetiche o epigenetiche, ed assumono a volte una tale importanza sul piano clinico
da poter essere utilizzate anche come chiave nosografica. Ecco perché la descrizione delle varie sindromi è distribuita in due articoli, uno
scritto da Luigi Memo e Angelo Selicorni, che raggruppa le forme caratterizzate dalla restrizione della crescita fetale e l’altro, scritto da
Alessandro Mussa e Giovanni Battista Ferrero, caratterizzato dall’overgrowth.
Speriamo di aver offerto con questa sezione al lettore di Prospettive in Pediatria un quadro chiaro, aggiornato e completo degli aspetti cinici
e biologici che ruotano intorno alla dismorfologia neonatale.
Giovanni Corsello
Università degli Studi di Palermo
147
Luglio-Settembre 2013 • Vol. 43 • N. 171 • Pp. 149-157
Dismorfologia neonatale
Il neonato con anomalie congenite multiple:
inquadramento e nosologia
Giovanni Corsello, Mario Giuffrè, Maria Piccione
Dipartimento di Scienze per la Promozione della Salute e Materno Infantile, Università degli Studi di Palermo
Riassunto
L’approccio clinico e diagnostico al neonato con malformazioni congenite multiple prevede un’accurata analisi del fenotipo e delle informazioni anamnestiche sia pre- che post-concezionali, finalizzata alla scelta delle indagini di laboratorio (test citogenetici e molecolari) indispensabili per una corretta
identificazione nosologica.
Quadri clinici caratterizzati da anomalie congenite multiple possono essere sostenuti da alterazioni cromosomiche, genetiche ed epigenetiche, che non
sempre presentano un fenotipo caratteristico nelle epoche precoci della vita extrauterina. In tali situazioni l’apporto delle nuove tecniche di citogenetica e
genetica molecolare (array-CGH, next generation sequencing, etc.) può rivelarsi determinante per una precisazione etiologica e per una valutazione della
correlazione genotipo-fenotipo, anche in termini di evoluzione della storia naturale e di follow-up. Una corretta definizione diagnostica, inoltre, è il presupposto di una consulenza genetica alla famiglia, tesa alla identificazione di soggetti a rischio per la ricorrenza della condizione e alle opportunità di prevenzione
attraverso procedure di diagnosi preconcezionale o prenatale.
I gemelli costituiscono da sempre una popolazione peculiare e particolarmente interessante per comprendere i meccanismi responsabili dell’insorgenza di
patologie ed in particolare la relazione tra fattori genetici ed ambientali. La maggiore frequenza di patologia malformativa nei nati da gravidanza plurima
è ormai documentata e riconducibile a numerosi e complessi fattori. Recenti evidenze hanno però messo in luce il ruolo delle metodiche di procreazione
medicalmente assistita (e della Intra-Cytoplasmic Sperm Injection in particolare) nel determinare un ulteriore incremento della patologia malformativa
congenita, anche attraverso meccanismi epigenetici che interferiscono con i normali processi di imprinting genomico nei gameti e negli embrioni.
Summary
A clinical and diagnostic approach to a newborn with multiple congenital malformations requires an accurate analysis of the phenotype together with
gestational and preconceptional informations, in order to choose adequate laboratory investigations (cytogenetic and molecular tests) which may allow a
correct nosologic identification.
Multiple congenital malformations could be determined by chromosomal, genetic and epigenetic anomalies and the clinical presentation may not be characteristic in early stages of the postnatal life. New cytogenetic and molecular techniques (i.e. CGH array, next generation sequencing, etc.) may be useful to
evaluate identify etiology and genotype-phenotype correlation, natural history and follow-up of each patient. A correct diagnosis is the basis for adequate
genetic counselling to the family, for assessment of recurrence risk and for evaluation of preventive tools, such as preconceptional or prenatal diagnosis.
Twins have always represented a peculiar population, particularly interesting in order to understand the relation between genetic and environmental factors
in the pathogenesis of diseases. Higher prevalence of malformations in multiple pregnancies is well documented and is caused by a complexity of many
interacting factors. Recent evidences have demonstrated the role of assisted reproductive technologies (expecially Intra-Cytoplasmic Sperm Injection) as
independent factor in determining an additional increase of birth defect incidence, also through epigenetic mechanisms which may interfere with physiological processes of genomic imprinting in gametes and embryos.
Parole chiave: morfologia; malformazione; sindrome; sequenza; associazione; gemelli; epigenetica; imprinting; a-CGH; next generation sequencing
Key words: morphology; malformation; syndrome; sequence; association; twins; epigenetics; imprinting; comparative genomic hybridization; next generation sequencing
Metodologia della ricerca bibliografica
Inquadramento del neonato con anomalie congenite
La letteratura scientifica utilizzata è costituita sia da testi di riferimento multiple
nell’inquadramento clinico-diagnostico della patologia malformativa e
delle malattie genetiche che da articoli di aggiornamento circa l’avanzamento delle conoscenze nei settori specifici e le applicazioni delle
moderne indagini di laboratorio (utilizzando come motore di ricerca
Pubmed). È stata posta particolare attenzione al reperimento di fonti
bibliografiche accessibili gratuitamente on-line, di estrema importanza nell’ausilio all’inquadramento clinico-diagnostico.
La patologia malformativa complessa mostra un’elevata prevalenza
alla nascita (2-4% dei nati vivi) (WHO, 2012). Le malformazioni congenite sono responsabili di morbosità e mortalità nel periodo neonatale e rappresentano complessivamente in Italia la terza causa di
ospedalizzazione nei primi 4 anni di vita (Nicolosi, 2002). Esse sono
frequentemente caratterizzate da complessi quadri clinici con interessamento multi-organo e/o deficit funzionali multipli.
149
G. Corsello, M. Giuffrè, M. Piccione
Tabella I.
Approccio diagnostico per il neonato con anomalie congenite multiple.
Anamnesi
FAMILIARE (stesura albero genealogico con informazioni relative agli aborti, alla morte endouterina, alla
mortalità perinatale, infantile e/o giovanile, alle malformazioni congenite, al ritardo psicomotorio, al ritardo
mentale, alla provenienza geografica ed all’eventuale consanguineità)
GRAVIDICA (malattie materne quali iperfenilalaninemia, patologie autoimmuni, diabete, infezioni, minacce di
aborto o parto pretermine,uso di farmaci, alcool, droghe, esposizione a radiazioni).
FETALE (inizio e tipo di attività fetale, crescita fetale)
PERINATALE (parametri auxologici in rapporto all’età gestazionale, ritardo/eccesso di crescita; analisi
del fenotipo,difetti strutturali singoli o multipli, minori e/o maggiori, e esame neuromotorio per valutare
l’eventuale presenza di deficit associati (ipotonia/ipertonia muscolare, deficit di suzione, difficoltà di
alimentazione, convulsioni, etc.)
Analisi del fenotipo
Esame dismorfologico
Ricerca malformazioni congenite
Screening malformativo ecografico, eventuali indagini radiologiche e di imaging
Diagnostica specialistica
- analisi molecolari del DNA
- cariotipo
- β-CGH
Molte patologie genetiche sono rare (prevalenza nella popolazione
generale <1/2.000) e pertanto la diagnosi può, a volte, essere difficile e tardiva. L’iter diagnostico è articolato e complesso per il sovrapporsi di tratti fenotipici simili in patologie differenti, e prevede diverse tappe dalla raccolta anamnestica alla diagnostica specialistica
(Tab. I). In particolare cardine del processo diagnostico è l’esame
dismorfologico (Tab. II). In senso cranio-caudale andrà descritto ogni
particolare con la corretta terminologia e seguendo le indicazioni, i
metodi e i criteri di riferimento più aggiornati e condivisi dalla comunità scientifica internazionale (Carey et al., 2012; Allanson et al.,
2009, Carey et al., 2009, Hall et al., 2009, Hunter et al., 2009, Hennekam et al., 2009, Biesecker et al., 2009, Hennekam et al., 2013).
L’osservazione di una o più alterazioni morfostrutturali di un organo,
un distretto o una regione corporea presenti alla nascita, talvolta
identificabili già nella vita intrauterina attraverso le metodiche di
diagnosi prenatale, conduce alla diagnosi di malformazione conge-
Tabella II.
Esame dismorfologico.
Crescita
Armonica/disarmonica, bassa/alta statura
Cranio
Microcefalia, macrocefalia, brachicefalia, dolicocefalia, scafocefalia, plagiocefalia, trigonocefalia, turricefalia, etc.
Suture e fontanelle: precoce/ritardata chiusura
Glabella: prominente, piatta, etc.
Capelli
Attaccatura alta/ bassa del capillizio, capelli radi, crespi, sottili, radi, etc.
Faccia
Piatta, grossolana, ipomimica, allungata, stretta, rotonda, vecchieggiante, triangolare, etc.
Fronte ampia, fronte stretta, prominente, sfuggente, con sutura metpoica prominente/depressa
Sopracciglia folte, rade, arcuate, orizzontali, allungate assenti, sinofri, etc.
Occhi infossati, buftalmo, fessure palpebrali strette, rime palbebrali orientaleggianti/antidown, epicanto, iper/ipotelorismo,
microftalmia, ancghiloblefaron, ectropion/entropion, etc.
Massiccio facciale prominente/ipoplastico, zigomi ipoplasici
Naso bulboso, piccolo, a becco, con ponte nasale depresso/prominente, con punta arrotondata, bifido, con setto più lungo delle ali,
narici slargate, narici antiverse, narice unica, etc.
Filtro nasale breve, lungo ipo/ipertrofico, profondo, etc.
Bocca ampia, piccola, angoli rivolti in basso, labbra sottili, carnose, labbro inferiore everso, gengive ipertrofiche, frenuli
sovrannunerari, palato ogivale, anomalie di forma e struttura dei denti, disodontiasi, macro/microglossia, etc.
Mandibola con prognatismo, micrognatia/retrognatia, schisi mandibolare, etc.
Padiglioni auricolari displasici, ampi, piccoli, a basso impianto, trago/antitrago bifido, assente, piatto, duplicato, elice/antelice piatto,
ipoplasico, appendici preauricolari, fistole preauricolari, etc.
Collo
Corto, tozzo, lungo, con cute retronucale sovrabbondante, pterigium colli, etc.
Torace
Stretto, lungo, pectus exavatum, pectus carinatum, asimmetrico con ipo/aplasia monolaterale dei muscoli pettorali, teletelia,
capezzoli introflessi, etc.
Arti
Ridotta mobilità, brevità rizo/mesomelica, arti lunghi, tibia vara, tibia valga, etc.
Mani/piedi
Sindattilia, brachidattilia, clinodattilia, esa/polidattilia, oligodattilia, camptodatttilia, etc.
Genitali esterni
Criptorchidismo, micropene, ipoplasia delle grandi e/o piccole labbra, genitali ambigui, ipospadia, etc.
Cute
Spessa, macchie ipocromiche, nevi, macchie caffè e latte, angiomi, etc.
150
Il neonato con anomalie congenite multiple: inquadramento e nosologia
Tabella III.
Classificazione clinica dei difetti morfostrutturali.
Tabella IV.
Classificazione etiologica delle malformazioni congenite.
Malformazioni maggiori
Primarie (da causa genetica)
Alterazioni morfostrutturali che determinano
un’alterazione di una funzione tale da assumere una rilevanza clinica o estetica che necessiti di trattamento medico e/o chirurgico.
Malformazioni minori
Alterazioni morfostrutturali meno rilevanti
sul piano clinico o estetico, che non alterano
alcuna funzione e non necessitano quindi di
alcun trattamento, presenti in meno del 4%
della popolazione di riferimento.
Varianti fenotipiche
Alterazioni morfostrutturali meno rilevanti
sul piano clinico o estetico, che non alterano
alcuna funzione e non necessitano quindi
di alcun trattamento, presenti con una frequenza superiore al 4% nella popolazione di
riferimento.
nita. Ciò deve rappresentare l’avvio di un percorso teso all’identificazione di altre possibili anomalie congenite in altri organi e apparati
(anche non immediatamente emergenti sul piano clinico), alla definizione della rilevanza clinica delle stesse (malformazioni maggiori
e minori, tab. III), alla identificazione della base etiologica (malformazioni primarie e secondarie, tab. IV) e del possibile meccanismo
patogenetico (sindromi, sequenze, associazioni, tab. V) (Corsello e
Giuffrè, 2012). Si tratta di un percorso talvolta lungo e difficile, che
rende spesso necessario un follow-up a lungo termine per cogliere
la possibile emergenza di caratteristiche fenotipiche nelle epoche
successive, che possono più correttamente indirizzarne l’inquadramento nosologico. La diagnosi corretta e l’identificazione etiologica
consentono inoltre una corretta valutazione del rischio di ricorrenza
e un’adeguata consulenza genetica alla coppia.
Le malformazioni primarie, difetti della morfogenesi frutto di un
errore intrinseco del processo di sviluppo presente sin dal concepimento, possono scaturire da un’ampia gamma di alterazioni cromosomiche numeriche e strutturali, mutazioni geniche e alterazioni
epigenetiche (Tab. IV). Ogni giorno diversi gruppi di ricerca arricchiscono il patrimonio di informazioni della comunità scientifica internazionale con l’identificazione di nuove mutazioni e nuovi meccanismi genetici responsabili di insorgenza di patologie. Le banche dati
informatizzate vengono quindi periodicamente aggiornate e rese
disponibili attraverso il web.
Le malformazioni secondarie a noxae patogene non genetiche possono riconoscere cause biologiche, metaboliche, chimiche, fisiche,
meccaniche (Tabb. IV e VI). Una compressione meccanica esercitata
dalle pareti della camera gestazionale (per sovraffollamento – vedi
gemellarità –, per difetti anatomici o per masse occupanti spazio
quali fibromi uterini) ovvero da bande mesodermiche aberranti di
origine coriale può determinare una deformazione del feto. La formazione di briglie amniotiche può essere determinata da traumi,
amniocentesi ripetute o anomalie del tessuto connettivo e può innescare la sequenza da rottura precoce dell’amnios, con un corteo
fenotipico ampio e complesso denominato limb body wall complex.
I quadri clinici con malformazioni multiple possono essere classificati in modo diverso in base al tipo di relazione esistente tra le
diverse anomalie congenite che li compongono: relazione etiologica, patogenetica, di sede, di derivazione embriologica, di timing di
insorgenza nella vita embriofetale (Tab. V, Wiedemann et al., 1992;
Donnai e Winter, 1995; Jones, 1997; Twinning et al., 2000). Ad
esempio l’osservazione di due o più segni dismorfici facciali e/o di
Aberrazioni cromosomiche
o numeriche
§ poliploidia
§ polisomia
§ monosomia
o strutturali
§ delezioni
§ duplicazioni
§ inserzioni
§ traslocationi
Monogeniche
o mutazioni puntiformi
§ nonsense
§ missense
§ frameshift
o mutazioni dinamiche
§ amplificazione delle triplette
o regolazione epigenetica
§ alterazioni dell’imprinting
§ disomia uniparentale
Poligeniche
Secondarie (da causa ambientale)
Agenti biologici
o virus
§ citomegalovirus
§ rosolia
§ herpes virus
o batteri
§ treponema pallidum
o parassiti
§ toxoplasma gondi
Agenti chimici
o farmaci
§ antiblastici
§ anticonvulsivanti
§ antibiotici
o sostanze da abuso
§ alcohol
§ fumo
§ cocaina
§ oppiacei
o condizioni metaboliche
§ iperglicemia, iperinsulinemia
§ iperfenilalaninemia
§ iperandrogenismo
Agenti fisici
o radiazioni ionizzanti
o radiazioni elettromagnetiche
Disruptions vascolari
o disruption dell’arteria succlavia
o twin-twin disruption sequence
Cause meccaniche (deformazioni)
o bande amniotiche
o gemellarità
o oligoidramnios
o malformazioni uterine
o tumori uterini
anomalie delle mani associate a malformazioni maggiori e/o ritardo
neuromotorio (Fig. 1) deve far sospettare la presenza di una sindrome cromosomica o genetica.
151
G. Corsello, M. Giuffrè, M. Piccione
Tabella V.
Classificazione dei quadri polimalformativi.
Tabella VI.
Principali disruptions determinate da agenti biologici e chimici.
Sindromi
Agente biologico
Sequenze
Associazioni
Difetti congeniti multipli che riconoscono una causa
unica, di per sé necessaria e sufficiente per determinare il quadro polimalformativo, indipendentemente
dal coinvolgimento di organi e tessuti fisicamente
lontani e distinti da un punto di vista embriologico e
patogenetico. Per un quadro sindromico definito, la
causa può essere sia un’alterazione genetica che una
noxa ambientale, che ha agito su più campi di sviluppo durante l’embriogenesi.
Quadri polimalformativi determinati da una cascata
di processi dismorfogenetici, collegati tra loro da un
meccanismo di causa ed effetto. L’evento iniziale può
variare da un individuo all’altro, ma si caratterizza
sempre per la capacità di innescare un meccanismo
a cascata ed indurre un corteo di difetti secondari,
cronologicamente e patogeneticamente correlati.
Condizioni caratterizzate dalla compresenza nello
stesso individuo di più anomalie congenite apparentemente non correlate, né etiologicamente né patogeneticamente, ma associate tra loro con una frequenza superiore alla semplice probabilità statistica.
Talvolta sono riconducibili ad anomalie della blastogenesi, riconoscono cioè il timing di azione della noxa
patogena, in un’epoca così precoce in cui l’embrione
si comporta come un campo di sviluppo unico.
Figura 1.
Associazione di tratti dismorfici facciali (fronte prominente, ipertelorismo, occhi infossati, naso bulboso prominente, micrognatia, labbra carnose, labbro inferiore everso, padiglioni auricolari displasici con antelice
prominente, lobuli auricolari ampi, collo corto) ed anomalie dei piedi
(solchi plantari profondi) in neonato con trisomia 8 in mosaico.
Le sindromi più frequenti e più note sono quelle determinate da
anomalie cromosomiche numeriche o strutturali (sindrome di Down,
Edwards, Patau, Turner, cri du chat, etc.). Sebbene molte di esse
siano state descritte già da anni, ancora molte informazioni sono
necessarie per definire in modo più preciso le regioni cromosomiche
critiche responsabili, studiare i geni in esse presenti e le complesse
interrelazioni e regolazioni della loro espressione, spesso responsabili di un’ampia variabilità nella relazione genotipo-fenotipo.
Numerose sono anche le più note sequenze malformative descritte
in letteratura (Tab. VII), tra le quali la sequenza di Potter, nella quale
una primitiva anomalia di sviluppo dell’apparato urinario (quale ad
esempio l’agenesia renale bilaterale), sia essa da causa genetica o
ambientale, determina conseguentemente oligo-anuria, oligoidramnios, deformazioni da compressione nella camera gestazionale, ipoplasia polmonare, distress respiratorio alla nascita.
Alcune associazioni malformative sono identificate attraverso acronimi costituiti dalle iniziali dei singoli difetti congeniti che le compongono, come l’associazione VACTERL (Veterbral defects, Anorectal
152
Fenotipo
Citomegalovirus
• microcefalia, calcificazioni intracraniche, ritardo psicomotorio, ipoacusia neurosensoriale,
corioretinite, epatosplenomegalia, trombocitopenia, presenza del virus nelle secrezioni e nei
fluidi biologici (urine).
Rosolia
• microcefalia, ritardo psicomotorio, cataratta
congenita, ipoacusia neurosensoriale, cardiopatie congenite, alterazioni ematologiche
(anemia, trobocitopenia).
Varicella-Zoster
• ritardo mentale, atrofia corticale, convulsioni,
corioretinite, cicatrici cutanee.
Treponema Pallidum
• pemphigo palmoplantare, esantema con cicatrici cutanee, anemia, trombocitopenia, epatosplenomegalia, miocardite, corioretinite, rinite
mucoematica, alterazioni scheletriche (lacune, caput quadratum, difetti di ossificazione
metafisaria, osteocondriti e pseudoparalisi
secondarie).
Toxoplasma Gondi
• idrope, idrocefalo, calcificazioni intracraniche,
corioretinite, cataratta, convulsioni, epatosplenomegalia, rash cutaneo.
Agente chimico
Fenotipo
Farmaci
anticonvulsivanti
• labiopalatoschisi, difetti del tubo neurale, cardiopatie congenite
• idantoina (microcefalia, ritardo mentale, anomalie del SNC, naso piccolo, ipoplasia dello
splancnocranio, epicanto, ipertelorismo, strabismo, labiopalatoschisi, micrognazia, collo
corto, cardiopatie).
• trimetadione (microcefalia, ipoplasia dello
splancnocranio, sinofri palpebrali, epicanto,
displasia dell’orecchio esterno, difetti urogenitali, cardiopatie).
• acido valproico (trigonocefalia, ridotto diametro bitemporale, ipoplasia dello splancnocranio, naso piccolo, labiopalatoschisi, difetti
urogenitali e degli arti).
Alcool
• IUGR, facies peculiare (microcefalia, rime palpebrali corte, naso piccolo con narici anteverse, filtro nasale ipoplasico, microretrognazia)
anomalie neurologiche (ipotonia, convulsioni,
scarsa coordinazione motoria, ritardo mentale).
Cocaina
• prematurità, IUGR, microcefalia, malformazioni urogenitali e scheletriche.
Eroina
• IUGR, basso peso alla nascita, malformazioni
congenite.
Diabete materno
• macrosomia, ipoglicemia, ipocalcemia, ipertrofia del setto interventricolare, disgenesia
caudale, ogni tipologia di malformazioni congenite (scheletriche, cardiache, renali, intestinali, del SNC, etc.).
Iperfenilalaninemia
materna
• difetti di proliferazione e migrazione cellulare
con ritardo di mielinizzazione (IUGR, microcefalia grave, ipotelorismo, naso prominente, displasia dei padiglioni auricolari a basso
impianto, ritardo mentale, labiopalatoschisi,
cardiopatie conotruncali).
IUGR: Intrauterine growth restriction.
Il neonato con anomalie congenite multiple: inquadramento e nosologia
Tabella VII.
Principali sequenze malformative.
Denominazione/eponimo
Campo di sviluppo ed organi interessati
Oloprosencefalia
mesoderma precordiale, vescicola prosencefalica, rinencefalo, orbite, naso, premaxilla
Displasia setto-ottica
chiasma ottico, ipofisi
Pierre Robin
mandibola, regione oro-faciale
Poland
muscolo pettorale, arto superiore
Klippel-Feil
rachide
Potter
reni, vie urinarie, polmoni, arti, facies
Prune belly
vie urinarie, parete addominale
Estrofia della vescica e della cloaca
mesoderma peri-ombelicale
Rokitansky
dotti di Muller
Sirenomelia
mesoderma caudale
Regressione caudale
mesoderma caudale
Rottura premature dell’amnios
asse mediano, deformazioni degli arti, schisi faciali
Acinesia fetale
multipli distretti corporei
Twin-twin disruption sequence
multipli distretti corporei
atresia, Cardiac anomalies, Tracheoesophageal fistula, Esophageal
atresia, Renal anomalies, Limb defects) (La Placa et al., 2013). Nel
gruppo delle associazioni si possono trovare condizioni polimalformative rare di difficile inquadramento dal punto di vista etiopatogenetico per una insufficiente mole di informazioni disponibili. Qualora venisse identificata la causa etiologica responsabile del quadro
polimalformativo sarà quindi necessario modificare l’inquadramento
nosologico, come accaduto per l’associazione CHARGE oggi ridefinita sindrome CHARGE (Coloboma, Difetti cardiaci, Atresia delle coane,
Ritardo di crescita e sviluppo, Ipoplasia dei genitali, Anomalie delle
orecchie/Sordità) in seguito all’identificazione del locus genico responsabile (Aramaki et al., 2006).
Test genetici: genetica molecolare e citogenetica
In un neonato con anomalie congenite multiple la diagnosi può essere “gestaltica” (quadro clinico evocativo per sindrome nota) con un
approccio diagnostico immediato (es. sindrome di Down, sindrome
di Williams, acondroplasia, etc.) e di conseguenza le indagini di laboratorio sono mirate, [cariotipo per la sindrome di Down, citogenetica molecolare mediante ibridazione in situ fluorescente (FISH) della
regione 7q11.23 per la sindrome di Williams (Brewer et al., 1996),
analisi molecolare del DNA per il gene FGFR3 per l’acondroplasia
(Heuertz et al., 2006)], ma talvolta il fenotipo non è evocativo di
una sindrome nota, anche se ascrivibile al cosiddetto chromosomal
phenotype (Devriendt et al., 2004). In tali situazioni fondamentale è
l’apporto delle tecniche di ibridazione genomica comparativa (arrayCGH) (Shaw-Smith et al., 2004, Edelmann et al., 2009).
I riarrangiamenti cromosomici criptici sono sempre più indicati
come causa sia di sindromi plurimalformative complesse che di ritardo mentale associato o no a tratti dismorfici, tanto da diventare
la prima indagine genetica da effettuare in entrambi i casi (Girirajan
et al., 2012).
L’introduzione nella citogenetica diagnostica di microarray con una
risoluzione 44 kb ha permesso di effettuare l’inquadramento etiologico in un numero crescente di pazienti. I sempre più numerosi
dati provenienti dagli array-CGH porteranno presto all’epilogo della
citogenetica classica ed all’inizio di una nuova citogenetica, sia per
quanto riguarda l’epidemiologia che per la natura dei riarrangiamenti cromosomici. Questa tecnica potrebbe diventare un mezzo
per colmare l’attuale gap fra la conoscenza della sequenza del genoma umano (e dei geni in essa contenuti) e la funzione dei geni
stessi: è evidente che qualunque delezione/duplicazione de novo
associata ad una specifica malformazione o sindrome suggerisce
che fra i geni localizzati nella regione sbilanciata almeno uno sia
responsabile, per aploinsufficienza o per eccesso di dose, di quella
malformazione o di quella sindrome (Sanders et al., 2011; Piccione
et al., 2011). Altre indagini andranno poi effettuate per definire il
ruolo, durante l’embriogenesi o nella funzione di quel certo organo,
dei geni coinvolti nell’alterazione criptica.
Gli array-CGH offrono possibilità diagnostiche:
• nei pazienti con riarrangiamenti cromosomici apparentemente
bilanciati e fenotipo patologico per evidenziare eventuali anomalie (microdelezioni/microduplicazioni) correlate alla patologia;
• nei pazienti con fenotipo orientativo per patologia cromosomica
e cariotipo standard normale;
• nei pazienti con segni orientativi per patologie note associate a
microalterazioni cromosomiche, ma con FISH con sonde locusspecifiche negative, per evidenziare microdelezioni o duplicazioni diverse;
• nei pazienti con malformazioni congenite e/o tratti dismorfici e
ritardo mentale di origine non identificata;
• nella ricerca del gene candidato per patologie note ad etiologia
sconosciuta.
Gli array-CGH non riescono ad evidenziare anomalie cromosomiche criptiche bilanciate, mentre possono identificare sia loci di
suscettibilità (per autismo, patologie neurodegenerative, patologie
psichiatriche etc.) che anomalie di cui non si conosce se correlate
a fenotipo patologico; queste ultime condizioni pongono importanti
problemi interpretativi in diagnosi prenatale.
Grazie alle tecniche di citogenetica molecolare e successivamente
agli array-CGH è stato possibile definire, inoltre, il ruolo dei markers
cromosomici soprannumerari nelle anomalie congenite multiple
(Callen et al., 1991). I markers sono piccoli cromosomi soprannu-
153
G. Corsello, M. Giuffrè, M. Piccione
merari (SMCs), strutturalmente anomali, che si riscontrano nello
0,043% dei nati vivi e nello 0,075% in diagnosi prenatale e possono
essere familiari (23%, di cui 16% di origine materna e 7% di origine paterna) o “de novo” (77%) (Reddy et al., 2013). I markers “de
novo” si associano ad un aumentato rischio di anomalie fenotipiche
(10-20%).
La maggior parte dei markers deriva da riarrangiamenti nella regione pericentrica di cromosomi acrocentrici, per cui i markers cromosomici soprannumerari sono più spesso costituiti da materiale
centromerico, eterocromatina costitutiva e satelliti; e non si associano a manifestazioni fenotipiche. In altri casi (30%) nel contesto del
cromosoma marker, è possibile riscontrare anche eucromatina, con
implicazioni sul fenotipo. La definizione accurata della regione cromosomica coinvolta nella formazione del marker è necessaria per
la correlazione cariotipo/fenotipo, utile per il follow-up dei pazienti e
per la consulenza genetica.
Particolare interesse ha suscitato, infine, il riscontro tramite arrayCGH di patologie caratterizzate dal coinvolgimento della stessa regione cromosomica, che si presenta rispettivamente deleta o duplicata Alla base di tali patologie c’è la presenza, nel genoma umano, di
dupliconi o duplicazioni segmentali. I dupliconi sono blocchi di poche
sequenze genomiche ripetute (Low Copy Repeats, LCRs) con omologia reciproca di oltre il 90% (Sharp et al., 2006), presenti in segmenti cromosomici non omologhi, di dimensioni comprese tra 200
e 400 kb. Tali regioni rappresentano circa il 6% del genoma umano
e sono intersperse in tutto il genoma, ma maggiormente rappresentate nelle regioni pericentromeriche, telomeriche e subtelomeriche.
Possono comprendere numerosi geni, ma anche pseudogeni tronchi
non processati. I dupliconi spesso sono duplicati nell’ambito nella
stessa regione cromosomica a distanza reciproca di poche megabasi (meno di 10 Mb) e mediano un’eventuale ricombinazione omologa
non allelica alla meiosi (non allelic homologus recombination, NAHR)
tra cromosomi o tra cromatidi fratelli; ciò può determinare crossingover ineguale e riarrangiamenti cromosomici ed è alla base, quindi, di frequenti e specifici meccanismi di anomalie cromosomiche
strutturali come microdelezioni o microduplicazioni (copy number
variants, CNVs), ma anche traslocazioni, inversioni e cromosomi
marcatori (Hastings et al., 2009). Le microdelezioni sono più frequenti delle microduplicazioni. Una microdelezione può infatti originare da una più ampia gamma di meccanismi di ricombinazione:
può essere intracromatidica, intercromatidica o intracromosomica,
mentre una microduplicazione origina solo da una ricombinazione
intercromatidica o intracromosomica (Neri e Genuardi, 2010).
Le patologie caratterizzate dal coinvolgimento della stessa regione
cromosomica si manifestano con fenotipo diverso e nella maggior
parte dei casi il fenotipo correlato alla microdelezione è più grave
(sindrome di Di George/Velocardiofaciale e sindrome da duplicazione 22q11.2, rispettivamente delezione e duplicazione della regione
22q11.2; sindrome di Smith-Magenis e sindrome di Potocki-Lupski,
rispettivamente delezione e duplicazione della regione 17p11.2;
sindrome da delezione/ duplicazione 16p11.2; sindrome di Williams
da delezione 7q11.23 e sindrome da duplicazione della regione
7q11.23, etc).
Negli ultimi anni un ulteriore impulso alla identificazione di nuove
mutazioni responsabili di malattie rare è stato possibile con il superamento della classica tecnica di sequenziamento tipo Sanger
e la messa a punto nei più avanzati laboratori di ricerca di nuove
tecniche di sequenziamento. L’exome sequencing (ES) consente il
sequenziamento dei soli esoni (circa 200.000) (Coonrod et al., 2013)
ed oggi si sta valutando la possibilità di sfruttare questa tecnica
come metodica diagnostica vera e propria. Recentemente l’ES è ap-
154
parso come un’utile alternativa alla classica diagnosi di malattie che
presentano eterogeneità genetica e fenotipica. Oggi queste patologie vengono confermate mediante PCR e sequenziamento Sanger
di ogni gene coinvolto, ma questo approccio risulta molto laborioso, costoso e poco tempestivo nel caso sia necessaria una rapida
diagnosi. Con l’ES è invece possibile valutare solo gli esoni (Whole
Exome Sequencing, Next Generation Sequencing-NGS) e non tutta
la sequenza dei geni, riducendo così la mole di dati di output e rendendo la procedura diagnostica più veloce. La NGS trova indicazione
oltre che nelle sindromi ad eterogeneità genetica e fenotipica (Ng et
al., 2010, Paulussen et al., 2011) anche nelle malattie mendeliane
(Bamshad et al., 2011, Ku et al., 2012) ed in particolare quelle in cui
vi è un limitato numero di soggetti affetti per famiglia (Hoischen et
al., 2010).
La grande mole di informazioni che emerge dall’ES ha dato vita anche a numerose questioni di tipo etico. Infatti spesso si riscontrano
delle alterazioni in maniera accidentale, mentre ci si sta focalizzando su diverse regioni genomiche, e può succedere che queste
predispongano a determinate patologie, anche in futuro. Dibattuto
è, pertanto, se sia lecito informare il paziente qualora l’alterazione
casualmente riscontrata non sia correlata allo scopo principale del
test per cui il soggetto ha prestato il proprio consenso. Ancora più
complesso è il caso in cui venga rilevata in modo accidentale una
mutazione di cui non si conosce l’effetto, né immediato né futuro.
Ulteriori ausili diagnostici nel prossimo futuro potranno scaturire dagli studi di proteomica e metabolomica. La proteomica è la scienza
che mira ad indagare e stabilire l’identità, la quantità, la struttura e
le funzioni biochimiche e cellulari di tutte le proteine presenti in un
tessuto, in una cellula o in un comparto sub-cellulare, descrivendo
come queste proprietà siano variabili nello spazio, nel tempo o in un
determinato stato fisiologico (Tyers e Mann, 2008). La metabolomica
studia le alterazioni delle funzioni metaboliche dei sistemi biologici
mediante tecniche spettroscopiche applicate. La proteomica, unitamente ad altre metodiche di indagine complementari (genomica,
microarray, metabolomica) costituisce il componente essenziale di
una nuova ed emergente tipologia di studio, indicata come Systems
Biology. Quest’ultima, tramite analisi sistematiche e quantitative di
tutti i componenti di un sistema biologico, si prefigge di definirne
estensivamente i sistemi che sono alla base del suo funzionamento
(Miernyk e Thelen, 2008).
Imprinting ed epigenetica
L’analisi del fenotipo può evocare una sindrome da alterazione epigenetica (sindrome di Beckwith-Wiedemann, Sindrome di PraderWilli, Sindrome di Angelman, etc.).
Per epigenetica s’intende il complesso di meccanismi che regolano
l’attività genica senza modificare la sequenza nucleotidica del DNA
e che sono trasmessi ereditariamente nel corso delle generazioni. In
contrasto con il genoma di ogni individuo che è determinato per tutte
le cellule somatiche al momento del concepimento, l’“epigenoma”
è estremamente dinamico e differisce da tessuto a tessuto. Con il
termine “imprinting genomico” s’intende l’espressione differenziata di materiale genetico, a seconda che esso derivi dal genitore di
sesso maschile oppure dal genitore di sesso femminile (Brannan et
al., 1999). Ovvero, mentre la maggior parte dei geni si esprime in
modo biallelico, i geni imprinted hanno espressione monoallelica e
l’allele espresso dipende dall’origine parentale (Ferguson-Smith e
da Rocha, 2004). Questo fenomeno di regolazione genica è tipico dei
mammiferi e di alcune piante e contraddice l’assioma mendeliano,
secondo il quale l’origine dell’informazione genetica non influenza
Il neonato con anomalie congenite multiple: inquadramento e nosologia
l’espressione dei geni. Le variazioni epigenetiche di maggior impatto
sull’espressività genica si verificano durante la riprogrammazione
genomica nella gametogenesi e nell’embriogenesi precoce (Brannan e Bartolomei, 1999, Portela e Esteller, 2010). La metilazione del
DNA rappresenta la modifica epigenetica più caratteristica dei loci
imprinted. Questo “marchio” epigenetico, in associazione ad altre
modifiche chimiche degli istoni, determina, infatti, l’attivazione di
una copia genica e la repressione dell’altra e dunque, a seconda del
tipo di gene imprinted, solo l’allele di origine materna o solo quello
di origine paterno sarà attivo nella progenie. Il fenomeno dell’imprinting determina pertanto la non equivalenza di espressione dei
genomi materno e paterno. La sequenza nucleotidica dei due alleli
di un gene imprinted è perfettamente identica; ciò che consente alle
cellule di distinguere i due alleli di diversa origine parentale è di natura epigenetica e quindi reversibile ed ereditabile. Fino ad oggi sono
stati identificati oltre 80 geni imprinted nel genoma umano, ma si
stima globalmente ne esistano circa 1000, raramente isolati, l’80%
fisicamente raggruppati in cluster. Elementi di controllo dell’imprinting agiscono influenzando gli elementi regolatori gene-specifici (ad
esempio i promotori) determinando l’attivazione o la repressione dei
geni imprinted del cluster (Reik et al., 2001).
Le sindromi da alterazione epigenetica si possono collegare con
anomalie dell’“imprinting genomico” (Ferguson-Smith e Surani,
2001). Nel caso di sindrome con alterazione epigenetica, quindi, non
si avrà un evento mutazionale del DNA, ma piuttosto una anomalia
funzionale che altera le funzioni dei geni sottoposti ad imprinting
(disomia uniparentale per loci cromosomici sottoposti ad imprinting,
anomalia del centro di imprinting etc.) e che darà fenotipi diversi in relazione alle regioni cromosomiche interessate (sindrome di
Beckwith-Wiedemann per la regione cromosomica 11p15.5, sindrome di Prader-Willi per la regione cromosomica 15q11.2-q13 paterna, sindrome di Angelman per la regione cromosomica 15q11.2-q13
materna, etc.) (Gunay-Aygun et al., 2001, Fridman et al., 2000).
Le malformazioni nei gemelli
Lo studio dei gemelli ha da sempre suscitato particolare interesse
per l’opportunità di valutare il ruolo di fattori genetici e ambientali
nello sviluppo delle caratteristiche fenotipiche (Galton, 1875). È stato
evidenziato da diversi ampi studi e dall’analisi dei dati dei registri
internazionali delle malformazioni congenite (ICBDMS) che nei nati
da gravidanza plurima l’incidenza di anomalie congenite è maggiore
rispetto ai nati singoli (Mastroiacovo et al., 1999), per la maggior
parte ascrivibile ai gemelli monozigotici (MZ) mentre nei gemelli dizigotici (DZ) non differisce in modo significativo rispetto ai nati singoli (Corsello, 2010).
Tra le anomalie congenite più frequenti nei gemelli, e in particolare nei gemelli MZ, vi sono certamente i difetti della linea mediana,
le cardiopatie congenite, i difetti del tubo neurale e del canale gastrointestinale, i difetti della parete addominale, i difetti in riduzione
degli arti (Giuffrè et al., 2011). La patologia malformativa che si può
osservare nei nati da gravidanza plurima è quindi molto eterogenea sotto il profilo clinico ed etiopatogenetico, includendo condizioni
analoghe ai nati singoli ed altre peculiari delle gravidanze multiple.
Classicamente sono state descritte nei gemelli malformazioni da
causa genetica, alterazioni della blastogenesi, disruptions vascolari
e deformazioni.
La presenza di più feti in una gravidanza plurima pone inoltre il
problema della valutazione del grado di concordanza fenotipica. Si
considerano concordanti i gemelli che presentano la stessa malformazione e discordanti quando uno solo presenta difetti morfoge-
netici ovvero entrambi presentano anomalie congenite, distinguibili
però sotto il profilo clinico ed embriologico. Il tasso di concordanza
varia ampiamente in relazione al tipo di gravidanza gemellare (MZ
vs DZ) e all’etiopatogenesi della malformazione (causa genetica vs
ambientale, anomalie della blastogenesi, disruptions vascolari, etc.).
I gemelli MZ sono concordanti dal punto di vista del sesso e delle
caratteristiche fenotipiche, tuttavia la piena concordanza del 100%
può risultare esclusivamente teorica in relazione a possibili differenze genotipiche o al ruolo di fattori ambientali con modalità e in momenti diversi sui due gemelli. Il prototipo di discordanza fenotipica
per malformazioni tra gemelli MZ è rappresentato dalle disruptions
vascolari che determinano un’assoluta discordanza per caratteristiche fenotipiche e prognosi. La discordanza tra i gemelli per una
malformazione congenita, specie se letale o gravemente invalidante,
pone seri problemi di ordine bioetico e psicologico alla coppia e alla
équipe sanitaria. È aperto il dibattito in letteratura circa le opzioni più
valide nel management di tali gravidanze (attesa, interruzione volontaria, riduzione selettiva, trattamenti in utero, etc.), laddove occorre
prendere in considerazione le diverse variabili e fornire un adeguato
counselling e sostegno psicologico alla coppia.
Lo sviluppo di metodiche di procreazione medicalmente assistita
nel corso delle ultime 3 decadi ha profondamente modificato l’epidemiologia delle gravidanze plurime, determinandone un sensibile
aumento di incidenza. Una crescente attenzione viene oggi dedicata
al possibile ruolo di tali metodiche nell’insorgenza di anomalie congenite, seppur difficile da valutare in considerazione dei numerosi
fattori confondenti (prevalenza di gravidanze plurime, età e parità
della donna, abitudini e stili di vita, modalità di follow-up, etc.). Tuttavia solo negli ultimi anni è stato possibile estrapolare e documentare
un aumento di rischio per anomalie congenite nei nati da tecniche
di fecondazione in vitro, costruendo modelli di studio metodologicamente più corretti e riproducibili, ampliando le casistiche reclutate
anche con l’ausilio dei registri per le malformazioni congenite e uniformando programmi di follow-up e criteri diagnostici (Hansen et al,
2002; Hansen et al., 2013). Tale incremento risulta essere estremamente variabile nelle diverse casistiche e secondo il tipo di anomalia
considerata. Numerosi fattori sembrano contribuire, sia intrinseci
alla coppia con ipofertilità che legati alla metodica di procreazione
medicalmente assistita (PMA) utilizzata. In particolare, con la sempre maggiore diffusione dell’ICSI (intracytoplasmic sperm injection),
un ruolo significativo è stato attribuito all’assenza di selezione naturale del gamete maschile. Più recentemente è stata evidenziata la
possibilità che la manipolazione e conservazione dei gameti e degli
embrioni, che si verifica con la PMA, interferisca con meccanismi
epigenetici essenziali per le tappe precoci dello stadio preimpianto e
per il corretto sviluppo dell’embrione e del feto (Lucifero et al., 2004,
Niemitz e Feinberg, 2004). Le condizioni di conservazione e coltura di gameti ed embrioni possono determinare modificazioni della
metilazione del DNA e della struttura della cromatina, aumentando
così il rischio di patologie riconducibili ad alterata espressione di
geni sottoposti ad imprinting. È stato infatti dimostrato un incremento di prevalenza di sindrome di Beckwith-Wiedemann per deficit di
metilazione dell’allele materno in regione 11p15 nei nati con PMA
(Weksberg et al., 2010). Questa e altre osservazioni hanno rafforzato la consapevolezza che le metodiche PMA possono determinare
un maggior rischio di anomalie congenite, anche attraverso meccanismi epigenetici, meritevole di ulteriori verifiche e conferme. Le
coppie che accedono a queste metodiche devono essere quindi adeguatamente informate e deve essere offerto loro un percorso che
preveda analisi genetiche, counselling preconcezionale e accurato
follow-up della gravidanza.
155
G. Corsello, M. Giuffrè, M. Piccione
Box di orientamento
Cosa si sapeva prima
L’inquadramento clinico e diagnostico del neonato con anomalie congenite multiple è un processo complesso, che può avviarsi già in epoca prenatale e
completarsi ben oltre il periodo neonatale, coinvolgendo numerosi diversi specialisti (ginecologo/ostetrico, ecografista, pediatra/neonatologo, genetista
clinico, etc.).
Banche dati elettroniche, cataloghi ed atlanti informatizzati ed altri moderni strumenti di ausilio alla diagnosi sono oggi disponibili per aiutare il clinico
nell’orientamento diagnostico, necessario per avviare un trattamento appropriato e un counselling mirato.
Il training e l’esperienza nel descrivere accuratamente il fenotipo e riconoscere eventuali alterazioni dello sviluppo morfostrutturale sono il requisito
essenziale per orientare e guidare la diagnostica clinico-strumentale e indirizzare le indagini di laboratorio finalizzate all’identificazione del difetto
responsabile del quadro polimalformativo.
Cosa si sa adesso
Il potenziale delle moderne indagini di laboratorio di citogenetica e genetica molecolare (array-CGH, sequenziamento genico, next generation sequencing, …) è in continuo rapido accrescimento, con progressiva diffusione delle stesse e incremento dell’accuratezza diagnostica. Tale processo necessita però di essere continuamente guidato ed indirizzato dall’esperienza del clinico per una adeguata interpretazione dei risultati.
Lo studio dei gemelli e dei nati da metodiche di procreazione medicalmente assistita ha consentito di identificare nuovi meccanismi che possono
determinare alterazioni nel prodotto del concepimento, in particolare alterazioni epigenetiche e dell’imprinting genomico.
… e nel prossimo futuro
L’insieme delle informazioni ottenute dagli studi di proteomica e metabolomica, correlate ed implementate con quelle provenienti dallo studio del genoma, potranno consentire di delineare e/o identificare estensivamente il ruolo effettivo delle proteine e della loro interazione, per una sempre maggiore
comprensione della correlazione genotipo-fenotipo.
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Corrispondenza
Giovanni Corsello, Dipartimento di Scienze per la Promozione della Salute e Materno Infantile, Università degli Studi di Palermo, Via Alfonso Giordano,
3 – 90127 Palermo. Tel.: +39 091 6555425. Fax: +39 091 6555423. E-mail: [email protected]
157
Luglio-Settembre 2013 • Vol. 43 • N. 171 • Pp. 158-166
Dismorfologia neonatale
Sindromi malformative con restrizione
della crescita fetale
Luigi Memo1, Angelo Selicorni2
1
2
UOC Pediatria e Neonatologia, Ospedale San Martino, Belluno
UOS Genetica Clinica Pediatrica, Clinica Pediatrica Fondazione MBBM, Monza
Riassunto
Il difetto di crescita intrauterino (IUGR) è una condizione clinica la cui incidenza è stimata approssimativamente attorno a valori del 5-10%. La patogenesi
dello IUGR è senza dubbio multifattoriale, ma le cause e i meccanismi eziologici alla base sono ancora poco chiari. Le associazioni causali conosciute
riguardano sia fattori fetali, sia fattori placentari e/o materni. Il feto infatti può presentare parametri auxologici inferiori alla media per ragioni familiari (i.e.
costituzione familiare) o, diversamente, per alterazioni cromosomiche, sindromi dismorfiche o, meno frequentemente, per infezioni congenite. Il fumo di
sigaretta, inoltre, può contribuire all’instaurarsi di uno IUGR, così come l’assunzione di alcool e di alcune sostanze da parte della madre. Una diagnosi
eziologica il più possibile corretta ed immediata, un’assistenza clinica e psicologica ed un completo programma di follow-up nei primi anni di vita è ciò che
il neonatologo dovrebbe offrire, sia al neonato che ai suoi genitori.
Summary
Intrauterine growth restriction (IUGR) is a clinical condition with an estimated incidence from about 5% to 10%. The pathogenesis of IUGR is complex and
multifactorial, and many of IUGR causes and etiologic mechanisms are poorly understood. The known etiologic associations involve fetal, placental, and/or
maternal factors. The fetus may present lower auxological parameters because of family reasons (i.e. the parents are constitutionally small) or because of
chromosomal abnormalities, dysmorphic syndromes, and, less frequently, congenital infections. Cigarette smoking can also contribute to the development
of a growth-restricted fetus, as well as maternal alcohol or other drugs ingestion.
A correct early etiologic diagnosis, a clinical and psychological support and a complete follow-up program should be offered by the neonatologist during
the first years of life both to the infant and to the parents.
Parole chiave: Malformazioni congenite; sindromi malformative; neonato piccolo per l’età gestazionale; ritardo di accrescimento intrauterino
Key words: Congenital malformations; Genetic syndromes; Small For Gestational Age (SGA); Intrauterine Growth Restriction (IUGR)
Metodologia della ricerca bibliografica
La letteratura scientifica utilizzata dagli autori è costituita sia da testi
classici di riferimento nell’inquadramento clinico-diagnostico delle
sindromi malformative che da articoli di aggiornamento, rintracciati
utilizzando come motore di ricerca Pubmed ed inserendo come parole chiave quelle elencate all’inizio del presente articolo.
Introduzione
La crescita intrauterina è un processo biologico estremamente complesso che inizia al momento del concepimento e prosegue fino al
termine della gravidanza: fattori diversi (fetali, placentari e materni)
possono interferire su tale processo, comportando in circa il 5-10%
delle gravidanze un mancato raggiungimento del potenziale di crescita del feto (Robinson et al., 2000).
La restrizione della crescita fetale (fetal growth restriction: FGR) o
ritardo di crescita intrauterino (intrauterine growth retardation: IUGR)
costituisce ancora oggi uno dei problemi più complessi per l’ostetricia per l’elevata morbilità e mortalità neonatale a cui si associa
(Resnik, 2002). I nati da gravidanza complicata da IUGR oltre ad
un basso punteggio di Apgar, presentano una maggior incidenza di
distress respiratorio e di aspirazione da meconio, frequentemente
vanno incontro ad asfissia e crisi ipoglicemiche e non rari sono gli
esiti tardivi: difficoltà di apprendimento e problemi comportamentali
158
in età scolare, malattie cardiovascolari e metaboliche, quali ipertensione arteriosa, obesità, dislipidemia, insulino-resistenza, ridotta
tolleranza glucidica e diabete di tipo II, nell’adulto (Barker, 2006;
Strauss, 2000)
In passato tutti i neonati di basso peso venivano etichettati come
prematuri. L’acronimo SGA (small for gestational age) venne utilizzato per la prima volta da Sonderling (1953) che notò come i neonati
di basso peso presentassero uno sviluppo diverso riguardo a stato di
vigilanza, competenze motorie, riflessi e capacità di alimentazione,
a seconda della loro età gestazionale.
Attualmente non esiste una standardizzazione assoluta per la definizione: la maggior parte degli autori concorda per definire SGA il
neonato con un peso alla nascita inferiore al 10° percentile e grave
SGA il neonato con peso alla nascita inferiore al 3° centile o a due
deviazioni standard rispetto alla media (Chang et al., 1992; Clayton
et al., 2007; Saenger et al., 2007).
Le definizioni di SGA e di IUGR sono state spesso erroneamente usate
scambievolmente, ma i due termini non sono sinonimi ed esprimono
due concetti diversi (Figueras et al., 2007; Alberry et al., 2007).
Il termine SGA si riferisce ad una definizione di tipo statistico, è basato su una valutazione auxologica trasversale e definisce i soggetti
in cui le dimensioni corporee sono inferiori, per quell’età gestazionale ad un determinato “valore soglia” della popolazione di riferimento.
Questa definizione comprende quindi sia soggetti che hanno fallito
il raggiungimento del proprio potenziale di crescita, da cause ma-
Sindromi malformative con restrizione della crescita fetale
terne, placentari, funicolari e fetali, sia soggetti costituzionalmente
piccoli, ma sani. Il termine IUGR si riferisce invece ad una definizione
più di tipo clinico, basata su una valutazione auxologica ecografica
longitudinale prenatale, e definisce i feti che presentano un rallentamento o un arresto della crescita, quindi con un mancato raggiungimento del proprio potenziale di crescita. Non tutti i neonati identificati alla nascita come SGA sono soggetti affetti da IUGR, così come
vi possono essere neonati con IUGR non classificati come SGA.
In maniera empirica possiamo dire che ogni neonato con un peso al
di sotto del 3° percentile debba essere considerato come il risultato
di un ritardato accrescimento intrauterino.
Tenendo conto che, in caso di IUGR, il peso è il parametro che per
primo si manifesta come deficitario, poi la lunghezza e solo alla fine
la circonferenza cranica (Gluckman et al., 2005; Hochberg et al.,
2008), il neonatologo deve necessariamente calcolare i centili di
questi tre parametri e stabilire che tipo di rapporto esista fra loro
(Hall et al., 2007) e quindi definire se si tratta di una forma simmetrica o asimmetrica di IUGR (Kanaka-Gantenbein et al., 2003).
Nello IUGR simmetrico o armonico o di tipo I il ritardo di crescita
interessa in maniera globale il feto già in epoca gestazionale precoce; è caratterizzato da un costante e consistente ritmo di crescita
subottimale ed è più frequentemente associato a malattie genetiche,
infezioni congenite o a grave insufficienza utero-placentare ad esordio precoce, determinata da condizioni patologiche materne o da
anomalie primarie della placentazione. Viceversa nello IUGR asimmetrico, disarmonico o di tipo II vi è una riduzione del peso proporzionalmente maggiore rispetto alla lunghezza e la circonferenza
cranica aumenta normalmente fin quasi a termine di gravidanza.
Generalmente rappresenta il risultato di un’insufficienza utero-placentare di grado lieve moderato, è caratterizzato da una rapida riduzione del ritmo di crescita fetale nell’ultima parte della gravidanza e
viene generalmente diagnosticato dopo la 32a settimana.
Cause di IUGR
I neonati SGA rappresentano una popolazione eterogenea: circa il
20-30% sono costituzionalmente piccoli, ma per tutto il resto per-
fettamente normali, circa il 20% sono affetti da una patologia cromosomica o presentano delle anomalie strutturali, nel 5-10% dei
casi dall’anamnesi materna si può risalire ad un agente teratogeno,
mentre nel 35-40% dei neonati SGA vi è un’evidenza di restrizione
della crescita fetale secondaria ad inadeguati scambi materno-fetali
per cause materne, placentari, funicolari o fetali (Wollmann, 1998).
Generalmente i fattori che possono comportare uno IUGR in gravidanza sono suddivisi in materni, placentari e fetali (vedi Tab. I).
Nel corso della trattazione commenteremo in particolare le sindromi
da teratogeni per quanto riguarda i fattori materni e le cause più
propriamente genetiche (sindromi associate ad anomalie cromosomiche, sindromi monogeniche/fenotipiche con armonica riduzione
dei parametri auxologici, displasie scheletriche e sindromi legate ad
anomalie di regioni genomiche soggette ad imprinting) per quanto
riguarda i fattori fetali.
Nonostante le più sofisticate moderne tecniche diagnostiche, ancora
oggi in circa il 40% dei casi non è possibile risalire ad un preciso
fattore causale della condizione SGA e siamo costretti a catalogarla
come idiopatica.
L’approccio al neonato piccolo per l’età
gestazionale con sospetta sindrome malformativa
Attualmente un grave IUGR viene facilmente diagnosticato nel corso
delle indagini ecografiche di routine, al più tardi in 18 a-20 a s.g: la gestante, in questo caso, deve essere inviata ad un centro di III livello per
eseguire un’ecografia fetale dettagliata ed un eco Doppler dell’arteria
uterina. Un’analisi del cariotipo fetale deve essere considerata in tutti i
feti con grave IUGR con anomalie associate e in quelli identificati dopo
la 20 a s.g., specie se il Doppler dell’arteria uterina è normale. In caso
di grave IUGR, vanno inoltre effettuate le sierologie per infezione da
CMV e toxoplasma e, nei soggetti a rischio, anche per sifilide e malaria
(Royal College of Obstetricians and Gynaecologists, 2013).
Dopo la nascita il neonato con IUGR può essere studiato con più
accuratezza. Ciò permetterà di valutare con maggiore precisione la
possibilità che alla base della FGR vi sia la presenza di una condizione costituzionale malformativa del bambino.
Tabella I.
Cause di IUGR.
Fattori materni
Fattori placentari
Fattori fetali
- Grave malnutrizione materna
- Ipossiemia materna
- Malattie ematologiche ed immunologiche che
possono causare trombosi a livello placentare
e diminuire la perfusione utero placentare
- Malattie materne (es: nefropatie, malattie
del collageno) e complicazioni ostetriche (es,
preeclampsia) che si possono associare a
vasculopatia
- Virus e parassiti (TORCH*, malaria)
- Fumo di sigaretta,
- Assunzione di alcool, cocaina, eroina
- Esposizione a tossici o farmaci
- Altitudine elevata
- Variabili demografiche
- Etnia
- Gravidanza agli estremi dell’età riproduttiva
- Precedente neonato SGA
- Anomalie della vascolarizzazione uteroplacentare
- Anomalie della placenta
- Nulliparità o multiparità elevata
- Infarti placentari multipli
- Abruptio placentae
- Inserzione anomala del funicolo sulla placenta
- Emangioma placentare
- Arteria ombelicale unica
- Sindromi da teratogeni
- Sindromi associate ad anomalie cromosomiche
(aneuploidie classiche e nuovi riarrangiamenti
genomici)
- Sindromi monogeniche /fenotipiche con
armonica riduzione dei parametri auxologici
- Sindromi associate a prevalente riduzione
della lunghezza (displasie scheletriche)
- Sindromi legate ad anomalie di regioni
genomiche soggette ad imprinting
- Malformazioni congenite maggiori
- Gravidanze multiple
*TORCH: Toxoplasmosi, Other (sifilide), Rosolia, Cytomegalovirus, Herpes simplex virus
159
L. Memo, A. Selicorni
Questa opportunità non deve essere dimenticata in quanto, utilizzando i sistemi computerizzati di ausilio diagnostico per le patologie
malformative (POSSUM/LDDB), possiamo rilevare che in circa 1/6
delle sindromi malformative descritte, vale a dire in oltre 500 entità,
è presente un basso peso alla nascita. Poiché molteplici condizioni
sindromiche si associano potenzialmente ad IUGR è indispensabile
che il neonatologo ponga particolare attenzione, nel suo iter diagnostico, a tutti quegli elementi anamnestici, clinici e funzionali che
possono fungere da campanello d’allarme nei confronti di una possibile sindrome malformativa. Due elementi certamente orientativi in
questo senso possono essere la presenza di malformazioni maggiori
associate a carico degli organi interni e/o la presenza di anomalie
minori del viso o di altri distretti. Più volte è stata segnalata una
correlazione fra presenza di malformazioni e IUGR, ma quest’associazione si è recentemente rivelata poco convincente (Puccio et al.,
2013), se non forse con le cardiopatie congenite. Malik et al. (2007)
segnalano infatti che neonati con cardiopatia congenita, in particolare con difetti conotruncali o del setto, hanno una probabilità due volte maggiore di essere SGA, rispetto ai neonati senza difetti congeniti.
Corre l’obbligo segnalare che le malformazioni vanno differenziate, sul piano concettuale, dalle deformazioni e dalle displasie, così
come le sindromi malformative devono essere distinte dalle sequenze e dalle associazioni.
La tabella II riporta le definizioni corrette di tutte queste differenti
situazioni.
Sarà inoltre importante rilevare in termini obiettivi la presenza di eventuali anomalie dimensionali a carico della circonferenza cranica (macro/
microcefalia assolute o relative) e/o eventuali asimmetrie corporee.
Poiché la diagnosi di FGR può avvenire solamente alla nascita, sarà importante effettuare un raccordo anamnestico completo, che, oltre alla
valutazione di tutte le problematiche cliniche materne che fanno parte
del work up di un feto/neonato SGA, avrà una particolare attenzione alla
eventuale esposizione materna a farmaci, teratogeni (alcool e cocaina
oltre che fumo) e/o alla contrazione di infezioni materne in gravidanza.
È quindi utile eseguire in modo sistematico una ricerca di malformazioni maggiori associate attraverso indagini strumentali appropriate
ed effettuare un accurato esame obiettivo dismorfologico del neonato stesso. A questo riguardo può essere preso come riferimento
il numero di gennaio 2009 di Am J Med Genet che, con una serie
di articoli scaricabili liberamente tramite Internet, definisce in modo
sistematico ed accurato, con l’utilizzo di schemi ed immagini fotografiche, la corretta definizione delle singole anomalie minori (Allason et al.; Biesecker et al.; Carey et al.; Hall et al.; Hennekam et
al.; Hunter et al., 2009). Questa raccomandazione è particolarmente
rilevante pensando alla oggettiva difficoltà esistente nella classificazione dismorfologica di un neonato anche in relazione alla potenziale presenza di device respiratori/nutrizionali che possono inficiare
una completa osservazione. Va inoltre sottolineato come, nell’ambito di svariate condizioni sindromiche, la stessa estrinsecazione del
quadro dismorfologico possa avvenire in modo progressivo e più
eclatante con il passare delle settimane/mesi; ciò quindi giustifica la
necessità dell’impostazione di un accurato programma di follow-up.
Il percorso di inquadramento diagnostico del neonato SGA potenzialmente sindromico segue le regole della genetica clinica classica,
che prevedono la definizione di una o più potenziali ipotesi diagnostiche, ove possibile confermate con opportuni test molecolari. Questo
percorso va inoltre integrato con le nuove potenzialità diagnostiche
offerte dalla citogenetica molecolare e le nuove conoscenze relative
ai fenotipi derivanti da anomalie di regioni genomiche soggette al
fenomeno dell’imprinting.
Sindromi associate ad anomalie cromosomiche
È ben noto che la presenza di un’anomalia cromosomica in difetto
o in eccesso è frequentemente associata ad un ritardo di accrescimento intrauterino. Le trisomie classiche (13, 18 e 21) o la ben
nota sindrome di Turner ne sono, in proporzione diversa, esempi
evidenti. La prevalenza attuale alla nascita di queste condizioni è
sensibilmente condizionata dalla diffusione della diagnosi prenatale
invasiva secondaria all’esecuzione di screening biochimici/ecografici materni, all’età materna al concepimento e relative scelte della
donna, o al percorso di approfondimento diagnostico secondario al
riscontro di IUGR, associato o meno alla presenza di malformazioni
maggiori sin dal periodo prenatale. Per quanto attiene le trisomie
classiche la presenza di malformazioni maggiori, di note dismorfiche
specifiche, spesso associate ad anomalie neurologiche (ipotonia)
dovrebbero spingere facilmente il neonatologo a porre il sospetto
diagnostico corretto.
Più complessa la diagnosi clinica di sindrome di Turner in assenza
della malformazione cardiaca più caratteristica (coartazione aortica)
e/o della presenza di linfedema a carico delle estremità. Va poi ri-
Tabella II.
Definizione dei diversi tipi di difetti congeniti.
Malformazione maggiore
Difetto morfologico di un organo, di una sua parte o di un’area più grande del corpo, che costituisce l’esito di un processo di sviluppo embrionale intrinsecamente anomalo (difetto insorto nel corso della organogenesi).
Malformazione minore
Difetto congenito di scarso significato medico o chirurgico che può avere una rilevanza dal punto di vista estetico.
Deformazione /Disruption
Difetto congenito rappresentato da un’anomalia di forma o posizione di una parte del corpo, causata da forze meccaniche che hanno agito su di una struttura fino a quel momento sviluppatasi normalmente (difetto insorto dopo il
completamento dell’organogenesi).
Displasia
Anomala organizzazione o funzione cellulare che causa alterazioni strutturali.
Sequenza malformativa
Quadro clinico plurisintomatico caratterizzato da un difetto congenito primitivo che determina a cascata l’insorgenza
di altre malformazioni o deformazioni.
Associazione casuale
Contemporanea presenza di due o più difetti congeniti in un medesimo individuo per ragioni indipendenti.
Associazione non casuale
Quadro clinico caratterizzato da anomalie multiple che fanno parte dello stesso quadro clinico e che si associano con
una frequenza che non può essere attribuita al solo caso. La loro eziologia rimane tuttora ignota. (es associazione
Vater/Vacterl)
Sindrome
Presenza contemporanea di più difetti della morfogenesi, anomalie minori, difetti antropometrici sulla base di un’unica
causa.
160
Sindromi malformative con restrizione della crescita fetale
Tabella III.
Sindromi cromosomiche più comuni associate a IUGR.
Trisomia 21
Trisomia 18
Trisomia 13
Sindrome di Turner
Monosomia parziale 5p (Sindrome del Cri du Chat)
Monosomia parziale 4p (Sindrome di Wolf-Hirshhorn)
Monosomia parziale 18p
Monosomia parziale 18q
Monosomia parziale 15q terminale
Sindrome di Williams (microdelezione 7q11.2)
Microdelezione 22q11.2
cordato che l’assetto cromosomico classico della sindrome di Turner
può essere presente solo in una proporzione di cellule (condizione di
mosaicismo) con implicazioni importanti sia sul piano fenotipico che
di diagnosi citogenetica.
Tra le sindromi da delezione cromosomica la più nota è senza dubbio
la sindrome del Cri du Chat o sindrome 5p-. Anche in questo caso
il fenotipo neonatale può essere non così eclatante in assenza delle
caratteristiche fonologiche più classiche (pianto flebile tipo miagolio
di gatto). Certamente di più agevole riconoscimento la sindrome di
Wolf-Hirshhorn (4p-) per il suo caratteristico aspetto della regione
fronto-oculo-nasale ad “elmo greco”, associata quasi invariabilmente alla presenza di ipotonia ed anomalie della alimentazione.
Il difetto genetico di base, delezione a carico del braccio corto del
cromosoma 4, può essere evidente sin dall’analisi cromosomica
classica o necessitare di approfondimenti mirati (FISH specifica o
arrayCGH).
Il riconoscimento neonatale può essere meno semplice di quanto sopra prospettato di fronte ad altri quadri di sindromi da microdelezione
note, quali la sindrome di Williams o la sindrome da microdelezione
22q11.2, in quanto il quadro di presentazione stesso potrebbe essere non così eclatante sul piano dismorfologico, rendendo il riconoscimento difficoltoso soprattutto in assenza delle anomalie maggiori
classiche (stenosi sopravalvolare aortica, cardiopatia troncoconale,
palatoschisi e/o grave insufficienza velopalatina).
La sindrome di Prader-Willi, che pure presenta una microdelezione
cromosomica nella maggioranza dei casi, verrà discussa nel capitolo
delle condizioni secondarie ad alterazioni dell’imprinting genomico.
Nell’ambito delle condizioni associate a microdelezione cromosomica vale la pena ricordare anche la delezione parziale (monosomia)
della porzione distale del cromosoma 15 (15q26.2 -->15qter) che è
associata a IUGR per la perdita di una copia del gene IGF-1R le cui
mutazioni puntiformi in eterozigosi possono altrettanto causare SGA
e ritardo di accrescimento post-natale (Saenger et al., 2012).
Altre due condizioni che devono essere tenute presenti in riferimento a questa categoria di sindromi sono la delezione parziale 18p e
la delezione parziale 18q. La prima è caratterizzata da ritardo di
crescita e sviluppo, note dismorfiche e, in un terzo circa dei casi, importanti malformazioni del sistema nervoso centrale (spettro oloprosencefalia); nei pazienti con questo genere di anomalia può essere
presente ipopituitarismo e relativo deficit di GH. La monosomia parziale 18q è invece caratterizzata da tratti somatici dismorfici, ritardo
di crescita e sviluppo, anomalie delle estremità e genito-urinarie;
anche in questa condizione è di frequente osservazione la presenza
di deficit di GH. La tabella III riassume le condizioni più comuni associate a IUGR e causate da una anomalia cromosomica.
Non va poi dimenticato che da qualche anno sta sempre più diffondendosi nella pratica clinica l’utilizzo delle nuove tecniche di analisi
genomica (array-CGH) nell’inquadramento diagnostico di pazienti
con quadri clinici polimalformativi e/o di ritardo di sviluppo. Già nel
2010 Miller et al. suggerivano la possibilità di una sostituzione della classica indagine cromosomica con un approccio di array-CGH
nell’iter diagnostico dei pazienti con anomalie congenite multiple
e/o disabilità intellettiva. Peraltro l’utilizzo di questa metodica si sta
progressivamente estendendo anche al periodo prenatale, permettendo di individuare la presenza di microduplicazioni/microdelezioni
patogenetiche non sospettabili su base clinica. In un’ampia casistica
pubblicata da Breman et al. (2012), dove 1124 campioni prenatali
sono stati analizzati con array-CGH, si segnala che in ben 410 casi
l’indicazione all’esecuzione dell’esame era rappresentata da un riscontro anomalo all’ecografia prenatale, non differenziando, però,
tra anomalie di accrescimento e/o evidenza di malformazioni maggiori. È comunque significativo segnalare che in 38 casi (9,3%) l’array-CGH aveva mostrato la presenza di un’anomalia patogenetica.
Restando all’ambito post-natale la gran parte dei dati disponibili nella letteratura si riferisce, appunto, all’utilizzo della metodica nell’analisi di quadri polimalformativi e/o di disabilità intellettiva, mentre
non sono disponibili studi costruiti in primis sul neonato con IUGR. È
però importante ricordare che molti di questi neonati possono associare, al ritardo di accrescimento intrauterino, la presenza di malformazioni maggiori e note dismorfiche che giustifichino l’esecuzione
di questo accertamento.
Non va dimenticato inoltre che grazie all’array-CGH può essere possibile anche identificare sindromi da microdelezione “classica” con
fenotipo particolarmente atipico e/o sfumato (Mosca-Boidron et al.,
2012). Questa opportunità è ancor più preziosa a livello neonatale in
relazione a quanto sopra ricordato e cioè che l’espressione clinica
di molte condizioni/sindromi da microdelezione classica, soprattutto
sul piano dismorfologico, può essere particolarmente sfumata nel
periodo neonatale.
Non è certamente compito di questo report andare nel dettaglio delle potenziali difficoltà interpretative che questo genere di indagine
pone. Le informazioni che via via sono state raccolte a livello internazionale nel corso degli anni consentono comunque di affermare
che, in una percentuale non irrilevante di casi il riscontro, grazie a
questo approccio, di una variazione quantitativa di DNA, può non essere con certezza causalmente correlabile con un eventuale quadro
patologico osservato nel neonato. A questo proposito la letteratura
internazionale offre lavori di revisione metodologica che cercano di
dare indicazioni pratiche condivise per l’interpretazione dei risultati
ottenuti (Riggs et al., 2012).
Sindromi monogeniche /fenotipiche con armonica riduzione
dei parametri auxologici
Ci riferiamo in questo ambito a tutte quelle condizioni che hanno come
denominatore comune la presenza di scarso accrescimento intrauterino simmetrico variamente associato a problematiche malformative,
dismorfiche e neurologiche. Sul piano patogenetico queste sindromi
o non hanno ancora avuto una definizione del difetto di base o sono
caratterizzate dall’assenza di anomalie cromosomiche e, spesso, dalla
presenza di mutazioni di singole informazioni genetiche.
Utilizzando comuni motori di ricerca in ambito dismorfologico (Oxford Medical Database, database di Orphanet) e inserendo come
criterio di ricerca la presenza di ritardo di crescita intrauterino/basso
peso neonatale, entrambi i sistemi propongono più di 150 condizio-
161
L. Memo, A. Selicorni
Tabella IV.
Sindromi monogeniche / fenotipiche più frequenti associate a IUGR.
Sindrome
Sindrome di Cornelia de Lange
Trasmissione genetica
Gene/i noto/i
AD, XL
NIPBL, SMC1A, SMC3 HDAC8, RAD 21
Sindrome CHARGE
AD
CHD7
Sindrome di Smith-Lemli-Opitz
AR
DHCR7
Leprecaunismo
AR
INSR
Microdelezione, AD
Del 16p13.3, mutazione geni CREBP ed EP300
Sindrome di Seckel
AR
ATR, RBBP8, CENPJ, CEP152, CEP62, NIN
Sindrome di Dubowitz
AR
?
Sindrome di Aarskog
AD, AR, XLR
FGD1 (XLR)
Sindrome di Robinow
AD, AR
WNT5A (AD), ROR2 (AR)
AD
ARID1B
Sindrome di Rubinstein-Taybi
Sindrome di Coffin-Siris
Legenda: AD = autosomica dominante, AR = autosomica recessiva, XLR, recessiva legata al cromosma X
ni/fenotipi differenti. Questo numero, seppur approssimativo, dà l’idea della complessità del problema dell’inquadramento diagnostico
del neonato con IUGR.
Molti dei quadri segnalati si riferiscono a singoli case reports o a
quadri clinici estremamente rari.
Tra le condizioni (Tab. IV) che maggiormente devono essere tenute presente dal neonatologo ricordiamo la sindrome di Cornelia de
Lange, la cui diagnosi può essere particolarmente semplice ed immediata nei casi più classici, mentre può riservare qualche dubbio
ed incertezza nelle forme meno espresse sul piano malformativo e
dismorfologico. Della sindrome di Silver-Russel discuteremo ampiamente nel capitolo delle condizioni secondarie ad anomalie dell’imprinting genomico. Anche la sindrome CHARGE si può associare a
problemi nell’accrescimento intrauterino; le anomalie maggiori
presenti (cardiache, coanali, genitali e auricolari) e funzionali (anomalie dei nervi cranici, ipoacusia neurosensoriale) oltre che alcuni
elementi dismorfologici peculiari, potranno indurre il clinico attento
al sospetto diagnostico.
Le condizioni sopra citate rappresentano un esempio importante di
due concetti di grande importanza in ambito di conferma molecolare
di una diagnosi clinica: l’eterogeneità genetica e la detection rate dei
test di laboratorio attualmente disponibili.
Ad oggi sono noti ben 5 differenti geni responsabili di fenotipi “de
Lange” (NIPBL, SMC1A, SMC3 HDAC8, RAD21) in percentuale assai
differente tra loro; nel loro insieme però solo il 60-65% dei soggetti
con diagnosi clinica di sindrome di Cornelia de Lange troverà oggi
una conferma molecolare. Per la sindrome CHARGE è ad oggi noto
un solo gene (CHD7) che risulta essere mutato nel 70% circa dei pazienti con questa condizione. In entrambi i casi emerge chiaramente
come una diagnosi clinica assolutamente corretta potrebbe non essere confermata dal conseguente test genetico. Questa possibilità
deve essere ben presente nella mente del clinico, in quanto è sin
troppo chiaro come una diagnosi clinica esatta può valere ed essere
considerata definitiva anche in assenza di una conferma da parte dei
test di laboratorio. Riteniamo estremamente importante segnalare
questi esempi in quanto queste situazioni stanno diventando sempre
più la regola e non eccezioni in ambito di genetica clinica.
In questo amplissimo gruppo di sindromi sono anche da tenere
presenti sia il capitolo delle condizioni caratterizzate da anomalie
a carico della sintesi endogena del colesterolo, che ha come capostipite e condizione più nota la sindrome di Smith-Lemli-Opitz, sia il
Leprecaunismo, patologia autosomica recessiva rara, caratterizzata
162
da scarso accrescimento, lipodistrofia, irsutismo, segni di invecchiamento precoce ed ipertrofia genitale. L’elenco delle condizioni
sindromiche che presentano restrizione della crescita fetale nella
assoluta maggioranza dei pazienti o in una porzione rilevante di essi
sarebbe assai lungo. Possiamo ricordare la sindrome di RubinsteinTaybi, la sindrome di Aarskog, la sindrome di Robinow, la sindrome
di Opitz, la sindrome di Dubowitz o la sindrome di Coffin-Siris. Per
tutte queste condizioni il sospetto diagnostico deve essere posto su
base clinica, attraverso un’accurata analisi del fenotipo dismorfico;
per alcune (es. sindrome di Rubinstein-Taybi) sarà poi disponibile un
test di laboratorio di conferma in una percentuale rilevante di casi,
mentre per altre l’unica possibilità diagnostica resta quella clinica.
La tabella IV riassume le condizioni citate in questo gruppo.
Patologie costituzionali dello scheletro
Un ulteriore complesso sottogruppo delle condizioni associate a
restrizione della crescita fetale è rappresentato dalle patologie costituzionali dello scheletro. Queste condizioni mostrano un ridotto
accrescimento soprattutto staturale e, spesso ma non sempre, una
sproporzione tra arti e tronco.
Nella più recente revisione classificativa sull’argomento (Warman et
al., 2010) gli esperti mondiali che l’hanno redatta hanno identificato
ben 456 differenti condizioni suddivise in 40 distinti gruppi, identificati, appunto, su base molecolare, biochimica o radiologica. Le basi
molecolari di queste condizioni sono state definite in 316 di esse,
associate alla presenza di una mutazione di uno o più dei 226 geni
identificati. Queste mutazioni possono essere anomalie ricorrenti e
tipiche di specifiche condizioni o mutazioni “private”, osservate e
descritte in singoli ceppi familiari/soggetti. È sin troppo evidente che
il numero di condizioni caratterizzate sul piano genetico dal 2010 in
poi è ulteriormente cresciuto; il prossimo aggiornamento di questa
classificazione ne darà riscontro.
In termini pratici possiamo avere a che fare con condizioni estremamente gravi ed incompatibili con la prosecuzione della gravidanza o,
in ogni caso, gravati da una letalità precoce importante, condizioni
cliniche la cui problematicità è evidente sin dal periodo neonatale
o condizioni assai sfumate e spesso non riconoscibili nel periodo
neonatale.
Un esempio estremamente significativo a questo riguardo è rappresentato dal gruppo 1 della classificazione sopra citata denominato “FGFR3 chondrodysplasia group”. In esso possiamo ritrovare
condizioni quali la Displasia Tanatofora (tipo 1 e 2), patologie as-
Sindromi malformative con restrizione della crescita fetale
solutamente letali, l’Acondroplasia, che rappresenta certamente
la displasia scheletrica più nota sin dal periodo neonatale e l’Ipocondroplasia, quadro che può avere manifestazioni estremamente
sfumate e che assai frequentemente viene riconosciuta ben oltre il
periodo neonatale.
Va qui ricordato che la classificazione della specifica tipologia di displasia scheletrica, anche quando associata a letalità prenatale o
neonatale, è essenziale per impostare in modo accurato il counselling genetico familiare ed una eventuale futura diagnosi prenatale
molecolare nelle gravidanze successive, nelle situazioni ove ciò risulta possibile.
Questa è la ragione forte per la quale il feto morto in utero o il prodotto del concepimento abortito a seguito di una diagnosi ecografica di
rallentamento della crescita fetale, verosimilmente riconducibile ad
una patologia costituzionale dello scheletro, deve essere opportunamente studiato in termini radiografici, fenotipici ed anatomo-patologici, per non perdere elementi utili ad un preciso inquadramento
diagnostico. Allo stesso modo il neonato che presenta caratteristica
di accrescimento orientative per questo ampio e complesso capitolo
dovrà eseguire le indagini radiografiche del caso, al fine di permettere la formulazione di una specifica ipotesi, che porterà alla eventuale attivazione di un test genetico di conferma.
Come già anticipato anche nel capitolo delle displasie scheletriche,
osserviamo a livello genetico sia il fenomeno dell’eterogeneità genetica sia la situazione opposta: mutazioni dello stesso gene posso
essere in grado di dare luogo a fenotipi patologici differenti anche
in termini di gravità e prognosi. L’esempio sopra citato del gruppo
di condizioni secondarie a mutazioni del gene FGFR3 è assolutamente paradigmatico di questo concetto. Anomalie di questo gene
sono infatti responsabili sia di quadri estremamente gravi, quali la
Displasia Tanatofora sia, di quadri decisamente più sfumati, quali
l’ipocondroplasia.
Sarebbe assolutamente velleitario elencare o discutere tutte le possibili condizioni patologiche associate a FGR. La tabella V riporta alcune delle più significative.
Sindromi da anomalie dell’imprinting genomico
Il fenomeno dell’imprinting genomico è un meccanismo estremamente importante di regolazione e modulazione dell’espressione
fisiologica del patrimonio genetico umano. Sebbene la maggioran-
za del nostro genoma mostri un’espressione biallelica, esiste una
rilevante quota di esso che, al contrario, presenta un’espressione
differenziale a seconda dell’origine paterna o materna del segmento genomico stesso. Questa espressione differenziale viene
modulata attraverso meccanismi di metilazione/demetilazione genica, che vengono posti in essere nel corso della meiosi e che possono quindi essere modificati generazione dopo generazione. Un
gene trasmesso da una donna al proprio figlio di sesso maschile
avrà un “imprinting materno” nel figlio, che, quando a sua volta lo
trasmetterà alla prole, verrà resettato e trasmesso con un “imprinting paterno”. In termini di accrescimento sia pre- che post-natale
l’influenza di questo fenomeno è estremamente articolata e complessa. Ciò che possiamo sinteticamente affermare è che la crescita normale deriva da un equilibrio corretto tra geni stimolatori
e repressori della crescita, opportunamente attivati /inattivati dal
fenomeno dell’imprinting stesso. Tutto ciò ben spiega come anomalie genetiche che determinano un’alterazione di questo delicato
equilibrio possano quindi avere ripercussioni importanti sul pattern
di accrescimento embrio- fetale e post natale (Smith et al., 2013,
Bachmann et al., 2012). Vi sono almeno due esempi di condizioni
cliniche abbondantemente note, il cui meccanismo patogenetico
è appunto quello di una sregolazione di questo meccanismo che
interessa regioni genomiche diverse: la sindrome di Silver-Russel
e la sindrome di Prader-Willi, La sindrome di Silver-Russel (SRS) è
una condizione con una prevalenza stimata di 1/30000-1/100000.
L’accrescimento staturo-ponderale è caratterizzato da un grave
ritardo sia prenatale che postnatale. È presente in una rilevante
percentuale di pazienti un’asimmetria che interessa un’emisoma o
che è solo localizzata a livello degli arti inferiori. Sul piano somatico i bambini affetti mostrano una sproporzione tra neurocranio
(molto sviluppato) e splacnocranio (più piccolo). È presente quindi
macrocefalia relativa, volto allungato e triangolare, occhi grandi,
sclere blu, tratti del viso fini, labbra sottili, micrognatia. Frequente
è il riscontro di clinodattilia del 5° dito delle mani. Sono occasionalmente osservabili anomalie cardiache, renali, genitali, senza
che queste rappresentino però caratteristiche clinico-diagnostiche
peculiari. Lo sviluppo psico-motorio ed intellettivo è di regola normale, anche se sono stati descritti pazienti con valori bassi di QI
e necessità di logopedia e percorsi scolastici individualizzati. In
alcuni rari soggetti è stata dimostrata la presenza di deficit di GH.
Tabella V.
Displasie scheletriche più frequenti associate a IUGR.
Acondroplasia
AD
FGFR3
Displasia Tanatofora
AD
FGFR3
Ipocondroplasia
AD
FGFR3
Sindrome di Ellis-Van Creveld
AR
ECV, ECV2
AR (tipo 1A e 1B), AD (tipo 2)
TRIP11 (tipo 1A), DIDST (tipo1B), Col2A1(tipo 2)
Acondrogenesi
Displasia Diastrofica
AR
DIDST
Sindrome di Kniest
AD
Col2A1
Displasia campomelica
AD
SOX9
Disostosi spondilocostale
AR
DLL3 (tipo 1), MESP2 (tipo 2), LNFG (tipo 3), HES7 (tipo 4)
Sindrome di Leri-Weill
XLD
SHOX SHOY o delezione coinvolgenet SHOX
Displasia Spondiloepifisaria Congenita
AD
Col2A1
Condrodisplasia Punctata Rizomelica
AR
PEX7 (tipo 1), GNPAT (tipo 2), AGPS (tipo 3)
Legenda: AD = autosomica dominante, AR = autosomica recessiva, XLD, dominante legata al cromosma X.
163
L. Memo, A. Selicorni
Il difetto di base può essere di diversa natura: nel 10% circa delle
persone con questa condizione è nota la presenza di disomia uniparentale materna (doppia dose del cromosoma 7 materno) mentre
una quota più rilevante (45-50%) mostra anomalie a livello della
regione cromosomica 11p15.5, regione nota per essere correlata
alla sindrome di Beckwith-Wiedemann. L’insieme dei difetti dimostrabili raggiunge all’incirca il 60% dei pazienti diagnosticati clinicamente. La sindrome di Prader-Willi ha una prevalenza stimata
pari a 1/10000-1/30000. Le caratteristiche somatiche classiche
del neonato/lattante con questa condizione sono rappresentare da
dolicocefalia, volto allungato, costrizione bitemporale, fessure palpebrali a mandorla, commessure labiali rivolte in basso. Frequente
l’ipopigmentazione cutanea e il colore biondo dei capelli; mani e
piedi sono solitamente piccoli. L’accrescimento staturo-ponderale
è solitamente scarso nel primo anno di vita e successivamente la
statura si mantiene inferiore alla norma, mentre si osserva lo sviluppo di obesità secondaria ad una iperfagia patologica. Non sono
solitamente presenti malformazioni maggiori specifiche, mentre è
quasi costante la presenza di ipogenitalismo, che si manifesta con
un pene piccolo con scroto ipoplastico nei maschi e con una ipoplasia clitoridea e delle piccole labbra nelle femmine. Per quanto
riguarda lo sviluppo psico-motorio ed intellettivo è ben noto che i
neonati con sindrome di Prader-Willi mostrano un’importante ipotonia, che tende a regredire anche spontaneamente entro i primi
anni di vita. Sul piano psichico il ritardo è solitamente di tipo lieve.
La sindrome è secondaria ad una perdita del contributo paterno
per la regione cromosomica 15q11.2. Ciò può avvenire per la presenza di una microdelezione 15q11.2 di origine paterna (75% dei
casi), per una disomia uniparentale materna della medesima regione o per una mutazione del gene del centro dell’imprinting (IC).
Sindromi da teratogeni
L’uso di sigarette, alcool e droghe può causare FGR sia direttamente, attraverso effetti citotossici, sia indirettamente da cause
correlate, come ad esempio malnutrizione. Il fumo durante il terzo
trimestre di gravidanza sembra avere l’impatto più grave sul peso
del neonato; i neonati da donne che smettono di fumare prima del
terzo trimestre di gravidanza presentano un peso simile ai neonati
da donne non fumatrici (Lieberman et al., 1994). Numerosi studi
hanno tentato di dimostrare il legame tra l’esposizione al fumo
in gravidanza (ETS, Environmental Tobacco Smoke) e il peso del
neonato. I risultati sono stati discordanti, benché la maggior parte
degli studi abbia mostrato che il rischio di basso peso alla nascita
aumenta nelle donne con ETS (Goel et al., 2004; Kharrazi et al.,
2004). Questo tipo di studi è limitato dalla difficoltà di quantificare
accuratamente l’esposizione al fumo della madre e le correzioni
da apportare ai diversi fattori che influiscono sul peso alla nascita.
L’esposizione prenatale all’alcool può causare deficit di crescita
nel bambino, specifiche anomalie facciali (microcefalia, rime palpebrali brevi, radice nasale piatta, narici antiverse, filtro lungo e
piatto e labbro superiore sottile), ritardo mentale e disturbi comportamentali, noti come spettro dei disordini della sindrome fetoalcolica (FASD). La sindrome feto-alcolica, descritta da Jones nel
1973, costituisce la causa più comune di ritardo mentale non ge-
164
Tabella VI.
Sindromi da teratogeni più frequenti associate a IUGR.
Sindrome feto-alcolica
Sindrome da metotrexate
Sindrome da fenitoina
Sindrome da valproato
Sindrome da warfarina
netico ed è interamente prevenibile con la totale astinenza dall’uso
di alcool in gravidanza. (de Sanctis et al., 2011). L’esposizione ad
agenti tossici, compresi alcuni medicinali come Warfarina, anticonvulsivi, agenti antineoplastici ed antagonisti dell’acido folico,
possono produrre FGR con specifiche caratteristiche dismorfiche
(Bernstein et al., 1997; Wen et al., 2008).
L’assunzione di caffeina è stato associato in modo significativo
con il basso peso alla nascita e con l’aumentata probabilità di SGA
(Sengpiel et al., 2013).
L’esposizione del feto a dosi di radiazioni a scopo terapeutico, può
causare una restrizione permanente della crescita, oltre che aumentare il rischio per malformazioni e neoplasie. Viceversa l’esposizione
a dosi di radiazioni a scopo diagnostico non è usualmente legato ad
alcun effetto negativo sul feto (Donnelly et al., 2011).
La tabella VI riassume le condizioni secondarie ad esposizione di
teratogeni da parte della madre.
Conclusioni
Le sindromi malformative che comprendono al loro interno il segno
clinico dello IUGR, sono numerose, rare se prese singolarmente e
spesso difficili da diagnosticare, anche perché possono presentare
un’ampia eterogeneità clinica. Una diagnosi eziologica, il più possibile corretta ed immediata e un’assistenza clinica e psicologica
adeguata, è ciò che il neonatologo dovrebbe offrire al neonato ed
ai suoi genitori. Momenti fondamentali nella presa in carico del neonato da gravidanza complicata da IUGR, in cui si sospetti una sindrome malformativa, sono in prima istanza: anamnesi familiare e
stesura dell’albero genealogico, esame obiettivo, esami di laboratorio, esami strumentali. Al termine di un adeguato iter diagnostico
sarà possibile tentare di formulare la diagnosi. A questo proposito
vorremmo dare delle linee guida utili nel nostro percorso diagnostico: 1) In presenza di IUGR occorre sempre prendere in considerazione la possibilità di sindrome malformativa, anche se di per
sé lo IUGR non è patognomonico di alcuna sindrome; 2) è importante stabilire se lo IUGR è primario oppure secondario a qualche
altro segno clinico, quale ad esempio una cardiopatia congenita
o una poliendocrinopatia; 3) L’assenza di malformazioni maggiori
non deve far escludere a priori la presenza di una sindrome malformativa; 4) Il ritardo psicomotorio, in presenza di IUGR non è
necessariamente secondario a possibili sequele neurologiche, ma
deve essere considerato come elemento a sé stante, soprattutto se
associato a microcefalia; 5) L’assenza di catch-up growth entro i
2 anni di età deve sempre far pensare alla possibilità di sindrome
malformativa.
Sindromi malformative con restrizione della crescita fetale
Box di orientamento
Dati di riferimento
Le condizioni associate a fetal growth restriction (FGR) interessano il 5-10% delle gravidanze
La causa di un quadro di FGR e, conseguentemente, la prognosi del neonato è estremamente eterogenea.
Indicazioni metodologiche
La presenza di una o più malformazioni maggiori e/o di franche note dismorfiche aumenta la probabilità di una causa genetica del quadro di FGR
(sindrome cromosomica o malformativa monogenica).
L’utilizzo delle nuove tecnologie (cariotipo molecolare) può permettere di identificare precocemente quadri patologici non sospettabili su base clinica o
condizioni note ad espressione sfumata in sede neonatale.
Nel percorso di conferma diagnostica di sindromi monogeniche attraverso l’utilizzo dei test molecolari è indispensabile conoscere l’eventuale eterogeneità genetica della condizione stessa e la relativa “detection rate” dei test disponibili.
Considerare sempre nella diagnosi differenziale di un neonato con FGR sia il complesso capitolo delle patologie costituzionali dello scheletro (soprattutto in caso di natimortalità) che quello delle sindromi da teratogeni (esposizione a fumo ed alcool in primis).
Obiettivi del percorso
La diagnosi eziologica, non sempre agevole e immediata, non è altro che il primo passo di una presa in carico assistenziale del neonato e della sua
famiglia.
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Corrispondenza
Luigi Memo, U.O.C. di Pediatria e Neonatologia, Ospedale San Martino Azienda ULSS n°1 Belluno, Viale Europa, 22 - 32100 Belluno. Tel.: +39 0437
516231. E-mail: [email protected]
166
Luglio-Settembre 2013 • Vol. 43 • N. 171 • Pp. 167-178
Dismorfologia neonatale
Sindromi malformative con iperaccrescimento
a evidenza neonatale
Alessandro Mussa, Giovanni Battista Ferrero
Dipartimento di Scienze della Salute Pubblica e Pediatriche, Università degli Studi di Torino
Riassunto
Lo studio dell’accrescimento somatico dell’uomo, le sue basi genetiche ed ambientali, i suoi limiti fisiologici e i meccanismi patologici che lo alterano, sono
da sempre stati cardini della cultura pediatrica. La rilevanza epidemiologica e la correlazione con sfavorevoli condizioni socio-economiche hanno reso lo
scarso accrescimento uno dei principali campi della ricerca biomedica del XX secolo. È solo negli ultimi decenni invece che l’iperaccrescimento, confinato
nell’ambito della mitologia prima e delle curiosità mediche successivamente, è diventato oggetto di studio sistematico e i quadri patologici sindromici ad
esso correlato adeguatamente sistematizzati ed approfonditi. Con lo sviluppo del Progetto Genoma Umano è stato possibile delineare le cause molecolari
di numerosi quadri clinici caratterizzati da iperaccrescimento e malformazioni congenite ad evidenza neonatale, permettendo lo sviluppo di indagini di
laboratorio per la conferma del sospetto clinico e la successiva definizione di coorti omogenee di pazienti sulle quali sviluppare specifici approcci di followup. La sindrome di Beckwith-Wiedemann può essere considerata una condizione paradigmatica di questo complesso capitolo della patologia pediatrica,
caratterizzata da iperaccrescimento, aumentato rischio di sofferenza perinatale e neonatale, e aumentato rischio oncologico. L’approccio multidisciplinare
integrato alla sindrome di Beckwith-Wiedemann e alle altre sindromi con iperaccrescimento rappresenta un modello di un’efficace prevenzione delle gravi
complicanze che possono gravare su questi quadri clinici.
Summary
The study of human somatic growth, its genetic and environmental basis and its physiological and pathological mechanisms have always been the cornerstones of pediatric culture. The epidemiological importance and correlation with unfavorable socio-economic conditions have made failure to thrive one of
the main fields of biomedical research of the twentieth century. It is only in recent decades that overgrowth, confined within the mythology before and after
medical curiosity, has become the subject of systematic study and overgrowth syndromes properly systematized and investigated. With the development
of the Human Genome Project it has been possible to delineate the molecular bases of many clinical conditions characterized by neonatal congenital overgrowth and congenital malformations, allowing the development of laboratory tests for the confirmation of clinical suspicion and the subsequent definition
of homogeneous cohorts of patients on which develop specific approaches to follow-up. Beckwith-Wiedemann syndrome can be regarded as a paradigm
of this complex chapter of pediatric pathology, characterized by overgrowth, increased risk of perinatal and neonatal distress, and increased cancer risk.
The integrated multidisciplinary approach to Beckwith-Wiedemann syndrome and other overgrowth syndromes represents a model of effective prevention
of serious complications that may affect these clinical entities.
Parole chiave: Iperaccrescimento; Sindrome di Beckwith-Wiedemann; Sindrome di Bannayan-Riley-Ruvalcaba; Sindrome di Sotos; Sindrome di Perlman;
Sindrome di Simpson-Golabi-Behmel
Key words: Overgrowth; Beckwith-Wiedemann syndrome; Bannayan-Riley-Ruvalcaba syndrome; Sotos syndrome; Perlman syndrome; Simpson-GolabiBehmel syndrome
Metodologia della ricerca bibliografica effettuata
La ricerca degli articoli rilevanti degli ultimi 10 anni è stata effettuata
sul motore di ricerca PubMed, utilizzando le parole chiave: overgrowth OR Beckwith-Wiedemann OR Bannayan-Riley-Ruvalcaba
OR Sotos OR Perlman OR Simpson-Golabi-Behmel OR Proteus OR
giantism OR (macrosomia AND congenital). Sono state considerate
anche altre pubblicazioni rilevanti degli anni precedenti conosciute dagli autori ed altre ricavate dalla bibliografia delle pubblicazioni
identificate mediante PubMed e testi specialistici.
Introduzione
Le sindromi da iperaccrescimento sono un gruppo eterogeneo di
condizioni caratterizzate da eccessiva crescita - localizzata o generalizzata - comunemente associate a svariate anomalie malformative e ad un aumentato rischio oncologico. Le gestione della
predisposizione a sviluppare neoplasie e la complessa gestione multidisciplinare rendono indispensabile per il pediatra la conoscenza
delle principali entità nosologiche con le quali può essere chiamato
a confrontarsi. Lo studio di queste condizioni offre un’opportunità
unica di acquisire nuove conoscenze sulla regolazione della crescita
e proliferazione cellulare fornendo alla medicina degli interessanti
modelli biologici da esplorare.
La classificazione di questo gruppo di disordini si è rivelata assai
complessa, sia per l’estesa sovrapposizione delle loro caratteristiche cliniche, sia per il fatto che le anomalie molecolari causative non
sono attualmente del tutto note. Un chiaro esempio di questa complessità è fornito dalla sindrome di Beckwith-Wiedemann, caratterizzata da un amplissima variabilità fenotipica correlata a molteplici
meccanismi eziologici, da alterazione genomica, genetica ed epigenetica che causano quadri clinici con caratteristiche fenotipiche
assai sovrapponibili. Viceversa, la sindrome Bannayan-Riley-Ruvalcaba è una condizione con iperaccrescimento causata da mutazione
del gene PTEN, che può anche essere coinvolto nella patogenesi di
altre sindromi con iperaccrescimento o predisposizione oncologica
come la sindrome di Cowden o le sindromi Proteus-like.
167
A. Mussa, G. Battista Ferrero
Sebbene nell’ultima decade si veda un rapido progresso nel delineare i difetti molecolari causativi delle più comuni sindromi da
iperaccrescimento, ancora molto è da fare e numerose condizioni
necessitano ancora di essere inquadrate con precisione dal punto
di vista fenotipico, del rapporto genotipo/fenotipo, delle strategie di
follow-up. È importante sottolineare che gran parte delle sindromi
da iperaccrescimento continuano ad essere diagnosticate sulla base
di criteri clinici e l’identificazione delle tipiche alterazioni molecolari
rappresenta una conferma diagnostica. Il rapido progresso tecnologico che stiamo osservando nell’approccio all’analisi genetica, ovvero il sequenziamento di nuova generazione ad alta produttività –
Next Generation Sequencing – consentirà verosimilmente ai clinici
di utilizzare nell’approccio diagnostico un maggior numero di dati
genetici, e quindi di migliorare la classificazione di questi disordini. Il
modello classificativo più semplice e pratico attualmente impiegato
è la classificazione, in base alla tipologia di iperaccrescimento, in
generalizzato e localizzato ad una parte del corpo: si possono riconoscere sindromi con prevalente iperaccrescimento generalizzato
(sindromi di Beckwith-Wiedemann, Simpson-Golabi-Behmel, Perlman), prevalentemente staturale con associata macrocrania (Sotos,
Macrocephaly Capillary Malformation Polymicrogyria syndrome,
Bannayan-Riley-Ruvalcaba) e situazioni con iperaccrescimento limitato ad un segmento corporeo (emiperplasia corporea isolata). Si
sottolinea, tuttavia, come questa classificazione sia incompleta ed
insufficiente e sia indispensabile una buona conoscenza dell’argomento per un corretto approccio diagnostico clinico ed un adeguato
inquadramento molecolare dei disordini.
Sindrome di Beckwith-Wiedemann
La sindrome di Beckwith-Widemann (Online Mendelian Inheritance
in Man, di seguito OMIM # 130650) è la sindrome da iperaccrescimento più frequente (prevalenza nei nati vivi 1:10.500) (Mussa,
2013) e più studiata, rappresentando il modello delle sindromi con
iperaccrescimento neonatale e delle patologie genetiche da alterazione del controllo dell’imprinting genomico. Le caratteristiche
cliniche della sindrome consistono nella variabile associazione di
macrosomia neonatale (peso neonatale oltre il 97° percentile per
età gestazionale) o post-natale (sulla cui definizione non c’è accordo
unanime in letteratura), difetti della parete addominale (dai severi
come gastroschisi o onflaocele a modesti come ernia ombelicale
o lievi come la diastasi dei muscoli retti addominali), macroglossia, anomalie auricolari caratteristiche (pits all’elice del padiglione
o indentature ai lobi auricolari), emi-iperplasia corporea (coinvolgente da una singola estremità corporea ad un intero emisoma),
organomegalia, malformazioni nefro-ureterali, iperinsulinismo con
ipoglicemia e predisposizione oncologica allo sviluppo di tumori
embrionari nella prima decade di vita (Fig. 1) (Shuman, 2013). Le
malformazioni possono essere variabilmente associate tra di loro
e presentare gradi di severità diversi venendo così a configurare
quadri conclamati e severi di malattia o quadri estremamente sfumati, che possono facilmente essere confusi con varianti della normalità (Shuman, 2013). Inoltre, non sono infrequenti casi in cui le
caratteristiche della sindrome, non presenti alla nascita, compaiono
nel primo anno di vita o, viceversa, chiare alla nascita si mitigano
quasi completamente durante la prima e seconda infanzia (Chitayat,
1990). La diagnosi della malattia è clinica e si basa sull’impiego di
criteri che sono stati progressivamente affinati nel tempo (Tab. I). La
diagnosi prenatale ecografica, ancora rara, permette una corretta
gestione del parto e delle eventuali complicanze neonatali associate
al quadro clinico, in particolare le sproporzione feto-pelvica e le crisi ipoglicemiche. Il follow-up è dominato dalla necessita’ di gestire
l’aumentato rischio oncologico, che su casistiche allargate è stimato
del 10%, con particolare attenzione alla diagnosi precoce di tumore
di Wilms ed epatoblastoma.
Basi molecolari della BWS
Le basi molecolari della sindrome sono complesse ed eterogenee,
essendo questo quadro un modello di patologia da difetto dell’imprinting genomico, con molteplici difetti molecolari delle due zone
sottoposte a imprinting della regione cromosomica 11p15.5. Anomalie di questa regione sono riscontrabili in circa l’85% dei soggetti
affetti, e includono alterazioni genomiche, genetiche o epigenetiche,
cui consegue un’alterazione del fisiologico contributo allelico dei cromosomi parentali. La maggior parte dei geni umani viene espressa
da entrambi gli alleli sulla coppia di cromosomi ereditati per via materna e paterna; solo alcuni geni sono soggetti al fenomeno dell’im-
Figura 1.
Paziente affetto da sindrome di Beckwith-Wiedemann. Si notino alcune caratteristiche distintive: macroglossia neonatale (a) e dopo la correzione
chirurgica (b). Il paziente ha sviluppato un voluminoso epatoblastoma in epoca neonatale, diagnosticato grazie alle ecografie seriate, e la cui
evoluzione durante la chemioterapia e la sorveglianza post-exeresi chirurgica viene effettuata grazie al dosaggio dell’alfa-feto proteina (c). Caso
dettagliato in Mussa et al., 2011.
168
Sindromi malformative con iperaccrescimento a evidenza neonatale
Tabella I.
Criteri maggiori e minori diagnostici della sindrome di BeckwithWiedemann (da Rump et al., 2005 e Weksberg et al., 2010). Comunemente la diagnosi viene posta con 3 criteri maggiori o 2 maggiori
+ 2 minori.
Criteri maggiori
Difetti addominali maggiori (esonfalo o ernia ombelicale)
Macroglossia
Macrosomia (peso >97 percentile)
Solchi e pieghe del lobo auricolare o pits all’elice
Visceromegalia addominale
Sviluppo di tumori embrionari nella prima infanzia
Emiperplasia corporea
Citomegalia della corteccia surrenalica
Anomalie nefroureterali
Storia familiare di Sindrome di Beckwithh-Wiedemenn
Palatoschisi
Criteri minori
Ipoglicemia neonatale
Nevo flammeo alla glabella
Facies caratteristica
Cardiomegalia
Diastasi dei muscoli retti
Età ossea avanzata
Prematuranza
Polidramnios
Cordone ombelicale ipertrofico
printing genomico e sono espressi in maniera monoallelica in base
all’origine parentale del cromosoma. Questo fenomeno è regolato da
meccanismi epigenetici (ovvero estrinseci alla sequenza nucleotidica del DNA) che includono principalmente la metilazione del DNA e
le modificazione degli istoni. I centri di imprinting (IC) sono regioni di
DNA che regolano l’espressione di uno o più geni in base alla metilazione differenziale degli alleli parentali, detti regioni differenzialmente metilate (DMR). Alla base della sindrome di Beckwith-Wiedemann
vi sono alterazioni dei meccanismi dell’imprinting di due DMR indipendenti nella regione cromosomica 11p15.5: anomalie nella metilazione di queste due regioni DMR sono dovute a diversi meccanismi
e comportano alterazioni quantitative nell’espressione dei geni da
esse controllati, responsabili del quadro clinico (Shuman, 2013). In
figura 2 vengono dettagliati i meccanismi molecolari della sindrome:
la perdita di metilazione (LoM) in IC2 si verifica in più del 50% dei
casi, il guadagno di metilazione (GoM) all’IC1 nel 5-10% dei casi
(Riccio, 2009; Sparago, 2004); la disomia uniparentale paterna del
cromosoma 11 (UPD11); la mutazione inattivante del gene CDKN1C
nel 5-10% dei casi ed è responsabile di metà dei casi ereditabili di
sindrome di Beckwith-Wiedemann. Le alterazioni della metilazione
e l’UPD11 sono, al contrario, eventi sporadici in gran parte dei casi
e pertanto, presentano il medesimo rischio di ricorrenza osservato nella popolazione generale. Riarrangiamenti genomici ereditabili, come delezioni, inversioni, duplicazioni, traslocazioni più o meno
estese ma coinvolgenti le regioni dei due IC, causano, complessivamente, meno dell’1% dei casi (Chiesa, 2012). Il 15-20% dei pazienti
con chiara diagnosi clinica di sindrome di Beckwith-Wiedemann non
presenta nessuna di queste alterazioni ed è causato verosimilmente
da meccanismi molecolari non ancora noti o da “mosaicismi” tissutali
non rilevabili, al di sotto della sensibilità delle attuali metodiche di laboratorio impiegate per la conferma molecolare (Cooper et al., 2005).
Figura 2.
Regolazione dell’imprinting nella regione cromosomica 11p15.5 e sue
anomalie nella BWS. a) Rappresentazione schematica del normale funzionamento dei due domini di imprinting sul cromosoma 11p15.5: il
dominio prossimale, centromerico, è regolato dall’imprinting center 2
(IC2) il cui stato di metilazione regola l’espressione dei geni KCNQ1
e CDKN1C, espressi dal cromosoma materno, ma silenziati su quello
paterno. Il secondo dominio, distale o telomerico, è regolato dall’imprinting center 1 (IC1) il cui stato di metilazione controlla l’espressione differenziale del fattore di crescita fetale insulin-like growth factor 2 IGF2
(espresso dall’allele paterno) e il noncoding RNA H19 espresso dall’allele materno. Nel disegno il DNA materno è in rosso e quello paterno in
blu. b) L’ipometilazione sporadica dell’IC2 causa più del 50% dei casi di
sindrome di Beckwith-Wiedemann, provocando la mancata espressione del gene CDKN1C. c) L’ipermetilazione dell’IC2 causa il 5-10% dei
casi comportando espressione biallelica del fattore di crescita IGF2. d)
Entrambi i meccanismi coesistono nella disomia uniparentale paterna
del cromosoma 11 (20% dei casi); e) una mutazione inattiva (ereditabile) del gene CDKN1C sull’allele materno provoca il 10% dei casi
di sindrome di Beckwith-Wiedemann. Meccanismi molecolari più rari
come duplicazioni, inversioni, traslocazioni e delezioni (non illustrati)
che coinvolgono queste due regioni causano complessivamente l’1%
dei casi. Il restante 20% dei casi di BWS non ha eziologia molecolare
attualmente nota.
Iter diagnostico molecolare
L’analisi molecolare con sonde metilazione-sensibile (methylationsensitive multiplex ligation-dependent probe amplification, MS-MLPA) è attualmente il metodo più efficiente per rilevare in una singola
analisi la maggior parte dei difetti molecolari associati alla BWS.
Rileva infatti le alterazioni della metilazione dei due IC, l’UPD11, una
parte delle microdelezioni/microduplicazioni, ed eventuali alterazioni
del dosaggio genico derivanti da altri eventi. L’UPD11 è tipicamente
un evento a mosaico e bassi livelli di espressione possono comportare segnali deboli all’MS-MLPA, per i quali è necessaria un’ulteriore
conferma con l’analisi dei microsatelliti. La negatività dell’analisi effettuata su DNA estratto da leucociti non è quindi conclusiva, ed è
potenzialmente implementabile effettuando l’analisi su altri tessuti
(fibroblasti da biopsia cutanea, sfaldato di epitelio buccale, frustoli
prelevati da lingua o muscolo in occasione di interventi chirurgici).
Un’analisi del cariotipo standard rileverà i rari eventi cromosomi-
169
A. Mussa, G. Battista Ferrero
Figura 3.
Approccio molecolare al paziente con caratteristiche fenotipiche della Sindrome di Beckwith-Wiedemann.
L’algoritmo diagnostico propone inizialmente il cariotipo, mirato a diagnosticare i rari casi ereditari sulla base di riarrangiamenti genomici, succesivamente l’analisi del pattern di metilazione della regione critica 11p15.5 (individuazione di alterazioni in circa l’80% dei casi) tramite MS-MLPA e
propone il sequenziamento del gene CDKN1C nei casi negativi. Si noti che il riscontro di disomia uniparentale paterna, necessita di conferma con
analisi dei microsatelliti. Nei casi in cui questi accertamenti risultino negativi, si procede con l’esecuzione di array-CGH per definire duplicazioni/
delezioni non visibili al cariotipo e possono essere studiati i geni delle sindromi da iperaccrescimento con caratteristiche fenotipiche sovrapponibili
a quelle della BWS.
ci responsabili del quadro clinico, come traslocazioni, inversioni,
delezioni, o duplicazioni responsabili del fenotipo con meccanismi
patogenetici complessi, correlati all’origine parentale dell’anomalia
e trasmissibili in maniera dipendente dal sesso del genitore. La più
sensibile analisi con array-CGH (comparative genomic hybridization
array) può rilevare eventi genomici non visibili al cariotipo tradizionale. Infine, in caso di negatività a questi accertamenti (oppure come
primo approccio nel caso di chiara ereditarietà o fenotipo altamente
suggestivo con onfalocele, palatoschisi e abortività ripetuta) è possibile il sequenziamento del gene CDKN1C per la ricerca di mutazioni
inattivanti trasmissibili e causanti il fenotipo quando ereditate dalla
madre. Complessivamente, questo iter diagnostico molecolare consente di rilevare difetti molecolari in quasi l’85% dei pazienti con diagnosi
clinica della BWS (Weksberg et al., 2010, Choufani et al., 2010). Il complesso approccio molecolare è riassunto nel diagramma di figura 3.
170
Prognosi
La BWS non causa direttamente alcuna compromissione dello sviluppo
neuropsicomotorio. Minimi ritardi nell’acquisizione delle normali tappe sono conseguenti a fattori legati alle manifestazioni cliniche della
sindrome: ritardata acquisizione della deglutizione e favella possono
essere conseguenti a quadri severi di macroglossia, ritardi e difficoltà
nella deambulazione possono derivare da rilevanti emiperplasie con dismetrie degli arti inferiori, che devono essere prontamente corrette con
dispositivi ortesici e, qualora indicato, con interventi chirurgici ortopedici
di epifisiodesi. Compromissione variabile dello sviluppo neuropsicomotorio può essere conseguente a complicanze della sindrome, quali prematuranza severa o grave ipoglicemia neonatale non adeguatamente
riconosciuta e trattata: su questi aspetti, in larga parte prevenibili, è indispensabile l’adeguata conoscenza della condizione da parte del clinico.
Raramente, la sindrome BWS può causare direttamente un quadro di
ritardo severo, presente solamente in alcuni dei rari eventi comosomici.
Sindromi malformative con iperaccrescimento a evidenza neonatale
Rischio oncologico
Si stima che il rischio cumulativo di sviluppo di neoplasie embrionarie sia compreso tra 5 e 10%, a seconda delle casistiche descritte
in letteratura. Le neoplasie sono tipicamente tumori embrionari: il
tumore di Wilms (nefroblastoma) è di gran lunga il più frequente
e si manifesta esclusivamente nei pazienti con GoM-IC1 e UPD11
(Rump et al., 2005). L’epatoblastoma è la seconda neoplasia più
rappresentata ed è tipica dei pazienti con UPD11 sebbene sia stata
aneddoticamente descritta anche negli altri difetti molecolari (Smith
et al., 2007). L’adenocarcinoma surrenalico è la terza neoplasia più
rappresentata, seguita da neuroblastoma e rabdomiosarcoma, più
comuni nei casi di LoM-IC1. Pancreatoblastoma, gonadoblastomi e
altre neoplasie più rare sono descritte in letteratura. Le tre lesioni
molecolari più frequenti sono contraddistinte da un rischio nettamente diverso di sviluppare neoplasie: basso nei pazienti con LoMIC2 (<5%), intermedio nei casi con UPD11 (15-25%) ed elevato nei
pazienti con GoM-IC1 (20-50%). Alcune caratteristiche cliniche correlano con un aumentato rischio oncologico: l’emiperplasia corporea rappresenta il fattore di rischio più importante per lo sviluppo di
neoplasie, un quadro clinico particolarmente severo sembra essere
associato allo sviluppo di epatoblastoma, l’organomegalia renale
correla con un netto aumento del rischio di nefroblastoma (Mussa,
2012). Il rischio oncologico, inoltre, è massimo alla nascita e decresce progressivamente nei primi anni di vita fino a raggiungere
grossolanamente quello stimato per la popolazione generale attorno
ai 5 anni per l’epatoblastoma e ai 10 anni per il tumore di Wilms
(Shuman et al., 2013, Rump et al., 2005). Sono aneddotici i casi con
neoplasie insorte dopo il decimo anno di vita e dibattuto è il ruolo
eziologico delle alterazioni molecolari della BWS nel rischio oncologico nella vita adulta (Greer et al., 2008).
Screening oncologico
Per via dell’aumentato rischio di neoplasie embrionarie viene suggerito che tutti i pazienti affetti da BWS vengano periodicamente
sottoposti ad accertamenti clinici e di imaging per la precoce individuazione dell’insorgenza di tumori (Lapunzina, 2005). Attualmente
questi accertamenti consistono nel dosaggio sierico dell’alfa-fetoproteina (marker precoce, altamente sensibile e adeguatamente
specifico dell’epatoblastoma) e nell’esecuzione di ecografia dell’addome, primariamente per l’individuazione del nefroblatoma e, secondariamente, per l’eventuale riconoscimento di altre neoplasie
addominale più rare (Clericuzio et al., 2003). Entrambi gli accertamenti vengono eseguiti ogni 3 mesi nei primi 4 anni di vita, unanimamente. Dal compimento del quinto anno di vita fino agli 8-10 anni
viene eseguita l’ecografia ogni 4 mesi, mentre dubbio è l’impiego
del dosaggio dell’alfa-fetoproteina dato che il rischio di epatoblastoma è molto basso dopo i 4 anni di età. Dibattuto e dall’utilità non
dimostrata è l’impiego di altri esami ed accertamenti proposto da
alcuni autori: dosaggio delle catecolamine urinarie e metaboliti per
lo screening di feocromocitoma e neuroblastoma (potenzialmente
utile ma indaginoso per la richiesta di raccolta urine delle 24 ore),
RX torace per neuroblastoma e eventuali metastasi di altre neoplasie
embrionarie (abbandonato per eccessivo impiego di radiazioni), dosaggio enolasi neurono-specifica per neuroblastoma (non specifico
e difficilmente impiegabile a scopo di screening). La visita clinica e
l’esecuzione di esami ematochimici generali possono verosimilmente essere d’aiuto per l’individuazione di neoplasie più dell’impiego di
questi accertamenti (Lapunzina et al., 2005). È ampiamente dimostrato in letteratura che l’ecografia dell’addome consente il precoce
riconoscimento del nefroblastoma (stadio I-II anziché III-IV, che si
manifestano clinicamente) e una chirurgia con maggior risparmio di
nefroni, fattore rilevante se si considera la possibiltà di recidive e il
fatto che il 5-10% dei nefroblastomi sono metacroni. È dimostrato
su casistiche limitate che il dosaggio dell’alfa-fetoproteina consente
una diagnosi verosimilmente più precoce di epatoblastoma rispetto
all’ecografia epatica. La valutazione dell’andamento dell’alfa-fetoproteina è tuttavia complicata dai suoi fisiologici elevati valori nel
neonato (dell’ordine di 1.000.000 di U/ml) che discendono gradualmente e variabilmente normalizzandosi (<10 U/ml) tra 8 e 12 mese
di vita. I valori normali dell’alfa-fetoproteina necessitano inoltre di
correzione per età gestazionale, in quanto esponenzialmente più
elevati nei prematuri. Inoltre, i pazienti BWS hanno costitutivamente valori di concentrazione della proteina mediamente più elevati
dei bambini sani e la discesa della sua concentrazione è più lenta.
Per tutti questi fattori e per via della rapidità di sviluppo dell’epatoblastoma i dosaggi dell’alfa-fetoproteina devono essere seriati (per
confermare la discesa nel tempo) e ravvicinati (2-3 mesi, per essere efficaci nella diagnosi di epatoblastoma). Inoltre, devono essere
adottati specifici valori di riferimento (Mussa, 2011) possibilmente
corretti per età gestazionale.
Emiperplasia corporea isolata
L’emiperplasia corporea isolata, precedentemente denominata anche emi-ipertrofia, è definita clinicamente come la crescita eccessiva ed asimmetrica di una parte del corpo. Questa forma di iperaccrescimento può coinvolgere un intero emilato del corpo o essere
localizzata (ad un arto più comunemente ma anche all’emivolto o
solo all’emilingua più di rado). Può accompagnarsi a iperplasia degli organi (visceromegalia), eventualmente con una componente di
asimmetria (caratteristica è la presenza di diametri massimi renali diversi tra i due emuntori in corrispondenza con l’emiperplasia
omolaterale del corpo o dell’arto inferiore). La prevalenza di emiiperplasia isolata, variabilmente stimata in 1:13.200-86.000 nascite (Leck, 1969), è difficile da stabilire con precisione, perché molti
casi possono essere così lievi da non essere diagnosticati o possono
essere non evidenti alla nascita e quindi sfuggire ai registri delle
malformazioni congenite.
L’emiperplasia corporea isolata, secondo l’opinione di parecchi autori, costituisce una variante della BWS per via del fatto che può
associarsi talvolta a segni minori della sindrome (nevo flammeo,
visceromegalia), presenta il simile rischio oncologico in termini probabilistici (5,9%) e di istotipi rappresentati, perché anch’essa si presenta comunemente come forma sporadica, e perché è causata dai
medesimi meccanismi molecolari. È da notare come l’emiperplasia
rappresenti uno dei criteri diagnostici della BWS e come possa essere presente (associata ad alre malformazioni ed anomalie) in una
varietà di altri disordini da iperaccrescimento (Hoyme, 1998, Dalal,
2006). Nella sua forma isolata è possibile riscontrare la presenza di
difetti molecolari tipici della BWS in circa il 25% dei casi (15% UPD,
7% LoM-IC2, 3% GoM-IC1) (Bliek, 2008). Si ritiene che l’espressione
della malattia e il basso riscontro di lesioni molecolari consegua alla
presenza di alterazioni molecolari con mosaicismo tissutale (Fig. 4):
è dimostrato come l’applicazione dei medesimi metodi di analisi del
DNA su biopsia del tessuto iperplasico anziché su sangue sia in grado di rilevare percentuali di positività nettamente superiori (Sparago,
2007). Indipendentemente dalla positività o negatività degli accertamenti genetici, la presenza di emiperplasia isolata ha per il clinico
le medesime implicazioni oncologiche della BWS e i pazienti affetti
vengono sottoposti al medesimo screening oncologico (Lapunzina et
al., 2005, Clericuzio et al., 2009).
171
A. Mussa, G. Battista Ferrero
Figura 4.
Rappresentazione schematica di vari gradi di mosaicismo tissutale per le anomalie genetiche riscontrabili nella sindrome di Beckwith-Wiedemann
e nell’emiperplasia corporea isolata. a) Individuo normale; b) Mosaicismo minimo confinato agli organi addominali che si manifesta con nefromegalia monolaterale; c) Mosaicismo dell’emisoma che coinvolge gli organi interni monolateralmente; d) Macrosomia generalizzata con visceromegalia in alto livello di mosaicismo tissutale.
Oltre a possibili problemi estetici, l’emiperplasia può comportare
eventuali complicazioni a seconda della sede di insorgenza. Salvo
rari casi con rilevante emiperplasia linguale e annesse difficoltà di
deglutizione, fonazione e occlusione, di solito l’emiperplasia può
arrecare disturbi quando, insorgendo agli arti inferiori, determina
anche dismetria di grado variabile, che può influire negativamente
sulla deambulazione e sullo sviluppo di scoliosi o atteggiamenti posturali scorretti. Per una dismetria di modesta entità (<1 cm) comunemente non è richiesto alcun trattamento. Scarpe correttive ed altri
dispositivi ortesici sono in genere impiegati per dismetrie comprese
tra 1 e 3 cm, mentre interventi ortopedici di epifisiodesi possono
rendersi necessari per correggere le rare discrepanze maggiori o
per altri casi selezionati.
Sindrome di Simpson-Golabi-Behmel
La sindrome di Simpson-Golabi-Behmel (OMIM # 312870) è una
condizioni con iperaccrescimento generalizzato ad ereditarietà Xlinked caratterizzata da un fenotipo clinico ampiamente sovrapponibile a quello della BWS (Golabi et al., 2013): macrosomia pre-e
post-natale, macrocefalia, facies caratteristica (coarse face, con
ipertelorismo, macrostomia e radice del naso allargata e schiacciata, anomalie labiali), macroglossia, polidattilia, organomegalia,
malformazioni genitali, ritardo neuropsicomotorio ed altre incostanti
anomalie, tra cui ernia diaframmatica, capezzoli sovrannumerari,
difetti malformativi cardiaci, renali ed intestinali, anomalie scheletriche (fusione vertebrale, scoliosi, pectus excavatum, anomalie costali). è associata a aumentato rischio neoplastico (la cui incidenza
è stimata approssimativamente al 10% e riguarda essenzialmente
lo sviluppo di tumore di Wilms, sebbene siano anche stati descritti
172
altri istotipi) (Cottereau et al., 2013, Mateos et al., 2013). Alterazioni
nell’espressione del gene codificante la proteina glypican-3 (GPC3)
sono causative della sindrome (Neri et al., 1996). La proteina è un
proteoglicano eparansolfato ancorato alla membrana cellulare con
un glicosilfosfatidilinositolo: studi dimostrano come sia una molecola con funzione recettoriale coinvolta nel pathway del signalling
dell’IGF2 con azione modulante e un importante ruolo nel controllo
della crescita dei tessuti di derivazione mesodermica (Bentov et al.,
2004). Il recettore GPC3 modulerebbe localmente il ruolo accrescitivo dell’IGF2 (Cheng et al., 2008). Questo spiega come mutazioni
in GPC3 con perdita di funzione della proteina glypican-3 o delezioni del gene causino il quadro clinico e l’ampia sovrapposizione
fenotipica della sindrome di Simpson-Golabi-Behmel con la BWS
(Garavelli et al., 2012). L’espressività clinica è variabile, da forme
con severe malformazioni e letali alla nascita (fino al 50% dei casi
maschili) fino a fenotipi lievi che si riscontrano solitamente nelle
femmine eterozigoti. Le femmine possono presentare manifestazioni cliniche e dismorfismi lievi che facilmente sfuggono all’attenzione
clinica e che vengono comunemente notate in caso di familiarità
per la sindrome di Simpson-Golabi-Behmel. La variabile espressività
clinica osservata nelle femmine è correlata all’inattivazione non casuale del cromosoma X. Le implicazioni oncologiche della sindrome
rendono necessario uno screening ecografico sulla scorta di quello
descritto per la BWS (Lapunzina, 2005). Discusso e poco documentato è il ruolo del dosaggio di marker tumorali.
Sindrome di Perlman
La sindrome di Perlman (OMIM # 267000) si sovrappone ampiamente alla BWS (macrosmia, organomegalia, anomalie malformative re-
Sindromi malformative con iperaccrescimento a evidenza neonatale
nali) dalla quale si distingue per il comune riscontro di macrocefalia
(nella sindrome BWS infatti, la circonferenza cranica è normale, presentando quindi microcefalia relativa), specifiche anomalie faciali (la
più rilevante è il labbro superiore ripiegato all’insù, fronte prominente, occhi infossati e un ampio ponte nasale depresso), un elevato tasso di mortalità infantile (65%), severità delle manifestazioni
cliniche e alta incidenza di tumore di Wilms, spesso in contesto di
nefroblastomatosi con sviluppo di tumori metacroni. Macroglossia,
difetti maggiori della parete addominale e anomalie morfologiche
del padiglione auricolare sono comunemente assenti nella sindrome
di Perlman (Alessandri et al., 2008, Fahmy et al., 1998). Viceversa,
polidramnios, macrosomia fetale, nefromegalia estrema ed ipoglicemie iperinsulinemiche sono caratteristiche fenotipiche più comuni e
generalmente più marcate che nella BWS. L’anomalia molecolare
alla base della sindrome di Perlamn è stata delucidata recentemente
e consiste nella mutazione germinale autosomica recessiva del gene
DIS3L2, che codifica per una ribonucleasi e la cui mancata funzione
risulta in errori mitotici e aumentata proliferazione cellulare (Astuti et al., 2012). Vista l’esiguità dei casi descritti in letteratura, non
esistono chiare indicazioni all’esecuzione di screening oncologico,
anche se sembra ragionevole sottoporre questi pazienti a ecografie
addominali con una cadenza molto ravvicinata (Lapunzina, 2005).
Sindrome di Sotos
Le caratteristiche cliniche principali della sindrome di Sotos (OMIM #
117550) sono l’aspetto faciale caratteristico, la spiccata macrocefalia, la presenza di convulsioni, anomalie morfologiche dell’encefalo
e ritardo dello sviluppo neuropsicomotorio. Circonferenza cranica ed
altezza/lunghezza sono i parametri somatici più interessati dal anomalia di sviluppo, solitamente ampiamente oltre il 97° percentile per
l’età. Manifestazioni cliniche riscontrate incostantemente sono ipotonia ed ittero neonatale, difficoltà di alimentazione nel primo anno
di vita, sporadiche anomalie cardiache e genito-urinarie o scheletriche (scoliosi). L’imaging cerebrale consente di riscontrare frequenti
anomalie del parenchima cerebrale, come dilatazione ventricolare
ed ipoplasia del corpo calloso. L’età ossea avanzata è una caratteristica considerata tipica, presente in più di tre quarti dei soggetti
con diagnosi molecolare (Tatton-Brown et al., 2013, Leventopoulos
et al., 2009). Nella seconda infanzia solitamente le caratteristiche
faciali diventano tipiche: fronte ampia ed alta, attaccatura alta dei
capelli, viso lungo e stretto, rima palpebrale obliqua, mento prominente ed appuntito.
La diagnosi, precedentemente clinica e basata sui criteri diagnostici
di Cole e Hughes del 1994, si basa sul sospetto clinico e la conferma molecolare con ricerca di mutazioni o delezioni (aploinsufficienza)
del gene NSD1 (nuclear SET domain-receptor protein 1) sulla regione cromosomica 5q35. Nei casi familiari l’ereditarietà è di tipo ausomico dominante. È da segnalare come la frequenza di delezioni
sia maggiore nella popolazione giapponese rispetto alla caucasica,
dove costituisce oltre il 50% dei casi osservati. È stata osservata una
correlazione tra genotipo e fenotipo nella sindrome di Sotos, per cui
le cardiopatie congenite, le anomalie urogenitali e il ritardo psicomotorio severo sono più comuni nei casi con microdelezione. Viceversa,
i pazienti con microdelezione presentano generalmente un’iperaccrescimento somatico meno pronunciato rispetto a quelli con mutazione.
Tuttavia è da sottolineare come non sia stata osservata la presenza di
una correlazione tra l’estensione della microdelezione e la severità del
fenotipo clinico e come si assista spesso, nell’ambito di casi familiari,
alla presenza di fenotipi spiccatamente diversi per caratteristiche e
gravità di presentazione (Cytrynbaum et al., 2005, Faravelli, 2005).
Il rischio di sviluppo di neoplasie maligne o benigne in pazienti affetti
da sindrome di Sotos è stimato tra il 2 e 4% ed è relativo principalmente all’età evolutiva. I tumori osservati sono il teratoma sacrococcigeo, il ganglioneuroma, il neuroblastoma, la leucemia linfoblastica acuta e il carcinoma polmonare a piccole cellule. Ad oggi non
si hanno raccomandazioni relative allo screening oncologico per i
bambini con sindrome di Sotos, dato che il rischio assoluto è considerato relativamente basso e le neoplasie riscontrate difficilmente inseribili in un programma di screening oncologico (Lapunzina,
2005).
Sindrome di Weaver
Le caratteristiche cardine della sindrome di Weaver (OMIM #
277590) consistono in crescita eccessiva prenatale e postnatale, età
ossea marcatamente avanzata, macrocefalia spiccata, camptodattilia, lieve ritardo dello sviluppo neuropsicomotorio, principalmente
con compromissione della sfera dell’espressione verbale (Neylon et
al., 2012). Non esistono attuali stime sull’incidenza di cancro nella
sindrome, ma viene ritenuto che il rischio sia aumentato rispetto alla
popolazione generale. La sovrapposizione fenotipica con la sindrome di Sotos è marcata e sono riportate in letteratura segnalazioni
di pazienti con caratteristiche fenotipiche della Sindrome di Weaver
e alterazioni molecolari del gene della Sotos (mutazione NSD1). Recentemente, studi di whole-exome sequencing hanno chiarito che la
sindrome di Weaver è un’entità nosologica differente, caratterizzata
geneticamente da mutazioni nel gene EZH2, gene che codifica per
una metiltransferasi istonica che agisce epigeneticamente come repressore della trascrizione genica (Gibson, 2011, Tatton-Brown et
al., 2011).
Macrocephaly capillary malformation
polymicrogyria syndrome
La macrocephaly capillary malformation polymicrogyria syndrome
(MCAP, OMIM # 602501) è caratterizzata da uno spettro di anomalie che includono megalencefalia, crescita eccessiva prenatale,
asimmetria corporea (emiperplasia) o dell’encefalo, malformazioni
vascolari cutanee, sindattilia o polidattilia postassiale, e malformazioni cerebrali con anomalia di Chiari tipo I e corticali con frequente riscontro di polimicrogiria perisilviana (Papetti et al., 2012). La
MCAP era precedentemente nota con il nome di macrocephaly-cutis
marmorata telangiectatica syndrome. La MCAP è un disordine sporadico con iperaccrescimento le cui basi molecolari sono in corso di
definizione: recentemente sono state identificate mutazioni attivanti
sia germinali che postzigotiche in tre geni della cascata di segnale
cellulare del fosfatidilinositolo-3-kinasi (PIK3CA, AKT3 e MTOR). Si
ipotizza che il disordine derivi dall’iperattivazione a mosaico di questa via di trasduzione del segnale intracellulare (Mirzaa et al., 2012,
Rivière et al., 2012).
Il rischio tumorale non è noto, sebbene esistano report che segnalano la possibilità di meningiomi, leucemie e tumore di Wilms. Pare
ragionevole l’esecuzione di frequenti controlli clinici ed ecografie
dell’addome nell’infanzia (Lapunzina, 2005).
Sindrome di Bannayan-Riley-Ruvalcaba
La sindrome di Bannayan-Riley-Ruvalcaba (OMIM # 153480) è una
malattia da iperaccrescimento somatico caratterizzata da macrosomia neonatale, spiccata macrocefalia, macule pigmentate del glan-
173
A. Mussa, G. Battista Ferrero
de, sviluppo di amartomi benigni e lipomi sottocutaneo-viscerali,
emangiomi e polipi intestinali. Dismorfismi (bozze frontali, ipertelorismo, rime palpebrali, epicanto inverso, filtro lungo con il labbro
superiore sottile e bocca larga con relativa micrognazia), lassità
ligamentosa, anomalie scheletriche (pectus excavatum e scoliosi)
e macchie cutanee cafè-au-lait sono caratteristiche aggiuntive frequentemente presenti. Possono associarsi inoltre disturbi neuromuscolari di tipo miopatico dei muscoli prossimali degli arti e sviluppo
neuropsicomotorio ritardato in maniera estremamente variabile.
La sindrome di Bannayan-Riley-Ruvalcaba è estremamente pleiotropica e le sue svariate caratteristiche fenotipiche raramente si
manifestano costantemente in ogni paziente: tipicamente ognuna
delle caratteristiche presenta un ampio spettro di severità venendo
a delineare un vasto ventaglio fenotipico che spazia da forme estremamente severe a forme ad espressività minima. La sindrome era
precedentemente diagnosticata sulla base di criteri clinici, ovvero in
base alla presenza almeno 3 delle 4 principali caratteristiche (macrocefalia, lipomatosi, emangiomi, e pene maculato). Attualmente, i
criteri diagnostici impiegati in passato per la diagnosi di sindrome
di Bannayan-Riley-Ruvalcaba non sono universalmente condivisi e
due delle caratteristiche sono considerate sufficienti per procedere
ad approfondimento molecolare (Hendriks et al., 2003, Hobert et al.,
2009).
La sindrome di Bannayan-Riley-Ruvalcaba è autosomica dominante,
con circa il 40% dei casi da mutazioni de novo. Mutazioni germinali
inattivanti del gene PTEN (phosphatase and tensin homolog gene)
sono riscontrate in circa il 60% degli individui che soddisfano la
diagnosi clinica. PTEN è un oncosoppressore tumorale localizzato
sulla regione cromosomica 10q23.3 e riveste un importante ruolo
nel ciclo di proliferazione cellulare, migrazione e apoptosi. Mutazioni
somatiche del gene sono state riscontrate in svariati tumori solidi
umani, il che spiega l’aumento spiccato di rischio di cancro nella
sindrome di Bannayan-Riley-Ruvalcaba. Attualmente viene inclusa
nella più ampia definizione di PTEN-amartoma tumor syndromes
(PHTS) con la sindrome di Cowden (poliposi intestinatale e predisposizione oncologica), la sindrome di Proteus e Proteus-like e la
sindrome di Lhermitte-Duclos. Tutte le PHTS presentano mutazioni
del gene PTEN e un certo grado di sovrapposizione clinica, anche se
sono comunemente ben delineabili dal punto di vista fenotipico e facilmente distinguibili l’una dall’altra (Mester et al., 2013; Blumenthal
et al., 2008; Eng, 2003).
Il rischio oncologico dei pazienti con sindrome di Bannayan-RileyRuvalcaba è tipicamente aumentato, con spiccata predisposizione a
sviluppare neoplasie maligne e benigne intestinali, tiroidee, uterine
e cancro al seno non solo nell’infanzia ma soprattutto in epoca giovanile. Fino al 30% dei pazienti manifestano coinvolgimento tiroideo
con sviluppo di gozzo multinodulare, adenoma della tiroide, carcinoma tiroideo differenziato non midollare o tiroidite linfocitaria autoimmune. Lo screening oncologico nella BRRs rappresenta un punto
cardine della gestione medica: si suggerisce nell’adulto l’esecuzione
semestrale-annuale di ecografia tiroidea e uterina e/o mammaria
(se non mammografia o risonanza magnetica), esame delle urine
e ricerca del sangue occulto fecale dai 18-25 anni. Sebbene le
neoplasie infantili siano più rare che nel giovane adulto, anche nei
bambini parrebbe opportuno iniziare un simile screening oncologico
riducendo al minimo invasività e medicalizzazione: ecografia tiroidea ed addominale e ricerca di sangue occulto fecale con cadenza
annuale, aggiungedo anche ecografia mammaria dopo la pubertà
(Blumenthal et al., 2008; Lapunzina et al., 2005).
174
Diagnosi differenziale e sovrapposizione fenotipica/
genotipica
Sulla base della prevalenza alla nascita la BWS deve sempre essere la prima sindrome da iperaccrescimento ad essere sospettata in
caso di macrosomia neonatale. La diagnosi differenziale può essere
complessa a causa della variabilità clinica e dell’ampia sovrapposizione fenotipica con le altre sindromi con iperaccrescimento (Baujat,
2005; Mussa 2010; Neylon et al., 2012), sebbene alcune caratteristiche cliniche distintive possano orientare più facilmente verso una
diagnosi corretta (Tab. II). Distintivi dismorfismi facciali non sono
facilmente riconoscibili nei neonati, e il fenotipo può non rendersi
immediatamente palese, ma richiedere una prolungata osservazione clinica prima di poter essere completamente definito. Come già
riportato, la macroglossia, una delle caratteristiche cardine della
BWS, può svilupparsi nei primi mesi di vita o può regredire durante i
primi anni. L’emiperplasia corporea, soprattutto quando di modesta
entità, tende ad essere riconosciuta in epoche successive, durante
l’accrescimento e si osserva raramente nel neonato. Una ecografia
doppler dei vasi del distretto iperplasico è utile per escludere anomalie vascolari responsabili di asimmetria osservate in altre situazioni cliniche contraddistinte da iperaccrescimento localizzato con
iperafflusso ematico. Onfalocele e macroglossia sono caratteristiche
altamente suggestive di BWS, ma entrambi possono essere presenti
anche nella sindrome di Simpson-Golabi-Behmel e nella sindrome
di Perlman. I neonati con crescita eccessiva devono essere inoltre
attentamente valutati alla ricerca di anomalie non evidenti all’esame
obiettivo. Indagini di imaging mirate possono essere utili per supportare la diagnosi: l’età ossea avanzata è comune, ma più spiccata
nella sindrome di Sotos, l’ecografia addominale può rivelare malformazioni renali e organomegalia, la radiografia del torace o l’ecografia cardiaca permettono di identificare la cardiomegalia. Quando la
macrosomia è associata a macrocefalia relativa il sospetto diagnostico deve essere orientato verso le sindromi di Sotos, BannayanRiley-Ruvalcaba, CMAP e Weaver. In presenza di macrocefalia la
risonanza magnetica encefalica è comunemente necessaria: inoltre
specifiche alterazioni possono essere riscontrate in alcune di queste
sindromi (dilatazione ventricolare nella Sotos, polimicrogiria e Chiari
tipo I nella CMAP).
L’inquadramento diagnostico è importantissimo per la definizione del
rischio di ricorrenza, per la prevenzione delle complicanze e per la
programmazione del follow-up. Ogni sindrome da iperaccrescimento presenta caratteristiche, evoluzione, ereditarietà e necessità cliniche differenti. Pertanto la personalizzazione dell’assistenza medica è
mandatoria da un lato per ottimizzare le possibilità di prevenzione e
dall’altro per evitare la medicalizzazione eccessiva. L’avvio ragionato
di un percorso a tappe di specifici test molecolari è fondamentale per
il corretto inquadramento nosologico. Vista l’elevata sovrapposizione clinica di questo gruppo di disordini, la letteratura medica è ricca di osservazioni di casi con discordanza genotipo/fenotipo, come
quadri BWS con genetica molecolare positiva per alterazioni tipiche
della sindrome di Sotos e viceversa. Sono numerose le segnalazioni
di pazienti con fenotipo tipico di sindrome di Weaver e mutazione di
NSD1, così come abbondano le descrizioni di casi con caratteri BWS
e lesioni molecolari tipiche della sindrome di Simpson-Golabi-Behmel.
Le acquisizioni scientifiche in rapida progressione nell’ultimo decennio consentiranno di delineare al meglio le correlazioni tra genotipo e
fenotipo e attualmente, ci si orienta sempre più verso una classificazione nosologica basata sulle lesioni molecolari.
In ogni circostanza, quando non è possibile un chiaro inquadramento
diagnostico della condizione, la gestione medica del caso prescinde
Anomalie caratteristiche
+
Ipotonia neonatale
rare
Malformazioni sistema nervoso centrale
Convulsioni
+
+++
Palatoschisi
Polidramnios
Anomalie
vertebrali, capezzoli
sovrannumerari
-
+++
++
+++
++
+
Malformazioni genitali
-
+
++
-
+
++
-
+++
+++
++
-
+
+++
++
Emiperplasia
Organomegalia
+
++
Ipoglicemia neonatale
+++
+++
Incisure auricolari/pits elicali
Nevo flammeo
Malformazioni cardiache
+++
-
Sindattilia
Macroglossia
+
Polidattilia
+++
Difetti minori della parete addominale
-
+++
Onfalocele
Anomalie scheletriche
++
Anomalie reno-ureterali
Dolicocefalia,
facies triangolare,
fronte prominente,
ipertelorismo
Ponte nasale
depresso, eversione
del labbro superiore
Dismorfismi, solco/
incisura del labbro,
ipertelorismo,
prognatismo,
macrostoma
Ipoplasia centrofaciale, prognatismo,
macrostomia,
macroglossia
Ascite fetale
+++
+++
+
++
-
+
+
-
-
-
-
-
++
-
+
++
++
+++
-
-
+
-
++
++
-
-
-
-
-
++
++
-
++
+++
+++
++
++
+++
+++
+
+++
117550
Macrocefalia
++
267000
S. Sotos
Caratteristiche faciali
312870
130650
S. Perlman
+++
S. Simpson-Golabi
-Behmel
S. BeckwithWiedemann
+++
Iperaccrescimento neonatale
OMIM#
Caratteristiche
Camptodattilia,
anomalie vertebrali
cervicali
-
-
++
-
-
-
-
+
+
+
-
-
-
-
+
+
-
+
Ipertelorismo, volto
e fronte allargati,
micrognazia, incisura
al mento
+++
+++
+++
277590
S. Weaver
Macchie
pigmentate al pene,
tricolemmomie
linguali
+
+
+
-
-
-
+
-
++
-
-
+
-
+
-
-
175
segue
Polimicrogiria, Chiari
tipo I, malformazioni
capillari cutanee
-
+
+++
+
-
+
-
+++
-
+
-
-
++
++
-
-
-
-
Emangiomi al volto,
emiperplasia del
volto, fronte ampia
Bozze frontali, filtro
breve, eversione
labbro superiore, rima
oculare obliqua
-
+
+++
++
602501
Capillary
MalformationMacrocrania
++
+++
+++
153480
S. Bannayan–Riley–
Ruvalcaba
Tabella II.
Caratteristiche cliniche distintive e diagnosi differenziale delle più comuni sindromi da iperaccrescimento. Le caratteristiche delle varie sindromi sono rappresentate con: –, mai presenti; +, osservate occasionalmente; ++, frequenti; +++ molto frequenti
Sindromi malformative con iperaccrescimento a evidenza neonatale
?
PIK3CA, AKT3 e MTOR
~50%
Mutazioni PTEN 60%
~9%
Mutazioni EZH2
2-5%
Mutazioni e delezioni
NSD1
~50%
DIS3L2
~15%
GPC3 (X-linked)
~10%
LoM-IC2 50%, UPD11
20%, GoM-IC1 10%,
Mutazioni CDKN1C 5%,
non noto 15-20%
Wilms
Lipomi
Tumori tiroidei
Polipi intestinali
Emangiomi
Carcinoma
mammella, cervice
e utero
Neuroblastoma
Wilms
Epatoblastoma
Wilms
Epatoblastoma
Adrenocarcinoma
Neuroblastoma
Altri
Wilms
Neuroblastoma
Wilms
Leucemia
?
+++
-
++
?
++
?
++
++
+/-
70%
?
+
20%
S. Bannayan–Riley–
Ruvalcaba
S. Simpson-Golabi
-Behmel
S. BeckwithWiedemann
S. Perlman
S. Sotos
S. Weaver
Capillary
MalformationMacrocrania
A. Mussa, G. Battista Ferrero
dalla diagnosi eziologica. Il follow-up in questo caso è volto alla precoce identificazione delle possibili complicanze tumorali con l’applicazione delle metodiche quali dosaggio seriato dei marker tumorali
ed esecuzione cadenziata di ecografie dell’addome dal momento
che gran parte delle sindromi con iperaccrescimento comporta alta
predisposizione per le neoplasie embrionali (Tab. III) (Lapunzina,
2005). In buona parte di questi casi uno stretto follow-up clinico
genetico-pediatrico consente di delineare la diagnosi eziologica in
una fase successiva.
Conclusioni
Le sindromi da iperaccrescimento rappresentano entità nosologiche complesse, molto variabili nella loro presentazione clinica e con
un’ampia sovrapposizione geno-fenotipica. La disregolazione dei
meccanismi di crescita cellulare che causa questo gruppo di disordini implica quasi costantemente un parallelo aumento del rischio
oncologico. Si tratta di un capitolo della medicina in costante aggiornamento e l’attuale rapido aumento delle conoscenze in materia
della loro definizione molecolare consentirà da un lato l’ampliamento della conoscenza sui meccanismi di accrescimento e oncogenesi, dall’altro una prossima classificazione nosologica dei disordini,
cui conseguirà una migliore definizione delle necessità cliniche. La
conoscenza delle più comuni manifestazioni sindromiche in questo
ambito consente al pediatra di poter avere un elevato sospetto diagnostico e di gestire appropriatamente i casi migliorando sensibilmente le possibilità di prevenzione delle complicanze.
Box di orientamento
Sebbene l’attenzione dei pediatri finora sia stata prevalentemente incentrata sullo scarso accrescimento, nell’ultima decade, sempre maggiore
interesse rivestono le tematiche relative all’accrescimento corporeo eccessivo su base genetica o ambientale. La progressiva delineazione e
catalogazione di specifici disordini caratterizzati da iperaccrescimento
somatico su base genetica è avvenuta di recente, così come recenti
sono le scoperte biologiche relative ai complessi meccanismi molecolari alla base di questi disordini. L’iperaccrescimento somatico frequentemente è associato ad un intrinseco aumento di rischio neoplastico,
per cui specifici programmi di follow-up e sorveglianza clinica sono
impiegati nella pratica clinica al fine di minimizzare i danni derivanti
dalle potenziali complicazioni. La conoscenza dei principali e più comuni quadri clinici di presentazione delle sindromi da iperaccrescimento
e delle indagini molecolari indispensabili per confermare i sospetti è
di rilevante importanza per il pediatra. Paradigmatica è la sindrome di
Beckwith-Wiedemann, la più comune di queste condizioni, per la quale
il livello di sospetto clinico deve essere elevato.
176
Anomalie genetiche
Rischio tumorale
Predisposizione oncologica
Ritardo neuropsicomotorio
Mortalità neonatale
Caratteristiche
continua Tabella II.
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Sindromi malformative con iperaccrescimento a evidenza neonatale
Tabella III.
Proposta di follow-up ed accertamenti per screening oncologico e delle complicanze nei pazienti con iperaccrescimento sindromico. Evidenza
ed accordo scientifico esiste per la sindrome di Beckwith-Wiedemann e l’emiperplasia corporea isolata. Per gli altri disordini da iperaccrescimento, per i quali non sono attualmente disponibili evidenze scientifiche completamente esaustive, viene riportato quanto effettuato presso il
nostro centro sulla base dell’esperienza,di quanto proposto in letteratura e delle opinioni di esperti in materia. Per approfondimenti si rimanda
a Lapunzina et al., 2005.
Sindrome
Accertamenti e tempistiche nel follow-up
Beckwith-Wiedemann
Esame obiettivo + ecografia addominale ogni 3 mesi sotto i 5 anni di età, ogni 4 mesi dai 5 ai 10 anni
Dosaggio alfa-fetoproteina ogni 2-3 mesi sotto i 5 anni di età
Emocromo, glicemia, creatinina, calciuria/creatininuria, esame urine ogni 6 mesi sotto i 5 anni di età e almeno
1 volta l’anno oltre i 5 anni di vita.
Emiperplasia isolata
Simpson-Golabi-Behmel
Esame obiettivo + ecografia addominale ogni 3 mesi sotto i 5 anni di età, ogni 4 mesi dai 5 ai 10 anni
Dosaggio alfa-fetoproteina ogni 2-3 mesi sotto i 5 anni di età
Emocromo, glicemia, creatinina, esame urine ogni 6 mesi sotto i 5 anni di età
e almeno 1 volta l’anno oltre i 5 anni di vita.
Perlman
Esame obiettivo + ecografia addominale ogni 2 mesi sotto i 5 anni di età, ogni 3-4 mesi dai 5 ai 10 anni
Emocromo, glicemia, creatinina, esame urine ogni 4-6 mesi sotto i 5 anni di età
e almeno 1 volta l’anno oltre i 5 anni di vita.
Sotos
Esame obiettivo + emocromo + esame urine + ecografia addominale ogni 6 mesi
RMN encefalo basale e su indicazione
Weaver
Bannayan–Riley–Ruvalcaba
Ecografia tiroidea, e dalla pubertà uterina e mammaria, ogni 6-12 mesi
Sangue occulto fecale, emocromo, ogni anno
TSH fT4 anticorpi anti-tireoperossidasi e anti-tireoglobulina ogni anno
RMN encefalica periodicamente (2-4 anni) in epoca pediatrica
Nell’adulto inoltre esame urine con citologico e citologico cervice uterina ogni 6-12 mesi,
visita senologica con mammografia/ecografia/RMN mammaria ogni anno
Capillary Malformation-Macrocrania
Visita clinica ogni 4 mesi nella prima infanzia e ogni 6-12 mesi dai 5 anni di età,
ecografia addome ogni 4 mesi fino a 8-10 anni di vita, successivamente 1 volta l’anno.
RMN encefalo ogni 6-12 mesi nei primi 3 anni di vita salvo diversa indicazione
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Corrispondenza
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Polonia, 94 – 10126, Torino. Email: [email protected]; [email protected]
178
Luglio-Settembre 2013 • Vol. 43 • N. 171 • Pp. 179-185
Frontiere
Il contributo della genetica alla comprensione
delle basi eziopatogenetiche del diabete di tipo 1
Maristella Pitzalis1, Magdalena Zoledziewska1, Francesco Cucca1,2
1
2
Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica (IRGB) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), Monserrato
Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Sassari, Sassari
Riassunto
Il diabete di tipo 1 (DT1) è causato dalla distruzione selettiva delle β cellule pancreatiche producenti l’ormone insulina da parte di linfociti T autoreattivi. Il
processo autoimmune alla base della malattia dipende dalla complessa correlazione tra numerose varianti genetiche di suscettibilità distribuite nell’intero
genoma e fattori ambientali di rischio ancora sconosciuti. La ricerca dei fattori genetici coinvolti nella malattia è iniziata nei primi anni ’70 attraverso una
lunga serie di studi di associazione, che hanno portato all’identificazione di varianti di rischio nel complesso maggiore di istocompatibilità (MHC-HLA) e,
nei 30 anni successivi, a livello dei geni INS, CTLA4, PTPN22 e IL2RA. Tali studi si basavano sul disegno sperimentale del gene candidato e sul successivo
mappaggio fine, un laborioso approccio genetico-statistico volto ad identificare le varianti casuali – ovvero quei polimorfismi genici il cui prodotto proteico è
direttamente implicato nella patogenesi della malattia. A partire dal 2007, gli studi di associazione su tutto il genoma (GWAS) hanno rivoluzionato la ricerca
delle basi genetiche della malattia. Tali studi, attraverso un approccio più sistematico in grado di analizzare centinaia di migliaia di varianti in casistiche di
decine di migliaia d’individui, hanno finora svelato oltre 50 loci di suscettibilità per la malattia. Nel loro complesso, questi risultati delineano con sempre
maggiore chiarezza i complessi meccanismi alla base della patogenesi della malattia.
Summary
Type 1 diabetes (T1D) results from the T lymphocytes’ attack on the insulin-producing beta cells. This autoimmune process depends on the complex interplay between several co-inherited susceptibility alleles interspersed throughout the genome and still unknown environmental factors. The role of specific
variants within the MHC/HLA region, in the insulin gene (INS) promoter region and at the CTLA4, PTPN22 and IL2RA genes have been clarified through a long
series of association studies which began in the early ’70s. These studies were largely based on a candidate gene approach with subsequent fine mapping
to reduce the associated regions to the essential elements, whose protein products are directly involved in disease pathogenesis. Since 2007, Genome Wide
Association Studies (GWAS), based on the analyses of tens of housands of individuals and interrogating hundreds of thousands of variants, have revolutionized the analysis of the genetic component of T1D, leading to the discovery of over 50 susceptibility loci. Overall these results have highlighted mechanisms
and pathways involved in disease pathogenesis.
Parole chiave: diabete di tipo 1, studi di associazione su tutto il genoma, varianti genetiche
Key words: type 1 diabetes, genome wide association study, genetic variants
Metodologia della ricerca bibliografica effettuata
La ricerca bibliografica effettuata su PubMed ha preso in esame la
letteratura scientifica recente sulla genetica del diabete di tipo 1
(DT1) e qualche richiamo su lavori scientifici antecedenti utili per
inserire le nuove acquisizioni in un contesto storico.
Introduzione
Il DT1 è un esempio paradigmatico di malattia multifattoriale causata
dal concorso di numerosi fattori di rischio genetici in presenza di fattori ambientali permissivi ancora sconosciuti. Che i geni abbiano un ruolo importante nel conferire suscettibilità al DT1 è noto da molto tempo,
come dimostrato dall’osservazione elementare che il rischio di malattia aumenta quanto più vicino è il grado di parentela con una persona
affetta. Il rischio di malattia in un fratello e in un gemello monozigote
di un paziente con DT1 è per esempio, rispettivamente circa 15 e
100 volte più alto rispetto a quello della popolazione generale. Negli
ultimi decenni quest’osservazione epidemiologica è stata corroborata
da risultati sperimentali, a cominciare da quelli accumulati a partire
dai primi anni ’70 che hanno mostrato con risoluzione via via maggiore l’associazione di varianti nella regione del complesso maggiore di
istocompatibilità (MHC-HLA) con la malattia. Successivamente sono
stati identificati altri fattori di rischio, in particolare alcune varianti polimorfiche nella regione promotrice del gene che codifica per l’insulina
(INS) (Bell et al., 1984), nel gene codificante per la proteina Cytotoxic
T-Lymphocyte Antigen 4 (CTLA-4) (Ueda et al., 2003), nella proteina
tirosina fosfatasi N22 espressa nei linfociti (PTPN22) (Bottini et al.,
2004) e nel recettore alfa dell’interleuchina-2 (IL2RA, CD25) (Vella et
al., 2005). A fronte di questi successi la ricerca delle basi genetiche
del DT1, così come quella di altre malattie multifattoriali, è stata per
lungo tempo caratterizzata da una lunga serie di studi contrassegnati
da evidenze deboli e mai replicate.
Lo studio delle componenti genetiche del DT1 e di altre malattie
a trasmissione ereditaria multifattoriale, ha subito finalmente una
rapida accelerazione nel corso degli ultimi anni grazie all’avvento
degli studi di associazione sull’intero genoma (GWAS). Questo metodo d’analisi ad alta risoluzione, grazie ad un incremento considerevole del potere statistico, ha consentito l’identificazione di oltre
50 associazioni inequivocabili tra specifiche varianti polimorfiche
ed aumento di rischio di malattia (Figg. 1 e 2). Tali studi si basano
su ampie casistiche di diverse migliaia e in molti casi decine di
migliaia di individui nei quali viene stabilito il profilo genetico a
livello di diverse centinaia di migliaia e più recentemente di mi-
179
M. Pitzalis, M. Zoledziewska, F. Cucca
Figura 1.
In tabella sono stati riportati tutti i loci inequivocabilmente associati al diabete di tipo 1 - ovvero con significatività statistica (Pvalue) <5x10-8 o con
più moderata evidenza (Pvalue <10-4) se la stessa regione è già un locus confermato in altre malattie autoimmuni (www.t1dbase.org modificata).
Chiave di lettura per i nomi delle malattie. BD- Disordine Bipolare, Celiac- Celiachia, Crohn- Malattia di Crohn, Graves- Malattia di Graves, IBD- malattia infiammatoria intestinale, JRA- Artrite Reumatoide giovanile, MS- Sclerosi Multipla, PBC- Cirrosi Primaria Biliare, Psoriasis- Psoriasi, RA- Artrite
Reumatoide, SLE- Lupus Eritematosus Sistemico, SS- Sclerodermia sistemica, Sjogren- Sindroma di Sjogren , Spondylitis- spondilite anchilosante,
T1D- Diabete di tipo 1, T2D- Diabete di tipo 2, UC- Colite Ulcerativa, Vitiligo- Vitiligine
180
Il contributo della genetica alla comprensione delle basi eziopatogenetiche del diabete di tipo 1
lioni di varianti polimorfiche a singolo nucleotide (SNP). Tutto ciò
è reso possibile dagli avanzamenti tecnologici ed analitici legati
all’avvento dei microchip, al completamento del sequenziamento
dell’intero genoma umano e successivi sforzi volti a caratterizzare con una risoluzione sempre maggiore la variabilità genetica in
differenti popolazioni. Appare anche evidente che la componente
genetica del DT1 non spiega interamente l’eziopatogenesi della
malattia. La sua incidenza è infatti costantemente aumentata nei
paesi sviluppati a partire dal dopoguerra e previsioni allarmanti
prospettano che, entro il 2020, l’incidenza potrebbe raddoppiare
nei bambini sotto i 5 anni di età (Patterson et al., 2009). Questo
aumento di incidenza sta avvenendo in un arco di tempo troppo
breve – corrispondente a poche generazioni – per poter essere
causato da cambiamenti nell’assetto genetico, che per insorgere
e fissarsi nella popolazione richiede tempi evoluzionistici. È molto
verosimile che modifiche del contesto ambientale nel corso degli
ultimi ’60 anni abbiano giocato un ruolo nell’aumento dell’incidenza. La ricerca dei fattori ambientali è peraltro complicata dalla
lunga latenza tra l’inizio del processo alla base della malattia e il
suo esordio clinico quando oltre l’85% delle cellule beta pancreatiche sono andate progressivamente distrutte. Un’altra difficoltà
nella ricerca dei fattori ambientali predisponenti deriva dalla natura sostanzialmente non rigenerativa dell’organo bersaglio dell’attacco autoimmune: le cellule beta pancreatiche. Questi fattori
impediscono l’introduzione di test basati sulla somministrazione
e rimozione di potenziali fattori ambientali scatenanti, che hanno
consentito l’identificazione del glutine come fattore ambientale casuale della celiachia.
A dispetto di tali difficoltà è stato da lungo tempo proposto un ruolo
predisponente per specifici RNA virus, in particolare specifici sierotipi di virus Coxsackie, il cui coinvolgimento nella malattia è supportato anche da evidenza più recente (Dotta et al. 2007). Ma lo
spettro dei fattori ambientali coinvolti sia in senso predisponente
che protettivo potrebbe essere più ampio. Nei paesi sviluppati, tra gli
anni ’40 e ’50 c’è stato un netto miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie che ha ridotto l’incidenza di alcune malattie, specie
batteriche e parassitarie. È stato quindi ipotizzato, in base alla cosiddetta “teoria igienica” che l’aumentata incidenza di malattia sia
legata alla scomparsa o comunque riduzione d’infezioni protettive.
Inoltre, durante i ~200.000 anni trascorsi dalla comparsa della nostra specie (Francalacci et al., 2013) il nostro sistema immunitario si
è evoluto per far fronte ad infezioni di vario tipo. Questo meccanismo
potrebbe aver contribuito alla selezione di varianti genetiche utili per
le nostre difese contro i patogeni ma attualmente, in un ambiente
molto meno settico, potenzialmente dannose in quanto in grado di
determinare una condizione di iper-attivazione del sistema immune
predisponente nei confronti dell’autoimmunità. Tale modello potrebbe essere supportato da alcune nuove associazioni, come quella tra
Figura 2.
Rappresentazione grafica dei meccanismi di immunotolleranza coinvolti nell’eziopatogenesi del diabete di tipo 1. Le molecole in nero parteciperebbero all’attivazione delle cellule T mediante il loro recettore (TCR) o con eventi di segnalazione a valle, mentre le molecole in rosso agirebbero
da inibitori di questi processi.
181
M. Pitzalis, M. Zoledziewska, F. Cucca
Figura 3.
Rappresentazione grafica dei loci noti per il diabete di tipo 1 (www.t1dbase.org modificata). In rosso i loci identificati mediante studi di associazione
su tutto il genoma (GWAS). In nero sono stati invece indicati i geni svelati mediante approcci di associazione del gene-candidato.
il DT1 e una specifica variante puntiforme rs3184504, Arg262Trp,
del gene SH2B3, la cui fissazione nelle popolazioni occidentali sembra il risultato di una forte selezione positiva legata all’incremento di
specifiche cellule del sistema immune (Orrù et al. 2013).
Si dovrà comunque tener presente che l’effetto dei geni, anche sommato a quello dei fattori ambientali, non potrà spiegare completamente la malattia, come testimoniato dal fatto che gemelli monozigoti (MZ), geneticamente identici, e che spesso condividono anche
l’ambiente in cui crescono dal concepimento fino all’esordio della
malattia, sono concordanti rispetto alla malattia in circa il 50% dei
casi. Anche considerando modelli murini di malattia, in particolare
il topo diabetico non-obeso (NOD), animali geneticamente identici, che condividono negli stabulari lo stesso ambiente, hanno una
condivisione della malattia inferiore al 100%. Deve esistere quindi
anche una componente stocastica e/o epigenetica in grado di influenzare l’insorgenza della malattia.
Dai geni ai meccanismi
Coerentemente con la natura autoimmune della malattia, la maggior parte dei loci di suscettibilità per il DT1, fino ad ora identificati,
mappa in geni che influenzano la risposta immunitaria. Tali varianti
identificano una seria di vie patogenetiche implicate nello sviluppo
della malattia.
La via patogenetica di maggior rilievo che emerge dagli studi genetici fin qui effettuati riguarda i meccanismi di presentazione antigenica a livello centrale (timo) e periferico (isole pancreatiche e linfo-
182
nodi satelliti) mediata da specifiche varianti alleliche e aplotipiche
codificate a livello della regione HLA-MHC. In particolare, durante
l’induzione intra-timica dell’immunotolleranza le molecole MHC partecipano alla selezione positiva e negativa dei linfociti T attraverso la
presentazione di auto-antigeni espressi nel timo.
Il coinvolgimento della regione HLA nella predisposizione al DT1 fu
dimostrato inizialmente nei primi anni ’70 utilizzando un approccio
del tipo gene candidato e un disegno sperimentale caso-controllo
(Cudworth e Woodrow, 1974). L’elevato grado di correlazione genetica (linkage disequilibrium) delle varianti presenti nella regione
che tende a mantenere insieme nella popolazione specifiche combinazioni di alleli di classe I, III e II ha reso difficoltosa l’attribuzione
della suscettibilità a specifici loci e varianti. Appare ora evidente che
specifici aplotipi codificati dai loci di classe II HLA-DQB1 e -DRB1 e
dai loro ortologhi murini IA e IE, sono primariamente associati con
la malattia e rappresentano la principale componente genetica di
predisposizione nella regione. Un ulteriore contributo è apportato da
una combinazione di geni di suscettibilità, cosiddetti “modificatori”,
localizzati a livello del locus di classe II HLA-DPB1 (Cucca et al.,
2001a) e della classe I (Nejentsev et al., 2007).
L’associazione della regione HLA con la malattia mostra un continuum che va da aplotipi predisponenti ad aplotipi fortemente protettivi.
Uno degli aspetti distintivi del DT1 è rappresentato dai gradi estremi
di resistenza alla malattia conferiti da specifiche varianti alleliche e
aplotipiche, cosiddette protettive (Cucca et al., 1995, Cucca et al.,
2001b). Risultati simili sono stati ottenuti sperimentalmente anche
nel modello murino di DT1: il topo NOD.
Il contributo della genetica alla comprensione delle basi eziopatogenetiche del diabete di tipo 1
L’analisi della struttura proteica codificata dagli alleli MHC di suscettibilità per il DT1 nell’uomo e nel topo ha mostrato rimarchevoli
gradi d’identità. Marcate similitudini sono state osservate anche fra
gli alleli di protezione umani e murini. I meccanismi patogenetici alla
base della resistenza e della suscettibilità alla malattia sono quindi
verosimilmente conservati in specie diverse (Cucca et al., 2001b).
Nel loro insieme i dati suggeriscono un modello patogenetico in
cui la protezione dalla malattia sarebbe direttamente proporzionale
all’affinità ed efficienza del legame fra le molecole MHC, il peptide
diabetogenico e il recettore dei linfociti T (TCR) nel timo (Ridgway et
al., 1998). Le molecole MHC protettive esibirebbero grande affinità
per il peptide diabetogenico e per questa ragione determinerebbero
una selezione negativa, o delezione timica, dei linfociti in quanto se
questi dovessero uscire dal timo sarebbero ad altissimo rischio di
autoreattività (Cucca et al., 2001b). Al contrario, in presenza delle
molecole predisponenti, i linfociti T diabetogenici sfuggirebbero alla
delezione intratimica, in quanto presenterebbero una minore affinità
per il peptide diabetogenico. Le molecole predisponenti sarebbero
comunque in grado di presentare un autoantigene diabetogenico ai
linfociti T autoreattivi circolanti a livello nell’organo bersaglio: le cellule beta pancreatiche.
Le evidenze sperimentali indicano che esisterebbero, inoltre, altri meccanismi mediati da molecole MHC protettive quali la selezione positiva
di linfociti T con funzioni di tipo soppressivo/regolatorio (Luhder et al.,
1998). Esisterebbe quindi un sistema sofisticato con molteplici punti di
controllo dell’autoimmunità: delezione clonale dei linfociti T autoreattivi
nel timo e generazione di risposte regolatorie/soppressive in grado di intercettare eventuali linfociti T autoreattivi presenti nel sangue periferico.
Il DT1 può essere considerato quindi come una malattia causata da un
difetto di questo complesso meccanismo volto al mantenimento della
tolleranza verso uno specifico autoantigene pancreatico.
Numerose evidenze indicano che l’insulina e i suoi precursori rappresentano gli autoantigeni primari nel DT1. Tale modello è supportato anche dai dati genetici. Il gene INS rappresenta il locus di suscettibilità con
più alto effetto dopo la regione HLA e la sua associazione è nota fin dal
1984 attraverso uno studio del tipo gene-candidato (Bell et al., 1984).
Studi successivi hanno evidenziato che tre varianti, rappresentate da
una sequenza ripetuta VNTR e dagli SNP -23HphI (rs689) e +1140A/C
(rs3842753) localizzate a livello del gene INS e in forte linkage disequilibrium tra di loro, sono le più associate con il DT1 nella regione (Barratt et
al., 2004). Sebbene il VNTR rimanga per i suoi potenziali effetti sulla trascrizione del gene il polimorfismo causale più plausibile – con gli alleli
“corti” (di classe I con 26-63 ripetizioni) predisponenti e gli alleli “lunghi”
(di classe III con 140-200 ripetizioni) protettivi – è stato recentemente proposto che anche la variante rs689 abbia importanti effetti sulla
trascrizione del gene INS e possa rappresentare anch’essa la variante
causale (Kralovicova e Vorechovsky, 2010). A prescindere dall’identificazione della specifica variante responsabile dell’associazione con la malattia, esiste una chiara evidenza a supporto del fatto che le tre varianti
predisponenti nei confronti del DT1 correlino con una ridotta espressione della preproinsulina nel timo, che favorirebbe la selezione positiva di
linfociti T autoreattivi, mentre gli alleli protettivi correlerebbero con una
sua incrementata espressione timica che faciliterebbe i meccanismi di
induzione della tolleranza immunologica nei suoi confronti (Pugliese et
al., 1997, Vafiadis et al., 1997).
Altre associazioni genetiche con il DT1 evidenziano ulteriori meccanismi coinvolti nell’eziologia del DT1. In particolare, è stata descritta
(Bottini et al., 2004) e mappata finemente (Zoledziewska et al., 2008)
la variante 1858 C>T del gene PTPN22. Questo ultimo codifica per
una tirosina fosfatasi specifica delle cellule linfoidi (Lymphoid Phosphatase, Lyp) implicata nella regolazione negativa dell’attivazione
T cellulare. La variante 1858 C>T, che rappresenta il terzo segnale
di associazione più forte nel DT1 dopo l’HLA e il gene INS, causa
una sostituzione dell’amminoacido arginina in triptofano nel codone
620 della proteina Lyp (Vang et al., 2005, Bottini et al., 2006), che
dà luogo a una mutazione con acquisizione di funzione con effetto
negativo nei confronti dell’attivazione dei linfociti T.
Come PTPN22 anche i geni CTLA4 e UBASH3A sono importanti regolatori negativi dell’attivazione delle cellule T. CTLA4 codifica per un
corecettore transmembrana espresso sulla superficie dei linfociti T
CD4 e CD8 attivati. Esso ha la funzione d’inibire la proliferazione dei
linfociti T, promuovendone l’apoptosi attraverso l’incremento della
produzione di IL-2. UBASH3A è specificamente espresso nei linfociti
e codifica per una fosfatasi che regola negativamente l’attivazione del TCR. L’allele di rischio per il DT1 (Concannon et al., 2008) è
associato ad acquisizione di funzione e studi sperimentali indicano
che esso incrementi l’espressione di UBASH3A (Dixon et al., 2007).
Appare quindi evidente che nel loro insieme le varianti di rischio per
il DT1 dei geni PTPN22, UBASH3A e CTLA4, determinano, attraverso
un’acquisizione di funzione di un segnale inibitorio, una ridotta attivazione del TCR (Fig. 3). Una possibile spiegazione per questi risultati complicati è legata al ruolo chiave del timo nell’induzione della
tolleranza – dove una ridotta attivazione delle cellule T determinerebbe la maturazione e fuoriuscita dal timo di linfociti autoreattivi e
viceversa un’incrementata attivazione delle cellule T risulterebbe in
una deplezione dei linfociti T autoreattivi --e/o a livello di cellule con
funzioni regolatorie – dove l’iperattivazione si accompagnerebbe ad
un incremento del loro effetto protettivo (Fig. 4).
Tra i loci più recentemente descritti in associazione al DT1 sono presenti geni legati alla produzione di citochine e dei loro recettori: IL2,
IL10, IL27,CCR5, IL2RA e IL2RB (Barrett et al., 2009, Smyth et al.,
2008, Cooper et al., 2008).
Uno dei meccanismi principali nell’eziopatogenesi del DT1 è la regolazione genetica della produzione di IL-2 e del legame con il suo
recettore, codificato da tre geni; IL2RA(CD25), IL2RB, IL2G. Il maggiore
effetto genetico è del locus IL2RA (rischio relativo >3.5) che codifica per la subunità alfa del recettore dell’IL-2. Le varianti alleliche di
suscettibilità al DT1 a livello di IL2RA determinano una riduzione di
una particolare sottoclasse di cellule T memoria caratterizzate da una
marcata espressione della molecola CD25 e dalla mancata espressione del fattore trascrizionale FOXP3 (CD45-, CD25hi non-regulatory T
cells) (Dendrou et al., 2009; Orrù et al. 2013). Queste cellule eserciterebbero il loro ruolo protettivo grazie alla loro capacità di produrre
localmente IL-2 che è a sua volta essenziale per la sopravvivenza e la
proliferazione delle cellule T regolatorie. La carenza di IL-2 causa una
ridotta attivazione delle cellule Treg e conseguente alterazione della
tolleranza periferica. Sono attualmente in corso trial clinici di fase I
e II allo scopo di valutare i rischi e benefici della somministrazione di
basse dosi di IL-2 per indurre/stimolare le cellule Treg nei pazienti DT1
(clinicaltrials.gov/ct2/show/NCT01353833).
Coerentemente con l’ipotesi che gli RNA virus giochino un ruolo
scatenante nella patogenesi del processo autoimmune, un’altra categoria di loci recentemente associati alla malattia comprende geni
che svolgono un ruolo nella risposta immunitaria antivirale: IFIH1
(Interferon Induced with helicase C domain 1) ed EBI2 (Ebstein Barr
Virus induced 2) (Barrett et al. 2009, Heinig et al 2010). Di particolare interesse l’associazione con IFIH1 che codifica per una proteina citoplasmatica in grado di riconoscere l’RNA dei picornavirus
e di mediare l’attivazione della risposta immune anche attraverso
l’incremento dell’espressione delle molecole MHC di classe I a loro
volta essenziali per il riconoscimento e la distruzione, da parte delle
cellule T Citotossiche CD8+, delle cellule infettate dai virus. In parti-
183
M. Pitzalis, M. Zoledziewska, F. Cucca
colare è stata riportata un’associazione negativa con il DT1, e quindi
un effetto protettivo nei confronti della malattia, da parte di varianti
rare di IFIH1 associate ad una perdita di funzione del gene (Nejentsev et al., 2009). Questo indicherebbe che l’iperattivazione di questo
sistema di risposte agli RNA virus, scatenato dalle stesse infezioni
virali, è predisponente nei confronti del DT1.
Conclusioni e prospettive future
Nel corso degli ultimi anni gli studi GWAS hanno migliorato considerevolmente le nostre conoscenze sulle basi genetiche del DT1
dimostrando inequivocabilmente il coinvolgimento di numerosi
geni associati con questa e altre malattie autoimmuni. I prodotti
proteici dei geni associati suggeriscono inoltre alcune delle principali vie patogenetiche implicate nella patogenesi della malattia
e confermano una complessa disregolazione del sistema immune.
Nonostante questi successi, una parte della componente genetica della
malattia rimane ancora inspiegata ed è probabilmente legata a varianti
rare per le quali gli studi fin qui effettuati non possedevano adeguato potere statistico. La dissezione delle componenti genetiche della malattia
potrà essere completata grazie ad un’ancora più elevata “estrazione”
dell’informazione genetica dovuta ai nuovi approcci di sequenziamento
dell’intero genoma, accoppiati ad un ulteriore aumento della casistica
esaminata, nell’ordine di >50.000 pazienti e >50.000 controlli.
Infine, nonostante gli evidenti progressi degli ultimi anni, la nostra visione dei meccanismi implicati nel DT1 è ancora parziale, con molti e
importanti dettagli ancora da delucidare. Infatti, alcune delle varianti
associate con la malattia risultano criptiche, ovvero senza una chiara
correlazione con i meccanismi alla base della patologia in esame. Da ciò
deriva la necessità di integrare i disegni sperimentali esistenti con nuovi
approcci metodologici. Particolarmente promettente appare in tal senso
lo studio combinato di un tratto dicotomico quale il DT1 e di endo-fenotipi potenzialmente correlati, rappresentati da tratti quantitativi misurabili,
quali i livelli delle cellule e delle molecole circolanti del sistema immune.
Figura 4.
Rappresentazione grafica del meccanismo di immunotolleranza nel timo. A livello della corticale timica vengono selezionati i linfociti T in base al
grado di affinità tra il loro recettore (TCR) ed il complesso HLA – autoantigene. I linfociti T con bassa affinità andranno incontro a morte per mancata
stimolazione, mentre quelli che esibiscono media o alta affinità verranno selezionati positivamente. Nella midollare timica avviene una seconda
fase di selezione; in questo processo i linfociti T che esibiscono alta affinità per il complesso HLA – auto antigene moriranno per delezione clonale.
I soli linfociti T che esibiscono media o bassa affinità completeranno il processo di maturazione ed usciranno dal timo.
184
Il contributo della genetica alla comprensione delle basi eziopatogenetiche del diabete di tipo 1
L’identificazione di associazioni genetiche coincidenti, ovvero la stessa
variante implicata sia nel rischio di malattia che nell’influenzare i livelli
di una cellula o molecola, non solo rivelerà meccanismi e vie patogenetiche alla base del DT1 ma consentirà anche l’individuazione di nuovi
bersagli terapeutici per futuri programmi di prevenzione della malattia.
Ringraziamenti
Questo lavoro e dedicato alla memoria del Prof. Antonio Cao e del Prof.
Renzo Galanello.
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
Il diabete di tipo 1 è una patologia autoimmune multifattoriale complessa. L’eziopatogenesi è definita dall’interazione della componente genetica e della componente ambientale. Fin dal 1970 è noto il forte contributo di varianti alleliche e aplotipiche codificate a livello della regione HLA e definite nel corso degli anni successivi con sempre maggiore risoluzione, insieme ad alcune altre varianti a livelli dei geni INS, PTPN22, CTLA4 e IL2RA localizzate al di fuori della regione HLA.
Cosa sappiamo adesso
Gli studi recenti di associazione su tutto il genoma hanno notevolmente incrementato le conoscenze sui fattori genetici implicati nel diabete di tipo 1.
Attualmente sono noti oltre 50 loci (www.t1dbase.org) di predisposizione alla malattia. Nel loro insieme, i dati genetici esistenti suggeriscono alcuni dei
principali meccanismi coinvolti nella predisposizione e protezione nei confronti del DT1, che sono in parte supportati anche da studi funzionali mirati
sulle cellule primarie (in particolare linfociti T) dei pazienti e su opportuni modelli murini di malattia.
Quali ricadute sulla pratica clinica
La conoscenza approfondita delle basi genetiche del diabete di tipo 1 rappresenta la chiave d’accesso per la definizione dei meccanismi e delle vie coinvolte
nell’eziopatogenesi della malattia. Sebbene sia già possibile selezionare in fase preclinica bambini a forte rischio genetico di sviluppare la malattia, in assenza di
una terapia preventiva efficace le ricadute sulla pratica clinica rimangono ancora limitate. Le future ricadute cliniche includeranno la selezione di bersagli terapeutici
sempre più numerosi e sempre più specifici per la terapia preventiva e la stessa stratificazione degli individui a rischio in base all’assetto genetico individuale.
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Corrispondenza
Francesco Cucca, Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica (IRGB) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), Cittadella Universitaria di Cagliari 09042 Monserrato CA. Tel.: +39 070 6754543, Fax: +39 070 6754652. E-mail: [email protected]
185
Luglio-Settembre 2013 • Vol. 43 • N. 171 • Pp. 186-191
tavola rotonda
Le specialità pediatriche oggi e domani
Tavola Rotonda
70° Congresso della Società Italiana di Pediatria (Bologna, 10 maggio 2013)
a cura di Fabio Sereni
Fabio Sereni (Milano): Considero doveroso aprire questa Tavola Rotonda ringraziando Giovanni Corsello e il
direttivo della Società Italiana di Pediatria per avere dato la possibilità, a noi di Prospettive in Pediatria, di
discutere pubblicamente un tema così importante e cruciale per l’avvenire della pediatria Italiana quale è
quello delle sotto-super specialità, forse più semplicemente delle specialità pediatriche.
Ringrazio anche le personalità che hanno accettato di partecipare alla Tavola Rotonda e il numeroso pubblico
presente, con tanti amici autorevoli, che spero vorranno contribuire alla discussione.
L’importanza di dare un’adeguata risposta, normativa e istituzionale, ai problemi inerenti lo sviluppo e il
Professore Emerito
consolidamento delle specialità pediatriche in Italia a me sembra ovvia. È infatti in dubbio che a fronte della
di Pediatria, Università
presenza, nel nostro Paese, di numerosi gruppi di pediatri specialisti, valorosi e bene affermati anche in camdegli Studi di Milano
po internazionale, sia ancora tutta da istituire una soddisfacente normativa, sia per il piano formativo, che per
quello assistenziale. Abbiamo chiamato a discutere questi problemi non solo personalità pediatriche ma anche non pediatri ma
specialisti di medicina dell’adulto, con i quali la collaborazione non solo è opportuna ma necessaria.
Vorrei che per primo prendesse la parola Alberto Edefonti, non certo per motivi “campanilistici” (è come me di Milano e lavora
nella Clinica che ho per tanti anni diretto), ma perché a mio avviso è un buon esempio di pediatra specialista. Edefonti è non
solo pediatra ma anche nefrologo, dirige un’unità operativa complessa importante, la specialità in cui lavora ha indubbiamente
necessità di connessioni molto strette con l’omologa dell’adulto, e poi è qui presente Giovambattista Capasso, Presidente della
Società Italiana di Nefrologia, che sono sicuro completerà le riflessioni di Edefonti.
La prima domanda che pongo ad Edefonti è la seguente:
F.S.: Nella tua qualità di responsabile di un’importante UOC di
Nefrologia Pediatrica vorrei che innanzitutto ci riassumessi i
motivi per cui ritieni (se lo credi) importante, o necessario, un
rapporto organico con la nefrologia dell’adulto
Alberto Edefonti (Milano): Importante: sì; necessario: sì; organico: sì, e più di quanto non si
sia fatto sinora.
Quali sono le principali ragioni?
La malattia renale è spesso congenita o ereditaria, si manifesta in età pediatrica e prosegue
nell’età adulta, frequentemente con una progresOspedale Maggiore
Policlinico Fondazione sione a insufficienza renale terminale che inizia
IRCCS Ca’ Granda
proprio dall’età pediatrica (i 2/3 dei pazienti in
dialisi in centri pediatrici hanno un’età compresa
tra 12 e 18 anni). La prima diagnosi è quindi fatta dal pediatra e/o
dallo specialista nefrologo pediatra.
Più in dettaglio, oltre il 50% delle cause di insufficienza renale cronica in età pediatrica è costituito da nefrouropatie malformative (dati
Italkid). Non solo, l’origine di malattie cardiovascolari e ipertensione
dell’adulto risiede spesso nello sviluppo fetale abnorme (basso peso
alla nascita, nell’osservazione iniziale di Barker; in realtà patrimonio
nefronico ridotto) e negli apporti nutrizionali dei primi anni di vita.
La nefrologia dovrebbe quindi essere unica, con specialisti per le
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due grandi fasce di età (pediatrica e adulta) e lo specialista pediatra
dovrebbe lavorare soprattutto sulla diagnosi precoce e sulla prevenzione della progressione della malattia renale, trasferendo poi
l’adolescente alle cure del nefrologo dell’adulto.
In sintesi, oggi più che mai è richiesta una visione globale e integrata
degli specialisti per impattare sulla salute pubblica.
Non è sufficiente riconoscere la malattia renale cronica come epidemia del terzo millennio, ma occorre stilare programmi congiunti
di prevenzione e trattamento, a cura dei nefrologi, pediatri e dell’adulto.
F.S.: È stato chiaro. La collaborazione tra nefrologia pediatrica e
nefrologia dell’adulto non solo è utile ma è necessaria. Edefonti
hai risposto forse più da nefrologo che da pediatra specialista,
pur essendo nato pediatra e poi divenuto specialista in nefrologia.
Ma ci vuoi citare, per sommi capi, quali sono i temi della necessaria collaborazione più rilevanti, e come nella realtà Italiana
essi possono essere attuati?
Alberto Edefonti: Credo che non si possa ma si debba collaborare
sia sul piano culturale che sul piano assistenziale.
Sul piano culturale è necessario un confronto continuo, con progetti
di ricerca comuni, con convegni su temi di interesse reciproco, con
scambi di competenze.
Sul piano assistenziale è molto rilevante avere a disposizione linee
guida diagnostico-terapeutiche per pazienti cronici, protocolli di
Le specialità pediatriche oggi e domani
transizione-trasferimento, sempre per pazienti cronici, in dialisi o
trapiantati e sarebbe anche importante la partecipazione di nefrologi
pediatri, assieme a quelli dell’adulto, ai comitati di politica sanitaria
nei quali si discutono e decidono importanti progetti di sanità pubblica, come ad esempio il recente tavolo tecnico relativo alla prevenzione della malattia renale cronica.
Devo dire che finora la Società Italiana di Nefrologia si è dimostrata
più interessata e attiva nello stabilire la necessaria collaborazione
rispetto alla Società Italiana di Pediatria.
F.S.: Per superare le attuali difficoltà o, anche, per un progresso
della nefrologia pediatrica in Italia, ritieni che sarebbe utile, o
addirittura necessaria una norma che riconosca da parte dei
Ministeri della Salute e dell’Istruzione la nefrologia pediatrica
come specialità medica a tutti gli effetti, assistenziali e formativi universitari?
Alberto Edefonti: Dividerei la risposta in più parti. Innanzitutto,
vorrei rispondere al seguente quesito: la nefrologia pediatrica ha le
caratteristiche per essere una specialità medica?
Credo proprio di sì, per la complessità delle competenze richieste.
Se pensiamo a quali caratteristiche culturali deve avere il medico
che si occupa di malattie renali di pazienti compresi in una fascia
d’età che va da pochi giorni di vita a 18 anni, direi che le competenze pediatriche (sviluppo e crescita del bambino normale, alimentazione del bambino normale, valori normali degli esami di laboratorio
pediatrici, malattie del bambino, dalle più banali alle più complesse)
sono la base necessaria per una buona cura. È inoltre evidente che
vi è tutta una serie di patologie renali che si manifestano solo o principalmente nell’infanzia e che i nefrologi dell’adulto non conoscono,
come noi non conosciamo molte patologie renali proprie dell’anziano. Senza considerare che il bambino malato deve essere curato in
un ambiente ospedaliero pediatrico dotato di servizi ad hoc.
È quindi assolutamente necessario il riconoscimento di specialità
alla nefrologia pediatrica, con adeguati servizi assistenziali in reparti
o ospedali pediatrici.
Ma mi preme anche sottolineare che oggi, in Italia, non vi è assolutamente chiarezza su chi deve e può assistere il bambino con grave nefropatia. Se solo consideriamo la decina di centri ospedalieri
italiani specializzati full facilities di nefrologia pediatrica, i medici
attualmente strutturati che vi lavorano sono, è vero in prevalenza di
origine pediatrica, ma vi è anche una buona percentuale di estrazione culturale esclusivamente nefrologica. Occorre quindi creare un
curriculum ufficiale che stabilisca la figura del pediatra nefrologo.
F.S.: Sulle possibilità future che si esca da questa empasse, ci
parlerà di seguito il professor Saggese.
Alberto Edefonti: La mia speranza è che sia una norma europea
a determinare quella italiana, come già avvenuto in molti ambiti.
A livello europeo, UNEPSA ha cercato di risolvere il problema della
specialità di nefrologia pediatrica, come di altre sotto specialità, ma
senza successo. Non sarebbe male se ci fosse un’unica specialità di
nefrologia pediatrica con uno specifico curriculum formativo europeo, a cui potessero accedere sia pediatri che nefrologi.
F.S.: A me sembra che Alberto Edefonti abbia ben esemplificato i problemi tra una specialità medica del bambino e quella
dell’adulto, anche se non mi sento di sottoscrivere la sua proposta di un curriculum formativo che metta sullo stesso piano
pediatri e nefrologi. Ho la ferma convinzione che per curare
soddisfacentemente ogni bambino, per qualsiasi patologia medica la formazione di base pediatrica sia essenziale.
Ma dopo il pediatra nefrologo sentiamo ora un illustre nefrologo
dell’adulto, e cioè Giovambattista Capasso, che è l’attuale Presidente della Società Italiana di Nefrologia.
La prima domanda ovvia che a lui pongo è la seguente:
F.S.: Come vedi in prospettiva i rapporti tra nefrologi pediatrici
e nefrologi dell’adulto?
Giovambattista Capasso (Napoli): Vorrei premettere che sono qui non solo perché sono l’attuale Presidente della Società Italiana di Nefrologia, ma anche perché, con i pediatri nefrologi ho
avuto e ho da sempre un rapporto particolare.
In effetti mi sono avvicinato alla nefrologia pediatrica quando ero allievo del professor CarmeSeconda Università di lo Giordano e di Natale Gaspare De Santo, che
Napoli
è stato l’unico accademico titolare dell’unica
Cattedra di nefrologia pediatrica creata in Italia.
Dopo avere avuto una formazione nefrologica ho trascorso diversi
anni negli Stati Uniti proprio per approfondire problemi di ricerca e
clinica nell’ambito della nefrologia pediatrica.
I rapporti tra la Società Italiana di Nefrologia e la Società Italiana di
Pediatria sono ottimi. Ieri sera ho avuto un incontro con il professor
Corsello, presidente della SIP, e abbiamo discusso la possibilità di
avviare concretamente una collaborazione almeno in due campi,
malattie rare e ipertensione, nei quali credo che il lavoro comune sia
non solo utile ma necessario.
Ma mi permetto anche di sottolineare che indubbiamente alla nefrologia pediatrica viene concesso più spazio e visibilità da parte della
SIN piuttosto che dalla SIP. Un esempio concreto è dato dal fatto che
in tutti i congressi nazionali della SIN è stata sempre programmata
almeno una Tavola Rotonda con i nefrologi pediatri, e da tempo abbiamo istituito in seno alla nostra Società un gruppo di studio permanente bambino-adulto.
F.S.: A tuo avviso è tempo ed è opportuno istituire una specialità
a se’ di nefrologia pediatrica? E con quale normativa?
Giovambattista Capasso: A mio parere sarebbe auspicabile, ma
non è realistico immaginare una nuova specializzazione. Siamo in
tempi di grande crisi. Il numero totale degli specializzandi è passato quest’anno, da 5.000 a 4.500; l’anno prossimo è paventata
un’ulteriore pesante riduzione, quindi mi sembra difficile prevedere
soluzioni cosi innovative per i prossimi anni.
Credo, invece, che sia possibile immaginare un indirizzo, sia nel curriculum della scuola di specialità di pediatria come in quello della
scuola di specialità in nefrologia, specifico per la nefrologia pediatrica.
D’altronde questo forte e profondo connubio, tra formazione pediatrica e nefrologica, apparteneva anche a Rosanna Gusmano,
fondatrice della nefrologia pediatrica in Italia, che era in primis
nefrologa e poi ha fondato il servizio di nefrologia pediatrica al
Gaslini, ove anche il suo attuale successore è un nefrologo, come
formazione di base. Un altro esempio è quello di Napoli, dove la
gran parte dei colleghi che lavorano nell’Unità operativa della Nefrologia pediatrica dell’Ospedale Santo bono sono nefrologi che
hanno acquisito competenze pediatriche. A Torino, nel reparto diretto da Rosanna Coppo, che è stata anche Presidente SIN, c’è una
situazione simile. Questi esempi confermano la mia convinzione
che non può esserci un’esclusività pediatrica nella formazione del
nefrologo pediatra.
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a cura di Fabio Sereni
F.S.: Grazie Presidente Capasso.
A questo punto della Tavola Rotonda propongo di dare la parola,
per alcuni brevi interventi, a personalità presenti nel pubblico
che assiste a questo nostro dibattito.
Per primo ha alzato la mano Franco Chiarelli, Presidente della
Società Italiana di Ricerca Pediatrica. Subito dopo darò la parola a Salvatore Auricchio il più illustre gastroenterologo italiano.
Franco Chiarelli (Chieti): Finora abbiamo parlato di problemi “cisalpini”. Vorrei portare l’attenzione su ciò che accade per le specialità pediatriche in altre nazioni con sanità avanzata, perché credo non
si debba essere provinciali, bisogna essere “transalpini”.
Sono principalmente endocrinologo-diabetologo, e non saprei immaginare che un bambino o, anche peggio, un lattante diabetico
possa essere curato da un diabetologo dell’adulto. Dobbiamo assolutamente tendere, come già avviene in molti altri paesi, e cito solo
la Svezia e l’Olanda, a una formazione di specialisti che avvenga
dopo una formazione pediatrica di base. Sono pertanto fortemente
in favore che sia formalizzato in tutte le scuole di specialità di pediatria un primo triennio di pediatria generale, seguito da un biennio
specialistico.
Discorso diverso deve essere fatto per la ricerca. Bisogna ammettere
che in molti campi gli specialisti dell’adulto sono più avanti dei pediatri; la collaborazione, in questo caso, è di sicura utilità e necessità.
Salvatore Auricchio (Napoli): Concordo con quanto ha appena detto Chiarelli, ma vorrei andare oltre. Una buona ricerca è necessaria
per una buona assistenza e anche per una formazione avanzata.
Orbene, almeno nel campo della gastroenterologia, che è la mia
competenza specifica, si fa ricerca avanzata molto meglio da parte
degli specialisti di medicina interna che in pediatria. Ciò è molto vero
negli Stati Uniti, ma lo è anche da noi. È questa una ragione in più
perché si stabiliscano strette connessioni tra specialisti dell’adulto
e del bambino. Anche i congressi dovrebbero essere comuni, con
vantaggio sia per la ricerca come per l’assistenza.
F.S.: Il secondo grande tema che abbiamo scelto per discutere ed evidenziare i problemi “aperti”, formativi e sanitari, delle specialità pediatriche in Italia, è quello della “EmergenzaUrgenza”. Abbiamo la fortuna di avere quest’oggi, a questo
tavolo, tre eminenti personalità in questo settore, tra di loro
complementari per formazione culturale e per le responsabilità
ospedaliere che ricoprono. Sono Pasquale Di Pietro, pediatra,
che al Gaslini dirige il reparto di urgenza-emergenza, Nicola Pirozzi, che ricopre le stesse funzioni al Bambino Gesù ma non è
di formazione pediatrica bensì internistica, e vi è anche Maria
Rita Melotti, che dirige qui a Bologna, al Sant’Orsola, il dipartimento di urgenza-emergenza, ma che è anche una riconosciuta
autorità nazionale nel settore. Vedo poi che è presente, tra il
pubblico che assiste al dibattito, Liviana Da Dalt, ben conosciuta da tutti noi pediatri come grande esperta in urgenzaemergenza.
Sarà anche lei coinvolta nella discussione.
La parola, per primo, spetta a Pasquale di Pietro cui pongo il
seguente quesito:
Do per scontato che al pediatra spetti la responsabilità della gestione del bambino in urgenza-emergenza. Allargando il discorso
pensi che anche la terapia intensiva debba essere, in un ospedale
pediatrico, diretta da un pediatra con competenze intensivistiche?
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In altre parole consideri la terapia intensiva nella competenza pediatrica della urgenza-emergenza, e consideri la urgenza-emergenza un possibile indirizzo specialistico pediatrico?
Pasquale di Pietro (Genova): Al pediatra spetta la responsabilità della gestione del bambino in urgenza ed emergenza (PS e Pediatria di
Urgenza) ma non lo darei per scontato, perché
in alcune realtà (in verità poche) scarsamente
“illuminate” c’è la tendenza a ridurre gli spazi
professionali del pediatra di PS e della pediatra
Istituto Gaslini,
d’urgenza. In questi anni invece i pediatri hanno
Università di Genova
acquisito un’ottima esperienza nella gestione del
paziente con insufficienza d’organico e molti di loro sono diventati
esperti nella gestione dell’O2 terapia ad alti flussi, CPAP, ventilazione
non invasiva.
Purtroppo oggi alcune patologie come ad esempio insufficienza respiratoria da bronchiolite o stati di gravi alterazioni del sensorio finiscono per essere ricoverate in strutture di anestesia e rianimazione
dell’adulto con occupazione impropria di posti letto.
La pediatria, in questi anni, sta acquisendo competenze professionali
anche nell’area intensivistica medica e in questo senso ricordo l’impegno di diversi centri sia pediatrici sia di neonatologica (che hanno
dedicato alcuni posti letto anche a lattanti). La terapia intensiva non è
certamente materia esclusiva dei pediatri, ma anche i colleghi dell’anestesia e rianimazione svolgono un ruolo essenziale. Quindi è un
campo dell’assistenza in cui dovrà essere prevista una forte integrazione. Sicuramente, invece, la terapia semintensiva è divenuta un’area
di interesse quasi esclusiva della pediatria. Infine i pazienti acuti ma
stabili non dovrebbero essere nemmeno ospedalizzati.
È auspicabile un forte impegno dell’Università nel creare nell’ambito delle specialità pediatriche un indirizzo in Medicina d’Urgenza,
e avviare, ove possibile, master professionalizzanti multidisciplinari
anche per la terapia intensiva pediatrica, allo scopo di favorire l’indispensabile crescita professionale del pediatria.
F.S.: Vorrei anche sapere da te poi quali sono i rapporti necessari, per la cura del bambino in urgenza-emergenza, tra i pediatri e i terapisti intensivi dell’adulto?
Pasquale di Pietro: La collaborazione dei pediatri che intendono
affrontare l’urgenza ed emergenza è una realtà che deve integrarsi
anche con i colleghi anestesisti e rianimatori, che dovrebbero favorire questo percorso.
Al Gaslini, ad esempio, è stata individuata un’area critica pediatrica
che dipende dalla pediatria d’urgenza ed è contigua al reparto di
anestesia e rianimazione.
L’importante è che il lavoro sia collegiale, e determini un reciproco
arricchimento di professionalità anche diverse.
F.S.: Grazie Pasquale. Vorrei ora sentire come anche Nicola Pirozzi considera il necessario rapporto tra pediatri e intensivisti.
Nicola Pirozzi (Roma): Io credo che in questa
sede sia più interessante che analizzare il presente, immaginare come dovrà essere funzionale, nel
prossimo futuro, il ricovero ospedaliero pediatrico con ovvio riferimento all’urgenza-emergenza.
Sono convinto che ci stiamo velocemente avviando verso una forte limitazione dei ricoveri ospeOspedale Pediatrico
dalieri pediatrici. Dovranno essere ricoverati quasi
Bambino Gesù, Roma
esclusivamente bambini con patologie complesse,
con malattie croniche in riacutizzazione, pazienti con insufficienza
Le specialità pediatriche oggi e domani
d’organo grave, non solo respiratoria ma anche renale, con scompenso metabolico, etc.
Se ciò avverrà come credo e spero, anche la pediatria ospedaliera
così com’è stata finora concepita, scomparirà. In ospedale dovrà lavorare solo, o in grande prevalenza, il pediatra specialista di patologia e di organo. Conseguentemente immaginare pediatri ospedalieri
che non abbiamo capacità professionali per assistere un paziente in
terapia sub-intensiva per il loro settore specialistico è fuori dal tempo moderno. Al Bambino Gesù stiamo sperimentando, con successo,
questo nuovo modo di concepire la spedalità pediatrica.
Istituendo il ricovero breve semi-intensivo abbiamo inoltre avuto un
crollo sia di ricoveri ordinari come di quelli di terapia intensiva. Non
avevamo mai un posto libero tra i 49 posti di terapia intensiva del
nostro ospedale, inclusi i neonati. Oggi questi 49 posti sono ampiamente sufficienti.
Tutto ciò deve andare di pari passo con un’efficace assistenza domiciliare integrata per il bambino cronico con gravi patologie. Se ciò
sarà attuato ne deriverà una forte diminuzione dell’occupazione, in
ospedale, di posti letto ad alta intensità di cura non giustificata.
F.S.: Grazie Pirozzi. Se ho bene compreso tu pensi che la formazione di un pediatra specialista in urgenza-emergenza sia in
qualche modo antistorica. Andiamo verso una specializzazione
così spinta del pediatra ospedaliero, per organi e funzioni, che
la gestione in urgenza-emergenza sarà affidata alle diverse pediatrie specialistiche, e cioè al pneumologo, al cardiologo, al
nefrologo, e così via. Le tue considerazioni sono sicuramente
molto interessanti e pertinenti. Ma a me sembra che siano fortemente influenzate dal fatto che tu lavori in un grande ospedale specialistico qual è il Bambino Gesù. Purtroppo in Italia policlinici pediatrici come il Bambino Gesù ce ne sono molto pochi.
La nostra realtà ospedaliera pediatrica è molto meno avanzata
e, a mio parere, ci obbliga a considerare il problema dell’assistenza all’urgenza-emergenza pediatrica anche, e soprattutto
in ospedali generali di dimensioni medie o piccole, ove di norma esiste una pediatria. Ma vorrei sentire subito il commento
di Rita Maria Melotti a quanto hanno esposto Di Pietro e Pirozzi.
Rita Maria Melotti (Bologna): Vorrei partire da
considerazioni un poco diverse da quelle che finora hanno discusso i due colleghi che mi hanno
preceduto. Vorrei soffermare l’attenzione sull’attuale realtà ospedaliera italiana. Vorrei ricordare che oggi, in Italia, si continua a tenere aperti
molti piccoli ospedali. Se solo penso all’Emilia
Universtà degli Studi Romagna, che per altro è virtuosa rispetto ad
di Bologna
altre regioni, abbiamo ospedali di 70-100 posti
letto. Com’è possibile pensare di gestire in modo razionale e integrato, il problema del ricovero del bambino in urgenza-emergenza
in questa situazione?
Sempre in Emilia Romagna abbiamo oggi 453 letti di terapia intensiva, intesa come codice 49. A fronte di questi posti letto per adulti
abbiamo solo 6 posti letto di rianimazione pediatrica e 83 posti letto
di terapia intensiva neonatale, che è tutt’altra cosa. Ma se andiamo
ad analizzare i ricoveri per età nei 453 posti letto di terapia intensiva
scopriamo che vengono assistiti in queste strutture anche bambini
da un giorno a 14 anni. Per fortuna non sono molti, ma sono significativi.
Io ho la fortuna di lavorare al Sant’Orsola, anche se non è sicuramente il Gaslini o il Bambin Gesù. Solo da poco tempo siamo riusciti
a creare, qui, una rianimazione pediatrica. È stato un salto di qualità,
e siamo anche riusciti ad avere un’anestesiologia con specializzazione pediatrica, un grande successo sia per l’assistenza al bambino
come per le coronarie degli anestesisti.
Non esiste nella nostra specialità un’indirizzo pediatrico né per la
terapia intensiva né per l’ anestesia. Ciò nonostante sono in grande favore che una expertise pediatrica sia conseguita da parte dei
miei colleghi che collaborano con i pediatri nell’assistere i bambini
in emergenza-urgenza.
F.S.: Vorrei sapere se lei considera, conseguentemente essenziale creare in ogni grande ospedale un reparto specializzato
di terapia intensiva pediatrica, condotto in collaborazione con
i pediatri.
Rita Maria Melotti: Assolutamente si. Ma per raggiungere questo
obiettivo dovranno essere riorganizzate a fondo le terapie intensive
in ogni regione in accordo con il decreto Balduzzi.
Nicola Pirozzi: Più che riordino dei servizi io penso sia necessaria la
creazione di una rete. Il concetto di rete è diverso per la terapia intensiva pediatrica rispetto alla rete per la terapia intensiva dell’adulto. Nei “nodi” della rete pediatrica devono essere disponibili, come
ho già detto, molteplici competenze specialistiche che possono esistere solo in poche strutture.
F.S.: A questo punto del dibattito a me sembra molto interessante ascoltare il pensiero di Liviana Da Dalt.
Liviana Da Dalt (Treviso): Vorrei riportare la discussione principalmente sui pronto soccorsi pediatrici. E vorrei ricollegarmi a quello
che ha già detto Chiarelli. Le mie saranno considerazioni non cisalpine, ma transalpine.
Ho avuto recentemente l’occasione di far parte di un tavolo europeo
che aveva come primo obiettivo ottenere un riconoscimento di specialità all’urgenza-emergenza pediatrica. Vi è stato un netto rifiuto a
considerare unitariamente la problematica dell’urgenza pediatrica
assieme a quella dell’adulto. Partendo dalla considerazione che in
tutta Europa, ma anche negli USA, accedono al pronto soccorso generale degli ospedali, assieme agli adulti anche i bambini in urgenza-emergenza, è stata sottolineata la necessità che questi bambini
siano assisiti da pediatri specializzati in urgenza-emergenza. Questa specializzazione deve essere conseguita da medici con solida
formazione pediatrica e, per essere efficace, deve assolutamente
comportare periodi di acculturamento più lunghi rispetto ad altre
specializzazioni.
F.S.: La parola ora ad alcuni brevissimi interventi da parte di
personalità presenti tra il pubblico.
Giorgio Perilongo (Padova): Io credo che l’attenzione dei programmatori sanitari sia stata, fino a oggi, troppo concentrata sulle
necessità e sui bisogni delle strutture periferiche, e non sufficiente
attenzione sia stata dedicata alla utilità di accentrare determinati
servizi. Ho soprattutto in mente il modello USA nel quale la massima
importanza è data non solo alla valorizzazione delle specialità pediatriche, ma anche alla creazione di riferimenti nazionali per determinate importanti patologie specialistiche.
Luigi Martemucci (Napoli): Vorrei sottolineare che il vero nodo da
sciogliere sono gli ospedali periferici ove le competenze sono limitate. È a questo livello che è necessario, urgentemente intervenire.
Rubino (Torino): Credo necessario porre l’accento sul fatto che negli ultimi anni si sono verificate tre vere e proprie rivoluzioni nei
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a cura di Fabio Sereni
pronti soccorsi pediatrici. Vi è stata un rivoluzione clinica, in quanto
si è andata creando una numerosa schiera di pediatri che si sono
esclusivamente dedicati all’attività di pronto soccorso, acquisendo
competenze specialistiche. Vi è stata una rivoluzione organizzativa,
con l’istituzione del ricovero breve, molto spesso con possibilità di
assistenza “semi-intensiva”, e infine vi è stata una terza rivoluzione nel campo della formazione, nel senso che molti pediatri hanno
acquisito nuove specifiche capacità professionali. Per fare solo un
esempio sul livello di formazione acquisito in periferia, nel grande
ospedale pediatrico dove lavoro negli ultimi 3 anni ho avuto modo di
osservare in pronto soccorso ben 12 casi di bambini arrivati con un
accesso intraosseo già installato.
Alberto Martini (Genova): Da almeno 30 anni parliamo di specialità
pediatriche senza giungere ad alcuna soddisfacente soluzione. Abbiamo di recente tentato la strada della fusione specialità-dottorato
di ricerca, ma le norme attuali non consentono un riconoscimento
formale delle specialità pediatriche.
Una possibile strada da seguire è cercare di rendere armonico il
riconoscimento delle specialità pediatriche a livello europeo dove
esiste una grande eterogeneità sia nel riconoscimento ufficiale che
nel percorso formativo. La European Academy of Paediatrics, sezione pediatrica della Unione Europea dei Medici Specialisti (UEMS), ha
creato per la maggior parte delle specialità pediatriche, un Syllabus
che contiene ciò che uno specialista nei diversi settori dovrebbe sapere e saper fare. Le tappe successive potrebbero essere l’accreditamento dei centri formativi e un unico esame europeo. Su queste
basi occorrerebbe poi ottenere a livello del Parlamento europeo un
riconoscimento formale valido per tutti i paesi dell’Unione.
F.S.: Bene, ci avviamo alle ultime battute di questa Tavola Rotonda che sarà conclusa da Giuseppe Saggese, da cui ci attendiamo un’esauriente puntualizzazione su quanto la Società
Italiana di Pediatria sta facendo per risolvere i problemi che
abbiamo discusso. Ma non è possibile chiudere questa discussione senza aver toccato prima il tema della neonatologia, che
per importanza dei servizi clinici, numerosità dei pediatri che
vi si sono dedicati a tempo pieno, specializzazione tecnologica,
suo rilievo per la salute infantile, è da tempo molto di più che
una semplice specialità. È tra noi Giuseppe Buonocore al quale
ho due brevi domande da porre.
La prima più importante domanda è la seguente:
Ritieni opportuno che la neonatologia sia in futuro riconosciuta come
specialità pediatrica, a tutti gli effetti sia sanitari che universitari?
Giuseppe Buonocore (Siena): La neonatologia
è una specialità fondamentale della pediatria.
Alla pediatria appartiene come una figlia alla madre, dal cui cordone ombelicale idealmente non
si stacca mai. Un buon neonatologo è innanzitutto un ottimo pediatra che ha deciso di dedicare
se stesso alla cura dei neonati, ossia dei bambini
Università degli Studi
del primo mese di vita. Per questo ha bisogno di
di Siena
conoscere le evenienze che hanno portato alla
nascita del nuovo individuo, ben sapendo che il suo futuro ha già
ricevuto un imprinting nella vita fetale. Il neonatologo ha quindi forti necessità di interagire con il collega ostetrico per conoscere la
madre e il passato gestazionale dell’essere a lui affidato e con il
pediatra a cui affiderà il futuro bambino. È opportuno quindi che la
pediatria continui a interessarsi del bambino visto nel suo insieme
(medicina olistica). Le specialità pediatriche devono essere non limi-
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tanti, ma rappresentare un arricchimento professionale per un ulteriore miglioramento delle cure. La neonatologia che per definizione
è una medicina olistica, è evoluta ormai in una medicina sartoriale e
individuale, ossia confezionata sulle necessità del singolo neonato.
Questo tipo di approccio richiede profonde e aggiornate conoscenze
di fisiopatologia dello sviluppo, di farmacodinamica, di nutraceutica
e developmental care. Tutte queste competenze devono confluire
in un attento programma di follow-up integrato tra il neonatologo,
il pediatra e numerose altre figure professionali mediche e sociali
necessarie nella gestione post dimissione del singolo caso.
F.S.: La neonatologia quindi orgogliosamente nella pediatria
senza limiti nelle collaborazioni. Ma io, ti chiedo neppure limiti
nell’età di competenza?
Giuseppe Buonocore: Il limite della neonatologia al primo mese di
vita è puramente didattico e talora fuorviante. Il neonatologo non può
guardare allo scadere dei 28 giorni come un limite invalicabile. Nessuno meglio di lui conosce il bambino che andrà ad affidare al pediatra
di famiglia. Pertanto ci deve essere una graduale cessione di competenze e grande disponibilità per i primi 8-12 mesi di vita. In pediatria
l’interesse è rivolto al benessere del bambino, non ci sono barriere age
limit, ma solo integrazioni di conoscenze e necessità di stretta collaborazione tra tutti gli operatori che prestano le loro cure per un continuo
miglioramento della qualità di vita del futuro individuo.
F.S.: Grazie Giuseppe. Come ho già detto ora questa Tavola Rotonda sarà chiusa da una “mini relazione” di Giuseppe Saggese, che non solo è attualmente il Presidente della Conferenza
dei Direttori delle Scuole di Specializzazione in Pediatria, ma è
soprattutto colui che più si è speso e ha lottato in questi anni
per un riconoscimento ufficiale delle specialità pediatriche.
Giuseppe Saggese (Pisa): Una premessa: dal
punto di vista formativo la pediatria fa riferimento al settore scientifico-disciplinare SSD/MED38
“Pediatria generale e specialistica”. Questo conferisce alla pediatria il significato di medicina
interna del bambino, comprendente appunto la
pediatria generale e le specialità (o sub-speciaUniversità degli Studi lità) pediatriche.
di Pisa
Sicuramente le specialità pediatriche hanno
rappresentato la parte più qualificante dello sviluppo scientificoculturale della pediatria negli ultimi 30 anni. Tale sviluppo ha avuto,
e sempre di più avrà, ricadute significative sulla qualità delle cure.
Basti pensare all’andamento della mortalità neonatale nel nostro
Paese che, dal 1991 al 2009, è passata dal 5,87‰ al 2,55‰, collocando l’Italia tra le nazioni europee con la minore mortalità neonatale. Questo traguardo è stato raggiunto grazie al contributo della
neonatologia, una specialità pediatrica che negli ultimi anni ha compiuto enormi progressi, soprattutto nel settore della terapia intensiva
neonatale. Un altro esempio significativo che sottolinea l’importanza
di poter disporre di pediatri specialistici in specifici settori, è quello
delle malattie croniche. Bambini e adolescenti con malattia cronica
rappresentano oggi, grazie alle migliorate possibilità di diagnosi e di
cura, il 15% della popolazione pediatrica. Mi riferisco ad esempio ai
pazienti ex oncologici e con malattie rare che hanno bisogni speciali
di cura e richiedono, nel contesto di un approccio multidisciplinare,
un’assistenza pediatrica specialistica qualificata.
F.S.: Che cosa prevede l’attuale normativa in tema di formazione nelle specialità pediatriche durante la Scuola di Specializzazione in Pediatria?
Le specialità pediatriche oggi e domani
Giuseppe Saggese: In questo momento la Scuola di Specializzazione è incardinata nel Decreto del 1 agosto 2005, Decreto di riassetto
delle Scuole di Specializzazione di Area sanitaria.
Per quanto riguarda le specialità pediatriche, nel decreto queste fanno riferimento alle “attività elettive”, a scelta dello studente, per un
totale di 45 CFU. Trasformando questi crediti in tempo, si arriva a
9-10 mesi di attività lavorativa. Dunque, si tratta di un periodo piuttosto inadeguato, soprattutto quando paragonato al modello europeo che, per la Scuola di Specializzazione in Pediatria prevede, dopo
un triennio di base, un successivo biennio che può essere dedicato,
oltre che alle cure primarie e secondarie, alle specialità pediatriche.
In quest’ultimo caso è prevista l’estensione del biennio a un ulteriore
anno.
Con l’attuale decreto, al termine del corso, lo specializzando riceve
il diploma di specialista in Pediatria, accompagnato da un “supplemento al diploma” che attesta l’intero percorso formativo incluso le
attività elettive svolte dallo specializzando.
F.S.: Il supplemento di diploma non è sicuramente soddisfacente. Quali sono le proposte per migliorare il futuro assetto della
formazione nelle specialità pediatriche nell’ambito della Scuola
di Specializzazione in Pediatria?
Giuseppe Saggese: La Conferenza dei Direttori delle Scuole di Specializzazione in Pediatria, attraverso un gruppo di lavoro nominato
ad hoc, ha di recente prodotto una revisione del Decreto di riassetto
che prevede una diversa organizzazione del percorso formativo, più
simile a quello europeo.
Il documento, attualmente in valutazione al CUN, prevede, in un percorso unitario di 5 anni, un triennio di base (curriculum pediatrico
di base) propedeutico a un biennio di formazione specifica professionalizzante e specialistica (curriculum della formazione specifica
e percorsi elettivi). Nel biennio, lo specializzando può orientare la
propria formazione o verso la pediatria generale-cure primarie, la
pediatria generale-cure secondarie, oppure nelle specialità pediatriche. In quest’ultimo caso, seguendo anche le indicazioni date in
specifici documenti dalla Confederation of the European Specialists
in Pediatrics (CESP) e dal Royal College of Paediatrics and Child Health (RCPCH) (3,4), lo specializzando deve: 1) approfondire le proprie
conoscenze e competenze professionali nell’ambito specialistico,
scelto al fine di una più approfondita presa in carico del bambino
affetto dalle patologie pertinenti allo stesso settore specialistico; 2)
approfondire la propria formazione nell’ambito della ricerca clinica
attraverso un diretto e personale coinvolgimento in progetti di ricerca; 3) consolidare le conoscenze di pediatria generale acquisite nel
primo triennio, con riferimento particolare alle cure secondarie. Gli
stessi organismi sopracitati sottolineano comunque come solo un
ristretto numero di specializzandi dovrebbe essere indirizzato verso percorsi formativi specialistici e che tale orientamento dovrebbe
avvenire in base alle richieste demografiche ed epidemiologiche.
Il curriculum formativo del biennio è finalizzato dunque a formare pediatri con competenze culturali e professionali in determinati
ambiti specialistici, ma non dei veri e propri pediatri specialisti. Una
formazione in tal senso potrà essere conseguita congiungendo il
biennio della Scuola di Specializzazione con percorsi di alta formazione come il Dottorato di ricerca o il Master. Per quanto riguarda
il Dottorato, è adesso possibile, per uno specializzando orientato a
un’attività di ricerca clinica, far coincidere l’ultimo del corso di specializzazione con il primo anno di Dottorato, abbreviando in tal modo
di un anno il percorso formativo. Per quanto riguarda i Master, la
Società Italiana di Pediatria e la Conferenza Permanente dei Direttori
delle Scuole di Specializzazione di Pediatria si stanno facendo parte
attiva presso i Ministeri competenti nell’elaborazione di un percorso formativo professionalizzante che possa portare a un riconoscimento delle specialità pediatriche. Un percorso disegnato in questo
modo nasce oggi anche dalla consapevolezza dell’attuale scarsità
di risorse che caratterizza il Sistema sanitario. Infatti, preliminari
indicazioni ministeriali avanzano la possibilità che un percorso di
sub-specialità inserito nel corso della Scuola di Specializzazione non
verrebbe retribuito.
F.S.: Quanti pediatri specialisti sono necessari? Dove e come
dovrebbero essere formati?
Giuseppe Saggese: Una rilevazione effettuata negli Stati Uniti nel
2010 ha evidenziato la presenza del 65% di pediatri generalisti e il
35% di pediatri sub-specialisti. Purtroppo da noi manca un qualsiasi
dato che possa quantificare la necessità di pediatri specialisti il cui
fabbisogno dovrebbe essere stabilito in base a criteri epidemiologici e demografici. È sufficientemente chiaro che tale ricognizione è
indispensabile per procedere a una razionale programmazione del
numero dei pediatri specialisti da formare.
In questo contesto un aspetto che diviene cruciale riguarda le caratteristiche che devono avere le sedi di Scuola di Specializzazione che
intendono offrire percorsi formativi specialistici. Appaiono di primaria
importanza: 1) la presenza di personale strutturato esclusivamente/
principalmente coinvolto nella gestione di quell’ambito specialistico; 2) l’esistenza di un reparto e/o di un servizio specificatamente
dedicato all’erogazione di prestazioni sanitarie in quell’ambito specialistico; 3) l’eventuale riconoscimento/certificazione rilasciato da
organi competenti (Società scientifiche, Regioni/Aziende sanitarie).
Per quanto riguarda i contenuti formativi, il documento di proposta
di revisione dell’ordinamento elaborato dalla Conferenza dei Direttori delle Scuole di Specializzazione di Pediatria definisce, per ciascuna specialità pediatrica, le acquisizioni culturali, pratiche e manuali,
indicando anche il numero minimo delle attività professionalizzanti.
Nella stesura del documento ci siamo riferiti anche ai Syllabus per
le sub-specialità pediatriche (endocrinologia, nefrologia, cardiologia,
ematologia e oncologia, allergologia, pneumologia, gastroenterologia,
emergenza-urgenza) già pubblicati dall’European Board of Pediatrics
e al documento della Royal College of Paediatrics and Child Health.
È quindi immaginabile una sorta di accreditamento per quelle sedi
che vogliano attivare specialità pediatriche.
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tavola rotonda
Considerazioni conclusive
Generoso Andria e Fabio Sereni
Dalle tre lunghe ore di intenso dibattito sono emerse considerazioni
e proposte per nulla affatto banali.
Quando abbiamo proposto alla Società Italiana di Pediatria di organizzare, nell’ambito del Congresso Nazionale, una Tavola Rotonda
sui problemi delle specializzazioni pediatriche, siamo partiti dal presupposto (che ci sembrava ovvio) che il tema fosse sì complesso,
ma da discutere e risolvere entro i confini della pediatria, mentre il
confronto con gli specialisti delle stesse discipline dell’adulto fosse
utile e necessario principalmente per potenziare l’assistenza e la
ricerca. Ma forse non è tutto così semplice. Nel corso della discussione abbiamo inteso Alberto Edefonti affermare che la specializzazione in nefrologia pediatrica può legittimamente derivare, come
indirizzo specialistico, sia dalla pediatria che dalla nefrologia. È una
posizione che, soprattutto per ragioni di principio, non condividiamo, ma che, bisogna ammetterlo, deriva da quanto oggi esiste in
numerose, efficienti unità operative di nefrologia pediatrica. A Bologna erano presenti solo i nefrologi. Forse, se ci fossero stati anche i
cardiologi pediatri ed altri specialisti avremmo potuto ascoltare altri
interventi in accordo con Edefonti. Del resto la stessa professoressa
Melotti ha sottolineato la necessità di favorire, nel prossimo futuro,
la formazione di “expertise pediatrica” nell’ambito della specializzazione in terapia intensiva e anestesia.
Esistono quindi specialità pediatriche interdisciplinari, e sia il loro
inquadramento formativo come la soluzione di determinati problemi
assistenziali dovranno forzatamente essere risolti con intese tra la
pediatria e altre discipline mediche dell’adulto.
Un secondo non banale problema emerso dalla discussione è stato
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quello relativo alle modalità più opportune per migliorare l’assistenza al bambino in urgenza-emergenza che afferisce al pronto soccorso ospedaliero, formando pediatri competenti e specialisti. Nicola
Pirozzi ha sostenuto la non necessità di una specializzazione pediatrica, pensando sia sufficiente la presenza di pediatri specialisti
nei diversi settori patologici. È questa una tesi sicuramente interessante, ma forse non compatibile con la realtà ospedaliera non solo
italiana, con i bambini in gravi condizioni che vengono portati alle
accettazioni di ospedali anche di medie e piccole dimensioni. Liviana
Da Dalt ha efficacemente sostenuto l’opportunità di una specializzazione ad hoc, e noi siamo d’accordo.
Un ultimo commento merita la completa e molto puntuale “minirelazione” di Giuseppe Saggese sullo stato attuale e le prospettive di
nuove normative per la scuola di specialità in pediatria.
Malgrado il meritevole grande impegno suo e del direttivo della Società Italiana di Pediatria, non ci sembra lecito nutrire un eccessivo
ottimismo per una soluzione soddisfacente nel prossimo futuro, che
contempli sufficiente tempo e impegno per indirizzi specialistici nei
curricula della scuola di specialità, soprattutto a causa della difficile
congiuntura economica e la prospettiva di una drastica riduzione dei
fondi nelle scuole di specialità.
Forse il suggerimento di Alberto Martini, che propone di valorizzare
e certificare l’acquisizione di determinate capacità professionali definite a livello europeo (i cosiddetti Syllabus), che permetterebbe un
riconoscimento specialistico ufficiale per i pediatri meritevoli, sarebbe la modalità maggiormente praticabile in tempi brevi, per superare
ostacoli politici e lobbistici.
Luglio-Settembre 2013 • Vol. 43 • N. 171 • Pp. 193
in ricordo
In ricordo di Renzo Galanello
Caro Renzo,
la tua scomparsa ha lasciato un grande vuoto nella comunità scientifica e
nella rete di amici pediatri, in particolare quelli coinvolti nell’ematologia clinica e sperimentale. Mi è stato chiesto
di ricordare tutto quello che hai fatto.
Nel dolore della perdita, così come
nella responsabilità di tratteggiare il
tuo impegno come medico e ricercatore, spero di riuscire a riassumere ciò che hai fatto, perché hai dato
molto.
Il nome di Renzo Galanello è legato alla Sardegna, come quello del
suo maestro Antonio Cao. Renzo non era sardo ma umbro, e di queste origini lui è andato sempre fiero. Anche se non trascorreva molto
tempo nel suo paese natale, era molto legato a esso, al punto che ne
aveva anche ricoperto cariche pubbliche.
L’incontro tra Cao e Renzo avvenne presso l’Università di Perugia,
dove Renzo ha fatto i primi studi e la specialità sia in pediatria che
in puericultura.
L’arrivo in Sardegna credo che fosse stato fulminante: si trovavano
ad affrontare uno dei problemi maggiori della sanità di quest’isola,
vale a dire la grande diffusione della talassemia, con un rilevante
numero di soggetti trasfusione-dipendenti. A quei tempi la malattia
era caratterizzata da esito precocemente infausto, malgrado le trasfusioni e l’inizio della terapia ferro-chelante.
Per tale motivo gli studi iniziali furono rivolti tutti alle strategie di
screening dei portatori ed al loro impatto sulla diffusione della malattia. A quell’epoca era difficile pensare di curare i soggetti trasfusione-dipendenti e l’approccio migliore sembrava essere quello di
evitare la nascita di nuovi talassemici. Questo prevedeva una minuziosa conoscenza dello stato di portatore, in modo tale da effettuare
una prevenzione, grazie alle nascenti tecniche di diagnosi prenatale.
Il gruppo di Cagliari guidato da Renzo ha ottenuto in tal modo notevoli risultati, qualificandosi a livello internazionale per gli studi sulle
talassemie. La riduzione delle nascite dei talassemici è un risultato
tangibile di tale attività.
Ma rimaneva il problema dei bambini già nati e delle conseguenze
del loro regime trasfusionale. Renzo Galanello ha portato avanti molti studi sul miglioramento della terapia e quindi della qualità di vita
dei talassemici trasfusione-dipendenti. I risultati dei nuovi regimi terapeutici ferro-chelanti sono anch’essi tangibili, con l’allungamento
della vita media e della qualità di vita di questi soggetti, che oggi
riescono a diventare anche padri e madri.
Lo studio di nuovi chelanti somministrabili per via orale e più facilmente accettabili sono stati uno degli ultimi campi di applicazione.
Ma presso il suo centro si è anche sviluppata la tecnica del trapianto
di midollo, un modo di poter guarire dalla talassemia.
In generale possiamo dire che oggi non si cerca di limitare il numero
dei soggetti omozigoti, ma di convivere al meglio con tale patologia.
Di questa modificazione del pensiero è stato artifice Renzo Galanello.
Ma non è stata solo la cura delle talassemie il campo di studio di
Renzo: la regolazione dei geni globinici e l’espressione dell’emoglobina fetale sono stati campi fertili. Ma non solo: ci sono stati studi su
malattie genetiche ematologiche e non, a interesse prevalentemente
pediatrico.
Renzo Galanello ha inoltre promosso e sviluppato attività di raccolta
e discussione di dati su pazienti talassemici seguiti in diversi centri
italiani, attraverso la creazione della rete webthal.
Pertanto, laboratorio e clinica insieme sono stati l’approccio innovativo e caratterizzante di tutta la carriera di Renzo Galanello, che ha
sempre cercato di fare scienza partendo dai malati e a loro ritornando, per migliorare la diagnosi o la cura delle patologie.
Questo credo che sia in nuce l’insegnamento che Renzo ha lasciato
a tutti i pediatri, vecchi e nuove leve. Si può fare ricerca anche curando i malati.
Quanti altri aspetti ho dimenticato, credo moltissimi: mi viene in
mente solo che eri un grande cuoco. Amavi scegliere al mercato il
sabato mattina le cose che avresti cucinato per Maria Antonietta e
per i tuoi figli la domenica.
Dire che ci mancherai è poco ed è riduttivo. Scrivere queste righe
mi è costato: provo un dolore sottilissimo e una mancanza che non
potrò mai colmare.
Ti consideriamo per sempre un grande amico.
Achille Iolascon
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GIORNATE “GIOVANI” DI PEDIATRIA
GIORNATE “GIOVANI” DI PEDIATRIA
Napoli, 9-10 gennaio 2014
Organizzazione: Società Italiana di Ricerca Pediatrica (SIRP)
Patrocini: Società Italiana di Pediatria (SIP) , Società Italiana di Malattie Genetiche Pediatriche e Disabilità Congenite (SIMGePeD)
Partecipanti: Dottorandi in scienze pediatriche, Specializzandi in pediatria, Soci SIRP, Soci SIP, Soci SIMGePeD
Obiettivi dell’incontro:
Fare il punto sugli strumenti informatici disponibili nella rete e utilizzabili dal pediatra.
Promuovere le nuove forme di comunicazione per il miglioramento della ricerca e dell’assistenza pediatrica creando reti di interscambio e
database da condividere.
Creare un gruppo pilota per sperimentare sul campo l’utilizzo delle nuove tecnologie per il l’implementazione e il miglioramento della ricerca
pediatrica.
Sede del Convegno: Area Didattica di Biotecnologie, Università Federico II, Via T. De Amicis - Napoli
Iscrizione: gratuita, entro il 30 novembre 2013, fino ad esaurimento posti
Per informazioni: Center Comunicazione & Congressi
Via G. Quagliariello 27 – 80131 Napoli
Tel. 081 19578490 – Fax 081 19578071
[email protected]
www.centercongressi.com
Corso teorico-pratico
Gli strumenti nell’era informatica per la ricerca e la
pratica pediatrica
Coordinatore: Alberto E. Tozzi
Giovedì 9 gennaio
1. Cercare e trovare le informazioni giuste al momento giusto
La mole di informazioni disponibili in campo scientifico e medico è
tale da richiedere mezzi di supporto per utilizzare al meglio le conoscenze nel contesto in cui servono. Nonostante la familiarità della
maggior parte degli utenti di Internet nell’uso dei comuni motori di
ricerca, non sempre questa expertise viene sviluppata e sfruttata
al massimo. I temi che verranno trattati in questo modulo saranno:
• power use dei motori di ricerca generici;
• rassegna di motori di ricerca generici e medici utili per la ricerca;
• uso dei social network per la ricerca delle informazioni;
• motori di ricerca semantici.
2. Augmented reality (non solo Google Glass)
Se ne parla ormai da tempo e Google Glass, gli occhiali con un
computer collegato a Internet incorporato, saranno disponibili sul
mercato a un prezzo abbordabile nei primi mesi del 2014. Questo
ed altri strumenti che si basano sulla realtà aumentata potrebbero
rivoluzionare le modalità di assistenza e la didattica. I temi che verranno trattati in questo modulo saranno:
• concept di Google Glass e di altri strumenti per la realtà aumentata;
• applicazione della realtà aumentata alla didattica;
• applicazione della realtà aumentata alla telemedicina;
• applicazione della realtà aumentata alla assistenza;
• problematiche sulla gestione della privacy dei dati.
3. Nuovi disegni di studio per la ricerca
La enorme disponibilità di informazioni sulle caratteristiche cliniche
dei pazienti ha innescato la discussione su come tenere conto di
questa risorsa nei disegni di studio tradizionali. Una delle frontiere
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più interessanti è la ricerca di una possibile alternativa ai clinical trial
tradizionali. I temi che verranno trattati in questo modulo saranno:
• medicina personalizzata e limiti dei disegni di studio tradizionali;
• data mining dei big data in campo sanitario;
• nuovi approcci all’analisi dei dati scientifici;
• come saranno le linee guida del futuro.
4. Il ruolo attivo dei pazienti nell’assistenza e nella ricerca
(anche attraverso l’uso del web)
Il ruolo centrale dei pazienti e delle loro famiglie nell’assistenza
è un concetto che per molti professionisti è quasi scontato. La
partecipazione attiva alle decisioni cliniche dovrebbe far parte di
qualunque processo di cura. Meno scontata la loro partecipazione
attiva alle attività di ricerca. Eppure alcune idee che sembrano di
grande impatto sui processi di cura vengono proprio dai pazienti
e dalle loro famiglie. I temi che verranno trattati in questo modulo
saranno:
• come coinvolgere direttamente i pazienti e le loro famiglie nelle
attività di ricerca
• esempi virtuosi di comunità di pazienti e loro impatto sulla qualità dell’assistenza e della ricerca
• opportunità di ricerca internazionale nel campo dell’empowerment dei pazienti
Venerdì 10 gennaio
5.Telemedicina (scenari attuali e futuribili)
La scarsità di risorse in ambito sanitario impone scelte che consentano di ottimizzare le risorse. Inoltre esiste una spinta sempre maggiore da parte dei pazienti e delle loro famiglie per avere accesso
alle risorse sanitarie in totale comfort, spesso dal proprio domicilio.
Quest’ultimo aspetto ha particolare rilevanza nelle patologie croniche e in quelle complesse nelle quali l’accesso alle risorse sanitarie
è frequente. I temi che verranno trattati in questo modulo saranno:
GIORNATE “GIOVANI” DI PEDIATRIA
•
•
•
•
i vantaggi attesi nell’implementazione della telemedicina;
panoramica degli strumenti tecnologici disponibili;
scenari d’uso della telemedicina;
problemi nell’implementazione delle soluzioni.
TAVOLA ROTONDA DI “PROSPETTIVE IN PEDIATRIA”
La Programmazione sanitaria pediatrica tra bisogni di salute e
risorse economiche
Moderano:
Francesco Longo, Università Bocconi, Milano
Fabio Sereni, Università degli Studi di Milano
I temi in discussione
1) Come conciliare qualità e risparmio in una programmazione pediatrica
• I presupposti indispensabili (concentrazione delle tecnologie –
reti sanitarie territoriali, ecc.)
• Gli ostacoli normativi da rimuovere
2) Esempi di interventi sanitari in pediatria con un rapporto favorevole costi-benefici
• L’estensione del programma vaccinazioni
• L’assistenza al bambino con patologia complessa e multiorgano e i necessari rapporti sanità-assistenza
• La buona cura del feto e la prevenzione di danni permanenti
• Razionalizzazione della spesa nella diagnosi e trattamento delle
epilessie del bambino
3) Opportunità e difficoltà nella programmazione pediatrica regionale
Discutono:
Maurizio Bonati, Istituto Mario Negri, Milano
Raffaele Calabrò, Seconda Università di Napoli
Susanna Esposito, Università di Milano
Renzo Guerrini, Università di Firenze
Tommaso Langiano, AOU Meyer, Firenze
Luca Ramenghi, Istituto G. Gaslini, Genova
Angelo Rossi, Napoli
Angelo Selicorni, Ospedale S. Gerardo, Monza
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